Fanfic su artisti musicali > Mika
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Autore: ValeriaLupin    29/10/2018    2 recensioni
Raccolta di one-shot ispirate da canzoni, interviste, sguardi, riflessioni, fantasie.
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1. Love you (even) when I am drunk
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«Le due e quaranta» gli rispose. Mika lo guardò confuso poi riportò l'attenzione sul suo cellulare e notò che in effetti l'orario era scritto anche lì, come sempre.
Perché Andy lo chiamava a quell'ora? Sentì una morsa allo stomaco che, questa volta, poco riguardava tutto l'alcol che aveva ingurgitato.
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2. Over my shoulder
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«Ragazzi» lo sentì dire poi ai suoi amici «mai toccare la ragazza del frocio». Il tremolio d'astio nella voce di quel ragazzo suonava come un presagio. Gli fece entrare un gelo nelle ossa che aveva assaggiato già tante volte.
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3. Ocean eyes
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Quale magia possedevano quegli occhi per poter leggere così a fondo nello sguardo di un altro uomo? Come poteva somigliare all'atto di dipingere quel suo modo di esprimersi?
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4. Invisible
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Dopo anni, scopriva che nulla era cambiato: giocava ancora a nascondino, questa volta con i sentimenti, e pareva fosse destinato a vincere.
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5. Make you happy
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S’imbatté, fra mille di quelle memorie delicate, in una più fragile delle altre: un segreto.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Andy Dermanis
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Ocean eyes

 
Il cielo era nudo, tinto d’un tenue cobalto, ma sull’orizzonte si erano adagiate coltri di nuvole cupe, cariche di pioggia. Nell’aria avvertiva l’elettricità tipica dei momenti che preludono una tempesta estiva, la gravezza dell’umidità sulla pelle, ancora intiepidita dal sole gentile di Londra. Michael non aveva con sé un ombrello né un cappotto più pesante del leggero giubbino di jeans che aveva indossato quella mattina per prepararsi ad affrontare una giornata di metà giugno.
Si passò una mano fra i capelli ricci che quasi giungevano a carezzargli le spalle. Lì tirò leggermente indietro finché la pelle del cranio fu dolente.
Prese la prima sigaretta dal pacchetto, l’unico che avesse mai comprato, e la mise fra le labbra con spirito di ribellione, l’accese e guardò il fiume scorrere, aggrappandosi alla ringhiera. Tossì nell’avvertire il fumo farsi spazio nella sua gola, irritarla un poco e lasciare la sua bocca senza eleganza.

 
Che importa, in fondo?
 
La vibrazione del cellulare lo destò appena, diede una distratta occhiata al display, rilevando la presenza di un messaggio della madre.
“Un altro rifiuto?” lesse, preceduto da un messaggio che ne era la copia esatta, risalente, però, a qualche giorno prima.
«L’ultimo» rispose con voce sottile, tornando ad osservare le acque torbide dinnanzi a lui, quasi che quel sussurro potesse rimanere intrappolato nella luce arancione dei lampioni ed essere spazzato via dal temporale imminente.
Michael aveva ventidue anni e lo sguardo ferito, spento, che si lasciava traghettare dal navigare lento delle nuvole. La strada era vuota, si sentivano solo le macchine sfrecciare alle sue spalle, il debole ronzio dei lampioni, il mormorio lontano dei locali che si riempivano di gente in cerca di riparo. Assieme al fumo, soffiò via quel sogno stupido e infantile mentre avvertiva le gocce di pioggia sferzargli il viso, ghiacciandogli addosso l’emozione di un momento.
Quando la pioggia si fece torrenziale – lo scrosciare dell’acqua sul Tamigi divenne assordante, la sigaretta fradicia e inerme fra i denti – si fece una promessa: non avrebbe mai più cantato, non avrebbe più riversato pezzi di anima su un foglio puro né sfiorato i tasti del pianoforte per tradurvi ogni emozione che fosse troppo grande da tenere dentro.
La musica, si disse, bastava anche solo ascoltarla.

 
****


Le sue lunghe gambe si muovevano rapide, ma senza grazia né coordinazione. Chiunque a vederlo l’avrebbe ritenuto goffo, ma Michael non se ne curò. Con il respiro veloce e un leggero bruciore ai polmoni, corse nell’aula dove si svolgeva la lezione di Igiene e Territorio, la prima del semestre e la prima in assoluto cui quelle matricole partecipassero.
La sciarpa legata al collo per schermarsi dal freddo autunnale e il bavero del cappotto ancora alzato, raggiunse trafelato l’entrata. Non conosceva nessuno e aveva perso l’orientamento nel tentativo di trovare l’aula nell’enorme campus. Come inizio per il corso di Geografia, non era certo l’ideale.
L’aula era fin troppo affollata ed era sudato, ansante per la corsa. Appena immersosi nel tepore della stanza, si aprì il cappotto e si scostò qualche ciocca dal viso un po’ arrossato, in cerca di aria. Nella stanza vi era ancora silenzio, un semplice mormorio soffuso che pareva quasi rassicurarlo mentre prendeva posto nel primo spazio vuoto adocchiato.
Il professore prese la parola, presentandosi e iniziando a snocciolare in cosa consisteva la sua materia, quali sarebbero stati gli obiettivi formativi del corso, quando ci sarebbero stati i primi esami. A chi rivolgersi in caso di bisogno, come comportarsi in particolari situazioni, il nome del libro di testo. Lo mostrò a tutti: un tomo dall’aria pesante, dava l’impressione d’essere zeppo di nozioni di dubbio interesse.
Presto iniziò a fare un’introduzione alla disciplina, usufruendo dell’ausilio di un proiettore su cui faceva passare svariate immagini. Scorrevano con estrema lentezza, ma d’un tratto sfrecciarono sulle sue retine distratte ad una velocità che gli ferì lo sguardo.
Cercò di ascoltare le parole del professore, la spiegazione accompagnata dallo stridere del pennarello sulla lavagna, ma il proprio respiro, calmo solo da pochi minuti, aveva ricominciato ad accorciarsi.
Lo stridio del pennarello divenne doloroso, il debole chiacchiericcio un rombo, l'aria gli mancò nei polmoni. Il petto faceva male di un dolore acuto e penetrante, una pugnalata fra le costole. Il vocio si fece intollerabile, il cuore batteva all’impazzata, così forte da sembrare gli frantumasse le ossa.
L’aria bloccata in gola. Affogava.
Si portò una mano al collo, annaspando e tentando di non darlo a vedere, poi la luce gli accecò la vista: il mondo era nebbioso, privo di contorni, bianco e grigio, senza colori. Era fuori dal suo corpo, si muoveva senza sapere di stare per farlo, come mosso da un abile marionettista in una scenografia di guerra. Dei brividi lo scossero da capo a piedi.
Tentò di tornare in sé, si alzò in modo scoordinato e mosse qualche passo verso l’uscita. Sentiva un rumore assordante, il dolore al petto aumentava senza dargli tregua.
Quando finalmente fu fuori dall’aula si sentì meglio; la purezza dell’aria gli diede sollievo, il calore di corpi ammassati non lo soffocava, il loro brusio era ormai lontano.
Ma continuava ad affogare, solo con più lentezza.
Si accasciò a terra, la schiena che aderiva al muro gelido. Cercò di rendere il respiro regolare, ma la sua mente lo ingannava con una facilità sconfortante.
D’un tratto avvertì delle mani affusolate dalle punte fredde e dai palmi bollenti sfiorare il dorso della sua. La voce di un ragazzo lo raggiunse come un’accozzaglia di suoni privi di senso, una melodia soffice come un soffio di vento primaverile. Una fragranza di scogli e acqua salata l’avvolse come una nebbia sottile. Se ne intossicò, assaporandola ad occhi chiusi. Si concentrò sui suoi fievoli incoraggiamenti, carezzevoli folate d’aria, sul gelo rovente della sua stretta. Michael serrava la sua mano fra le dita di rimando, aggrappandosi ad essa come ad un salvagente in quel mare assassino che gli toglieva la vita con pigra spietatezza.
Cominciò a seguire il ritmo del suo respiro, ad inspirare ed espirare all’unisono con lo sconosciuto. Il battito prese a decelerare, come ad aver trovato il proprio ritmo, come stesse battendo nel modo giusto per la prima volta in ventitré anni. D’improvviso nacquero i singhiozzi, inevitabili, dalla potenza inaudita. Si sentì svuotato d’ogni forza, ancor più arido di quanto era stato negli ultimi mesi.
La vista era ancora appannata, questa volta da lacrime immotivate, ma fra la confusione riconobbe alla perfezione il volto terso, semplice di un ragazzo biondo, accovacciato di fronte a lui. La delicatezza con cui aveva preso a strofinare il pollice sul dorso della sua mano destra, la fermezza dei suoi occhi blu topazio, la sua presenza lì accanto a lui, sul pavimento umido dell’Università, lo frastornavano.
«Stai perdendo la lezione» riuscì a dirgli fra i singhiozzi.
«Lo so» rispose lui. La sua voce si rivelò ancora più calda di pochi minuti prima. Vi rimase accoccolato come ad un abbraccio.
«Dovresti rientrare» asserì, asciugandosi le guance, a disagio. I singhiozzi gli morirono improvvisamente fra le labbra, così com’erano sorti.
«Entri anche tu?» gli chiese con premura. Aveva un modo di parlargli che somigliava a una carezza. Le loro mani erano ancora intrecciate. Mika ne fu imbarazzato, ma non volle scostarla.
«Non so se me la sento» rispose, il respiro tremante.
«No, neanch’io» ribatté il biondo.
Calò un silenzio che non pareva teso né leggero. Solo una quiete preziosa quanto agognata che gli leniva le tempie doloranti.
«Non preoccuparti per me» Michael ruppe quel momento, facendo scivolare una mano sul viso, un’onda che porta via i segni su di una spiaggia bagnata.
Le dita scosse dal tremito. Aveva creduto di morire.
«Non è quello» chiarì il ragazzo «È che non credo sia il mio posto». Indicò l’interno dell’aula con uno sguardo serio e sereno a un tempo. Fece scorrere quelle pietre di topazio sul suo viso, esaminandolo.
«Va meglio?» si premurò di sapere.
«Sì» rispose con un sussurro, vergognandosi del suo pianto. «Non so cosa… mi sia successo…»
«Oh, io sì» fece lui, inaspettatamente «Era un grido d’aiuto»
«Non ho bisogno di aiuto», scosse la testa il riccio, facendo scivolare via la mano dalle sue. Se c’era una cosa che sempre respingeva era la commiserazione.
«Non del mio, del tuo» precisò il biondo, accennando un sorriso «Gridavi aiuto a te stesso» spiegò, con sicurezza.
Michael si sentì spogliato da un’affermazione così profondamente intima. «Non so…»
«Questo non è neanche il tuo posto» affermò, indicando con un cenno del capo l’aula da cui erano usciti.
Mika corrucciò la fronte, infastidito dall’invadente verità di quelle parole.
«Perché mi hai seguito fuori?» domandò a bruciapelo, scandagliando il bel viso che gli era di fronte. Una bellezza che è impossibile catturare con uno scatto perché inondata di vita.
«Ti ho visto in difficoltà…» gli rispose per poi far scivolare gli occhi sul pavimento, concentrato, quasi stesse scavando dentro di sé per la risposta. «Ma, se devo essere sincero… hai attirato subito la mia attenzione» continuò titubante, immergendo lo sguardo in quello cioccolato fuso dell’altro.
Quest’ultimo si alzò, un po’ rigido, con uno sguardo meno morbido, e il biondo lo imitò, preoccupato di aver parlato troppo onestamente. Rimase sorpreso nel constatare che fossero più o meno della stessa altezza.
«Non sai niente della mia vita, ok?» scandì duramente il riccio.
«So solo che non vuoi questo» ribatté il biondo, calmo, con tono saccente.
«Non ti riguarda» s’infastidì ulteriormente.

Davvero si prendeva il diritto di giudicare la vita di uno sconosciuto? Di leggergli ogni incertezza e sputargliela addosso con tanta dolcezza?
 
Sul volto del ragazzo si dipinse un sorriso boschivo, verde smeraldo. «Spero che farai quel che è meglio per te». Sulla pelle lattea del biondo, Mika aveva l’impressione di scorgere ovunque rapide pennellate di colore: una tela che si dipingeva liberamente di emozioni, incontri, musiche, passioni, ricerche, amori, danze, vite.
Mika aveva la mente stipata di domande e dubbi. Era confuso da quell’atteggiamento di cura nei suoi confronti da parte di un perfetto sconosciuto, disorientato dal caleidoscopio che gli scoppiava nelle retine a guardarlo. Scosse la testa, cercando di riordinare i pensieri, di dare una spiegazione logica alle parole che stava ascoltando, a ciò che vedeva.
Il cuore prese a battergli più veloce come davanti a un pericolo. Fece per rispondergli – voleva affrontarlo - ma lui lo precedette.
«Cambia la tua vita. Io lo faccio adesso: non ha senso sprecare altro tempo qui» concluse, aprendo le braccia per indicare attorno a loro mentre il volto dai tratti mediterranei si tingeva d’oro.
Il riccio rimase in assoluto silenzio, privato della voce dallo sgomento.
«Ti auguro di fare la scelta giusta» allargò il sorriso color autunno e cominciò a muoversi verso l’uscita. Con una mano sulla maniglia della porta, si voltò. «Addio» disse, una cinerea goccia di delusione increspò la perfezione di quel sorriso arancio bruciato quando non ricevette neppure risposta.
Quegli occhi se ne andarono, portando con loro ogni sua determinazione, strappandogli ogni incertezza.
Michael era pietrificato sul posto, sbigottito da quanto appena accaduto, innervosito dall’invadente perspicacia di quel ragazzo e squassato da una musica che gli premeva sulle tempie, gli dava il formicolio alle dita. Un sottile grazie scivolò fuori dalle sue labbra secche, senza produrre alcun suono.
Gli sembrò di scorgere delle impronte sul pavimento perfettamente candido, seguì quel sentiero fantasma fatto di ombre del suo futuro. Uscì con la certezza di non fare più ritorno. Le parole erano lì, nella sua mente, in attesa di essere scritte. Non c’era più spazio per nasconderle.

Era il momento di ascoltarsi.
 
****

Parecchi mesi dopo si trovava ancora a pensare di lui. Non ne sapeva neppure il nome.
 
Non sapeva, sopra ogni cosa, perché il suo ricordo gli fosse rimasto incastrato nella mente.
 
Si chiedeva se sarebbe stato comunque lì, negli studi della Universal, se non si fossero mai incontrati, se non l’avesse inconsapevolmente costretto ad ascoltarsi, a lottare ancora per quel sogno stupido e infantile.
 
Come aveva potuto pensare di buttare tutto ciò cui aveva consacrato la sua esistenza? Ciò che sempre gli aveva offerto un valore da custodire?
 
Da una parte gli era riconoscente, dall’altra detestava il fatto di dovere qualcosa a qualcuno, riguardo la sua recente carriera di musicista.
Delle volte invece si scopriva naufrago in un oceano che aveva trovato rifugio fra un paio di ciglia bionde, il suo sguardo impedito da pennellate di colore, lasciate senza criterio che non fosse quello del caos primordiale.

 
Quale magia possedevano quegli occhi per poter leggere così a fondo nello sguardo di un altro uomo? Come poteva somigliare all’atto di dipingere quel suo modo di esprimersi?
 
Lui che non decifrava neanche la parola scritta, gli invidiava con tanta intensità quell’abilità di tradurre persino il linguaggio segreto degli sguardi, da giungere quasi a odiarlo.
Il colore però gli aveva sempre incendiato lo sguardo: sulle sue retine rimaneva traccia indelebile di quell’incontro e Michael non sapeva ignorarla.

 
«Mika, per favore» lo richiamò il tour manager, schioccando le dita un paio di volte con fare professionale. «Lo so che non dormi da giorni, ma cerca di seguirmi» lo pregò.
In risposta il riccio annuì freneticamente. Aveva ragione, non aveva avuto tempo neanche per chiudere occhio, allo stesso tempo non ne aveva avuto neanche per sentirsi stanco.
Il manager sorrise, divertito. «Bene, dicevo…» riprese, rivolgendosi al cantante «Fra poco incontrerai tutto il team, ci stanno aspettando». Lo guidò verso una delle sale riunioni dell’edificio e spalancò la porta per farlo entrare e seguirlo all’interno.
La riconobbe immediatamente quella particolare fragranza. Acqua di mare, scogli bagnati. Era stranamente piacevole e del tutto sua.
I loro occhi si rincorsero attratti da una forza magnetica, si scontrarono come calamite di poli opposti. Immergersi di nuovo in quello sguardo d’oceano fu un colpo al cuore, così dolce da tramortirlo.
La voce di John che elencava i nomi dei vari componenti della squadra messa insieme per il tour non era che un debole brusio di fondo a cui non riusciva a prestare attenzione.
«Ma…Vi conoscete?» s’intromise ad un tratto, notando quel contatto visivo prolungato. Mika scostò lo sguardo sorpreso sul viso del manager.
«Sì»
«No»
Si guardarono nuovamente e non seppero quale risposta appartenesse all’uno e quale all’altro.
John aggrottò la fronte. «Vedo che c’è un po’ di confusione» commentò, divertito. Tutti i presenti si lasciarono andare ad una risata.
Fu quello il momento in cui entrambi si accorsero che erano gli unici ad avvertire la tensione, che esisteva unicamente fra loro. Michael ne fu grato e accennò un sorriso, di modo che nessuno potesse notarla.
«In ogni caso, lui è Andrew Dermanis» soggiunse l’uomo al termine del momento d’ilarità «Sarà il tuo camera operator».
«Tu devi essere Mika, invece» scherzò il biondo, allungandogli una mano per scuoterla. Nacquero dei sorrisini sul volto dei presenti.
«Ah, certo» fece il manager di rimando, ridendo «Per chi non l’avesse ancora capito, lui è Mika». In quel periodo la sua faccia era ovunque, non c’era persona che non sapesse il suo nome.
Attenuò un po’ il sorriso, marcando le fossette e guardando, imbarazzato, il pavimento per qualche secondo, prima di rivolgersi al suo manager. «Possiamo andare avanti?» lo implorò, sorridendo.

Avvertiva l’intensità di quegli occhi d’oceano su di lui. Lo stavano annegando, ma era una morte deliziosa.










Note: Ciao!
Sono tornata con un nuovo capitolo un po'  sdolcinato... spero vi sia piaciuto <3
Il titolo come avrete notato è preso dalla canzone di Billie Eilish perché mi ha ispirato nello scrivere e penso ci stia bene con il senso della one-shot. 
L'idea è nata da una cosa detta da Mika nel suo programma, tempo fa: ha frequentato un giorno la facoltà di Geografia prima di riuscire ad ottenere un contratto e questo è ciò che ho immaginato :') Per quanto riguarda l'attacco di cui si parla nel testo (la mancanza d'aria, il pianto ecc) si tratta di un attacco di panico. Una delle case è, per esempio, l'interruzione di una lunga relazione (quella con la musica, nel caso di Mika) o, altro esempio, quando si sta facendo qualcosa che non si vuole fare (quindi no, Andy non è un sensitivo eheh).
Grazie a chi legge, recensisce e mette la storia fra le seguite e preferite. Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto con un piccolo commento, grazie ancora <3
Bacioni e al prossimo capitolo! :*
   
 
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