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Autore: Tenar80    04/11/2018    3 recensioni
Di Victor, che deve fare i conti con la realtà
Di Yuuri, che deve fare i conti con Victor
Di Otabek, che deve fare i conti con i propri desideri
Di Yuri, che pretende che tutti che facciano i conti con lui.
Di quello che accade dopo l'ultima immagine della serie, della difficoltà di ancorare le fiabe alla realtà. Una realtà che abbonda di elementi disturbanti quali omofobia, doping, accenni a molestie e ad abuso d'alcool, ma in cui c'è ancora spazio per la tenerezza.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Mentre pregustava l’arrivo di Yuuri, nei giorni precedenti, Victor aveva immaginato che il ragazzo avrebbe adorato le passeggiate serali con Makkachin. Avrebbe riso vedendogli infilare i guanti e quella sorta di cappottino con tanto di strisce rifrangenti ai lati. E avrebbe riso ancora di più nella sera gelida, vedendo quelle strisce di luce apparire a intermittenza, a seconda di come riflettevano i lampioni, mentre i cane correva lungo il sentiero pedonale a lato del canale. Invece, c’era quel silenzio più pesante del buio.

    Dopo aver insistito perché concedessero al cane la passeggiata promessa, Yuuri si era preparato con movimenti meccanici, lo sguardo ancora perso in quel locale, la notte dell’anno prima. Victor lo aveva spiato come un imputato in attesa della sentenza, senza sapere se avesse diritto oppure no a un’ultima arringa difensiva. Senza sapere se volesse avere diritto a una difesa. Senza il coraggio di chiedersi cosa ne sarebbe stato di lui se Yuuri se ne fosse andato. Senza il coraggio di indagare cosa avrebbe fatto lui, a parti invertite.

    Non aveva detto nulla, se non per indicare la strada per il parco lungo il canale, in attesa, con tutti i muscoli tesi, come quando si è nella posizione di partenza e si aspetta che la musica cominci. Senza conoscere, però, la coreografia. Senza voler avere una coreografia già pronta per manipolarlo.

    – Volevi portatelo a letto – disse infine Yuuri, guardando non lui, ma il proprio fiato che si condensava.

    Tra cuffia e sciarpa spuntavano solo gli occhiali. Impossibile leggerne l’espressione. Victor, al contrario, voleva sentire tutto il gelo di quel pomeriggio che era quasi notte sul viso. Voleva essere del tutto trasparente, anche se non aveva idea di cosa l’altro avrebbe visto in lui.

    – Non ci saremmo arrivati a un letto. L’auto sarebbe stata più che sufficiente. Lo era quasi sempre, in quel periodo.

    Yuuri annuì.

    – Perché lo hai lasciato andare?

    Era preparato a domande che facessero male. Dovette comunque fermarsi a prendere un respiro. Rivide gli occhi smarriti di quel ragazzo di cui aveva dimenticato il nome. Gonfi di lacrime e di panico nel momento in cui aveva smesso di lottare. A quel punto, se glielo avesse chiesto, avrebbe risposto «sì». Avrebbe risposto «sì» ad ogni cosa. Aveva forse dieci anni meno di lui, quindici centimetri in meno, una muscolatura ancora da adolescente. Si arriva a dire «sì» a qualsiasi cosa, quando ci si rende conto di non potersi opporre. «Sì» che hanno un sapore tutto particolare, che lui conosceva.

    – Gli stavo facendo male. Me ne sono accorto. Io più di chiunque altro… – si bloccò.

    Non avrebbe aggiunto nulla che avrebbe potuto portare Yuuri ad avere pietà di lui. Non era meschino fino a quel punto. Non ancora.

    – C’è stato qualcuno o qualcuna con cui non ti sei fermato, in quel periodo, anche a costo di fargli del male?

    Victor sibilò.

    Aveva passato mesi pensando che avrebbe potuto mandare in pezzi Yuuri con una frase. Com’è che adesso la sua voce aveva la durezza del granito ed era lui che poteva infrangersi contro le sue parole?

    – No – disse, con tutta la sicurezza che seppe trovare. – Non sono un violentatore. 

    Erano arrivati sotto un lampione. Yuuri si fermò, gli afferrò i polsi con le mani inguantate e cercò i suoi occhi.

    – Lo so. Sei tu che sembri pensare al contrario.

    L’aria sfuggì di nuovo tra i denti di Victor come un sibilo. Sbatté le palpebre. Cercava la rabbia, in Yuuri, l’accusa. Non c’erano. Non sapeva dire cosa ci fosse, ma non quello che si era aspettato di trovare.

    – Lo hai visto…

    – L’ho visto – disse il giapponese. – Eravate ubriachi fradici. Volevate baciarvi. Poi lui è andato in panico, ti ha detto di no e quando lo hai capito lo hai lasciato andare.

    Victor scosse il capo.

    Non era andata così.

    – Si chiama molestia, quella cosa che hai visto. Se mi avesse denunciato, nessun tribunale mi avrebbe assolto.

    – Non in Russia, di sicuro – commentò Yuuri. – Quello che ho visto si chiama esagerare. E fermarsi appena in tempo. Cos’è successo dopo?

    Yuuri continuava a cercare il suo sguardo e Victor a fuggirlo.

    – Sono salito sull’auto. E mi sono schiantato contro un albero fuori città. Non è rimasto molto della macchina. Un colpo di sonno.

    Fuori città. Dalla parte opposta rispetto al suo appartamento. Un rettilineo con i prati congelati ai lati e un unico albero. Quando lo avevano soccorso e estratto dal veicolo, con la spalla che sanguinava per una scheggia di vetro, aveva ammesso di aver bevuto. Non avevano trovato tracce di frenata. Era stato sfortunato a uscire di strada proprio lì, avevano detto, cinque metri in più o in meno e avrebbe salvato l’auto. Che invece, aveva dato un senso a tutto il denaro che era costata, salvando lui. Non aveva fatto male a nessuno, non c’erano autovelox, non gli avevano neppure ritirato la patente. Era domenica. Lunedì mattina era andato regolarmente a fare allenamento. Nessuno gli aveva chiesto niente.

    – Un colpo di sonno – ripeté Yuuri. – Come sei arrivato a ridurti così?

    E Victor lo ringraziò dal più profondo del suo cuore di non obbligarlo a dire ad alta voce che i suoi occhi non si erano mai chiusi.

    – Un giorno capirai davvero cos’è un’olimpiade… Può essere l’esperienza più bella di una vita. Oppure un incubo. Sopratutto se è un’olimpiade in patria, in cui vai da favorito… Dopo, vincere diventa una sorta di dovere e, allo stesso tempo, l’unica cosa che ti definisce. L’unica cosa che sei.

    Avevano ripreso a camminare. Con una sorta di timidezza, Yuuri aveva preso la sua mano. Come se lo sapesse quant’era difficile, per lui, parlare davvero di se stesso. Com’era difficile distruggere l’immagine di sé che in quei mesi aveva costruito. Giorno dopo giorno, Yuuri aveva continuato a vedere l’uomo che voleva vedere. Bello, competente, in grado di essere d’aiuto. Giorno dopo giorno, era stato bellissimo fingere di esserlo, rimandando sempre il momento dello svelamento. Alzò gli occhi al cielo, ma era coperto e la luce dei lampioni si perdeva in un buio indefinito.

    – È difficile da spiegare… Come qualcosa possa spezzarsi quando tutto da fuori sembra perfetto… – provò. – Cose sciocche. Dopo il mondiale del 2014 invece che diminuire i miei impegni erano triplicati. Ero diventato un simbolo e come tale andavo esibito. C’erano i galà, le tournée. Sono arrivato a ridosso dell’inizio della stagione più stanco di quanto non fossi a marzo. E iniziavo a sentirmi solo. E patetico. Perché avevo tutto quello che gli atleti vogliono e sognano per una vita e questo non mi dava il diritto di non esserne felice… Per tutta la vita il momento in cui mi legavo i pattini, prima di scendere in pista, è sempre stato quello più bello di una giornata e invece mi sentivo male al solo pensiero. Ho fatto una marea di esami, ma non c’era niente, se non che non ero più un ragazzino.

    – Stavi come me nell’ultimo periodo a Detroit. Solo che io stavo male perché perdevo e tu perché vincevi.

    – Sì… E come te a Detroit, mi sentivo solo. La persona che mi faceva meno schifo, in pista, era un ragazzino di quattordici anni. Quando inizi a far parlare Yurio di videogiochi solo per far finta di avere una conversazione sei messo piuttosto male, suppongo.

    Riuscì a indovinare il sogghigno di Yuuri sotto la sciarpa.

    – Chi ti aveva lasciato? – chiese però il giapponese.

    – Nessuno. Non avevo nessuno da cui essere lasciato.

    Il fatto che Chris avesse deciso di mettere la testa a posto e che sembrasse così dannatamente soddisfatto nel rimanere fedele a quella noia ambulante di nome Max non aveva nulla a che fare con quanto era successo. Vero?

    – Quando è arrivata Ludmilla?

    – Verso agosto, credo. Lei mi piaceva o forse volevo che mi piacesse. Ha vinto più di me e sembrava perfettamente a suo agio nella follia mediatica che ci circondava. Era simpatica. Sembrava che ne valesse la pena, di provarci.

    Era difficile ricordare come gli fosse sembrata Ludmilla, allora. Bella. Non il tipo di bellezza che potesse stregarlo, ma una bellezza gradevole. Gli piaceva il modo in cui rideva e in cui ballava. L’idea che non fosse una pattinatrice, ma che capisse la sua vita e che lui potesse capire la sua. Una persona che potesse stimare. In quel momento gli sembrava la miglior approssimazione possibile dell’amore.

    – Stai tremando – disse.

    – Ho freddo – ammise Yuuri. – Fa un freddo terribile. Non riesco a capire come tu possa sopravvivere senza neppure un cappello. Ci credo che a Barcellona facevi il bagno…

    – È tutto, sempre, una questione di prospettiva. Vengo da un posto più freddo. Vieni, qui vicino c’è un locale in cui accettano i cani.

    – Continua a raccontare, così ignoro l’assideramento.

    – Quando arriveremo al riparo dovrò spogliarti e scaldarti col mio corpo, lo sai vero?

    – Considerando il carattere dei tuoi connazionali, preferisco farmi leccare da Makkachin. Dovrebbe funzionare comunque.

    Risero entrambi.

    – Non ci posso credere. Che non mi stai lasciando – disse, sincero. Poi esitò – Perché non mi stai lasciando, vero?

    – Dipende. Se muoio assiderato ti lascio.

    – Sono trecento metri. Per vivere pattini sul ghiaccio con indosso delle tutine semi trasparenti. Puoi farcela.

    – Torna a Ludmilla. Sono sicuro che prenderti a calci mi aiuterebbe a scaldarmi.

    – Ludmilla… Con lei… Avremmo anche potuto evitare di massacrarci, credo. Ma io ho fatto l’errore di crederci. Di fidarmi. Le ho raccontato come mi sentivo. E lei mi ha presentato la soluzione.

    – E sarebbe?

    – Una cosa banale. Scontata. Qual è la prima cosa che chiunque pensa di un atleta russo?

    – Che sarà imbattibile.

    Victor sorrise, mentre rimetteva il guinzaglio a Makkachin. L’insegna della tavola calda era in vista. Così Yuuri avrebbe scoperto anche quello, che il suo locale preferito era una bettola dalle pareti rosse scrostate gestito da una vecchia siberiana.

    – Escludi il pattinaggio.

    – Esistono altri sport?

    – Doping. La sua soluzione era il doping.

    Yuuri rimase senza parole e Victor ne approfittò per farlo entrare nel locale e togliergli i guanti. In effetti aveva le mani gelide al punto che non riusciva a muoverle. Ordinò del the in russo.

    – I piedi come vanno? – chiese.

    – Ludmilla fa uso di doping?

    – Come quasi chiunque altro, qui – fece una smorfia amara. – Sono io che vivo in una bolla. Lei è rimasta sbalordita che io non ci avessi neppure pensato e a me si è aperto un mondo.

    Con la coda dell’occhio controllò che Eléna fosse già arrivata, in tutto il suo splendore da centodieci chili, a soccorrere Makkachin con i soliti biscotti.

    – E tu? – chiese Yuuri.

    – Il migliore amico di Yakov è morto a trent’anni d’infarto, per le schifezze che aveva preso – rispose, piatto.

    Alla fine era solo questo che l’aveva trattenuto. Non certo l’etica sportiva. O un’etica qualsiasi. Se avesse dato ascolto a Ludmilla e al suo medico di fiducia, un medico federale, per di più, prima o poi Yakov l’avrebbe capito. E questo lo avrebbe ucciso. Gli aveva quasi spezzato il cuore andandosene all’improvviso, lo sapeva. Ma in un certo senso era stato un modo per salvarlo, perché l’alternativa era peggiore. Perché la semplicità con cui Ludmilla parlava di certe pratiche, dei metodi per aggirare i controlli, delle coperture compiacenti a livello federale, era una sirena difficile da ignorare.

    Eléna arrivò a posizionare il the e un vassoio di biscotti, regalando a Victor una pacca sulla spalla e a Yuuri uno sguardo curioso. Erano anni che frequentava quel locale e non ci aveva mai portato nessuno.

    – Hai perso del tutto la stima che avevi per Ludmilla – commentò Yuuri.

    Victor gli mise tra le mani la tazza calda, dato che il giapponese sembrava avere ancora qualche difficoltà con i movimenti fini.

    – Sì. Lei mi ha presentato il suo medico e io ho documentato tutto, per dimostrare, nel caso fosse scoppiato uno scandalo, che ne ero estraneo. Eppure continuavo a frequentarla. A fingere di essere il suo fidanzato. Non credo di essermi mai sentito così meschino. Bere o scopare erano dei modi per non pensare a quanto mi facessi schifo.

    Era quasi semplice, da dire così. Poche frasi concise per descrivere mesi di buio, di lacrime mattutine versate nel tentativo di trovare la forza di alzarsi dal letto, di momenti troppo lunghi, alla sera, sul proprio balcone, a considerare se l’altezza fosse sufficiente a evitare che qualcun altro gli dicesse che era stato fortunato. D’istinto allungò una mano ad accarezzare Makkachin, che in quei momenti si limitava a guardarlo, in attesa che lui rientrasse, per andare a stendersi al suo fianco sul letto e lasciarsi abbracciare, quando si svegliava di soprassalto nella notte. Il grande campione, salvato da un cane…

    Yuuri, inspirò il vapore proveniente dalla tazza.

    – Anche Ludmilla, a modo suo, è una vittima e a suo modo è stata sincera con te… – considerò. – Quando parli di ricatto, intendevi denunciarla all’antidoping.

    – Non lo farò. Così come lei non metterà davvero quel video in rete. Voleva solo far del male a te. Non dovresti considerarla una vittima.

    – La sera della festa, dopo il Grand Prix dell’anno scorso… Non ci hai neppure provato a baciarmi o a portarmi a letto. Perché?

    Victor, che stava ancora accarezzando Makkachin, si girò di colpo. Yuuri era arrossito un poco. Beh, considerato quello che aveva visto, la domanda era legittima. Anche la risposta lo era?

    – Quella sera di noi due eri tu il più disperato – disse. – E non mi capitava da parecchio, di avere davanti qualcuno che fosse più disperato di me. Quando mi hai chiesto di diventare il tuo allenatore, già in quel momento, ho pensato che forse, io che stavo affondando, avrei potuto salvare te. In quel momento mi guardavi come una sorta di eroe. E gli eroi non si approfittano delle principesse che vogliono salvare.

    – Io sarei una principessa, quindi?

    – La più bella che mi sia capitato di incontrare… Ed è stato bellissimo interpretare per te il ruolo dell’eroe. Ci sono state giornate in cui, quasi, ci ho creduto davvero…

    – Ma lo sei stato. L’eroe. Tu sei venuto fin in Giappone e hai trasformato un atleta che si voleva ritirare nel detentore di un record del mondo. Lo hai fatto. Hai cercato il più possibile di essere l’eroe che io vedevo in te.

    Ma non lo era. E perché mai Yuuri adesso non glielo stava rinfacciando?

    – E tu vedevi in me un atleta vincente. E io ho cercato il più possibile di essere l’uomo che tu vedevi – continuò Yuuri. – Non ho vinto un Grand Prix, ma ci sono andato vicino, infinitamente più vicino di quanto non avrei mai fatto senza di te. Tu non sei perfetto, non sei un eroe, ma hai dato tutto te stesso per cercare di esserlo. Alla fine è questo ciò a cui serve l’amore, no? Negli occhi di chi ci ama c’è una versione migliore di noi stessi e guardando quel riflesso possiamo trovare una strada per cercare di renderlo reale.

   
 
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