Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: sophie97    04/11/2018    2 recensioni
“Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (Il danno, 1992)
14 Novembre, Colonia, un giorno grigio come tanti.
Una storia che comincia come una storia qualsiasi, con un istante di vita. Rapporti incrinati, il riemergere di un passato che fa paura, una serie di piccoli, fatali errori compiuti uno dopo l’altro, fino alla rovina. Fino a quando non si smette di vivere, per iniziare a sopravvivere.
Storia che nulla ha a che fare con la mia serie ancora in corso; storia triste e drammatica, ne sono consapevole. Ma mi piacerebbe ugualmente condividerla con voi.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andrea Schafer, Ben Jager, Nuovo personaggio, Semir Gerkan, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dal capitolo pecedente:

"«Avevamo detto niente giri di parole.».
Il chirurgo annuì, con un altro sospiro.
«Sono rimasto in sala a seguire l’intervento. È andato in arresto due volte, Ben. Franz l’ha ripreso, ma non ho idea di come sarà il decorso post-operatorio. Normalmente il giorno dopo i pazienti tornano a casa se hanno subìto un intervento del genere, ma il dottor Franz teme che Semir possa non svegliarsi.»."


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GIORNO 23.

Ben uscì dall’ospedale correndo.
Saltò in sella alla propria moto, allacciò la cerniera della giacca  e si strinse nelle spalle, provando a non pensare al freddo di dicembre che gli penetrava nelle ossa e che lungo il tragitto si sarebbe rivelato ancora più pungente.
Partì, con un sospiro.

Parcheggiò a pochi minuti dal centro, si tolse il casco e lo ripose nel portaoggetti con un gesto meccanico.
Quindi, iniziò a camminare.
Non sapeva esattamente dove si sarebbe diretto, ma non importava: aveva bisogno di distrarsi, di vedere un pezzo di mondo che non fosse l’ospedale o il commissariato.
In realtà in ospedale c’era stato poco, quel giorno.
Semir non si era svegliato, il dottor Schneider non gli aveva dato ulteriori spiegazioni e rimanere a ciondolare ancora per quei corridoi gli era parso inutile.

Per le strade di Colonia, in quel tardo pomeriggio, lasciò che fosse la folla a trasportarlo, folla che sembrava ancora più grigia di quella giornata invernale.
Giunse di fronte al duomo in meno tempo di quanto si aspettasse, quindi lo aggirò sulla sinistra, senza degnare di uno sguardo la sua imponenza, e si avviò verso il ponte.
Sopra di esso la folla era più rada, ma sapeva che di lì a poco i turisti sarebbero accorsi a riempire tutto lo spazio pedonale, come sempre, per scattare una foto del panorama al tramonto.
Lo stava attraversando a passo svelto ma, giunto al centro della struttura, esitò un attimo.
Quell’esile profilo di ferro costruito su una sbarra sottile, posta oltre la balaustra del ponte, lo aveva sempre incuriosito: era una scultura grigia, insignificante, a molti sconosciuta perché non in grado di attirare più di tanto l’attenzione. Ritraeva il profilo mal fatto di un uomo, un alieno o qualsiasi essere che potesse essere rappresentato con due braccia, due mani, una cassa toracica, retto su una gamba sola a fuggire il vuoto. Il protagonista della scultura era un individuo assolutamente anonimo, un filo di ferro che sostava in bilico su quella sbarra grigia, incurvato alla ricerca di un equilibrio che gli mancava sotto i piedi, irrigidito dallo sforzo, concentrato nel tentare di non cadere giù, nel fiume.
Ben sospirò, appoggiandosi con i gomiti alla ringhiera, osservando quell’umanoide e sentendosi tanto come lui, alla ricerca di un equilibrio che pareva essersi spezzato.
La mattina stessa aveva parlato con Aida, che gli era scoppiata a piangere tra le braccia.
Quando lui le aveva chiesto che cosa fosse successo, dopo aver fatto sì che i suoi singhiozzi si calmassero, la bambina aveva risposto di avere solo un po’ di mal di testa, e all’ispettore questa risposta aveva fatto una tenerezza infinita.
La verità era che da una settimana la sua vita era stata totalmente sconvolta. Che le mancava Lily. Che le mancavano papà e mamma. Che non capiva.
Eppure diceva di avere mal di testa e, Ben ne era sicuro, lo faceva per evitare di farlo preoccupare, perché sapeva quanto anche lui stesse male.
Scosse il capo, provando a pensare a come sarebbe stata la vita di Aida se Andrea e Semir non si fossero più svegliati. Ma cacciò via quel pensiero prima ancora di poter ragionarvi su, perché non poteva accettarlo. Non poteva finire così.
Pensò alla piccola Lily. Alla paura che doveva aver avuto durante la prigionia, alla paura che doveva aver avuto sotto quei massi. Sperò che non avesse provato dolore.
Ben strinse gli occhi, continuando a fissare l’acqua scura sotto di sé, tentando di fermare le lacrime.
Se anche Semir si fosse svegliato, quella notizia lo avrebbe distrutto.
E se non si fosse svegliato, la colpa sarebbe stata sua, perché lo aveva fatto agitare. Lo aveva fatto agitare, aveva dovuto subire un’altra operazione per colpa sua. Aveva quasi ucciso il suo migliore amico.
La testa cominciò a girargli, senza sapere più come contenere e organizzare quei miliardi di pensieri.
Avrebbe voluto premere un tasto, tornare indietro, risolvere tutto. Trovare Semir prima e sbattere Keller in galera. Ma non poteva.

 

Un raggio di sole gli baciò il viso all’improvviso, filtrando attraverso una nuvola scura.
L’Hohenzollernbrücke era decisamente più affollato, adesso.
Ben si passò una mano sugli occhi, si allontanò dalla balaustra e tornò sui suoi passi, di nuovo verso il duomo.
Alla sua sinistra un treno sfrecciò silenzioso verso la stazione centrale, riportandolo alla realtà.
La facciata laterale del duomo adesso aveva una strana sfumatura dorata che lo rendeva ancora più maestoso ai suoi occhi.
Sorrise, notando una ragazza che inquadrava proprio quella parte della chiesa con la propria macchina fotografica, senza escludere dalla foto l’acero dalle sfumature rossastre che sorgeva sulla parte iniziale del ponte.
Fermandosi nuovamente, si voltò, lanciando un’occhiata al panorama che sorgeva sull’altra sponda del Reno, al parco, alla torre della televisione e al Köln Triangle.

Poi proseguì per la propria strada. Finì di attraversare il ponte a passo svelto, aggirò la chiesa fino a raggiungerne il portone principale e, spinto da chissà quale volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e incredibilmente spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si curò di trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò.

 

 

N.d.A.
Capitolo che ai fini della trama serve poco, piccolo stacco, a cui tengo perché è stato inserito in seguito, a storia già terminata... perché quasi esattamente un anno fa ho trascorso due giorni a Colonia, ho camminato su quel ponte, sono entrata nel duomo, ho assistito a quel tramonto, ho visto quell’esile scultura di ferro in bilico sul Reno e ho scattato questa foto, e non avrei mai potuto non inserire tutto ciò in qualche modo nella mia storia.
A presto!
Sophie

  
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