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Autore: Giada_wx    20/11/2018    0 recensioni
Niente rabbia, niente tristezza. Non me ne importava nulla che i miei diciotto anni di vita fossero ridotti a dieci inutili scatole. Mi chiedevo se fosse normale, o quando era stato il momento esatto in cui avevo smesso di lottare e avevo iniziato a sopportare. Poi l'immagine di quella stanza buia e umida tornava, il dolore lancinante che avevo provato al ventre si fece così vivido da dover trattenere un urlo. E mi servirono da risposta.
«Dov'eri finita, Ashlie? »
«Dove sapevo che non mi avresti trovata. »
☀ ☀
"Quello che abbiamo sofferto in passato ha molto a che fare con ciò che siamo oggi."
Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale. Il carattere dei personaggi famosi descritto in questa storia non coincide con la realtà.
Questa fan fiction è un'opera di fantasia.
Tutti i diritti riservati.
Copyright © 2018 di Giada_wx
[La medesima storia è in corso anche su Wattpad, postata sempre dalla sottoscritta sotto il nome di Giada_Me.]
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una busta da lettere, questa volta marrone, giace per terra davanti alla porta.
Di nuovo senza indirizzo né nome. La apro e ne tiro fuori un unico foglio di carta bianco, questa volta il messaggio è scritto in maiuscolo. I caratteri sono grandi e scritti con un pennarello nero:

 
« SO CHE TI RICORDI DI ME »
 
 Poso la busta da lettere marrone sopra la prima lettera che ho ricevuto, quella che avevo lasciato ben in vista nella mia camera ma ben custodita nei meandri della mia mente.
Avevo deciso che era stato un caso, che quella lettera non era destinata a me, ma quest'altra rendeva tutto molto differente. 
Perdo il controllo di ogni arto, la testa mi gira e non mi curo del contenuto della mia borsa sparso su tutta la moquette, accompagnata dalla giacca e dal foglio bianco.
Corro in bagno improvvisamente scossa da violenti conati, sento il mio stomaco stringersi, la testa continua a girare vorticosamente e mi manca il respiro. So che non rimetterò niente, perché il mio stomaco è vuoto, più o meno quanto vorrei che lo fosse anche la mia testa.
Ma è impossibile. Sento quelle mani grandi e ruvide stringersi intorno al mio collo, l'alito caldo e pesante sulla mia faccia, un mix letale di whisky e rum. Sento tutto così forte, così vicino, come se aprendo quella lettera fossi tornata a quello scantinato buio e freddo, con l'umidità nell'aria e la paura dentro. 
Mi accascio al pavimento scivolando contro la fredda ceramica bianca del lavandino, ho la vista offuscata e troppe lacrime accumulate agli angoli degli occhi. 
Un violento singhiozzo mi spezza il respiro ancora affannoso e altri ricordi si intrufolano prepotentemente nella mia testa e sento crollare quel muro di mattoni che avevo creato per tenermi al riparo da ciò che in realtà non potrò mai dimenticare davvero. Immagino di sentire il fragore causato dall'impatto dei mattoni contro il suolo della mia mente e il brusio dei ricordi che mi investono. Ricordo le ferite sulla schiena e i tagli sul viso così bene da credere per un attimo di poterli veder comparire di nuovo sul mio corpo in questo esatto momento, sento il sapore del sangue nella bocca e giù per la gola.  Porto istintivamente una mano sul ventre piatto, stringo il tessuto ruvido della maglia tra le dita e le lacrime iniziano a solcare il mio viso pallido.
Lacrime che trattenevo da troppo tempo, lacrime che sono più che semplici lacrime.
Lacrime per ciò che è stato e ciò che ero, per le mie colpe e le mie perdite. Lacrime per cose che non sono dipese davvero da me.
E per un po' me lo concedo, mi lascio andare su queste fredde mattonelle asettiche, lascio che ogni cosa mi travolga fino in fondo, che ogni mancanza esca allo scoperto. Mi concedo di pensare a quel che sarebbe stato se e a quello che non potrà mai più essere
Perché ci sono cose che non potranno mai più tornare come prima e perché ci sono cose di me che non potranno mai più essere sistemate. 

La parte difficile non è mai crollare, ma ricomporsi.
Alzarsi come se niente fosse, ricostruire pareti infrangibili che reggano almeno fino al prossimo brutale crollo e mentire a sé stessi. Ripetersi che nulla è accaduto e che niente è andato perso.
Rialzarsi e rimettere a posto i pezzi, nascondere gli occhi arrossati dal lungo pianto, asciugare le gote e far cessare le ripetute e involontarie contrazioni del diaframma.
Che anche se credi di aver imparato a passarci sopra e fingerti indifferente in realtà non ci si abitua mai davvero a dei crolli così grandi. Che davanti ad uno strazio tale, siamo sempre un po' inermi.  Rialzarsi sempre un po' difficile, ma va fatto. 
 Apro il getto della doccia e lascio che l'acqua scorra, nell'attesa che raggiunga la giusta temperatura. Guardo la mia figura riflessa nello specchio e penso a quanto diversa appaia da come invece sono dentro. Esamino i vestiti sgualciti, i capelli disordinati, il trucco sfatto e gli occhi stanchi. Provo l'impulso di rompere la superficie riflettente e mandarla in frantumi insieme all'immagine riflessa. Un impulso che cela una rabbia fredda per questo banale specchio e per la mia immagine, una figura diversa che non sento mi rappresenti. 
Una figura che nasconde schegge, frammenti, ombre e urla rabbiose e spaventate, abissi dove è meglio non addentrarsi.  
Mi svesto di ogni indumento e lì lascio lì, dimenticati ai miei piedi. Guardo di nuovo l'immagine riflessa nello specchio e traccio con le dita tremanti la lunga cicatrice ormai biancastra lungo l'intera clavicola, traccio un percorso invisibile lungo il solco che parte dalla scollatura e arriva fino all'ombelico. Lì in basso c'è un'altro piccolo segno, ormai quasi invisibile agli occhi di chiunque ma non al mio. E ancor meno invisibile è il senso di colpa che mi attanaglia le viscere ogni qualvolta risalta ai miei occhi. Rivolgo un ultimo sguardo alla figura nello specchio, provando un malsano piacere alla vista delle costole appena sporgenti. E per l'ultima volta respingo il rabbioso impulsi di mandare in frantumi il vetro, fiondandomi nella doccia.
 Il volto basso e gli occhi chiusi, l'acqua bollente che scorre sui capelli mi accarezza il viso brucia la pelle graffia il petto e cade ai miei piedi, portandosi con se ogni paura. Resto così per un po', a scaldarmi fuori e gelare dentro. Resto così fino a quando il getto d'acqua calda muta improvvisamente in acqua gelida, dando vita ad un susseguirsi di brividi che percorrono la mia schiena. Così mi avvolgo nel morbido asciugamano blu ed esco dal bagno, senza neanche fermarmi davanti allo specchio. Che di me stessa per oggi ne ho avuto abbastanza.
«Finalmente, è una vita che aspetto »  Kyla si alza dal letto con un vigoroso salto, la frangia è in ordine come sempre e gli occhiali sul suo naso. Ma ha gli occhi piccoli e lo sguardo stanco. 
«Credo che dovrai aspettare per un bagno caldo » la informo, mentre libero la massa di capelli neri dall'asciugamano in cotone e comincio a districare i nodi. 
«Quanto tempo è che sei lì dentro? » Si lascia cadere nuovamente sul materasso morbido, mentre un grido stridulo e disperato fuoriesce dalle sue labbra. 
Le rivolgo uno sguardo di scuse che lei elude scuotendo una mano. 
«Lascia perdere, ne avrai avuto bisogno » dice alla fine mettendosi seduta e io mi chiedo se sia ancora così percettibile, se la lunga doccia non abbia sortito il dovuto effetto. Ma non dico nulla. «Esci? »
 «No » rispondo di getto, ma il ricordo della voce di Luke che mi sussurra all'orecchio mi ritorna alla mente. «Insomma non lo so, forse »
 «Cos'è quella? »  Do le spalle a Kyla e di conseguenza non capisco a cosa lei si riferisca, ma quando inizia a sventolare davanti al mio volto quel foglio bianco con quell'unica scritta incisa sopra, il pettine mi scivola di mano schiantandosi contro il morbido piumone del mio letto. 
«Niente, hanno sbagliato di nuovo » le strappo il foglio dalla mano e lo piego in due, tagliandolo poi a metà e ancora e ancora, fino a ridurlo in brandelli e gettarlo nella pattumiera.
Kyla non sembra farci molto caso e continua a mettere in ordine la posta. 
Guardo la sveglia digitale posta sopra la scrivania: le 18:40.
«Kyla, esco, ma non so a che ora tornerò. »
Mi piace l'autunno, mi piacciono le giornate più brevi e mi piace che, nonostante l'ora, l'intero campus sembra stia già dormendo, anche se so che così non è. La luna non splende stasera, le nuvole non danno aria neanche ad una piccola parte di cielo e il vento trasporta le foglie morte, è troppo forte per permetterti di pensare. 
Puntuale come la mezzanotte, i fari di un'auto fanno capolino nell'insidiosa entrata sbarrata da un grande cancello nero, costringendomi a proteggere gli occhi dalla luce abbagliante. 
Mi avvicino al fuori strada nero e lo sportello del passeggero viene aperto dall'interno.
 «Sapevo che ti avrei trovata qui », il volto di Luke avvolto nella penombra del veicolo mi accoglie con un mezzo sorriso. Salgo e vengo avvolta dall'aria calda che aleggia all'interno del fuoristrada, la radio è sintonizzata su una stazione radio e le note di una canzone pop rock riempiono lo spazio. Non rispondo a quella che credo fosse una provocazione e non mi volto a guardarlo di nuovo. Tengo lo sguardo fermo davanti a me, con le mani chiuse in pugno appoggiate al ventre e la gola secca. 
Fa un'inversione di marcia con la destrezza di chi ormai ha molta esperienza nella guida e mi chiedo da quanto tempo lo faccia, ma non mi serve saperlo davvero. Non mi serve sapere niente su di lui. Con lo sguardo perso al di là del vetro del parabrezza, cerco di ignorare la sua sicurezza nel trovarmi lì e mi accorgo di non avere la più pallida idea di dove siamo diretti adesso.
«Dove andiamo? » 
«E' una sorpresa », il suo tono di voce risuona fin troppo entusiasta ed inevitabilmente, prima che riesca a controllare i miei movimenti, mi giro a guardarlo. I biondi capelli ricci sono disordinati come sempre, ha un'espressione concentrata dipinta in volto, tiene la mano destra stretta al manubrio e l'altra fuori dal finestrino della sua sfarzosa auto.
«Non mi piacciono le sorprese » puntualizzo, « e questo non è un appuntamento. »
«Lo so », per un attimo distoglie lo sguardo dalla strada e lo rivolge a me. Un piccolo sorriso mette in mostra i suoi denti perfettamente bianchi. Poi torna a guardare la strada con la massima attenzione, in netto contrasto con la disinvoltura con cui guida il veicolo. «Come non ti piacciono i ristoranti, il buio, i ragni e qualsiasi altro insetto. »   
«Sono stata io a dirtelo? »  Lui annuisce ed io mi lascio andare contro il sedile. Lo sento sopprimere una risata ma non emetto un solo suono, perché è una soddisfazione che non posso concedergli. Così torno a guardare al di là del vetro.
  Usciamo dalla Hennepin Ave, in direzione di Dupont Ave Street. Osservo gli alberi che ci lasciamo dietro, le case e gli imponenti edifici moderni e non. Ci fermiamo ad un incrocio, aspettando che il semaforo diventi verdi. Luke intanto si protrae in avanti e alza il volume della radio. Guardo meglio il piccolo display e noto che la radio non è accesa su una stazione radio, ma c'è un CD. La scritta blu ghiaccio dice TRACK 1.

Why can't we choose our emotion?
'Cause we could feel something's broken
And I can't stay without hoping
We'll never be alone, we'll never be alone
La mia attenzione viene catturata completamente da questa canzone e sento ripetutamente una voce che riconosco come familiare ma che sono sicura di non aver mai ascoltato prima.
 Il semaforo diventa verde, Luke accelera e non appena superiamo l'incrocio affianca il fuoristrada al marciapiede e spegne il motore. Mi guardo intorno e individuo solo enormi palazzi, alberi, negozi di antiquariato e proprio di fronte alla macchina, all'angolo del marciapiede, uno studio di tatuaggi. 
  «Allora scendi o resti in auto? » Mi chiede Luke, già fuori dal veicolo. Così sgancio la cintura di sicurezza e dopo aver dato un'altra, più attenta, occhiata intorno, scendo. Il vento soffia forte ed istintivamente mi stringo nella mia giacca di pelle. Dopo essersi assicurato di aver chiuso la sua Jeep, supera l'auto e si ferma a meno di un metro da me, davanti alla grande vetrata dello studio. Faccio qualche passo e un'insegna al neon blu e rossa lampeggia davanti ai nostri occhi. Guns N' Needles Tattoo, è il nome dello studio. 
«Uno studio di tatuaggi? » gli chiedo scettica, indicando l'entrata con la scritta 'Aperto' che si illumina di rosso. Lui annuisce sorridendo. 
«Perché? »
«Vuoi sapere cosa è successo ? » Mi chiede ed io annuisco, così mi prende per mano ignorando il mio tentativo di opposizione e incastra le sue dita affusolate tra le mie, fredde e volontariamente rigide e trascina entrambi all'interno dello studio.
Non faccio in tempo ad esprimere a voce la mia riluttanza per il suo gesto che l'atmosfera del locale cattura totalmente la mia attenzione. Il parquet in ciliegio splende sotto i nostri piedi e fa sembrare il posto più ampio di quanto già non sia, le pareti sono di un colore grigiastro che appare come vellutato e i lampadari al soffitto emanano una luce soffusa che aiutano a creare un'aria più accogliente e calda. A sinistra, sotto la parete per metà a vetri, c'è un piccolo divano rossiccio e di fronte un tavolo basso con sopra diversi cataloghi di tatuaggi. Diversi quadri sono appesi alle pareti e in fondo alla stanza, c'è un grande bancone nero.    
 «Lukey», una ragazza bionda e con i corti capelli legati in una coda lo accoglie con un raggiante sorriso. «Non sapevo avessi preso un altro appuntamento »
«Non in modo ufficiale » Luke si avvicina alla ragazza e, sporgendosi dal bancone, la saluta con un bacio sulla guancia. «Sabato sera ho parlato con Jinx, mi sta aspettando. » 
Nonostante questa frase attiri in particolar modo la mia attenzione, la ragazza sembra capirne molto più di me. 
«È di là », la bionda indica l'altra parte dello studio, diviso dall'area circostante solo da un separé in mattoni. Da quel lato si sente provenire il ronzio di una macchinetta e risate. «Tu e la tua amica potete aspettare qui intanto. »
Luke annuisce e dopo averle sorriso, si accomoda sul sofà. Mi fa cenno di raggiungerlo e, seppur contro voglia, lo faccio. Mi siedo, cercando di mantenere una certa distanza da lui. 
«Quindi come ti sembra? » Mi chiede, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sporgendosi in avanti, con il viso rivolto verso di me. 
«Cosa ci facciamo qui? » 
«Davvero non lo ricordi? » Scuoto la testa in segno di negazione. «Mi hai chiesto tu di portarti qui. » 
 «Non ti avrei mai chiesto niente del genere » ribatto sollevando le mani in aria e guardandomi intorno.
«Invece lo hai fatto, mi hai pregato affinché chiamassi per prendere un appuntamento » nonostante quell'irritante sorriso, il suo sguardo vitreo è così sincero che mi ritrovo costretta a dover credere a ciò che dice. 
«Adesso possiamo andare via » mi alzo, aspettandomi che lui faccia lo stesso, e invece resta seduto. 
«E il tuo tatuaggio? » 
«Non mi piacciono nemmeno i tatuaggi » mento, perché in realtà li trovo a loro modo affascinanti ma ne ho paura, come ogni cosa di indelebile in questo mondo.
«Non è quello che hai detto sabato », poggia la schiena sul comodo sofà e unisce le mani dietro la testa. 
«Hai contemplato tutti i miei tatuaggi, chiesto il significato di essi e tracciato ogni linea », lo dice con un tono di voce serio e fermo, con lo sguardo fisso nei miei occhi, come se stesse aspettando una mia reazione. Ma non lo faccio. Deglutisco, sbatto gli occhi nel modo più naturale possibile e porto indietro i miei capelli neri con mano tremante.
Non me lo ricordo, non ricordo niente di tutto questo. Non ricordo i suoi tatuaggi, non ricordo di averli visti e non ricordo di averlo toccato.
«Non farò il tatuaggio comunque. »
«Perché no? Lo desideravi tanto », afferra uno dei raccoglitori posati sopra la superficie del tavolo e inizia a sfogliarlo.
«Ho paura dell'ago » mento e lui sembra saperlo perché ride, ma senza scomporsi più di tanto. Lascia andare il catalogo di tatuaggi al suo posto, lentamente si alza e mi raggiunge. Come sempre è costretto a dover abbassare un po' il viso per far si che i nostri occhi si possano incontrare. Sento il suo respiro caldo sul volto e la sua camicia nera mi sfiora.
  «Le cose permanenti ti spaventano, il per sempre non rientra tra i tuoi canoni e l'idea di un marchio indelebile sulla pelle, che resterà per sempre lì a ricordarti qualcosa, ti opprime. Ti fa sentire schiava di qualcosa su cui tu non puoi avere nessun controllo e questo ti fa uscire fuori di testa » le parole escono fuori dalle sue labbra come una carezza tagliente. Parole decise e dure, parole non sue ma mie.  
Resta a guardarmi per un po' ed io non riesco a muovermi, il nodo che mi si è formato in gola mi impedisce di rispondere, o fare qualsiasi altro movimento.
Solleva una mano all'altezza del mio viso e sta per posarla sulla mia guancia quando un uomo due volte più grande del ragazzo che mi sta di fronte attraversa il separé in mattoni, seguito da una ragazza dai capelli blu e coperta di tatuaggi dal collo ai piedi, che dopo aver salutato lui e la ragazza al bancone lascia lo studio. 
«Ehi Luke » l'uomo lo saluta con una stretta di mano e una sottospecie di mezzo abbraccio. «È lei la ragazza di cui mi hai parlato? »
«Sì, lei è Ashlie » Luke si fa da parte e io mi decido a fare qualche passo verso di loro, stringendo la mano che l'uomo mi sta porgendo. «Ashlie, lui è Jinx. »
Finite le presentazioni, Jinx ci conduce dall'altra parte dello studio.  Le pareti sono tappezzate di foto con cantanti celebri e bacheche piene di tatuaggi e bozze. Proprio dietro al separé c'è la poltrona per tatuaggi, uno sgabello a sella in pelle nera e un carrello contenente diverse attrezzature. Di fronte invece, c'è una scrivania in ferro completamente ricoperta da cataloghi, album e fogli.
«Iniziamo da lei? » Chiede ancora l'uomo e prima ancora che io possa rifiutare, Luke interviene. 
«In realtà c'è stato un cambio di programma, lo faccio solo io. » 
Jinx annuisce e lo invita ad accomodarsi. Osservo Luke togliere prima la giacca in pelle e poi sbottonare la camicia nera, mettendo in mostra il suo busto marchiato. Ammiro i tatuaggi sulla sua pelle che non assumono nessuna nota minacciosa, come se non fossero lì a rinfacciarti qualcosa che tu non potrai mai cambiare ma qualcosa che vuoi disperatamente ricordare, o portare con te. Sembrano semplicemente raccontare un pezzo della sua storia.
«Me li terresti? » Il tono gentile di Luke distoglie la mia attenzione dal suo corpo e la sposta a lui. Mi sta porgendo i suoi indumenti e, anche se sono ancora scossa da ciò che è accaduto dall'altro lato dello studio, mi avvicino a lui e li prendo. Li sistemo in modo più ordinato possibile sul mio braccio sinistro, dopo di che incrocio le braccia al petto e mi appoggio al separé. 
 «Cosa facciamo stavolta? » Il tono con cui Jinx si rivolge a Lucas fa capire che si conoscono da tempo e che lui, lì, ormai sia di casa. Quest'ultimo estrae un fazzoletto dalla tasca dei suoi jeans e lo porge all'uomo che divertito lo afferra e lo apre, scrutando con attenzione il contenuto. 
Perché ha disegnato il tatuaggio su un fazzoletto di carta? 
I due si scambiano uno sguardo d'intesa accompagnato da un sorriso da parte di Luke e un sogghigno da parte di Jinx. A quanto pare l'unica estranea a tutto, continuo ad essere io. 
Senza ulteriori indugi, Jinx inizia a preparare l'occorrente. Luke invece si mette comodo, lasciandosi completamente andare allo schienale della poltrona. 
«Puoi ancora cambiare idea » mi dice ed io non lo guardo nemmeno.
«Non lo farò. » 
«Pronto ragazzo? » Jinx si avvicina nuovamente a Luke, prima ancora che quest'ultimo dica niente, attiva la macchinetta che da il via ad un lieve e persistente ronzio. Inizia a disegnare le prime linee sul pettorale sinistro di Luke e istintivamente il mio sguardo si posa sul volto di quest'ultimo, pensando di cogliere una smorfia di fastidio o dolore, ma l'unica cosa che fa è tenere il labbro inferiore tra i denti e lo sguardo su di me.
«Non fa male? » Osservo rapita i movimenti fluidi ma allo stesso tempo attenti di Jinx. La sua delicatezza è in netto contrasto con il suo aspetto. L'abbigliamento interamente nero, la bandana in testa, la collana d'oro al collo, il gilè in pelle, le braccia interamente tatuate e la barba lunga e ispida gli danno un aspetto da duro e, probabilmente, nessuno si aspetterebbe così tanta grazia nei suoi movimenti. Eppure si sta muovendo così delicatamente, come se stesse dipingendo su tela. 
«No, non molto » Luke abbassa un attimo lo sguardo sull'uomo, poi torna a guardarmi. «Jinx ci sa fare. »

Dopo la prima mezz'ora le mie gambe hanno iniziato a cedere e Jinx deve averlo notato, consigliandomi caldamente di accomodarmi nella sedia vicino alla scrivania in ferro. 
Jinx ha lavorato al tatuaggio per un'altra ora e mezza e adesso sembra aver portato a termine il lavoro. Applica una crema sul punto di pelle tatuato e ci posiziona sopra uno strato di pellicola trasparente, per poi dare ordine a Luke di rivestirsi.  Gli porgo la camicia e cerco di dare un'occhiata al tatuaggio appena fatto ma Luke me lo impedisce dandomi le spalle.
«Grazie amico » dice a Jinx, infilandosi anche la giacca. «Come al solito hai fatto un ottimo lavoro. »
I due si scambiano una forte stretta di mano e quando si dirige al bancone, io resto a salutare Jinx.
«È stato un piacere conoscerti Ashlie, spero di rivederti presto. » Mi congeda con un occhiolino e io gli rivolgo un lieve sorriso prima di spostarmi nella sala d'attesa. Attendo che Luke ritorni, per poi uscire fuori dallo studio e venire investiti dalla fredda aria notturna.
Luke fa per tornare alla macchina ma io pianto i piedi sul posto in modo fermo e lui si volta a guardarmi con fare confuso.
«Non mi hai ancora detto nulla. » La mia voce risuona spezzata e flebile. 
«Ti ho detto più di quanti immagini, Ashlie »
«Cosa mi avresti detto? » Mi avvicino anch'io all'auto, ma dal lato del passeggero. Con il fuoristrada tra di noi sento di potergli dire quello che voglio, senza la paura che lui annulli le distanze e faccia quello che fa sempre. 
«Cosa temi di aver fatto sabato sera, Ashlie? » mi chiede bruscamente, facendomi sentire un po' come sul filo di un rasoio. È una bella domanda, a cui neanch'io ho un risposta precisa. Potrei dire solamente che ho paura di essermi esposta troppo ad un estraneo. Di aver mostrato un lato di me che hanno seppellito da tempo.
«Sono solo curiosa » ribatto, stringendo le braccia al petto e puntando lo sguardo alle mie gambe fasciate da un paio di jeans neri.
«La tua è paura, non curiosità », apre lo sportello del lato del conducente, ma prima di salire mi guarda di nuovo. «Sali, non abbiamo ancora finito. »
   
 
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