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Autore: nikita82roma    06/11/2018    4 recensioni
Ambientata dopo la fine della serie. Kate Beckett e Richard Castle sono al loft, si sono da poco ripresi dal conflitto a fuoco con Caleb, si stanno riabituando ad una loro nuova quotidianità quando Rick legge una notizia sul giornale che attira la sua attenzione e le loro vite saranno di nuovo messe sotto sopra da un passato sconosciuto che viene a galla.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Rick Castle, Sorpresa | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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Kate aveva mangiato qualcosa solo perché Rick l’aveva praticamente costretta, minacciandola che non si sarebbe alzato da lì fino a quando non fosse stato sicuro che avesse assunto una quantità ritenuta da lui sufficiente di calorie.

Era poi voluta tornare a piedi in hotel, per quel breve tragitto, con passo fin troppo veloce e Rick aveva faticato a starle dietro in sua quella camminata austera e decisa. Così l’aveva seguita sempre un passo indietro fino a quando non erano arrivati davanti alla porta di camera, dove lei si era dovuta fermare ed attendere che fosse lui ad aprire, perché non aveva preso la chiave. Kate aspettò che le dicesse qualcosa, ma non lo fece, Rick aprì e la lasciò entrare, la vide buttare rabbiosamente la giacca e la borsa sul divano. Arrabbiata con se stessa ma soprattutto delusa. Le si avvicinò abbracciandola da dietro mentre guardava fuori verso un punto indefinito. La baciò sul collo, spostandole i capelli, indugiando forse troppo sulla sua pelle, più di quanto il momento avrebbe consigliato, ma amava sua moglie non riusciva a resisterle, mai. Beckett però non si sciolse al suo tocco anzi rimase rigida e distante e per lui fu una cosa insolita.

- Perché le hai detto che saremmo rimasti alcuni giorni? Cosa dobbiamo rimanere a fare qui a Boston? Io devo tornare al distretto, tu hai i tuoi impegni per il nuovo libro. - Gli chiese in tono di rimprovero. Perché dovevano stare lì? Ad aspettare? A sperare?

- Perché se tua sorella è come te era prevedibile che scappasse, si chiudesse, rifiutasse l’affetto di estranei. - Le rispose con dolcezza accarezzandole le spalle. Conosceva fin troppo bene quel modo di fare e non l’aveva sorpreso più di tanto la reazione di Emily.

- Come me? - Chiese Kate punta nel vivo. Rick annuì con la testa sorridendo bonariamente.

- Devi avere pazienza, devi darle il suo spazio. Lasciare che metabolizzi quanto le hai detto. Ti vuoi già arrendere così? Solo perché una volta si è alzata e se n’è andata?

Le avrebbe voluto dire dire tutte le volte che lui era rimasto in attesa che lei si accorgesse della sua presenza, che accettasse il suo aiuto, che decidesse di fidarsi di lui. Quanto ci aveva messo a scardinare pezzo dopo pezzo il suo muro? Kate avrebbe dovuto avere la sua stessa pazienza con sua sorella. Ma Kate non era così paziente, lo sapeva e lei glielo stava dimostrando.

- E quanto pensi che dobbiamo rimanere qui? Qualche giorno? Una settimana? Un mese? Due? Tre? - Era delusa e non faceva nulla per nasconderlo.

- Il tempo che tu senti di darle. Quanto sei disposta ad aspettarla? - Le chiese mentre mentalmente si rispose che lui era stato disposto ad aspettarla, con piccole pause per un tempo molto lungo.

- Non quanto lo sei stato tu, Castle.

- Era una situazione diversa, Kate. Io... - Era rimasto stupito dalla sua ammissione e da quella presa di coscienza, le stava per dire che lui la amava, ma non era quello il momento, non per tornare su quel discorso. - …anche io ad un certo punto ho smesso di aspettare, poi sei stata tu a cercarmi.

I ricordi facevano ancora più male uniti alla situazione attuale. Non aveva considerato quell’aspetto, una sorella, una gemella era uno specchio scomodo nel quale vedersi, dal quale osservarsi, vedere le proprie difficoltà, le proprie incongruenze e tutti quei difetti facevano ancora più male. Ricordava vividamente quella mattina, la fila in silenzio per farsi firmare anche lei una copia del suo libro, la sua faccia stupita, i suoi sensi di colpa per averlo tenuto lontano e quel segreto che non era riuscito a rivelargli, perché faceva ancora più male ammettere a se stessa che aveva tenuto lontano per paura chi si sarebbe preso un proiettile per lei, chi l’aveva tenuta in vita dicendole di amarla.

- Pensi che abbia paura? Paura di me? - Gli chiese arrendendosi ai suoi pensieri, con quel collegamento fatto nella sua testa che aveva reso palese.

- Ha paura della situazione. Forse ha paura di tutti, non di te. Magari ha solo paura di scoprire chi è o… di essere amata. - Le sussurrò facendole capire che aveva compreso benissimo a cosa stava pensando.

- Sarà qualcosa di famiglia, allora.

- Forse sì. Ci mettete un po’ a capire che c’è chi vi vuole bene, che potete fidarvi degli altri e non fare tutto da sole. Che non dovete avere paura dei sentimenti che gli altri provano per voi. - Non era più sicuro che stavano parlando di Emily.

- Mi dispiace, Castle. Non credo di avertelo mai detto abbastanza. - Si voltò verso di lui, accarezzandogli il viso e guardandolo finalmente negli occhi e non solo il riflesso. Forse era pronta, per la prima volta.

- Non c’è bisogno, Beckett. È passato tanto tempo…

- Troppo tempo. Non volevo farti soffrire, non ero sicura di poterti amare e sì, avevo paura, per questo sono scappata. Avevo paura di avere una sola possibilità di che non era il momento giusto per poterla cogliere, che non ero pronta per andare avanti e…

- Lo so, Kate. L’ho capito.

- Non volevo farti del male.

- Non l’ho mai pensato. - Le prese il viso tra le mani e la baciò con tenerezza. Emily stava mettendo a nudo Kate, obbligandola a guardarsi dentro. Non credeva che sua moglie fosse pronta, non adesso che avevano da poco ritrovato un equilibrio precario dopo la vicenda di LokSat e non sapeva nemmeno se lui era pronto per questo, adesso.

 

 

Emily scese nella più vicina fermata della metropolitana ed entrò correndo, prendendo al volo il treno della silver line che stava ripartendo. Rimase stipata nel vagone pieno di turisti fino a quando non scese per prendere la green line che l’avrebbe portata verso casa. Dopo poche fermate si svuotò e prese posto in un sedile aggrappandosi al corrimano di ferro. Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal rumore ritmato del vento che entrava dai finestrini aperti per metà. Chiacchiericcio, ticchettio di scarpe che entravano ed uscivano dal vagone, suonerie di cellulari, bip bip di dita che scorrevano veloci e fastidiose su tastiere. Il rumore del mondo che viveva e le scorreva accanto.

Riaprì gli occhi un paio di fermate prima della sua ed improvvisamente si sentì soffocare al pensiero di essere sottoterra, circondata da sconosciuti, in quella gabbia metallica che andava da una parte all’altra della città. Scese di corsa appena il treno fu fermo e risalì velocemente le scale verso l’uscita. Le sembrò di respirare solo quando rivide la luce fuori. Camminò per vari isolati fino ad arrivare a casa si preparò meccanicamente un tè, cercando di dare sollievo allo stomaco teso per i crampi e solo quando si sedette sul divano lasciò che la sua mente pensasse a quanto appena accaduto.

Non si era mai fatta troppe domande su sé stessa quando era una bambina. Non si era mai chiesta il perché avesse passato l’infanzia tra un orfanotrofio e l’altro. Sapeva solo che doveva essere carina, quando arrivavano i potenziali genitori in visita, per farsi scegliere. Aveva fatto di tutto perché accadesse, anche quello che non doveva fare, fino a quando non erano arrivati i Byrne. Nemmeno allora si era fatta troppe domande, non si era chiesta perché alcuni bambini avevano dei genitori da sempre ed altri li trovavano dopo. Lei sapeva che Warren era il suo papà, l’unico papà che avesse mai avuto e Mary era sua madre, l’amavano e la seguivano non meno di quanto facevano con Jack, soprattutto Warren che si dedicava completamente a cercare il modo di farla stare bene, di farla sentire amata e parte di quella loro famiglia. Le domande erano cominciate dopo, si erano fatte insistenti e dolorose da quando aveva scoperto di essere incinta, da quando la sua percezione sulla vita era cambiata, da quando si era vista madre prima ancora di esserlo. Così si era tormentata, chiedendosi chi fosse, da dove venisse, perché i suoi genitori non l’avevano voluta. Aveva fatto delle ricerche su se stessa senza dire nulla a nessuno, ma non aveva scoperto niente, tutto si perdeva in una nuova di fumo quando aveva due anni ed era a Boston. Prima di quello, il nulla. Lei non era. Lei non esisteva. Lei non c’era mai stata. Non c’era una donna che l’aveva partorita ed abbandonata, una famiglia a cui era stata tolta, qualcuno che l’avesse lasciata. Lei era apparsa dal nulla, figlia di nessuno, senza una storia e non l’avrebbe mai avuta. Era nulla, senza un passato, senza origini. Si era chiesta molte volte cosa avesse spinto una donna a lasciarla così, senza niente, senza nemmeno un ricordo, qualcosa che le avesse fatto capire che lei, in qualche modo, ci teneva. Eppure l’aveva fatta nascere, si diceva, l’aveva portata dentro di sé per nove mesi, almeno un atto d’amore, un briciolo di sentimento per lei doveva averlo provato per farla nascere.

Aveva ascoltato la storia di Kate come se non riguardasse se stessa, ma qualcun altra. Era una storia assurda. La sua vita, tutta la sua vita, condizionata da uno sbaglio, da un errore. Lei era chi era solo perché qualcuno si era sbagliato. Tutto quello che era, tutto quello che aveva, era frutto di una disattenzione? Era lei stessa un errore, era tutta la sua vita un errore. Scambiare lei per qualcun altro? Dire ai Beckett che una delle loro figlie era morta e lasciare in vita la figlia abbandonata di non si sa chi. Era possibile tutto questo? E perché Kate Beckett aveva fatto tutto questo per cercare lei, per dirglielo? Cosa volevano da lei e lei cosa avrebbe voluto da loro? Voleva veramente conoscere cosa aveva perso? Quale sarebbe stata la sua vita?

Poggiò la tazza sul tavolino e si prese la testa tra le mani. Domande, solo domande, troppe domande. La sua vita era piena di domande alle quale non poteva dare una risposta, non riusciva a dare una risposta. Domande delle quali aveva paura delle risposte.

Sentì bussare alla porta e tornò alla realtà. Andò ad aprire e Flynn la guardava dal basso verso l’alto, anche se stava crescendo troppo velocemente per tutti gli anni che lei aveva perso. Dietro di lui apparve Nick con una borsa in mano.

- Alice è in ospedale. Ha avuto dei problemi e deve stare qualche giorno in osservazione. Puoi pensarci tu a Flynn? Doveva andare da Maura, la sorella di Alice ma lui non voleva. - Le chiese come se avesse veramente bisogno di una risposta.

- Può restare tutto il tempo che vuole. Spero che Alice si rimetta presto e che non sia nulla di grave. - Gli rispose prendendo la borsa di suo figlio da Nick e facendolo entrare.

- Ok, grazie. Io vado. Ci sentiamo Flynn. - Salutò suo figlio che rispose con un cenno del capo. Emily guardò Flynn. La sua vita non era tutta un errore.

   
 
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