VENEZIA E’ LONTANA
“Tutto è cominciato con
i trabaccoli e le tartane di Cesenatico,
col prendere il largo
verso Venezia che ancora resiste,
ma Venezia è troppo
lontana,
sepolta in un assedio
invalicabile.
Non resta che il
cammino incerto oltre la cortina dei canneti (…)”.
Quello che ancora vive,
Maurizio Maggiani.
“Per i tuoi figli sola
a morire
o caro sposo mi devi
lasciare.
Se gli occhi miei ti
voglion mirare
tu con un bacio li
chiuderai.
Sale la febbre sulla
laguna
come l’allodola trema
l’Anita
stende allo sposo la
mano sfinita”.
Canzone popolare
dell’epoca.
Ho combattuto con onore, sempre.
Sono sempre stato a fianco dei più deboli, credendo nella
forza della libertà e delle idee dell’uomo.
Adesso che anche questa guerra è perduta, ed io sto
arrancando miseramente verso quella che sarà la mia ultima tappa, quella che
sarà casa mia, forse in eterno, mi chiedo se n’è veramente valsa la pena… così
tanti sacrifici, così tanto dolore… ma per cosa, poi?
Ecco, io non posso permettermi di pormi tali quesiti, queste
sono domande proibite in un momento come quello che sto vivendo.
Arrancando tra il folto canneto, lungo la costa di un
implacabile Adriatico settentrionale, devo solo sperare di riuscire a mimetizzarmi
e di nascondermi tra questa folta vegetazione. Non mi sono mai nascosto, ma
adesso che la situazione è precipitata e la guerra è finita, devo farlo per
amore e per dovere.
Non è bello ritrovarsi dall’altra parte dello schieramento,
dalla parte degli sconfitti, ma soprattutto non è di certo piacevole trovarsi
ogni volta da quella stessa parte.
Ora che la mia donna sta anche soffrendo molto… oddio, mia
dolce Ana, quante te ne ho fatte passare? Quanto volte questo amore ci ha messo
alla prova? Vorrei chiedertelo, adesso che non hai più la forza per camminare e
mi tocca sorreggerti. Sei solo un mucchietto di ossa divorato dalla febbre, che
non si è mai staccata da te per settimane intere.
Come andremo a finire?
Ci cercano.
Mi sento braccato, devo continuare a camminare, poiché sono
certo che prima o poi ci imbatteremo in qualcuno che ci darà aiuto e conforto.
Arranco, allora, continuo ad avanzare, ancora e ancora…
Ecco, dopo un po’ appare una sagoma indefinita, le canne irte
di questo delta melmoso vogliono nascondere un misero edificio costruito dalla
mano dell’uomo. Fa al caso nostro!
Ana, non ce la faccio davvero più a sorreggerti; dobbiamo
fermarci e sostare.
Tramuto questi miei ultimi frettolosi pensieri in parole, ma
tu tanto non dimostri più cenno di comprendermi. È finita quando hai deciso di
non fermarti e di non curarti; anche tu, come me, avevi fretta di tornare a
casa.
Decido di correre il rischio e di avvicinarmi a quello che
pare sempre più un capanno, una di quelle umili abitazioni che ospitano decine
di contadini in questa zona di malaria e di fame. I miei compagni di fuga mi
hanno detto che posso fidarmi delle persone del posto, e che nonostante
l’ultima e umiliante sconfitta non hanno mai smesso di credere ancora nei miei stessi
ideali.
Sono convinto, sono certo che non diranno di no.
Busso alla porta, attorno a noi c’è la pacata nebbiolina
notturna che ci protegge alla vista dei possibili malintenzionati che ci
braccano da settimane. E la porta si apre, in una maniera molto misteriosa.
A essa si affaccia poi un pover’uomo, un individuo che pare
un fantasma; basso e magro, dalla parvenza macilenta, provata… un frutto di
quella misera terra, dove per vivere si può sperare solo di riuscire a prendere
con le mani una qualche anguilla. Dall’interno della casetta, una costruzione
così semplice che può essere considerata quasi un capanno, la luce fioca di una
candela illumina i volti di noi due, i mentecatti con gli abiti logori e in
disordine che hanno bussato con disperazione all’uscio.
L’uomo ci mette meno di un attimo a capire chi siamo; ci
squadra, non si sofferma molto su Ana, bensì su di me.
“Generale”, mormora poi, tra il sorpreso e il basito.
Mi ha riconosciuto senza difficoltà… d’altronde, non per
nulla sono il militare più ricercato d’Italia.
“Buon uomo”, esordisco a mia volta, con un po’ di fretta,
“siamo in difficoltà, come potete vedere. Potreste offrirci rifugio, solo per
questa notte?”.
Fermo per un’intera notte? Sono pazzo, forse? No, sono solo
innamorato. La mia donna sta male, mi serve questa notte per poterla fare
dormire su un caldo giaciglio e provare a rinforzare quel fisico provato. Devo
razionalizzare tutto questo.
Ana, sai che non manca molto a casa, vero? Un ultimo sforzo.
Non so se il signore ha capito ciò che gli ho detto, però ha
reagito subito non appena ha riconosciuto la sofferenza nei lineamenti della
mia compagna di viaggio. Ha cominciato a parlare un dialetto a me ignoto,
mangiandosi le parole e biascicando in modo caotico, tuttavia mi ha fatto un
cenno perentorio con capo e mani per invitarmi a entrare in fretta nella sua
dimora.
Mi affretto immediatamente a varcare la misera soglia, con
l’uscio che si richiude alle nostre spalle.
“Dio, Ana...”, borbotto, stanchissimo, mentre la mia donna
barcolla e mi sbilancia. Devo resistere.
“… qua!”, afferma l’uomo, ancora parlando a modo suo. Ho
capito, mi sta indicando un angolino un po’ appartato in quell’edificio povero
e composto perlopiù da frasche e canne. Lì c’è un giaciglio basso e soffice,
che ci attende.
Senza attendere alcun consenso, lascio che la mia amata si
adagi su quel letto morbido, dal materasso di foglie di mais e di canne
selvatiche. Subito dopo, mi alzo in piedi e mi stiracchio, con i muscoli a
pezzi per il recente ed eccessivo sforzo.
“Grazie”, mormoro con gratitudine al buon soccorritore, ed
egli capisce e mi risponde anche lui.
“Grazie a voi, Generale”. Lui, umile uomo di campagna, sa
tutto.
Sa tutto senza che io neppure mi debba scomodare per spiegare
qualcosa.
Si dilegua poi, mesto, sa anche che io e Ana abbiamo bisogno
di stare assieme e di riposare, in quella che si prospetta come la nostra sosta
più dignitosa, prima del gran finale.
Mentre mi siedo al suo capezzale, e odo il rumore di
catenacci che sbarrano la porta del nostro gentilissimo salvatore. So che non
riposerò affatto. È sì la sosta più dignitosa, ma anche quella fatta solo per
pensare.
Non ho potuto pensare quando il fango lambiva le mie caviglie
stanche, e quando il mare era in tempesta, con quei cavalloni che percuotevano
l’imbarcazione che ci avrebbe dovuto scortare più a Nord; non l’ho potuto fare
quando Roma stava capitolando, e il rumore dell’artiglieria nemica era qualcosa
di stordente e assordante.
Adesso, con Venezia sempre più vicina, ma allo stesso tempo ancora
lontana, posso prendere qualche attimo per me… per noi.
Ana dorme già, i suoi occhi piccoli e scuri sono chiusi. Non
voglio disturbarla né tediarla, ma nella mia mente tanti ricordi, tanti pensieri
possono accavallarsi ed essere così rimembrati.
Amore, vorrei sussurrarti che non devi avere paura; ora sei
lontana dal Brasile, lungi dall’essere l’indifesa sposa bambina che sei stata,
in balìa di un uomo che non amavi. Vorrei chiederti se stai sognando qualcosa…
magari qualche scena della tua giovinezza, quando andavi nuda a fare il bagno
nell’oceano e tutti gli uomini si scandalizzavano. Me l’hai raccontato tu
questo particolare, e mi fa ancora sorridere; ho sempre saputo che sei una
dura.
La tua giovinezza poi è stata spezzata dalla povertà, quando
tuo padre è venuto a mancare, assieme ai figli maschi che avrebbero potuto
aiutare tua madre. Cosa pensavi quando lui, il tuo legittimo sposo, ti ha
portato nel suo talamo? Quanto lo hai odiato? Avevi quattordici anni…
quattordici, per carità! Eri una bambina spensierata, poi sei diventata donna
all’improvviso.
Quando sono arrivato a Laguna, appena ti ho visto ti ho
sussurrato; devi essere mia! Noi due eravamo promessi, i nostri destini erano
stati creati per farci incontrare. Hai lasciato tuo marito, te ne sei andata da
lui perché mi amavi…
Lacrimo.
Piango.
Non vorrei farlo, ma sto osservando la tua pelle troppo
pallida, temo che per te non sorgerà un nuovo giorno. Dio, questo non devo
nemmeno pensarlo! Hai resistito alla guerra che ha straziato il tuo Paese, un
Impero basato sulle ingiustizie e sulle classi sociali.
Abbiamo scelto di affrontare un Imperatore che, nonostante le
promesse, non ha mai voluto cambiare l’ordinamento di una Nazione immensa, ma
basata sulla schiavitù, sull’indigenza delle masse e sulla ricchezza dei
corrotti baroni del caffè.
In quell’occasione, per la prima volta mi sono sentito uomo;
ho diretto le operazioni militari che avrebbero potuto rendere migliore una
parte di quell’ingiusta realtà. Avevo te a mio fianco, non mi hai mai lasciato
solo.
Sul campo di battaglia, durante lo scontro decisivo, ho visto
mentre combattevi meglio di tanti altri soldati addestrati… tu ci credevi
davvero, nella vittoria. Hai creduto in essa anche quando ci siamo trovati di
fronte a un esercito smisurato, quello di un Impero intero.
Noi poveri ribelli siamo stati schiacciati in fretta,
massacrati in tutti i modi. Spazzati via senza neppure avere il tempo per
concepire l’idea che per i nostri ideali di rivoluzione era giunta la fine.
Sai che in Brasile ancora adesso le persone stanno tanto
male? Un giorno torneremo, mio dolce amore. Là combatteremo fino alla morte e
doneremo la libertà ai più deboli e agli schiavi… ma, per il momento, devi sopravvivere.
Fallo per me.
Quanto hai sacrificato per me, d’altronde? Hai distrutto il
tuo matrimonio, hai scelto di perdere tutto. Ed io ti amo tanto… so quanto ti
sono costato.
Ho visto il dolore che ti ha provocato la nascita dei nostri
figli, ma anche la felicità che poi è trasparsa sui tuoi lineamenti quando hai
cominciato a coccolarli e a stringerli a te. E ti ho visto anche quando, tutta
sudata e stanca, hai continuato a combattere in una Roma spacciata.
Io quelle cannonate le sento ancora… le ho nelle orecchie,
rimbombano nella mia mente.
Quando tutto è crollato… gli invasori sono entrati nella
nostra capitale, ormai non avevamo più scampo. Un esercito centro volte
superiore alle nostre misere forze, ben armato e perfettamente equipaggiato;
io, umile e novello deputato, sono stato costretto a tornare ad indossare
troppo presto gli abiti del militare.
Ce l’aspettavamo un po’, vero? Sapevamo che il pontefice non
se ne sarebbe rimasto immobile, a osservare i suoi beni perduti. Non ci aspettavamo
però che i nostri fratelli, i nostri vicini di casa, accorressero tanto in
fretta a porre fine al nostro sogno.
Perché il nostro non era altro che una fragile realizzazione
di un desiderio… noi tutti, presenti a Roma in quei fatidici giorni, sapevano
di avere le ore contate; tuttavia, avevamo la certezza di aver innescato un
processo impossibile da fermare. Avevamo reso realtà qualcosa che fino a quel momento
era sembrato impensabile. Avevamo dato uno schiaffo ai vecchi regimi,
spodestando addirittura un Santo Padre.
Noi eravamo la speranza, il fuoco che avrebbe continuato a
divampare nel cuore del popolo italiano anche quando sarebbe stato tutto
finito.
Ma la Repubblica è stata smantellata in pochissimo tempo… per
carità, non posso tornare proprio adesso a rimembrare la nostra fuga vigliacca.
Siamo scappati quando era tutto perduto e la guerra era assolutamente persa;
non potevamo perdere anche le nostre vite per qualcosa che ormai era stato
spazzato via senza pietà.
Ci siamo sparpagliati di nuovo, non ho idea di dove siano
andati a finire i miei più illustri compagni repubblicani, coloro che hanno
condiviso le mie idee e che per un breve periodo sono stati i miei colleghi.
Io so solo che, adesso, la mia ultima destinazione è Venezia.
La nostra, mia adorata. Sarà la nostra casa, sai? Perché quando giungeremo a
Venezia, moriremo.
La città, da quel che si mormora, è già cinta in un assedio
senza speranze e presto cadrà. È l’ultimo baluardo di questa guerra… con lei, si
spegnerà anche quest’ultima ondata di speranza.
Chissà se, nel rivederci ancora vivi, i veneziani non
troveranno la forza per un’ultima ed estrema difesa; ormai anche loro avranno
appreso che la guerra è perduta e che tutte le città in rivolta sono cadute,
l’una dopo l’altra.
Sono sicuramente consapevoli di essere rimasti i soli contro
un mondo intero avverso, mentre tutti gli eserciti stranieri stanno convogliando
a marce forzate verso la loro splendida città lagunare, come se non bastassero
le forze già presenti nelle vicinanze. Sono spacciati.
Ma saranno in grado di resistere ancora un poco, quel tanto
che basta affinché anche noi possiamo raggiungerli nella loro disgrazia?
Ricongiungerci con loro, i buoni rivoluzionari, e non vedere l’alba di un nuovo
giorno?
La nostra più grande consapevolezza, che mette in pace i
nostri cuori, è che il nostro sangue versato sarà concime per nuove
rivoluzioni.
Questo è solo l’inizio, amore…
Il tempo passa, e Venezia è sempre più lontana.
Ho il nodo in gola, faccio fatica a deglutire.
Non dovrei neppure permettermi una sosta così lunga, poiché
ogni istante perduto potrebbe essere quello decisivo. E se i croati dovessero
scoprirci e arrestarci qui, in trappola come topi? Che figuraccia.
Dai, Ana, fai uno sforzo per me.
Ancora dormi…
Oddio, mio Signore, fai qualcosa per la mia amata! Possibile
che Tu non veda quanto soffre?
Allora dormi, piccola mia.
Appoggio una mano sul tuo ventre prominente, pieno di vita.
Con un bambino in grembo hai combattuto tra le rovine di una Roma caduta.
Sempre con esso, hai attraversato la penisola per giungere fin qui, e hai
affrontato le onde di un mare in tempesta e una nutrita flotta nemica.
Ora che sei al sicuro tra i canneti, e si sente solo il
rumore del vento che frusta con rabbia l’intrico di canne che li compongono,
non puoi lasciarti andare. Non si sente più il boato dell’artiglieria, sai? Non
c’è più nulla. Il bimbo vuole forse nascere? Sta avvertendo la febbre malarica
anche lui?
Mi volgo all’improvviso verso la luce fioca prodotta dal
fuocherello dell’uomo che ci ha accolto, ma egli non c’è più. Poco distante,
alcune sagome che il buio rende confuse sono rannicchiate l’una contro l’altra;
il buon signore e la sua famiglia riposano un sonno lieve.
Non posso parlare, non devo fare alcun rumore… non posso
svegliare né te, né loro. E allora continuo a pensare, essendo l’unica cosa che
questa sosta mi permette di fare.
Torno a pregare un Dio che ho sempre odiato; Colui che ci ha
fatto nascere con le catene, Colui che vuole impedire al suo popolo di trovare
la libertà.
Dio pare non volere l’Italia unita, ma gli italiani sono
pronti a sfidarlo. Ho visto le loro barricate, come si nascondevano dietro di
esse quando i nemici sparavano all’impazzata. Ho avvertito le loro grida di
dolore, che si sono innalzate nel cielo… esse parlavano italiano, non più i
dialetti locali. Parole biascicate, confuse, molto lontane dall’essere comprese
da chi veniva da altre parti della penisola, però erano italiane, erano
patriottiche.
Erano, e sono tutt’ora, imbevute nel desiderio di creare una
patria unita.
Dio, tramite la Santa Alleanza, chiede la Restaurazione dei
vecchi regimi; gli italici chiedono la fine di essi. Si può essere più blasfemi
di un italiano, allora, mi viene da chiedermi?
Io stesso prego Dio per te, Ana, ma solo per te. Sai che io
non credo più. Ma se anche i nostri fratelli, rei solo di chiedere la libertà,
vengono massacrati e muoiono tra atroci sofferenze, almeno tu devi essere
salvata. Sei una giovane ragazza incinta, per carità, con ancora tutta la vita
davanti.
Mazzini ha sempre ripetuto che la sovranità è per diritto
eterno nel popolo. Allora, perché noi soffriamo?
Perché noi due, Ana, adesso che il tempo scorre e la notte
vuol terminare, inesorabile, siamo qui a soffrire? Se la sovranità fosse
riposta nel popolo, noi due saremmo state solo due persone comuni, vivendo una
vita identica a quella di tutti gli altri.
Invece il popolo è represso ed esiste ancora la schiavitù;
essa viene perpetrata in miriadi di modi differenti. C’è chi mette le catene di
ferro, e chi le catene invece le crea con le vecchie carte e i diritti fasulli.
In Brasile, le catene di ferro sono ancora molto utilizzate.
In Italia, i vecchi privilegi impressi su pergamene ingiallite sono
l’anacronismo che genera il giogo schiavista.
Il popolo è schiavo anche qui, come lo è in Francia; Ana, non
è ironia della sorte che una nazione come quella francese, dove è scoppiata la
Rivoluzione che ha condizionato le sorti dell’umanità, ora spedisca miriadi di
soldati a reprimere la nostra? Questo è un fiume in piena, possibile che non
capiscano?
Venezia potrà anche cadere. Sì, cadrà. Ma la voglia di
libertà sarà eterna.
La nostra Bastiglia sarà la Roma di nuovo in mano agli
ecclesiastici che stanno plagiando i potenti di tutto il mondo. L’abbiamo visto
assieme, mia fedele compagna, come questo popolo voglia la libertà.
Abbiamo camminato per settimane, al fine di giungere fin qui,
attraversando mezza Italia, ma la gente che abbiamo incontrato lungo il nostro
cammino non ci ha mai denunciato ai gendarmi stranieri.
L’Italia in mano ai pontifici è solo un mucchio di rovine
senza futuro, dove esistono solo asini e uomini ridotti a morire di fame.
Questi stessi uomini ci hanno visto a loro volta, riconoscendoci per strada; ci
hanno osservato con attenzione, ci hanno giudicato all’interno delle loro
semplici menti. Poi, c’è stato chi ci ha dato un pizzico di pane, o chi proprio
si è voltato dall’altra parte e ha finto di non averci mai visto o incontrato
in vita sua, però nessuno ha chiamato le guardie che ci cercano con tanta
alacrità.
Insomma, siamo intoccabili, così come l’ideale di rivoluzione
e di libertà.
Ana, mai come durante questa sosta mi sono sentito invincibile;
sono stanco e a pezzi, seduto sul bordo del tuo giaciglio, ma non posso non
pensare che un giorno avremo qualcosa tra le mani.
Lo avremo, capisci? Perché ci sarai anche tu. Sì, domattina
ti risveglierai col sorriso sulle labbra, poiché dopo un riposo importante e
agevole come questo non potrebbe essere altrimenti.
Ormai è l’alba ed io ancora non dormo.
Ti osservo nel buio, amore mio. Il tuo è un sonno leggiadro e
calmo, non ti sei mossa né i tuoi lineamenti sono cambiati. Sembri di pietra.
I miei occhi ormai abituati al buio sfiorano sempre il tuo
viso, poiché il mio sguardo penetrante, abituato alle fughe notturne e
all’individuare i nemici, sempre pronti ad arrestarci o a farci del male, è
tutto tuo. Solamente tuo.
A Laguna io te lo dissi, te lo promisi subito che ti avrei
amato in eterno. Pare incredibile che la nostra fine sarà proprio in una
laguna, come se questo fosse un miserissimo e squallido gioco di parole.
Tutto inizia e tutto si chiude, la vita è un macabro e
ripetitivo cerchio.
Adesso però vorrei proprio parlarti; la notte insonne mi ha
sfiancato. Ho bisogno di sentire la tua voce per riuscire a stare meglio.
Tuttavia, mi rendo conto che non ho il coraggio di strapparti da questo
meritato riposo.
Riprendo improvvisamente coscienza quando gli abitanti della
misera dimora cominciano a rassettare il loro povero giaciglio.
Oddio! Mi rendo conto che mi sono addormentato senza
accorgermene… sono rimasto vittima del mulinare di pensieri che a suo modo mi
ha reso schiavo e succube.
Mi risveglio ancora con le grida di libertà che risuonano
nella mia mente, devo aver sognato alcuni dei momenti che ho rimembrato mentre
ti vegliavo. Ah, la libertà che presto investirà tutti i popoli d’Europa…
Appoggio improvvisamente una mano sul tuo ventre; sei ancora
viva, e con te anche il piccolo. Non c’è più tempo, però, perché il nuovo
giorno è arrivato non possiamo più stare fermi qui.
Ancora una volta, vorrei svegliarti ma non ci riesco. Non ne
ho proprio il coraggio!
Come sei pallida, amore mio!
Venezia ci attende; quello è il posto che chiameremo casa. Il
bambino possiamo ancora salvarlo, quando tra qualche giorno verrà al mondo
potrai lasciarlo a qualcuno di fiducia… qualcuno incontreremo, in grado di
aiutarci.
Finora ci hanno aiutato, non abbiamo mai patito
eccessivamente. Il popolo d’Italia è con noi, è il nostro spirito e la nostra
forza.
“Avanti, Ana”, mormoro, pianissimo e a denti stretti.
Un’invocazione.
Ricorda sempre che tu ora sei Anita Garibaldi, la donna che
ha con sé una rivoltella e che non si fa problemi a usarla, per il bene dei
suoi ideali e della sua famiglia. Una malattia non può piegarti in questo
ingiusto modo.
Quest’alba alla fine è sorta su di noi.
Ho in bocca il sapore dello scarso riposo, avverto il mio
fiato pesante e le palpebre che hanno tanta voglia di abbassarsi. Tutt’attorno,
la luminosità si spande e ci avvolge, grazie alla sua sinuosa lucentezza che
illumina ogni cosa, abbracciandola e rendendone vividi i particolari.
Tu dormi ancora, amore mio, e sembri molto stanca. La lunga
sosta non ha ancora giovato alla tua sofferenza.
Il sole del primo mattino è rossastro, non ancora di quel
giallo grano che indica la sua maturità, nel mezzogiorno. È un sole stanco, provato proprio come noi;
stufo di percorrere tutti i giorni questo futile cielo… senza mai fermarsi. Ma
questa è la sua missione, e lui lo sa.
Noi saremo come il sole, ogni mattina risorgeremo dalle
nostre ceneri e combatteremo, perché sappiamo che questo è il nostro scopo
nella vita.
Solo ieri, quando ancora a tratti eri lucida e riuscivi a
parlare, mi hai donato quello che per me è stato come un tuo testamento.
Ricordo le tue parole, a una a una.
“Promettimi che porterai a termine questa guerra. Promettimi che
riuscirai a rendere libero questo popolo…”, poi hai sospirato, riprendendo
fiato, “…che lo libererai dai vecchi regimi. Fai sorgere un Regno, una
Repubblica… qualunque cosa, purché la penisola sia unita. Senti i suoi figli
come soffrono, bisognosi di giustizia? Dona loro unità e una nuova Storia… solo
tu puoi farlo…”.
Ti sei interrotta così, dovevi arrancare a mio fianco e
l’aria che respiravi ti serviva tutta.
Io non ho risposto sul momento, non ho badato alle tue parole
perché credevo che il giorno in cui ci sarà la vittoria decisiva tu saresti
stata a mio fianco. Ora non lo so più.
Allora adesso ti prometto, al tuo capezzale, che dopo tutte
le sconfitte e le umiliazioni che abbiamo subìto riusciremo a raggiungere la
vittoria. Ti prometto che, se anche questa guerra è finita e la rivolta è stata
soppressa, io continuerò a credere in ciò che mi ha condotto fin qui.
La luce del nuovo giorno ha portato tanta amarezza dentro di
me, non so più se vivrai.
Il tuo cuore batte ancora, ma all’interno di un corpo
pallido, magro, provato. Già morto.
Di nuovo mi viene da piangere… ma io ti giuro, te lo giuro
con vigore, che sacrificherò me stesso per la causa di un’Italia Unita. Lo farò
anche per te, comunque vada a finire.
Pensiamo solo a Venezia, adesso, va bene? Sono convinto che
anche tu la stai sognando, anche se non l’hai mai vista di persona. Ora che il
nuovo giorno è arrivato, la nostra sosta sta per concludersi e sta per iniziare
di nuovo la nostra eterna lotta.
Non mi lasciare solo, ti prego.
NOTA DELL’AUTORE
Brivido. È stato da brividi mettersi nei panni dell’Eroe del nostro
Risorgimento.
Il tema del contest era la sosta verso casa; Garibaldi in
quei giorni vedeva Venezia come se fosse la sua casa, la sua meta finale dopo
il lunghissimo e pericoloso peregrinare che l’aveva portato da Roma fin nel
Nord Italia.
La sua donna, Anita, l’aveva seguito ed era malata.
Anita Garibaldi morirà lì, in quella fragile struttura di
umili frasche, la mattina di sabato 4 agosto 1849, all’età di soli ventisette
anni. Con lei muore una delle tantissime donne che hanno contribuito attivamente,
e con coraggio, alla lotta per l’Unità.
La richiesta del giudice era di curare il tema centrale del
racconto, che doveva essere la sosta, come già detto. Io ho creato questa sosta
fatta di riflessioni pure e sconcertanti, poiché ho creduto che di notte, con
così tanta stanchezza sulle spalle e la paura di perdere per sempre la persona
amata, non si potesse fare molto altro. Anche le ripetizioni che ogni tanto
appaiono nel testo solo volute, per trasmettere proprio questo senso di
claustrofobico sgomento.
Comunque, Garibaldi non arriverà mai a Venezia, poiché la
città capitolerà prima. Ma questo sarà solo un nuovo inizio, in fondo.
Grazie a tutti per essere giunti fin qui ^^