Dal capitolo precedente:
"«Ma
come sta? Sta bene?».
«Farò dei controlli più accurati domani
mattina. Per ora posso dirti che il
fatto che finalmente abbia aperto gli occhi e abbia parlato
è sicuramente un
buon segno.».
«Okay...».
«Ora però devi ascoltarmi, Ben.»
cominciò il medico, guardandolo fisso negli
occhi e parlando sempre con estrema calma «Vai a casa. Con la
dose di sedativo
che gli ho somministrato, è escluso che si svegli prima di
domani mattina. Vai
a casa e riposati, dormi. Domani il tuo amico avrà bisogno
di te.»."
GIORNO 22.
Ben aveva dormito per tutta la notte.
Non
ricordava più quando fosse successo l’ultima
volta, ma finalmente era
riuscito a dormire un sonno profondo e senza incubi, del tutto
ininterrotto.
Complice forse l’atmosfera della propria casa piuttosto che
quella vuota e
triste dell’ospedale, oppure la notizia che aveva ricevuto la
sera prima
riguardo il fatto che Semir si fosse svegliato, era finalmente riuscito
a
riposarsi sul serio.
Quando si svegliò, Maggie era distesa accanto a lui, ancora
addormentata.
Ben scese dal letto, si preparò in fretta, bevve una tazza
fumante di caffè e
si guardò allo specchio.
Aveva i lineamenti un po’ più distesi, la notte di
sonno gli aveva fatto bene.
Scarabocchiò velocemente un biglietto che adagiò
sul comodino di Margaret, le
lasciò un leggero bacio tra i capelli e uscì
dall’appartamento senza fare
rumore.
Erano le sette del mattino quando, a bordo della sua moto,
partì da casa alla
volta dell’ospedale centrale di Colonia.
Quando
giunse davanti alla porta
della stanza di Semir, vi trovò davanti il dottor Schneider,
intento a scrivere
qualcosa su una cartellina.
«Oh Ben!» esclamò, vedendolo arrivare
«Come stai? Sei riuscito a riposare un
po’?».
L’ispettore annuì con un sorriso
«Sì e ti ringrazio di aver insistito,
perché
ne avevo decisamente bisogno. Posso entrare?».
Chris annuì.
«Gli farò qualche controllo, poi se va tutto bene
vi lascerò soli. Mi
raccomando però, Ben, non farlo stancare e soprattutto fai
in modo che non si
agiti troppo. Va bene?».
«Va bene.» assicurò il ragazzo,
abbassando la maniglia e richiudendo la porta
una volta che entrambi furono entrati.
Li
accolsero i soliti suoni
intermittenti che facevano parte integrante di quello scenario ormai da
giorni.
Ben esitò, ma il medico lo invitò con lo sguardo
ad avvicinarsi al letto.
Quindi il poliziotto si diresse verso la sedia e prese posizione.
Rimase per qualche secondo a fissare il collega disteso sul letto,
prima di
decidersi a svegliarlo.
Poi cominciò a chiamarlo, piano.
«Semir... Semir, so che puoi sentirmi... apri gli
occhi...».
Per un minuto lunghissimo non accadde niente.
Poi, sul viso di Semir si dipinse una smorfia di dolore.
Schiuse
gli occhi, lentamente.
La luce gli dava fastidio.
Sarebbe rimasto nel buio confortante che lo aveva circondato fino a
quel
momento, ma una voce lo stava chiamando e lui conosceva perfettamente
quella
voce.
Fece uno sforzo immane per sollevare del tutto le palpebre e
impiegò qualche
secondo a trovare con lo sguardo la fonte di provenienza di quella voce
che lo chiamava.
Ma poi lo vide, alla sua destra, sorridente.
Semir richiuse in fretta gli occhi, provando una fitta acuta di dolore
all’altezza del bacino, che si irradiò poi per
tutta la schiena.
Poi li riaprì, ma il dolore non era passato.
Gli faceva male anche la spalla. E il torace. E la testa.
Prima che potesse provare a dire qualsiasi cosa, un’altra
figura maschile entrò
nel suo campo visivo. L’aveva già vista, forse il
giorno prima.
La figura in camice bianco parlava, ma Semir sentiva tutto ovattato.
Solo dopo
un po’ i suoni divennero più nitidi e lui
riuscì a comprendere che cosa il
dottore gli stesse dicendo.
«Ispettore? Ispettore, mi sente?».
Semir avrebbe voluto annuire, ma fece una fatica enorme per provare a
muovere
la testa.
«Ispettore... ha male? Sente dolore?».
Il turco provò di nuovo ad annuire, ma la verità
era che la smorfia sul suo
viso rispondeva già da sola a quella domanda.
Con la coda dell’occhio vide il medico selezionare qualcosa
su un macchinario
alla sua sinistra e, poco dopo, il dolore era un po’
diminuito.
«Così andrà meglio... riesce a parlare,
ispettore Gerkhan?» gli chiese ancora
la figura in camice bianco.
Semir aprì la bocca e
non ne uscì alcun
suono.
«Okay, non si preoccupi...» cominciò il
dottore, ma lui si sforzò e lo
interruppe.
«Ci... ci riesco...» mormorò, con un
filo sottilissimo di voce.
«Bene, molto bene.» commentò ancora il
medico.
Ora la vista era diventata più nitida e Semir
poté distinguere chiaramente il
profilo di quell’uomo. Sulla cinquantina, ingrigito, grandi
occhi azzurri e un
sottile paio di occhiali sul naso triangolare. Sulla tessera appesa al
taschino
del camice spiccava il nome Christopher
Schneider.
«Io sono il Christopher Schneider, ci siamo visti
già ieri sera. Vorrei farle
qualche veloce controllo prima di lasciarla solo con il suo collega, va
bene?»
fece l’uomo, estraendo una piccolissima torcia dal taschino.
Controllò la reazione pupillare, poi gli fece qualche
domanda su chi fosse per
constatare che non avesse alcun problema di amnesia.
Gli chiese poi di stringere le sue mani e di spingere con i piedi
contro i
palmi delle sue mani aperte, con tutta la forza che aveva.
Terminati questi rapidi controlli, annuì e scrisse qualcosa
sulla cartellina
che reggeva tra le mani.
«Bene, ora vi lascio soli. Qualche minuto, Ben.»
concluse velocemente.
Quindi lasciò la stanza, tirandosi la porta alle spalle.
Ben
non parlò subito.
Guardò il suo socio per almeno un minuto senza proferire
parola.
Semir, invece, non lo guardava neanche. Ruotare la testa verso la sua
direzione
gli comportava troppa fatica.
Il più giovane lo intuì, quindi dopo quel minuto
di totale silenzio si alzò
dalla sedia e si sporse per rientrare nel suo campo visivo.
«Semir... socio, sono contento che tu sia sveglio.»
disse, semplicemente.
«Ben... pensavo... pensavo...».
«Sì, lo so.» lo interruppe Ben,
evitandogli la fatica di continuare «So che
Keller ti aveva detto di avermi ucciso, ma ti assicuro che fino a due
giorni fa
io non lo avevo neanche mai visto personalmente. Non è mai
venuto a cercarmi,
voleva solo che tu credessi che io fossi morto.».
Semir annuì debolmente.
Non riusciva a muovere un muscolo senza che fitte di dolore si
irradiassero da
ogni parte del corpo e quella condizione gli creava uno strano senso di
ansia.
«Le... le bambine...» mormorò, senza
terminare la domanda.
Non ci riusciva.
Ben trasalì. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato.
Percorrendo in moto la
strada che separava casa sua dall’ospedale aveva pensato e
ripensato a quella
domanda, che l’amico gli avrebbe sicuramente posto appena
sveglio. Aveva
provato a immaginare che cosa sarebbe stato meglio rispondere, ma non
era
giunto a nessuna conclusione. Aveva preparato persino un abbozzo di
discorso,
ma entrando in quella stanza se lo era immediatamente dimenticato.
E ora, non sapeva che cosa dire.
Ma, nell’indecisione, fece la cosa peggiore che avrebbe
potuto fare: esitò.
E Semir se ne accorse.
L’elettrocardiografo cominciò a inviare suoni
sempre più ravvicinati tra loro e
Ben si allarmò subito.
«Semir... Semir, no, ascolta, calmati...».
Ma lui non lo ascoltava. Annaspava per dire qualcosa e i suoi occhi
erano colmi
di terrore.
«Dimmi... dimmi come stanno... le bambine... Ben...
dimmelo.» balbettò, a
fatica.
«Sì, ma tu calmati, Semir, ti prego!»
quasi gridò il più giovane, mentre i
battiti cardiaci dell’amico acceleravano ancora.
«Ascolta, Aida sta bene. Non si è fatta nemmeno un
graffio, hai capito Semir?
È... è un miracolo, non si è fatta
niente e sta bene.» spiegò, sperando che
cominciare con una buona notizia lo avrebbe calmato.
Invece, inaspettatamente, quelle parole gettarono Semir ancora
più nella paura.
Se il collega gli parlava solo di Aida, se premeva sul fatto che lei
stesse
bene, allora Lily...
«Hai capito, Semir? Aida sta bene.».
Ma Semir non lo ascoltava. Improvvisamente, gli sembrò di
non riuscire più a
respirare bene e si sentì come se un macigno gli fosse
piombato sul torace e
premesse con forza per farlo soffocare.
«Mi... mi sento...» bisbigliò, in preda
al panico.
Ma non riuscì a terminare la frase.
I macchinari cominciarono a lanciare veri e propri segnali di allarme e
le
palpebre di Semir lentamente si abbassarono.
Ben andò in panico, esitò persino a premere il
tasto per le emergenze. Ma prima
che potesse fare qualsiasi cosa, il dottor Schneider si
catapultò nella stanza,
intimandogli di uscire.
«Dannazione Ben, ti avevo detto di non farlo
agitare!» disse a denti stretti
prima di chiudersi la porta alle spalle.
Evidentemente era rimasto dietro la porta tutto il tempo e aveva
immediatamente
sentito i segnali acustici che indicavano che fosse successo qualcosa.
Accadde tutto a una velocità incredibile.
Ben uscì, ma rimase a guardare dal vetro Chris che
armeggiava sul letto del
paziente insieme a un’infermiera.
Li vide mentre spostavano Semir su una barella e poi li vide uscire
dalla
stanza di corsa, trascinando la barella con loro.
Dovette spostarsi per farli passare e li seguì con lo
sguardo mentre si
dirigevano velocemente verso la sala operatoria.
Era
passata solo un’ora quando
Chris Schneider uscì dalla sala operatoria e gli
andò incontro.
Lui lo attendeva lì, immobile, accasciato su una di quelle
scomode sedie che lo
avevano ospitato così spesso negli ultimi giorni.
Si protese verso il medico per chiedergli che cosa fosse accaduto, ma
questi
preferì sedersi accanto a lui.
Si tolse gli occhiali con un gesto nervoso e lo fissò negli
occhi. Sembrava
turbato, e questo mandò Ben ancora più in
confusione.
«Chris, perché quell’espressione?
È... lui è...».
«Vivo.» concluse l’uomo al suo posto
«Ma non sta bene, Ben.».
Il giovane ispettore si prese la testa tra le mani, spostando lo
sguardo a
terra, con un sospiro.
«Ha avuto un’ischemia miocardica acuta.»
continuò Schneider, con un lieve
sospiro «Il dottor Franz, il chirurgo cardiotoracico, ha
dovuto eseguire
un’angioplastica coronarica d’emergenza. Sono qui
io a parlarti perché lui sta
terminando i controlli post-operatori. In realtà si tratta
di un intervento di
routine, poco invasivo. Ma Semir era già davvero molto
debilitato e si tratta
comunque di un altro intervento, per cui...».
«Chris.» lo interruppe Ben, tornando a guardarlo
negli occhi. Era la prima
volta da quando lo aveva conosciuto che il medico non andava dritto al
punto.
«Avevamo detto niente giri di parole.».
Il chirurgo annuì, con un altro sospiro.
«Sono rimasto in sala a seguire l’intervento.
È andato in arresto due volte,
Ben. Franz l’ha ripreso, ma non ho idea di come
sarà il decorso
post-operatorio. Normalmente il giorno dopo i pazienti tornano a casa
se hanno
subìto un intervento del genere, ma il dottor Franz teme che
Semir possa non svegliarsi.».
«Che cosa?».
«Ha subìto troppi interventi... ha
subìto troppo stress. La sopportazione ha un
limite, Ben, il fisico non può resistere a tutto. Io spero
che si svegli e che
stia bene, ma non è detto che questo accada, purtroppo sono
d’accordo con il
dottor Franz.».
Ben scosse il capo, aveva i pensieri confusi.
«Ma come... come è successo? Semir non ha... non
ha mai avuto problemi di cuore
e...».
«Ben, Semir e il suo cuore ultimamente hanno avuto un bel
peso da sopportare.
Lo shock emorragico e i due interventi al cervello dei giorni scorsi
hanno
sicuramente provato il cuore ulteriormente e un cuore provato
è più sensibile
allo stress, cronico o acuto che sia. In caso di stress psicologici
acuti possono
verificarsi aritmie anche improvvise, o vasocostrizione, che a loro
volta
possono portare all’innesco di un’ischemia
miocardica acuta. Poteva succedere
ed è successo...».
Ben scosse ancora la testa. Quelle parole terribilmente razionali,
scientifiche
e vere, lo destabilizzavano.
«E non ho finito...» aggiunse il dottore, con una
certa timidezza nella voce.
«Che cos’altro è successo?»
domandò il poliziotto, in un sussurro. Non sapeva
più che cosa aspettarsi.
«Ecco... quando Semir era vigile, io gli ho fatto qualche
controllo, prima di
lasciarvi soli, ricordi?».
Il ragazzo annuì, invitando il medico a continuare.
«Gli ho chiesto di stringermi la mano e lo ha fatto. Poi
però gli ho chiesto di
spingere con i piedi verso i palmi delle mie mani...».
«Ti prego, Chris, non dirmi che...».
«Non ho sentito niente, Ben.» lo interruppe
Schneider, a bassa voce «Nemmeno una
forza leggerissima, niente. L’ho già detto al
chirurgo ortopedico, ci
lavoreremo insieme. Potrebbe essere stato un problema momentaneo, ma
fino a
quando Semir non si sveglierà non posso escludere
nulla.».
Ben annuì.
Se all’alba una speranza aveva illuminato la giornata, ora
quella speranza era
scivolata via, lasciando dietro di sé un baratro peggiore
del precedente.
«Comunque sia, Semir verrà monitorato in
continuazione, Lisa controllerà le
funzioni vitali ogni ora e riferirà ogni cosa sia a me sia
al dottor Franz.
Devi stare tranquillo.».
«Lisa?».
«La ragazza che hai visto ieri, è una
specializzanda. Mi piace, molto
responsabile.» assicurò Schneider, con un lieve
sorriso. Poi si alzò dalla
sedia.
«Mi dispiace per quello che ti ho detto prima, Ben, che non
avresti dovuto
farlo agitare. Cancella quella frase, okay? Quello che è
successo non è in
alcun modo colpa tua. Ricordalo, Ben.» aggiunse poi, prima di
allontanarsi.
N.d.A.
Sembrava stesse accadendo qualcosa di positivo, invece...
È una storia interminabile, ne sono consapevole, spero solo di non annoiarvi troppo!
Grazie e a presto,
Sophie