Dal capitolo pecedente:
"«Avevamo detto niente
giri di parole.».
Il chirurgo
annuì, con un altro sospiro.
«Sono rimasto
in sala a seguire l’intervento. È andato in
arresto due volte,
Ben. Franz l’ha ripreso, ma non ho idea di come
sarà il decorso
post-operatorio. Normalmente il giorno dopo i pazienti tornano a casa
se hanno
subìto un intervento del genere, ma il dottor Franz teme che
Semir possa non svegliarsi.»."
GIORNO 23.
Ben
uscì dall’ospedale correndo.
Saltò in sella alla propria moto, allacciò la
cerniera della giacca e
si strinse nelle spalle, provando a non
pensare al freddo di dicembre che gli penetrava nelle ossa e che lungo
il
tragitto si sarebbe rivelato ancora più pungente.
Partì, con un sospiro.
Parcheggiò
a pochi minuti dal centro, si tolse il casco e lo ripose nel
portaoggetti con
un gesto meccanico.
Quindi, iniziò a camminare.
Non sapeva esattamente dove si sarebbe diretto, ma non importava: aveva
bisogno
di distrarsi, di vedere un pezzo di mondo che non fosse
l’ospedale o il
commissariato.
In realtà in ospedale c’era stato poco, quel
giorno.
Semir non si era svegliato, il dottor Schneider non gli aveva dato
ulteriori
spiegazioni e rimanere a ciondolare ancora per quei corridoi gli era
parso
inutile.
Per
le strade di Colonia, in quel tardo pomeriggio, lasciò che
fosse la folla a
trasportarlo, folla che sembrava ancora più grigia di quella
giornata invernale.
Giunse di fronte al duomo in meno tempo di quanto si aspettasse, quindi
lo
aggirò sulla sinistra, senza degnare di uno sguardo la sua
imponenza, e si
avviò verso il ponte.
Sopra di esso la folla era più rada, ma sapeva che di
lì a poco i turisti
sarebbero accorsi a riempire tutto lo spazio pedonale, come sempre, per
scattare una foto del panorama al tramonto.
Lo stava attraversando a passo svelto ma, giunto al centro della
struttura, esitò
un attimo.
Quell’esile profilo di ferro costruito su una sbarra sottile,
posta oltre la
balaustra del ponte, lo aveva sempre incuriosito: era una scultura
grigia,
insignificante, a molti sconosciuta perché non in grado di
attirare più di
tanto l’attenzione. Ritraeva il profilo mal fatto di un uomo,
un alieno o
qualsiasi essere che potesse essere rappresentato con due braccia, due
mani,
una cassa toracica, retto su una gamba sola a fuggire il vuoto. Il
protagonista
della scultura era un individuo assolutamente anonimo, un filo di ferro
che
sostava in bilico su quella sbarra grigia, incurvato alla ricerca di un
equilibrio che gli mancava sotto i piedi, irrigidito dallo sforzo,
concentrato
nel tentare di non cadere giù, nel fiume.
Ben sospirò, appoggiandosi con i gomiti alla ringhiera,
osservando
quell’umanoide e sentendosi tanto come lui, alla ricerca di
un equilibrio che
pareva essersi spezzato.
La mattina stessa aveva parlato con Aida, che gli era scoppiata a
piangere tra
le braccia.
Quando lui le aveva chiesto che cosa fosse successo, dopo aver fatto
sì che i
suoi singhiozzi si calmassero, la bambina aveva risposto di avere solo
un po’
di mal di testa, e all’ispettore questa risposta aveva fatto
una tenerezza
infinita.
La verità era che da una settimana la sua vita era stata
totalmente sconvolta.
Che le mancava Lily. Che le mancavano papà e mamma. Che non
capiva.
Eppure diceva di avere mal di testa e, Ben ne era sicuro, lo faceva per
evitare
di farlo preoccupare, perché sapeva quanto anche lui stesse
male.
Scosse il capo, provando a pensare a come sarebbe stata la vita di Aida
se
Andrea e Semir non si fossero più svegliati. Ma
cacciò via quel pensiero prima
ancora di poter ragionarvi su, perché non poteva accettarlo.
Non poteva
finire così.
Pensò alla piccola Lily. Alla paura che doveva aver avuto
durante la prigionia,
alla paura che doveva aver avuto sotto quei massi. Sperò che
non avesse provato
dolore.
Ben strinse gli occhi, continuando a fissare l’acqua scura
sotto di sé, tentando
di fermare le lacrime.
Se anche Semir si fosse svegliato, quella notizia lo avrebbe distrutto.
E se non si fosse svegliato, la colpa sarebbe stata sua,
perché lo aveva fatto
agitare. Lo aveva fatto agitare, aveva dovuto subire un’altra
operazione per
colpa sua. Aveva quasi ucciso il suo migliore amico.
La testa cominciò a girargli, senza sapere più
come contenere e organizzare
quei miliardi di pensieri.
Avrebbe voluto premere un tasto, tornare indietro, risolvere tutto.
Trovare
Semir prima e sbattere Keller in galera. Ma non poteva.
Un
raggio di sole gli baciò il viso all’improvviso,
filtrando attraverso una
nuvola scura.
L’Hohenzollernbrücke era decisamente più
affollato, adesso.
Ben si passò una mano sugli occhi, si allontanò
dalla balaustra e tornò sui
suoi passi, di nuovo verso il duomo.
Alla sua sinistra un treno sfrecciò silenzioso verso la
stazione centrale,
riportandolo alla realtà.
La facciata laterale del duomo adesso aveva una strana sfumatura dorata
che lo
rendeva ancora più maestoso ai suoi occhi.
Sorrise, notando una ragazza che inquadrava proprio quella parte della
chiesa
con la propria macchina fotografica, senza escludere dalla foto
l’acero dalle
sfumature rossastre che sorgeva sulla parte iniziale del ponte.
Fermandosi nuovamente, si voltò, lanciando
un’occhiata al panorama che sorgeva
sull’altra sponda del Reno, al parco, alla torre della
televisione e al Köln
Triangle.
Poi
proseguì per la propria strada. Finì di
attraversare il ponte a passo svelto,
aggirò la chiesa fino a raggiungerne il portone principale
e, spinto da chissà
quale volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e
incredibilmente
spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si
curò di
trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò.
N.d.A.
Capitolo
che ai fini della trama serve poco, piccolo stacco, a cui
tengo perché
è stato inserito in seguito, a storia già
terminata... perché quasi esattamente
un anno fa ho trascorso due giorni a Colonia, ho camminato su quel
ponte, sono
entrata nel duomo, ho assistito a quel tramonto, ho visto
quell’esile scultura
di ferro in bilico sul Reno e ho scattato questa foto, e non avrei mai
potuto non inserire tutto
ciò in
qualche modo nella mia storia.
A
presto!
Sophie