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Autore: Ily Briarroot    18/11/2018    8 recensioni
[Seconda classificata al contest "Sosta verso casa", indetto da Not_only_fairytales e giudicato da mystery_koopa sul Forum di EFP].
La neve spessa si posa in ogni dove; si distingue difficilmente il percorso da tenere rispetto al resto. Il paesaggio russo è ricoperto dal mantello bianco e soffice ed è l'ennesimo elemento che conferma la paura insita nella mente di ogni soldato: quella di non poter più fare ritorno a casa.
Perché è pura, la neve. È candida, leggera, come se riuscisse a spazzare via le preoccupazioni e i pensieri dell'uomo, cancellando le negatività del cuore.
Ma adesso, in questo frangente, so bene quanto possa significare.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Il freddo penetra nelle ossa, attraverso la pelle e il tessuto morbido dell'uniforme mimetica, senza un briciolo di pietà.
Tremendo e angosciante, esattamente come la guerra che sta divorando il mondo.
La neve spessa si posa in ogni dove; si distingue difficilmente il percorso da tenere rispetto al resto. Il paesaggio russo è ricoperto dal mantello bianco e soffice ed è l'ennesimo elemento che conferma la paura insita nella mente di ogni soldato: quella di non poter più fare ritorno a casa.
Perché è pura, la neve. È candida, leggera, come se riuscisse a spazzare via le preoccupazioni e i pensieri dell'uomo, cancellando le negatività del cuore.
Ma adesso, in questo frangente, so bene quanto possa significare.
Costituisce un ostacolo in più alla sopravvivenza, vuole dire correre il rischio di morire di freddo e di stenti.
Ho già visto i corpi rigidi degli altri uomini nella steppa, accatastati l'uno sull'altro senza nome, né memoria. Li ho osservati bene ed erano i miei compagni. Non mi hanno mai insegnato a piangere, così come non mi hanno preparato alla morte, la stessa che rischio d'incontrare ogni giorno e che leggo negli occhi di chi mi sta accanto. Non esiste una preparazione, non ci si può abituare all'orrore che i miei occhi affrontano giorno dopo giorno. Mi trovo in un paese straniero, un paese di cui non conosco la lingua, completamente solo, lontano dagli affetti e dalle abitudini per vedere la morte in faccia.
Questi mesi sono una lotta per la vita e procedono lentamente nell'angoscia di una sensazione orribile: nella mia mente echeggia spesso il rumore di uno sparo, perché ne ho uditi sin troppi. La guardia è sempre alta, i muscoli delle braccia e delle gambe tesi. Le armi che sono costretto a portare con me pesano, pesano più di ogni altra cosa al mondo.
Poi ripenso a casa mia, in un piccolo paese del Molise. Il verde che copre le colline, i pascoli. Ai miei genitori che stanno aspettando una mia notizia, una notizia che non arriverà mai più. Ripenso ai miei fratelli e alle mie sorelle e la nostalgia è forte.
Quando sono diventato un soldato? Come ha fatto la mia vita a cambiare all'improvviso, facendo in modo di catapultarmi in quella realtà piena di sofferenza e dolore? Sono un giovane uomo di ventuno anni, un contadino, nulla di più. Sono un pilastro per i miei genitori, un riferimento per mio fratello Giuseppe di nove anni.
Nessuno può prepararti a certe scene, immagini forti che sai ti rimarranno sempre in testa. Me ne accorgo quando sento la pelle del viso umida e le lacrime agli angoli degli occhi. Solo allora capisco cosa voglia dire piangere. Di nascosto, certo, ma l'uomo non può essere sempre forte, dentro.
Ho ben in mente il nostro lavoro nei campi, le nostre cinque mucche, il lavoro di tutti per il sostentamento della nostra famiglia numerosa.
E poi riprendiamo a lottare, a nasconderci, a cercarci. A preparare difensive, mentre le armi diventano nostre alleate.
Ed ecco che torna forte la voglia di rivedere i miei cari, di far sapere loro che sto bene. Ma il tempo non basta mai e, quando ce n'è, non so scrivere. Ho chiesto al mio compagno d'armi di farlo al posto mio; io dettavo e lui riportava su un pezzo di carta ingiallito ogni parola, passo dopo passo. L'ho fatto una volta sola, perché poi la mia vita ha preso una piega del tutto inaspettata.
Una volta terminato il lavoro, la data in alto è stata l'unica cosa che potessi comprendere e mi ha lasciato stupito per qualche attimo: 10 febbraio 1943. Mi ero improvvisamente reso conto di essere in Russia da più di un mese. E, per il momento, andava bene.
Ci hanno appena comunicato di recarci in Italia per un breve periodo, prima di riprendere la spedizione in Russia e forse, adesso, riesco a intravedere una piccola speranza di rivedere i miei cari. Sto progettando di allontanarmi il tempo necessario per salutarli senza perdere di vista i pochi compagni rimasti che mi copriranno in quelle poche ore di assenza.
Il freddo adesso è pungente; tanti spilli mi trapassano il petto, i polmoni. Sono stanco e ho fame, ma non posso mollare adesso.
Ogni mio passo affonda nella neve, mi ghiaccia il polpaccio e mi fa rabbrividire. La pelle del viso tirata, senza più alcuna sensibilità.
All'improvviso, una casa in legno a cento metri da me mi invita a proseguire, mi accoglie. Quando busso con le nocche contro la porta pesante, una giovane donna la spalanca, guardandomi con l'aria decisamente stupita.
Mi dice qualcosa, ma non conoscono neanche una parola di russo. È bella, molto bella; è particolare la sfumatura grigia degli occhi chiari che mi scrutano indagatori, mentre la frangia bionda le incornicia il volto.
Dai suoi gesti capisco che posso entrare in casa. Mi fa accomodare sulla sedia arrugginita della cucina e mi offre un tozzo di pane e un bicchiere di liquore.
Lei continua a parlare mentre mangio, ma non comprendo nulla di ciò che dice e glielo mostro attraverso cenni che, fortunatamente, risultano abbastanza chiari.
La osservo negli occhi azzurri mentre parla, un angelo che mi ha trovato al momento giusto.
Il tepore della casa è accogliente, sembra quasi di essere lontano da tutto ciò che ho intorno, da quel dolore che palpita forte nel mio petto.
La giovane donna mi sorride e mi scruta, mentre sono seduto a mangiare davanti a lei.
Colgo la pronuncia di una domanda che non capisco, ma tento in ogni caso la risposta, la posso immaginare.
"Italiano" le dico, mentre il suo sguardo s'incuriosisce.
"Tu sei di... di italiano?" pronuncia forzatamente e io mi volto a guardarla negli occhi grigi. Annuisco appena, bevendo il liquore nel bicchiere tutto d'un fiato.
"Sì, torno in Italia per qualche giorno".
L'angelo si illumina, lo sguardo di chi ha compreso appieno il concetto, penserà che sia tutto finito, ma non è affatto così.
Mi chiedo quanto tempo resisterò ancora, in mezzo a quella tempesta fredda e angosciante.
Sono ancora perso tra i miei pensieri, quando sento il suo tocco gentile sul mio braccio. Sollevo la testa di scatto e lei mi pose una mano sulla guancia, accarezzandola lentamente. Ora, nei suoi occhi vedo solo il conforto che maschera l'inquietudine. È seria, ma continua a sfiorarmi la pelle con l'espressione totalmente concentrata. Poco dopo, noto il suo viso avvicinarsi al mio, le palpebre abbassate, e non posso - non voglio - fare nulla per impedirle di farlo.
Percepisco appena le sue labbra carnose sulla guancia e, di nuovo, sulla bocca. Morbide, calde, piene di quel contatto che mi manca, di quel calore d'affetto che ho cercato tanto a lungo.
L'angelo continua a baciarmi sempre più intensamente e non mi allontano; rispondo delicatamente ai suoi gesti, finché prendo il controllo della situazione e tutto si capovolge. Penso solo a lei e a questo momento, perché all'esterno non c'è più nulla che possa infondermi alcun tipo di timore. Non esiste più la guerra, né il freddo. Solo la creatura dai capelli biondi che mi trasporta in paradiso.
Quando ci separiamo, dopo minuti - o forse ore - interi, restiamo a osservarci negli occhi, unica fonte di comunicazione tra noi. La vedo sorridere, mentre mi stringe forte la mano. Dopodiché, a malincuore, devo ripartire perché i miei compagni sono in marcia e io li raggiungo alla svelta. Dimentico il tepore e l'affetto, per immergermi di nuovo nel mondo che vorrei lasciarmi dietro alle spalle.
Devo essere positivo, lo so. Torno in Italia, solo per pochi giorni ma avrò l'occasione di rivedere la mia famiglia.
Ripenso a quell'angelo che mi ha appena salvato dal freddo e dai miei pensieri, nonostante non parlasse neanche la mia lingua. Chi lo sa se la rivedrò? Se avrò un futuro, in questa terra lontana.
Il pensiero di questa giovane donna straniera sarà una buona scusa per andare avanti, per trovare il coraggio necessario a fare ritorno in Russia.
Non so nulla di lei, neanche il suo nome. Decido che glielo chiederò.
Vorrei scrivere ai miei, dire loro che sto andando a trovarli. Ma non importa, lo farò più avanti, anche se non è vero. Anche se l'ultima lettera che ho spedito alla mia famiglia, rimarrà l'unica.
Perché la vita andrà avanti; i miei fratelli cresceranno chiedendosi dove io sia finito, se io abbia deciso di rimanere in Russia con la donna dagli occhi grigi che mi aveva offerto quel breve riparo oppure no.
I miei genitori non sanno che non mi rivedranno mai più, ma io ne ho la certezza dal momento in cui mi trovo in quel campo di concentramento a Tambov, luogo di miseria e disperazione, luogo in cui i soldati muoiono. Di questo, me ne accorgo dal primo accenno di tosse e dalla febbre che mi toglie le forze.
Sono un contadino con tutta la vita davanti, che vorrebbe solo viverla.
Sono un contadino analfabeta che ha passato la vita a lavorare nei campi, anche se altri hanno deciso di rendermi un assassino, mettendomi armi che non voglio tra le braccia.
Sono un contadino legato alla famiglia che, lo so, non rivedrò mai più.
Morirò il 9 aprile 1943 nell'ospedale del campo di Tambov, il giorno prima in cui il mio fratellino compirà dieci anni. Quest'ultimo trascorrerà la vita pensandomi e chiedendosi cosa potrebbe essermi capitato. Se lo chiederà ancora e ancora per altri settant'anni e, quando lo scoprirà, le lacrime gli copriranno appena gli occhi lucidi. Avrà una famiglia tutta sua, dei figli, una moglie, dei nipoti. Sarà il nonno migliore del mondo, ma il dolore velato per la mia mancanza gli brucerà sempre l'animo.
Mi dispiace non essere tornato.
Perché questa è la guerra e la guerra fa male, ti toglie tutto ciò che hai.
Addio mamma e papà, addio fratelli. Addio anche a quell'angelo che avrei voluto sposare, una volta tornato in Russia.
Tutto ciò che non sarà mai più.







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Note dell'autrice

Bene, eccoci qui. Questo è il primo contest su storie originali a cui partecipo e scrivere su questo tema non è stato per niente facile. Non reputo di avere un particolare talento per le trame storiche, anzi. Tuttavia, l'ispirazione è arrivata appena ho letto ciò che avrei dovuto scrivere: la trama era già in testa. Il soldato protagonista, Vincenzo, è esistito veramente e per me è stato un eroe. Non è conosciuto, nessuno sa chi sia, ma è stato molto importante per la mia famiglia. Abbiamo saputo cosa gli è successo nella campagna di Russia del 1943 soltanto qualche mese fa e allora l'ispirazione per scrivere di lui è stata forte.
Grazie mille a tutti coloro che leggeranno e avranno voglia di lasciare una recensione per farmi sapere come vi sembra.
A presto,
Ile
  
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