Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: sophie97    11/11/2018    2 recensioni
“Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (Il danno, 1992)
14 Novembre, Colonia, un giorno grigio come tanti.
Una storia che comincia come una storia qualsiasi, con un istante di vita. Rapporti incrinati, il riemergere di un passato che fa paura, una serie di piccoli, fatali errori compiuti uno dopo l’altro, fino alla rovina. Fino a quando non si smette di vivere, per iniziare a sopravvivere.
Storia che nulla ha a che fare con la mia serie ancora in corso; storia triste e drammatica, ne sono consapevole. Ma mi piacerebbe ugualmente condividerla con voi.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andrea Schafer, Ben Jager, Nuovo personaggio, Semir Gerkan, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dal capitolo precedente:

"Finì di attraversare il ponte a passo svelto, aggirò la chiesa fino a raggiungerne il portone principale e, spinto da chissà quale volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e incredibilmente spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si curò di trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò."

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QUATTRO GIORNI DOPO – GIORNO 27.

«Come sarebbe non lo sai?» quasi gridò Ben, facendo voltare due infermiere che camminavano lungo il corridoio. Era rosso in volto e si percepiva chiaramente la tensione che emergeva da ogni cellula del suo corpo.
«Ben, per favore...» provò a spiegare il dottor Schneider, ma l’ispettore lo interruppe immediatamente.
«Chris, ti rendi conto di quello che mi dici? Semir è in coma da cinque giorni! Cinque giorni e non siete stati in grado nemmeno di capirne il motivo.».
«Te l’ho già detto, ha subìto troppi stress. È questa la motivazione. Due interventi al cervello e uno al cuore su un paziente già debilitato come lo era lui, Ben, era impensabile che non ci fossero conseguenze.» riprovò a spiegare il medico, mantenendo tuttavia la calma, parlando a un volume quasi basso.
«Mi stai dicendo che Semir era già spacciato in partenza?» gridò ancora Ben, guardandolo negli occhi e pretendendo da quegli occhi chiari almeno un po’ di speranza.
Christopher scosse stancamente il capo «Ben... non sto dicendo questo. Nel pomeriggio chiederò un nuovo consulto del neurologo. Il chirurgo che ha eseguito l’angioplastica lo ha visitato di nuovo ieri pomeriggio e continua a credere che l’intervento sia stato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, per così dire.».
Il ragazzo annuì, lasciandosi cadere su una sedia, riprendendo finalmente fiato.
«E... Andrea?».
«Stazionaria...».
«Chris, sinceramente... credi che...».
«No, Ben.» fece il medico, assertivo, scuotendo il capo «Sono passati undici giorni e non si è svegliata. Ogni tanto i miracoli accadono, ma io non voglio darti false speranze, lo sai. E poi, se anche si svegliasse, dubito che non riporterebbe danni permanenti, a questo punto.».
Ben annuì lentamente.
«Chris, ancora una cosa... Semir... tu credi che non abbia più possibilità? Davvero nemmeno un po’?».
L’uomo si strinse appena nelle spalle. Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli meccanicamente con un lembo del camice, come faceva spesso quando era nervoso o imbarazzato.
«Vuoi una risposta da medico, Ben?».
«Voglio una risposta sincera.».
«Io credo che il tuo collega non voglia svegliarsi.» disse Schneider, infine «Credo che Semir non voglia vivere, Ben. Credo che abbia sopportato troppo. Mi sono informato su quello che è successo in quell’edificio, sai? Io credo... credo che quel pazzo, quell’evaso abbia raggiunto esattamente il suo obiettivo.».

Quando, poco dopo, Ben entrò nella stanza del suo migliore amico, solo, fece appena in tempo a chiudersi la porta alle spalle che le lacrime cominciarono, calde, a rigargli il viso.
Si lasciò andare a un pianto disperato.
Era stanco, terribilmente stanco.
Andrea non si sarebbe svegliata, Lily era morta, Semir era lì davanti a lui ed era immobile. Quella che aveva sempre considerato la sua seconda e più vera famiglia era stata disintegrata e lui si sentiva perso. E solo.
Si sedette accanto al letto dell’amico senza riuscire a frenare le lacrime e una rabbia indescrivibile cominciò a montare dentro di lui. Verso Keller, verso se stesso, verso il mondo intero.
«Non è giusto...» cominciò a mormorare, tra i singhiozzi, per poi alzare sempre più la voce «Non è giusto! Semir, ti devi svegliare, maledizione! Non ci credo che tu non voglia vivere, vivi! Vivi, porca miseria, svegliati... svegliati!» gridò, rosso in volto, girando scattosamente per la stanza.
«Svegliati...» ripeté, in un sussurro, sedendosi di nuovo accanto al letto, con la testa stretta tra le mani.
Quando risollevò la testa, però, il cuore per poco non gli si fermò nel petto.
Con le lacrime che ancora gli rigavano le guance, rimase immobile, a bocca aperta.
Due occhi stanchi lo stavano osservando.

«Semir... Semir... non ci posso credere, Semir, sei sveglio?» fece Ben, incredulo, senza sapere più se ridere o piangere «Sei sveglio?».
Semir si sforzò di sorridere.
«S-socio...».
«Oddio, Semir, sei sveglio. Non posso crederci...» continuò il più giovane, in preda a un’eccitazione incontrollata «Non ci posso credere.».
«Socio...» mormorò l’ispettore disteso, facendo una fatica immane per parlare. Aveva male ovunque, la luce gli dava fastidio e la testa gli pulsava.
«Semir, non parlare, okay? Non ti sforzare.» fece Ben, sporgendosi verso di lui e stringendogli una mano, per fargli capire di essergli vicino «Non parlare... ora chiamo il medico, va bene?».
Semir aprì la bocca per controbattere, ma una smorfia di dolore gli si dipinse in viso e lui non riuscì a proferire parola.
«Non ti sforzare.» ripeté Ben, prima di allontanarsi dal letto per sporgersi nel corridoio a chiamare qualcuno.

Un quarto d’ora dopo, Christopher Schneider aveva effettuato sul paziente ogni genere di controllo.
Ben aveva assistito alla visita e aveva visto l’incredulità negli occhi del medico farsi sempre più grande alla fine di ogni piccolo test, il che gli aveva fatto sperare che, nonostante tutto, il collega stesse effettivamente meglio.
«Molto bene.» commentò infatti il neurochirurgo, controllando gli ultimi riflessi di Semir «Davvero molto bene. Ovviamente è ancora molto debole, ma direi che siamo sulla buona strada.».
«Ben...» mormorò Semir, con un filo di voce, senza considerare le parole del medico «Le... le bambine... dimmi... delle bambine...».
Negli occhi dell’ispettore più giovane si dipinse il terrore.
Guardò Chris e vide nel suo sguardo un tacito rimprovero.
Quindi tornò a rivolgersi all’amico «Semir, devi riposarti adesso, va bene? Domani ti racconterò tutto, non ti preoccupare.».
«Ma... Ben...».
«Fidati di me, Semir... fidati.» concluse Ben, con un mezzo sorriso, mentre Schneider annuiva, scrivendo qualcosa sulla cartella del paziente.
«Ispettore Gerkhan, ripeterò ogni controllo domani.» fece il medico, interrompendo volutamente la conversazione tra i due «Nel frattempo, però, le somministrerò una lieve dose di sedativo. Voglio che stanotte dorma, ha bisogno di recuperare energie.».
Semir si limitò a guardarlo. Parlare era troppo faticoso e comunque sapeva che difficilmente avrebbe potuto dissentire.
«Lisa si occuperà del sedativo.» aggiunse il dottor Schneider, mentre una ragazza dai lunghi capelli biondi si materializzava nel campo visivo di Semir e selezionava qualcosa su un macchinario.
Semir la vide premere un tasto con decisione, poi guardare il medico in cerca di una conferma.
Udì ancora il dottore dire qualcosa a Ben, forse di seguirlo fuori, ma i suoni si fecero lontani, le voci confuse e le palpebre terribilmente pesanti.
Cedette al sonno quasi subito. Era stanco, davvero tanto stanco.

«Hai fatto bene a non dirgli niente riguardo alle bambine, Ben.» disse Chris, non appena furono usciti dalla stanza.
«Ma come farò a evitare ancora l’argomento?» domandò il ragazzo, preoccupato.
Il medico lo guardò negli occhi.
«Non potrai evitarlo, ma dovrai affrontarlo con calma. Domani sarà già più in forze, non volevo gliene parlassi ora. Dobbiamo evitare altre complicazioni, Ben, non credo il suo fisico possa sopportare un pelo di più».
L’ispettore annuì. Avrebbe fatto qualunque cosa purché Semir si riprendesse e di Schneider si fidava ciecamente, ormai.
«Comunque, Ben.» aggiunse il medico, scrutandolo «Non so che cosa sia successo là dentro poco fa... ma tu sei la dimostrazione vivente che l’amicizia può superare ogni cosa. Lo credo davvero.».

Ben abbassò la maniglia e entrò cautamente nella stanza numero 201.
Non vi metteva piede da ormai sei giorni, da quando Keller si era sentito male mentre parlava con lui.
Ad attenderlo, tuttavia, trovò l’uomo in posizione semi-seduta e con una cera decisamente migliore rispetto a quella della settimana precedente.
«Jager, qual buon vento.» disse, con un’energia nuova nella voce. Non respirava più affannosamente, non aveva più bisogno di parlare a bassa voce o interrompersi di tanto in tanto.
L’ispettore si sedette accanto al suo letto, senza fiatare.
I macchinari intorno al paziente erano spenti.
«Sto molto meglio, come vede. Domani mi dimettono.» continuò l’uomo, tenendo quelle fessure grigie ben fisse sul giovane.
«Andrà in carcere.» constatò Ben, sostenendo il suo sguardo.
«Ormai dovrei chiamarla casa, non è così?» continuò lui, con un sorriso beffardo.
«Keller... ora vorrei che mi spiegasse a cosa pensa che sia servito quello che ha fatto.».
Friedrich sorrise ancora, poi portò lo sguardo sopra al lenzuolo bianco che gli ricopriva le gambe, interrompendo il contatto visivo con il suo interlocutore.
«Non capirebbe, Jager.».
Seguì un attimo infinito di silenzio.
«Mi sforzerò.» fece poi il poliziotto, con un sospiro.
Keller scosse il capo, piano, fissando ora un punto indefinito lontano da entrambi.
«Credono tutti che io sia un mostro, non vedo perché lei dovrebbe essere interessato al mio lato umano.».
«Crede che io non la consideri un mostro?».
«Credo che lei, Jager, in fondo provi per me una certa pietà.» affermò l’uomo, con sicurezza «Altrimenti non sarebbe qui, immagino.».
Ben si morse il labbro. Era vero. E non sapeva se sentirsi in colpa per questo oppure no. Vi erano momenti, come quello di qualche ora prima nella stanza di Semir quando ancora non si era svegliato, in cui odiava Friedrich Keller con tutto se stesso. Ma ve ne erano altri in cui sentiva l’impulso di andarlo a trovare, per capire, per provare a comprendere la sua mente. Perché aveva bisogno di trovare una ragione per tutto ciò che era successo.
«Perché non mi risponde e basta?» gli domandò stancamente, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, in attesa.
«Non è servito a niente, Jager.» disse Keller, finalmente, continuando a evitare il suo sguardo «Ma a volte l’uomo si aggrappa alla vendetta quando non ha più niente. Io volevo che Gerkhan avesse la vita distrutta. Volevo che desiderasse morire. Poi... poi ho visto quella donna e quelle bambine fissarmi negli occhi, terrorizzate, e non ho avuto il coraggio di sparare. Perché erano uguali a loro, Jager. Sparare a quelle piccole sarebbe stato come... come uccidere di nuovo le mie bambine. Loro non avrebbero voluto. E sparare a quella donna sarebbe stato come veder morire Isabelle, un’altra volta.».
Fece una pausa, prendendo un respiro, prima di continuare.
«Kate questo non lo capiva. Lei era assetata di sangue, aveva la mente offuscata dalla vendetta molto più di me. Sa, Jager, io ho capito che il suo collega aveva ragione. Quando ha sparato, quel giorno di sette anni fa, la mia anima è morta ma il mio cuore ha continuato a battere: questo non gli ho mai perdonato. Avrei preferito che avesse ucciso me, quel giorno. Ma Gerkhan aveva ragione... non è stata colpa sua. Io gli stavo sparando addosso e lui non poteva sapere che l’auto sarebbe esplosa e soprattutto che dentro di essa ci fosse la mia famiglia. Ma io ho impiegato più di sette anni per capirlo.».
Ben stava ad ascoltare, incredulo. Aveva notato molti segni di cedimento in quell’uomo da quando lo aveva conosciuto, ma non credeva che davvero Friedrich Keller si sarebbe aperto con lui a tal punto. Era un criminale temuto in tutta la Germania, lo era sempre stato, e stava conversando con lui. La nota beffarda permaneva nella sua voce, ma era più lieve, più stanca, travolta da una marea di altre emozioni che, tuttavia, quell’uomo ancora si sforzava di mantenere celate.
«Sa perché erano lì, Jager?» continuò «Sa perché le mie bambine e mia moglie erano vicine al luogo dello scambio?».
Ben non rispose, aspettò che il criminale continuasse. Semir gli aveva detto di non aver mai capito perché la famiglia di Keller si trovasse lì e nemmeno lui aveva avuto idea di quale potesse esserne la ragione.
«Perché sarebbe stata l’ultima volta. Perché avevo comprato quattro biglietti per l’America, saremmo partiti subito dopo lo scambio. Avrei cambiato vita, Jager. L’avrei fatto davvero. E Gerkhan me lo ha impedito... E io sono morto quel giorno.».
La voce di Keller si incrinò leggermente.
«Come sta Gerkhan?» chiese poi, in un sussurro.
«Si è svegliato oggi.» rispose Ben, cercando un contatto visivo con l’uomo «Spero... che si riprenderà.».
«E la moglie?».
L’ispettore sospirò, alzando appena le spalle «Non si è ancora svegliata. I medici non sono positivi.».
Keller annuì.
«Gli dovrà stare vicino, Jager. Io non ho avuto nessuno. Gli stia vicino...».
Ben annuì, anche se quella raccomandazione fatta da un uomo come Keller gli suonava bizzarra.
Senza nemmeno rendersene conto, gli rivolse un mezzo sorriso.
Poi, con un breve cenno di saluto, uscì dalla stanza, diretto verso casa.



N.d.A.
Qualcosa di positivo, forse, e un altro incontro con il nostro carnefice.
Ma, ma, ma...
Grazie a chi è arrivato fino a qui, di cuore!
Sophie

  
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