Dal capitolo precedente:
"Finì
di attraversare il ponte a passo svelto, aggirò la chiesa
fino a raggiungerne
il portone principale e, spinto da chissà quale
volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e
incredibilmente
spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si
curò di
trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò."
QUATTRO GIORNI DOPO – GIORNO 27.
«Come
sarebbe non lo sai?»
quasi gridò Ben, facendo
voltare due infermiere che camminavano lungo il corridoio. Era rosso in
volto e
si percepiva chiaramente la tensione che emergeva da ogni cellula del
suo
corpo.
«Ben, per favore...» provò a spiegare il
dottor Schneider, ma l’ispettore lo
interruppe immediatamente.
«Chris, ti rendi conto di quello che mi dici? Semir
è in coma da cinque giorni!
Cinque giorni e non siete stati in grado nemmeno di capirne il
motivo.».
«Te l’ho già detto, ha subìto
troppi stress. È questa la motivazione. Due
interventi al cervello e uno al cuore su un paziente già
debilitato come lo era
lui, Ben, era impensabile che non ci fossero conseguenze.»
riprovò a spiegare
il medico, mantenendo tuttavia la calma, parlando a un volume quasi
basso.
«Mi stai dicendo che Semir era già spacciato in
partenza?» gridò ancora Ben,
guardandolo negli occhi e pretendendo da quegli occhi chiari almeno un
po’ di
speranza.
Christopher scosse stancamente il capo «Ben... non sto
dicendo questo. Nel
pomeriggio chiederò un nuovo consulto del neurologo. Il
chirurgo che ha
eseguito l’angioplastica lo ha visitato di nuovo ieri
pomeriggio e continua a
credere che l’intervento sia stato solo la goccia che ha
fatto traboccare il
vaso, per così dire.».
Il ragazzo annuì, lasciandosi cadere su una sedia,
riprendendo finalmente
fiato.
«E... Andrea?».
«Stazionaria...».
«Chris, sinceramente... credi che...».
«No, Ben.» fece il medico, assertivo, scuotendo il
capo «Sono passati undici
giorni e non si è svegliata. Ogni tanto i miracoli accadono,
ma io non voglio
darti false speranze, lo sai. E poi, se anche si svegliasse, dubito che
non
riporterebbe danni permanenti, a questo punto.».
Ben annuì lentamente.
«Chris, ancora una cosa... Semir... tu credi che non abbia
più possibilità?
Davvero nemmeno un po’?».
L’uomo si strinse appena nelle spalle. Si tolse gli occhiali
e cominciò a
pulirli meccanicamente con un lembo del camice, come faceva spesso
quando era
nervoso o imbarazzato.
«Vuoi una risposta da medico, Ben?».
«Voglio una risposta sincera.».
«Io credo che il tuo collega non
voglia
svegliarsi.» disse Schneider, infine «Credo che
Semir non voglia vivere, Ben.
Credo che abbia sopportato troppo. Mi sono informato su quello che
è successo
in quell’edificio, sai? Io credo... credo che quel pazzo,
quell’evaso abbia
raggiunto esattamente il suo obiettivo.».
Quando,
poco dopo, Ben entrò
nella stanza del suo migliore amico, solo, fece appena in tempo a
chiudersi la
porta alle spalle che le lacrime cominciarono, calde, a rigargli il
viso.
Si lasciò andare a un pianto disperato.
Era stanco, terribilmente stanco.
Andrea non si sarebbe svegliata, Lily era morta, Semir era
lì davanti a lui ed
era immobile. Quella che aveva sempre considerato la sua seconda e
più vera
famiglia era stata disintegrata e lui si sentiva perso. E solo.
Si sedette accanto al letto dell’amico senza riuscire a
frenare le lacrime e
una rabbia indescrivibile cominciò a montare dentro di lui.
Verso Keller, verso
se stesso, verso il mondo intero.
«Non è giusto...» cominciò a
mormorare, tra i singhiozzi, per poi alzare sempre
più la voce «Non è giusto! Semir, ti
devi svegliare, maledizione! Non ci credo
che tu non voglia vivere, vivi! Vivi, porca miseria, svegliati...
svegliati!»
gridò, rosso in volto, girando scattosamente per la stanza.
«Svegliati...» ripeté, in un sussurro,
sedendosi di nuovo accanto al letto, con
la testa stretta tra le mani.
Quando risollevò la testa, però, il cuore per
poco non gli si fermò nel petto.
Con le lacrime che ancora gli rigavano le guance, rimase immobile, a
bocca
aperta.
Due occhi stanchi lo stavano osservando.
«Semir...
Semir... non ci posso
credere, Semir, sei sveglio?» fece Ben, incredulo, senza
sapere più se ridere o
piangere «Sei sveglio?».
Semir si sforzò di sorridere.
«S-socio...».
«Oddio, Semir, sei sveglio. Non posso crederci...»
continuò il più giovane, in preda
a un’eccitazione incontrollata «Non ci posso
credere.».
«Socio...» mormorò l’ispettore
disteso, facendo una fatica immane per parlare.
Aveva male ovunque, la luce gli dava fastidio e la testa gli pulsava.
«Semir, non parlare, okay? Non ti sforzare.» fece
Ben, sporgendosi verso di lui
e stringendogli una mano, per fargli capire di essergli vicino
«Non parlare...
ora chiamo il medico, va bene?».
Semir aprì la bocca per controbattere, ma una smorfia di
dolore gli si dipinse
in viso e lui non riuscì a proferire parola.
«Non ti sforzare.» ripeté Ben, prima di
allontanarsi dal letto per sporgersi
nel corridoio a chiamare qualcuno.
Un
quarto d’ora dopo, Christopher
Schneider aveva effettuato sul paziente ogni genere di controllo.
Ben aveva assistito alla visita e aveva visto
l’incredulità negli occhi del
medico farsi sempre più grande alla fine di ogni piccolo
test, il che gli aveva
fatto sperare che, nonostante tutto, il collega stesse effettivamente
meglio.
«Molto bene.» commentò infatti il
neurochirurgo, controllando gli ultimi
riflessi di Semir «Davvero molto bene. Ovviamente
è ancora molto debole, ma
direi che siamo sulla buona strada.».
«Ben...» mormorò Semir, con un filo di
voce, senza considerare le parole del
medico «Le... le bambine... dimmi... delle
bambine...».
Negli occhi dell’ispettore più giovane si dipinse
il terrore.
Guardò Chris e vide nel suo sguardo un tacito rimprovero.
Quindi tornò a rivolgersi all’amico
«Semir, devi riposarti adesso, va bene?
Domani ti racconterò tutto, non ti preoccupare.».
«Ma... Ben...».
«Fidati di me, Semir... fidati.» concluse Ben, con
un mezzo sorriso, mentre
Schneider annuiva, scrivendo qualcosa sulla cartella del paziente.
«Ispettore Gerkhan, ripeterò ogni controllo
domani.» fece il medico,
interrompendo volutamente la conversazione tra i due «Nel
frattempo, però, le
somministrerò una lieve dose di sedativo. Voglio che
stanotte dorma, ha bisogno
di recuperare energie.».
Semir si limitò a guardarlo. Parlare era troppo faticoso e
comunque sapeva che
difficilmente avrebbe potuto dissentire.
«Lisa si occuperà del sedativo.»
aggiunse il dottor Schneider, mentre una
ragazza dai lunghi capelli biondi si materializzava nel campo visivo di
Semir e
selezionava qualcosa su un macchinario.
Semir la vide premere un tasto con decisione, poi guardare il medico in
cerca
di una conferma.
Udì ancora il dottore dire qualcosa a Ben, forse di seguirlo
fuori, ma i suoni
si fecero lontani, le voci confuse e le palpebre terribilmente pesanti.
Cedette al sonno quasi subito. Era stanco, davvero tanto stanco.
«Hai
fatto bene a non dirgli
niente riguardo alle bambine, Ben.» disse Chris, non appena
furono usciti dalla
stanza.
«Ma come farò a evitare ancora
l’argomento?» domandò il ragazzo,
preoccupato.
Il medico lo guardò negli occhi.
«Non potrai evitarlo, ma dovrai affrontarlo con calma. Domani
sarà già più in
forze, non volevo gliene parlassi ora. Dobbiamo evitare altre
complicazioni,
Ben, non credo il suo fisico possa sopportare un pelo di
più».
L’ispettore annuì. Avrebbe fatto qualunque cosa
purché Semir si riprendesse e
di Schneider si fidava ciecamente, ormai.
«Comunque, Ben.» aggiunse il medico, scrutandolo
«Non so che cosa sia successo
là dentro poco fa... ma tu sei la dimostrazione vivente che
l’amicizia può
superare ogni cosa. Lo credo davvero.».
Ben
abbassò la maniglia e entrò
cautamente nella stanza numero 201.
Non vi metteva piede da ormai sei giorni, da quando Keller si era
sentito male
mentre parlava con lui.
Ad attenderlo, tuttavia, trovò l’uomo in posizione
semi-seduta e con una cera
decisamente migliore rispetto a quella della settimana precedente.
«Jager, qual buon vento.» disse, con
un’energia nuova nella voce. Non respirava
più affannosamente, non aveva più bisogno di
parlare a bassa voce o
interrompersi di tanto in tanto.
L’ispettore si sedette accanto al suo letto, senza fiatare.
I macchinari intorno al paziente erano spenti.
«Sto molto meglio, come vede. Domani mi dimettono.»
continuò l’uomo, tenendo
quelle fessure grigie ben fisse sul giovane.
«Andrà in carcere.» constatò
Ben, sostenendo il suo sguardo.
«Ormai dovrei chiamarla casa,
non è
così?» continuò lui, con un sorriso
beffardo.
«Keller... ora vorrei che mi spiegasse a cosa pensa che sia
servito quello che
ha fatto.».
Friedrich sorrise ancora, poi portò lo sguardo sopra al
lenzuolo bianco che gli
ricopriva le gambe, interrompendo il contatto visivo con il suo
interlocutore.
«Non capirebbe, Jager.».
Seguì un attimo infinito di silenzio.
«Mi sforzerò.» fece poi il poliziotto,
con un sospiro.
Keller scosse il capo, piano, fissando ora un punto indefinito lontano
da
entrambi.
«Credono tutti che io sia un mostro, non vedo
perché lei dovrebbe essere
interessato al mio lato umano.».
«Crede che io non la consideri un mostro?».
«Credo che lei, Jager, in fondo provi per me una certa
pietà.» affermò l’uomo,
con sicurezza «Altrimenti non sarebbe qui,
immagino.».
Ben si morse il labbro. Era vero. E non sapeva se sentirsi in colpa per
questo
oppure no. Vi erano momenti, come quello di qualche ora prima nella
stanza di
Semir quando ancora non si era svegliato, in cui odiava Friedrich
Keller con
tutto se stesso. Ma ve ne erano altri in cui sentiva
l’impulso di andarlo a
trovare, per capire, per provare a comprendere la sua mente.
Perché aveva
bisogno di trovare una ragione per tutto ciò che era
successo.
«Perché non mi risponde e basta?» gli
domandò stancamente, appoggiando i gomiti
sulle ginocchia, in attesa.
«Non è servito a niente, Jager.» disse
Keller, finalmente, continuando a
evitare il suo sguardo «Ma a volte l’uomo si
aggrappa alla vendetta quando non
ha più niente. Io volevo che Gerkhan avesse la vita
distrutta. Volevo che
desiderasse morire. Poi... poi ho visto quella donna e quelle bambine
fissarmi
negli occhi, terrorizzate, e non ho avuto il coraggio di sparare.
Perché erano
uguali a loro, Jager. Sparare a quelle piccole sarebbe stato come...
come
uccidere di nuovo le mie bambine. Loro non avrebbero voluto. E sparare
a quella
donna sarebbe stato come veder morire Isabelle, un’altra
volta.».
Fece una pausa, prendendo un respiro, prima di continuare.
«Kate questo non lo capiva. Lei era assetata di sangue, aveva
la mente
offuscata dalla vendetta molto più di me. Sa, Jager, io ho
capito che il suo
collega aveva ragione. Quando ha sparato, quel giorno di sette anni fa,
la mia
anima è morta ma il mio cuore ha continuato a battere:
questo non gli ho mai
perdonato. Avrei preferito che avesse ucciso me, quel giorno. Ma
Gerkhan aveva
ragione... non è stata colpa sua. Io gli stavo sparando
addosso e lui non
poteva sapere che l’auto sarebbe esplosa e soprattutto che
dentro di essa ci
fosse la mia famiglia. Ma io ho impiegato più di sette anni
per capirlo.».
Ben stava ad ascoltare, incredulo. Aveva notato molti segni di
cedimento in
quell’uomo da quando lo aveva conosciuto, ma non credeva che
davvero Friedrich
Keller si sarebbe aperto con lui a tal punto. Era un criminale temuto
in tutta
la Germania, lo era sempre stato, e stava conversando con lui. La nota
beffarda
permaneva nella sua voce, ma era più lieve, più
stanca, travolta da una marea
di altre emozioni che, tuttavia, quell’uomo ancora si
sforzava di mantenere
celate.
«Sa perché erano lì, Jager?»
continuò «Sa perché le mie bambine e
mia moglie
erano vicine al luogo dello scambio?».
Ben non rispose, aspettò che il criminale continuasse. Semir
gli aveva detto di
non aver mai capito perché la famiglia di Keller si trovasse
lì e nemmeno lui
aveva avuto idea di quale potesse esserne la ragione.
«Perché sarebbe stata l’ultima volta.
Perché avevo comprato quattro biglietti
per l’America, saremmo partiti subito dopo lo scambio. Avrei
cambiato vita,
Jager. L’avrei fatto davvero. E Gerkhan me lo ha impedito...
E io sono morto
quel giorno.».
La voce di Keller si incrinò leggermente.
«Come sta Gerkhan?» chiese poi, in un sussurro.
«Si è svegliato oggi.» rispose Ben,
cercando un contatto visivo con l’uomo
«Spero... che si riprenderà.».
«E la moglie?».
L’ispettore sospirò, alzando appena le spalle
«Non si è ancora svegliata. I
medici non sono positivi.».
Keller annuì.
«Gli dovrà stare vicino, Jager. Io non ho avuto
nessuno. Gli stia vicino...».
Ben annuì, anche se quella raccomandazione fatta da un uomo
come Keller gli
suonava bizzarra.
Senza nemmeno rendersene conto, gli rivolse un mezzo sorriso.
Poi, con un breve cenno di saluto, uscì dalla stanza,
diretto verso casa.
N.d.A.
Qualcosa
di positivo, forse, e un altro incontro con il nostro
carnefice.
Ma,
ma, ma...
Grazie
a chi è arrivato fino a qui, di cuore!
Sophie