4° Capitolo
Derek da
tutta quella storia avrebbe dovuto imparare una lezione importante, la più
importante di tutte: chiudere la porta a quadrupla mandata.
«Nipote, un
pettirosso mi ha informato che hai un bambino, uno splendido bambino» disse con
una sfumatura compromettente il maggiore degli Hale che entrò come un ciclone
nel loft.
Nel volto
del padrone di casa si dipinse immediatamente un’espressione indigesta ed irritata.
«Non ho nessun bambino» non si girò nemmeno, continuando a dedicarsi a
sparecchiare la tavola usata durante la colazione, togliendo la scatola dei
cereali e la tazza – non ne possedeva nessuna ed il giorno prima, insieme a
cereali e buste di latte, Derek aveva acquistato quella che più piaceva al
pargolo, che optò per una che ritraeva una bella ed aggraziata volpe rossa su
sfondo verde acquarello – con cui Stiles aveva mangiato.
«Oh, non
dire queste brutte cose, non vogliamo che il nostro Stiles ti senta e gli si
spezzi il cuore» lo riprese Peter con bonario e malvagio sarcasmo, buttando
sale sulle ferite aperte.
Derek si
fermò nell’immediato, voltandosi ed alzando lo sguardo verso di lui glaciale e
freddo che avrebbe fatto ammutolire chiunque si trovasse al suo cospetto, ma
Peter sapeva leggerlo bene e decifrare quanto l’avesse colpito, quanto
perseverasse nel crucciarsi per quello. Lui era semplicemente un mago
nell’infierire.
«Derek,
guarda» richiamò la sua attenzione la piccola trottola spuntata dal nulla
davanti al tavolo con in mano lo stesso libro della sera precedente, pronto per
porgerglielo ed affrontare un nuovo argomento pieno di parole.
Peter per
la prima volta poté vedere il cucciolo d’uomo dai grandi occhi mielati, pendere
completamente da suo nipote e fasciato da un pigiamino verde chiaro, su cui
erano raffigurate varie posizioni di piccoli lupacchiotti disegnati da un
tratto morbido e tondeggiante. «Lupi, eh?».
Il tono
saputo e sarcastico del suo consanguineo era una tortura per le orecchie del
mannaro e gli urtava molto i nervi. «Gli piacciono» dargli spiegazioni era ciò
che odiava di più.
«Oh, certo.
Sappiamo tutti quanto gli piacciono, soprattutto quelli musoni e petulanti» lo
ribeccò Peter con maestria, enfatizzando il tutto con una sfumatura prettamente
maliziosa.
«Chi è?»
domandò guardingo il figlio dello sceriffo, immerso in un’attenta analisi da
cui trapelava curiosità evidente e diffidenza, aggrappandosi alla mano di
Derek più vicina e riparandosi parzialmente dietro di lui.
«Qualcuno
da cui dovresti tenerti lontano» gli intimò Derek con lo sguardo severo rivolto
verso il nuovo arrivato.
«Così mi
ferisci» rivelò con drammaticità l’uomo, apparendo teatralmente colpito. «Sono
lo zio di Derek, Peter» si presentò con un sorriso furbo sulle labbra,
rivolgendosi alla figura del cinquenne ed avvicinandosi di pochi centimetri.
Le perle
d’ambrosia si ingrandirono per una frazione di secondo e l’interesse sembrò
crescere, insieme alla cautela. «Hai uno zio?».
«Purtroppo» riferì il moro con secchezza e noia, desiderando
ardentemente che l’intruso andasse via.
«Non
badargli, non saprebbe cosa fare senza di me» rivelò come una grande chicca
segreta, strizzandogli un occhio d’intesa. «L’ho cresciuto io, insieme alle sue
sorelle e devo dire che ho fatto un ottimo lavoro».
«Già, è il
dopo che è stato un vero disastro» proferì Derek con una nota leggera di bufera
e collera che li investì in pieno.
Stiles lo
guardò per la prima volta sbalordito ed impressionato, spostando lo sguardo
dall’ uno all’altro, cercando di capire quale segreto fosse nascosto e perché
Derek fosse così infastidito dalla sua presenza. Forse avrebbe dovuto
ascoltarlo.
«Ti ho
portato qualcosa che ti piacerà» annunciò ad un certo punto il nuovo ospite,
estraendo dalla schiena una scatola rettangolare di medie dimensioni,
portandola esattamente sotto gli occhi affamati di sapere del bambino.
Davanti a
lui si presentò l’immagine di un paesaggio della giungla con annessi alcuni
degli animali più famosi di quel territorio, la scritta riportava 500 pezzi. «Un puzzle!» esclamò
meravigliato ed incantato, lasciando la mano di Derek ed avvicinandosi per
prenderlo e prepararsi a stringerlo. Ma prima che potesse sfiorarlo si fermò,
come rammentandosi di qualcosa e rivolgendo la sua titubanza verso il mutaforma
che si prendeva cura di lui.
Probabilmente
Derek non si era mai presentato così sorpreso e confuso come in quel momento,
ma Stiles in quei giorni l’aveva ascoltato diligentemente, immagazzinando ogni
sua parola e facendone tesoro. Doveva essere costretto a farlo interagire con
molte cose e persone, dovendogli dare la sua rassicurazione e la certezza che
potesse farlo, ma non aveva mai mostrato perplessità o ignorato un suo
avvertimento, che fosse finto o meno, e non si era mai fiondato da qualcuno che
non conosceva, ma che gli portava doni. L’unica
volta che dovrebbe seriamente ascoltarmi, non lo fa. Perché deve comportarsi
così da Stiles quando non deve? Ma Stiles aveva gli occhioni troppo grandi
ed eccitati, quel nuovo gioco sembrava attrarlo come nient’altro prima
d’allora, come avrebbe potuto negarglielo? «Se ti piace tanto, puoi prenderlo»
semplice, non facendolo.
Le iridi
d’ambra brillarono estasiate, ma il via libera del lupo sembrava più importante
che mai. «Sicuro?».
Derek
avvertiva tutta l’improvvisa apprensione che il bambino gli stava rivolgendo,
senza che lui ne fosse consapevole e sapesse spiegarselo. Stiles sembrava
cogliere ciò che gli faceva male e lo infastidiva. «Sì, sicuro».
L’umano gli
regalò il sorriso più abbagliante che avesse mai visto e si affrettò ad
afferrare la scatola di cartone tra le braccine, dando un timido cenno del capo
di apprezzamento al portatore di doni. «Grazie, zio di Derek» e scappò via,
mettendosi al centro della vetrata dove entrava più luce, sedendosi per terra
ed aprendo il suo nuovo intrattenimento.
«Un puzzle»
disse Derek in una domanda muta, osservando il piccolo abitante completamente
assorto nel suo compito.
«Esattamente»
confermò il lupo adulto, sorridendo fiero. «È ottimo per lui. Tiene le mani
impegnate per la sua iperattività ed ogni puzzle rappresenta un nuovo caso che
deve risolvere, un quadro che deve completare e da cui deve scoprire ogni
segreto. Amplificherà la sua capacità d’osservazione».
Come se ne avesse bisogno. «Ha cinque anni».
«Dovresti
sapere meglio degli altri quanto lui sia un bambino di un altro livello» disse
Peter con voce profonda e saputa, lanciandogli un’occhiata oblunga. «A te non
avrei nemmeno potuto dare uno da 20 pezzi in formato gigante».
Il tono di
suo zio era sempre sarcastico ed ironico, ma Derek non poté trattenersi dal
roteare gli occhi verso l’alto, mostrando ampiamente quanto poco apprezzasse la
sua compagnia.
«Gli
piacerà, lo finirà in fretta e ne vorrà di nuovi» rivelò Peter senza alcun
compromesso, sorridendogli vittorioso e quasi orgoglioso del suo operato. O di Stiles?
Doveva
preoccuparsi del fatto che Peter fosse stato capace di adescarlo con una
facilità sorprendente, ignorando il suo metterlo in guardia?
O forse
certi istinti in Stiles non cessavano di esistere.
Certo era
che Stiles per tutta la mattina non si separò dal nuovo gioco, che esigeva la
sua totale attenzione e precisione.
Lentamente
il portellone d’ingresso fu aperto e presentò la figura di uno Scott
impacciato, seguito da una Allison titubante che si nascondeva dietro di lui.
Derek non
fu sorpreso di ritrovarseli in casa, dava per scontato che l’Argent sarebbe
tornata alla carica per comprendere e farsi perdonare da Stiles ed era quasi
doveroso per l’Alpha tentare qualsiasi strada per riconquistare suo fratello.
«Ciao,
Stiles» pronunciò con calore e timida intraprendenza la cacciatrice,
affacciandosi quasi completamente dal messicano che usava come scudo.
Nella
manina del figlio dello sceriffo ruotava un piccolo tassello di puzzle che
fissava da alcuni minuti, sospendendolo in aria ed incastrandolo astrattamente
dove supponeva appartenesse, rimanendo disteso sul freddo pavimento con le
gambe piegate verso l’alto che muoveva a seconda della sua concentrazione.
«Allison» salutò con distacco, senza staccare il contatto visivo con il suo
enigma.
La ragazza
non poteva negare che ne fosse stata profondamente colpita, che l’atteggiamento
ostile del bambino la ferisse molto. «Posso giocare con te?» ma lei era una
temeraria.
Stiles si
riscosse appena, giusto il tempo che gli occorreva per metabolizzare le parole
e dargli il corretto significato. «Okay» non la guardò affatto ed Allison gli
si avvicinò con cautela, sedendosi sulle piastrelle insieme a lui.
Stiles era
un campione nel tenere il muso.
Nel
silenzio perpetuo e riflessivo che la circondava, la cacciatrice si sentiva
fuori posto e non sapeva esattamente come fare per riguadagnarsi l’attenzione
del cucciolo d’uomo che persisteva a stare sulle sue; provò ad accennare un
sorriso incoraggiante, ma quello era troppo concentrato a fissare i tasselli a
cui non riusciva a trovare una collocazione. «Posso aiutarti?» tentò adagio, la
piega dolce ed incoraggiante che le dipingeva le labbra.
Stiles la
guardò un po’ diffidente, ponderando la sua richiesta e rimanendo in un
perpetuo mutismo. Annuì soltanto.
La mora
prese un pezzo del puzzle tra le dita, dando un’occhiata generale e lo rivolse
verso l’autore di quella grande opera. «Questo dove va?».
L’umano lo
degnò di una rapida occhiata ed indicò un punto periferico dell’immagine che
prendeva sempre più forma.
Allison
individuò il punto in cui era stata indirizzata e lo incastrò perfettamente nel
luogo a cui apparteneva, sorridendo soddisfatta e rivolgendolo al cinquenne,
trovando quest’ultimo a fissare meravigliato il pezzetto di cartone appena
sistemato.
Lo vide
fissarne un altro che era stato isolato dagli altri, quasi fosse in attesa
della sua venuta e di svelare il mistero più grande di tutti, e lo agguantò con
le dita sottili e corte, tenendolo sollevato sul riquadro vuoto e depositandolo
con cura, sgranando gli enormi occhi di miele ad immagine completata.
Allison
trattenne il fiato aspettandosi una qualsiasi reazione negativa e ricevendo
soltanto soddisfazione dal suo sguardo caramellato.
Sospirò
rincuorata e cominciarono a dedicarsi interamente al puzzle, scambiandosi i
pezzi e seguendo alla lettera le direttive di Stiles.
«Un puzzle,
Stiles li adora» sovvenne il messicano che aveva assistito a tutta la scena
senza emettere suono e preoccupato per un possibile rifiuto da quello che era
stato il suo migliore amico.
«Già»
convenne Derek con osservazione infastidita.
«Non ci avevo
proprio pensato, hai fatto bene» Stiles aveva passato tutti gli anni della sua
fanciullezza ed adolescenza a risolvere enigmi e
figure che si incastrassero tra loro; era il suo passatempo preferito, era ciò
in cui era più bravo ed era un ottimo modo per distrarlo.
«Non sono
stato io» lo corresse il grande lupo cattivo, con ancora quell’indigestione
portata dalla figura peggiore che potesse comprendere il bambino meglio degli
altri. «Peter» rispose all’espressione interrogativa dell’Alpha.
«Oh» soffiò Scott sorpreso ed un po’ disorientato,
tornando a concentrarsi sulle due presenze sistemate sul pavimento che
continuavano quel gioco indisturbate e con piccoli risolini sinceri che
sgorgavano dalla bocca di Stiles. «Ne sa sempre una più del diavolo quell’uomo».
«Forse
perché è il diavolo» lo Stiles diciassettenne avrebbe apprezzato quella battuta
e l’avrebbe custodita negli annali.
Il
messicano curvò appena le labbra, leggermente stupito da qualcosa di così
tagliente e preciso che il loro umano avrebbe detto ed appoggiato, ma forse, in
un certo qual senso, era Derek che preservava la sua voce. «È interessante se
ci pensi e, beh, anche un po’ losco. Stiles non permette a nessuno di
avvicinarsi se non ha la tua approvazione, eppure con Peter è successo e dubito
tu gli abbia dato l’okay».
Nemmeno
sotto tortura. «È accaduto anche con Cora. Non ero nemmeno presente, le ha
chiesto se fosse mia sorella e l’ha adottata».
«Il fascino
Hale» lo derise il Vero Alpha, trasognato ed incurante del pericolo in cui si
era messo.
Derek lo
fulminò con lo sguardo e Scott ridacchiò spensierato. «Non puoi negare che
abbiate un ascendente su di lui, soprattutto tu. Gli altri sono una conseguenza
istintiva».
«Una
conseguenza?» domandò di rimando il nato lupo, aggrottando le folte sopracciglia.
«Lui riesce
a percepirti, in qualche modo» il che era davvero fuori da qualsiasi ordinario.
«Credo che
stiate tutti fraintendendo» Derek ricordava bene le ultime parole che Stiles
gli aveva gettato addosso con dolore, i frammenti del suo cuore tenuti insieme
precariamente, pronti ad evaporare e dissolversi nel perpetuarsi dell’infinità
del tempo.
«Dici?»
chiese retoricamente Scott per nulla convinto e con quell’aria sapiente che gli
era valsa il titolo di Vero Alpha. «Non voglio dire che tutto quello che tocchi
si trasformi in oro, quantomeno non per il nostro Stiles combattivo e
diffidente. Ma per questo bambino? Per questo bambino la tua sola impronta vuol
dire sicurezza, certezza».
Anche Cora
aveva cercato di farglielo capire, con vocaboli diversi e più simili a quelli
di Stiles, ma Derek non poteva crederci, perché lui credeva allo Stiles
consapevole e che conosceva ogni cosa di loro. «Peter, sicurezza?».
«Peter sa
sempre come aggirare le regole» un po’ come suo fratello, ripensandoci. «E poi
credo che un bel puzzle ti batterebbe in ogni caso».
Già,
esattamente per quella ragione Stiles era sempre in mezzo ai guai e non sapeva
resistere al mistero, ai rompicapi da risolvere ed ai pezzi da rimettere a
posto per avere un quadro delineato e chiaro, la chiave di volta per ogni
soluzione. Avevano litigato infinite volte su quell’aspetto, su Stiles che si
trovava costantemente in mezzo ad ogni situazione problematica, pericolosa, al
limite della porta che conducesse direttamente all’Ade. Ma non aveva mai voluto
saperne di tirarsi indietro, fin dagli inizi, fin da quando loro non
rappresentavano nulla l’uno per l’altro. Poi tutto era precipitato.
Ma era
vero, Stiles l’avrebbe comunque costantemente messo al secondo posto davanti ad
una lavagna bianca costernata di fili di lana rossa.
Derek, al
contrario, lo metteva ripetutamente al secondo, terzo ed anche quarto posto
davanti a qualsiasi cosa.
Derek la
cattiva sorte la meritava, ma Stiles no. «Potrebbe valere anche per te».
Scott negò
con la testa, scartando la possibilità. «Credo che a me serva un approccio
diverso e se qualcuno dovesse intercedere per me, quella sarà Allison».
Con Allison
era stato estremamente semplice, aveva fatto tutto da sé ed a Derek era toccato
semplicemente compiere un unico cenno affermativo, senza nemmeno sapere di
avere quel potere, e Stiles si era fidato. Di lei, ma soprattutto di lui.
Derek non
disse una parola, non acconsentì o si mosse in qualche modo che accertasse di
aver capito, ma Scott sapeva che nella sua statuaria impassibilità il lupo nero
comprendesse molte cose. «Lo tratti bene questo bambino?».
«Faccio del
mio meglio» non era un’accusa, Derek sapeva che vi era solo preoccupazione da
parte del migliore amico di Stiles che non poteva accertarsi in prima persona delle
sue condizioni.
Certo, Derek non
avrebbe mai fatto nulla di male a quel prezioso cucciolo umano. «È un
terremoto, non è vero? Ti sfinirà».
Un terremoto? «In verità, è molto calmo» e quell’aspetto non lo entusiasmava affatto,
era innaturale.
«Calmo?»
domandò di rimando in un eco il messicano, corrugando la fronte e stentando a
credere alle sue orecchie. «Stiles?».
«Non era
così a quell’età?» Derek era curioso, preoccupato per lo più, l’aveva avvertito
fin dal primo approccio che c’era qualcosa di erroneo.
«No, non mi
pare» Scott ci rimuginò sopra, tornando indietro con la memoria, testimone di
ben altri scenari. «Aveva la voce acuta e alta, parlava ininterrottamente di
cose di cui non capivo niente, si muoveva continuamente e correva ovunque. Era
imprendibile» le loro giornate non erano mai monotone, mai vuote e silenziose;
c’era sempre un enorme fracasso intorno a loro e Stiles ne combinava una dietro
l’altra, mettendoli nei guai, andando dove non doveva andare, origliando e
leggendo documenti a cui non avrebbe dovuto avere accesso.
Imprendibile
era l’aggettivo giusto per descriverlo, era imprendibile perfino in quella forma,
seppur in modo differente. «Questo Stiles invece è pieno di sensi di colpa, si
incolpa per ogni cosa, pensa di non piacere alla gente e di arrecarle disturbo
perché è espansivo e rumoroso» allo Stiles diciasettenne non importava affatto
di quegli aspetti, al contrario, si impegnava enormemente a dare più fastidio
possibile, marciando lì dove sapeva avrebbe fatto più danni ed irritato
all’inverosimile.
«Oh, sì»
asserì il mutaforma più giovane, vedendo concretizzarsi effettivamente quelle
caratteristiche che conosceva bene. «È proprio da Stiles. Non ha mai avuto
troppe persone intorno a sé, ero il suo unico amico, come lo era lui per me. Ma
se per me valeva la timidezza ed il bisogno di essere trascinato dagli altri,
non si può dire lo stesso di Stiles. Per quanto lui si sforzasse tanto dando il
meglio di sé e palesando le sue conoscenze, le persone preferivano evitarlo.
Anche gli altri bambini lo evitavano, perché era diverso da loro, perché
sentivano solo le parole cadaveri ed assassini, ma non si fermavano ad udire il resto» prese un profondo respiro e lanciò
un’occhiata al piccolo esserino che si intratteneva con la sua metà. «Stiles ha
sempre avuto i sensi di colpa, pensava che qualsiasi cosa facesse fosse quella
sbagliata, qualcosa ai danni degli altri e questa caratteristica è cresciuta
con lui. È ancora radicata in lui, nelle sue scelte, nelle conseguenze,
nell’impatto che porterebbe. Sopra tutti c’è suo padre, si logora il fegato per
ciò che gli combina alle spalle e per quello che si ripercuote sulla sua figura
di sceriffo e genitore, anche se tutto quello che fa è per proteggere le
persone e lui stesso» Scott riportò la sua attenzione sull’uomo che non aveva
perso una parola. «Pensavi fosse una conseguenza del Nemeton?».
«Sicuramente
ne è influenzato» era difficile scartarne la possibilità, c’erano troppi
fattori che gli testimoniavano il suo legame con il vecchio albero sacro.
«Guardalo»
disse il Vero Alpha, indicandogli le due figure che non avevano prestato alcuna
attenzione al loro vociare controllato, continuando a sistemare i piccoli
tasselli negli spazi più appropriati, tutto contornato da sorrisi sinceri e le
risate che Allison riusciva a strappare al pargolo, sommergendo la ragazza di
continue chiacchere che non sembravano stancarla affatto. «È ancora il bambino
che desidera soltanto giocare e ridere».
Era
splendido, Derek avrebbe soltanto voluto che Stiles fosse felice, nel più lungo
arco temporale possibile. «Vorrei non fosse così arguto» attento ad ogni
variazione, ad ogni incastro mancante, al battito accigliato di una persona
stanca e confusa.
«È Stiles»
in qualunque tempo, universo parallelo e momento storico, Stiles sarebbe sempre
rimasto lo stesso.
«Una
condanna» dichiarò univoco il Beta.
Scott mal
soffocò una risata che lo Stiles suo coetaneo non gli avrebbe mai perdonato.
«Sa come farsi amare».
Amare, era una
bella parola che Derek non voleva più conoscere.
«Per caso
hai capito perché si sia arrabbiato con Allison?» gli domandò il diciasettenne
di punto in bianco, non tanto per stemperare l’atmosfera, ma quasi come se
avesse avuto quel pensiero costante che gli ronzava nella testa da un po’.
Avrebbe
voluto rispondergli semplicemente con è
un bambino ed i bambini se la prendono spesso per qualcosa di poco
rilevante ed incisivo, benché per i cuccioli d’uomo fossero effettivamente
importanti. Tutto era importante. «Non ne sono completamente certo».
Scott
l’osservò per qualche attimo, scrutandolo attentamente nelle iridi boscose, con
la certezza di carpirgli il segreto, ma forse soltanto l’umano ne era in grado.
«È difficile entrare nella sua testa».
Per Derek
era estremamente semplice, in realtà. Lo capiva come non gli capitava da una
vita intera; un solo incrociarsi d’occhi, una mezza parola sussurrata, un gesto
affrettato ed avventato, Derek riusciva a leggervi tutto ciò che gli passava
per la mente, insieme ai suoi tormenti ed afflizioni, i dubbi e la colpa
immotivata che si portava sulle spalle. «A volte».
«Ehy, Scott, vieni ad aiutarci» lo chiamò la bella
cacciatrice, interrompendoli ed attirando la loro attenzione, indicando quel
tappeto di pezzi di cartone che ricoprivano il pavimento.
Erano già a
buon punto, non avevano bisogno di un altro paio di mani in soccorso, ma quello
era un piccolo ponte che Allison stava creando tra loro, tra i due amici che
erano stati un tempo ma di cui Stiles diffidava. Scott puntò gli occhi castani
sul corpicino che non si era praticamente scomposto, dedicandogli giusto un’occhiata
veloce e priva di interesse, come se la sua presenza non lo disturbasse
minimamente. «Va bene, ma non sono molto bravo».
Si defilò
come si era trattenuto con il padrone di casa, lasciandolo solo al centro della
grande camera ad osservarli interagire tra loro impacciatamente. Derek decretò
che dovesse impiegare il suo tempo in qualche modo.
«Ma sei un
disastro» udì una voce femminile sconvolta alcuni minuti dopo il lupo cattivo
nell’angolo appartato che si era scelto, lasciando a quei tre il rispettivo
spazio.
«Scott non
ha mai saputo giocare» scoppiò a ridere senza controllo il cinquenne, non
meravigliandosi affatto dell’evento, ma divertito oltremodo dalla reazione
della cacciatrice e dall’imbarazzo del Vero Alpha.
Scott, che
Stiles l’avesse riconosciuto dalla sua totale incapacità?
Ci fu un
nuovo scoppio di risa infantile ed un broncio pronunciato da parte del
diciasettenne; forse il messicano avrebbe avuto il suo epilogo e Derek si
sarebbe riempito ancora per un po’ le orecchie della risata autentica di
Stiles.
Giocarono
per tutto il pomeriggio, tutti e tre, mentre Derek se ne stava tranquillamente
in disparte, ad ascoltarli di tanto in tanto, era difficile non avere i timpani
perforati dalle loro voci esageratamente alte e stordenti, ma Stiles era
entusiasta, tranquillo, un po’ più spensierato e non importava se ad un certo
punto avessero abbandonato il puzzle quasi del tutto finito e gli avessero
monopolizzato il loft ed il mannaro in quell’istante si trovasse a rimettere
tutto in ordine dopo aver fatto cenare il piccolo di casa; semplicemente aveva
la certezza che Stiles si abbandonasse alle persone giuste e si lasciasse
trascinare dal trasporto degli altri, dai loro benefici e dalla cura che
provavano nei suoi confronti.
Alla fine
di quella giornata campale Scott si era mostrato più fiducioso di se stesso, con la certezza che Stiles lo stesse lasciando
entrare nella sua sfera privata, benché tutto precipitasse nel momento in cui
la cacciatrice si allontanava per una qualsiasi ragione. Erano passi arrancati,
ma c’erano.
La coppia
felice era andata via prima che mettesse Stiles a tavola, per qualche minuto
erano riusciti a parlare, ma subito dopo il bambino era tornato sul pavimento a
finire di risolvere il suo tappetto di cartone colorato e Derek era quasi certo
che suo zio il giorno dopo sarebbe tornato con un nuovo puzzle, più complicato
del precedente.
Ma dopo la
conversazione tenuta con Scott, Derek non poteva fermarsi dal riflettere sul
fatto che Stiles fosse convinto di essere un peso per le sue spalle, che
l’averlo preso sotto la propria ala ed occuparsi di lui a tempo pieno,
rifiutando la figura genitoriale e tutte le altre, non fosse che un compito
gravoso che il lupo svolgeva con noia. Dopotutto era saltato fuori quando Cora
aveva deciso di partire comunque e lasciarlo a preoccuparsi e crescere quella
creatura fragile come vetro. È colpa mia.
Era tremendo che un bambino di cinque anni conoscesse il significato di quella
frase, che sapesse usarla talmente bene da impensierirlo. L’aveva usata fin
dall’inizio di quell’incubo e Derek non riusciva a smettere di pensare alla
possibilità che lo Stiles diciasettenne fosse giunto al Nemeton
con quel pensiero costante nella testa, a ripeterlo come un mantra,
accompagnato ed infiocchettato malignamente dal connubio perfetto del suo cuore
spezzato. Sensi di colpa, inadeguatezza ed un amore stroncato ancora prima che
potesse raggiungere una qualunque vetta.
Eppure Derek sapeva di doverglielo quell’amore,
qualsiasi forma d’amore.
Erano le
due di notte passate quando sentì minuscoli piedini scalzi procedere sul
pavimento freddo, prima con velocità e poi rallentando pian piano, come se si
fosse reso conto dell’ora e dell’entità delle sue azioni; un coraggio che
doveva raccogliere ed il disturbo che avrebbe comportato.
Derek aveva
chiuso le palpebre soltanto per un’ora.
«Der»
mormorò in un piccolo richiamo, accertandosi se fosse sveglio o se stesse dormendo;
in quel caso sarebbe tornato indietro sui suoi passi.
Anche se
Stiles ignorava la sua natura da lupo mannaro, i suoi sensi non stavano mai a
riposo, soprattutto se c’era lui in giro – cinque anni o diciassette, per Derek
non esisteva differenza –; l’avrebbe svegliato senza volerlo. «Un altro
incubo?».
Il cucciolo
d’uomo scosse il capo negativamente, rimanendo impalato sul posto, vicino ai
piedi del letto del padrone di casa.
«Hai
qualcosa da dirmi?» domandò il mutaforma a quella sola risposta, aspettando che
il suo interlocutore aggiungesse del testo, ma rimanendo muto e con le labbra
cucite esattamente dove si trovava.
Anche se
nello Stiles diciasettenne si notava meno, anche quello era un aspetto tipico
del suo essere; se qualcosa lo angustiava, aveva delle richieste particolari o
specifici dubbi lo sovrastavano, era più facile che se li tenesse per sé,
cadendo in un mutismo mascherato, volatilizzandosi o sommergendolo con la sua
personalità rumorosa e fin troppo spesso studiata. In genere cercava di trovare
la soluzione da solo, anticipava tutti gli altri, ma quando si possedeva l’età
di cinque anni non si era affatto liberi di muoversi autonomamente.
Derek
scosse le lenzuola, liberandosene, alzandosi a sedere, in modo tale da poterlo
guardare dritto negli occhi di caramello puro. Erano incredibilmente chiari
perfino nell’oscurità spezzata unicamente dai raggi lunari. «Puoi chiedermi
quello che vuoi» chissà cosa avrebbe detto lo Stiles prossimo alla maggiore età
se avesse saputo dell’accondiscendenza totale nei suoi confronti.
Lo vide
mordersi le labbra ripetutamente, trattenere la richiesta che aveva sulla punta
della lingua e che lo stava divorando. Da quanto ci pensava? Da quanto si stava
tormentando per non fargli quella richiesta? «Possiamo andare dal vic- dallo sceriffo?».
Oh, alla fine
era veramente quello il problema. «Sì, possiamo andare dal tuo papà».
Le perle
dorate si inumidirono, brillando nella notte e quella era la parola magia, la
parola che metteva in mostra quanto effettivamente avesse a che fare con una
creatura di soli cinque anni separata dai genitori e che ne sentiva
terribilmente la mancanza. Stiles voleva soltanto il suo papà.
Probabilmente
era stata proprio quella la ragione che aveva scatenato il suo malumore,
indirizzandolo alla figura della cacciatrice che era riuscita ad entrare in
casa sua, ad aggirarsi nella sua camera ed in qualunque spazio a lui fosse per
qualche ragione inaccessibile. Anche se aveva scelto di sua iniziativa di
rimanere con il lupo ed allontanarsi dal padre, in qualche modo quella scelta
l’aveva logorato ed era bastata una scintilla microscopica per far divampare un
incendio. Derek avrebbe fatto qualsiasi cosa per estinguere le fiamme.
«Possiamo
andare adesso?» domandò il cucciolo d’uomo, guidato dalla diga del fiume ormai
aperta.
«Adesso?»
Derek controllò bene il suo sconcerto, adocchiando appena la sveglia digitale
anonima che capeggiava sul comodino, indicando un orario proibitivo per uscire
di casa per andare incontro a qualcuno. «Immagino vada bene» lo sceriffo
sicuramente avrebbe avuto il turno notturno, in fondo, dove altro poteva essere
quando in casa non regnava un’anima viva; era sicuro si stesse sommergendo di
lavoro.
Vide Stiles
annuire forte con la testa, stringere le labbra carnose e sparire nella
direzione del suo giaciglio, precipitandosi da lui successivamente
perfettamente vestito, con le scarpe già allacciate – di cosa doveva
sorprendersi, se era già capace di leggere come un bambino di otto anni –,
mentre Derek ebbe soltanto la lungimiranza di afferrare un paio di jeans
dimenticati in un angolo vicino.
L’avvolse
dentro una giacca pesante prima di aprire il portellone a scorrimento. «Pensi
che si senta solo?» domandò Stiles all’improvviso, stretto nel suo indumento
caldo, gli occhi immersi nei pensieri e la tenacia che si sarebbe rafforzata
davanti a qualsiasi risposta.
Se Derek
non fosse stato l’uomo tutto d’un pezzo che era, con il corpo costernato da
cicatrici che l’avevano distrutto cellula dopo cellula, si sarebbe sgretolato
al suono di quell’interrogativo consapevole. Stiles dava per certo che ad
attendere l’ufficiale e colorare le sue giornate non vi fosse nessuno. «Ha te,
non può sentirsi solo» chi non si
sentirebbe solo dopo averti avuto nella propria vita?
Derek non
doveva niente a Stiles, non doveva rendergli quell’amore in cui l’umano aveva
tanto sperato e creduto per pietà, per pulirsi la coscienza. Derek provava
realmente quell’amore. E Stiles lo meritava.
La stazione
di polizia la notte era completamente deserta, l’aveva appurato un anno prima,
con uno Stiles sedicenne seduto in aiuto a controllarlo e criticarlo,
giudicando malamente le sue doti da seduttore ed ammaliatore. Per quanto
avessero funzionato perfettamente, permettendo al mannaro di entrare, a Stiles
non era mai andata giù. Probabilmente perché sperava in qualcosa di più
costruttivo ed incisivo che un semplice sorriso abbagliante.
C’era
soltanto un agente all’ingresso, seduto al bancone, ed una scrivania occupata
nella grande stanza sempre affollata da troppe persone. Le luci del piccolo
ufficio della massima autorità della città erano accese, esattamente come Derek
aveva supposto.
«Problemi?»
domandò una voce poco conosciuta che Derek avrebbe dovuto cominciare ad
associare alla svelta.
Avrebbe
dovuto aspettarselo, in fondo si erano precipitati all’interno del locale come
se fossero di casa – e Stiles lo era, come lo era a modo suo Derek –, alle tre
di notte passate, con un bambino di cinque anni che teneva per mano, senza
chiedere nulla a nessuno. Di certo non era poco sospetto. «Vorremmo incontrare
lo sceriffo» riferì il licantropo senza alcun mistero, incontrando per la prima
volta quello che era il nuovo vice. Era arrivato da circa tre settimane e
nemmeno Stiles sapeva molto di lui, ancora.
Jordan Parrish li squadrò per bene, per quanto avesse dei
lineamenti dolci e che non suggerivano pericolo, era attento e meticoloso.
«Motivazione?».
«Familiari»
nessuna bugia, la pura e semplice verità che non poteva essere spiegata.
Parrish passò lo sguardo dal lupo alla mano legata a
delle piccole dita, incontrando due enormi occhi color caramello che gli
parvero fin troppo riconoscibili. «Assomiglia al figlio».
«Sì, gli
somiglia» Derek sperò che Stiles non li correggesse, che non gridasse al mondo
il loro reale legame parentale e svelasse quello che nessuno avrebbe mai potuto
capire. Ma Stiles rimase in silenzio, le gemme ambrate attente e curiose,
nessun gesto che potesse tradirli, era come se sapesse esattamente come dovesse
comportarsi in casi simili, dove la ragione non poteva avere la meglio ed i
segreti dovevano rimanere tali, lasciandosi guidare dagli adulti, da chi ne
sapesse più di lui. Era fiducia. La fiducia sconfinata che teneva nei riguardi
di Derek.
L’autorità
non indagò oltre, limitandosi ad avvicinarsi alla porta dello studio dello
sceriffo e bussando due volte con le nocche. Si sentì un avanti stanco ed il biondo che annunciava che avesse visite, non
specificando di che tipo.
Lo sceriffo
era seduto malamente sull’angolo della scrivania più lontano dalla porta, in
mano delle carte che continuava a sfogliare, la vista esausta e le borse sotto
gli occhi; vicino vi era un grosso bicchiere il cui fondo era pieno di caffeina
e l’uomo ne sorseggiò due grandi sorsi per tenersi sveglio.
Non prestò
molta attenzione a ciò che il giovane vice sceriffo
gli disse, aspettò soltanto che qualcuno gli si avvicinasse, nella speranza di
poter chiudere in fretta la questione, benché fosse un orario anomalo che non
presagiva nulla di buono. Ma cosa c’era che presagiva qualcosa di buono dentro
una stazione di polizia?
Dei passi
felpati entrarono in contatto con il suo apparato uditivo, seguiti da alcuni
più leggeri, entrando nella stanza e superando la soglia, rimanendo
silenziosamente in attesa.
In dolorosa
attesa. «Papà».
Una vocina
che non sentiva da anni, ma che per uno strano scherzo del destino aveva
riudito alcuni giorni prima, gli perforò i timpani e le iridi azzurre
incontrarono le due figure che sostavano davanti l’uscio della porta
tempestivamente chiusa, allacciate dalla trama delle loro mani dalle grandezze
totalmente differenti. «Stiles?» domandò in un’allucinazione premente, i brutti
scherzi della sua stanchezza che non gli davano tregua.
Derek mollò
la presa e Stiles non resistette più, prendendo la rincorsa e fiondandosi verso
la figura paterna che si allontanò dal tavolo per afferrarlo di peso,
stringendolo forte al petto nel momento in cui il bambino gli circondò il
collo, affondando il visino nella spalla. «Sta male? È successo qualcosa?».
Tutta la
preoccupazione dilatante ed il dolore che aveva provocato quella separazione
Derek li sentì tutti; si chiese come potesse sopravvivere un genitore lontano
dal proprio figlio, un figlio che era in una situazione inspiegabile in cui non
avrebbe mai potuto aiutarlo, lasciando che fossero altre persone ad occuparsi
del problema. Che fosse un altro a crescerlo. «Voleva solo vederla».
Noah rimase sgomento per qualche attimo, quasi
cercando una convinzione totale nelle parole e nell’espressione impassibile di
Derek Hale, ma se ci fosse stato qualcosa che non andava, il mutaforma non
l’avrebbe certo tenuta per sé. «Ehy, volpacchiotto,
stai bene? Ti tratta bene il tuo lupo?».
Il cucciolo
d’uomo intensificò l’abbraccio a quel nomignolo affettivo, quasi fosse un
ulteriore indizio che quello fosse realmente suo padre, muovendo in modo
affermativo il capo contro il collo in cui si era nascosto. «Sì, Derek è
buono».
Lo sceriffo
sorrise intenerito, accarezzandogli la schiena e dondolando dolcemente sul
posto. «E tu? Tu fai il bravo?».
«Sì» esclamò con convinzione il piccolo di casa.
«Sono bravo».
«Oh, non
saprei» lo smentì con divertimento la figura genitoriale, rafforzando
maggiormente la stretta allentata dal dondolio. «Gliel’hai detto il tuo vero
nome?» incontrò gli occhi preoccupati della sua progenie ridimensionata, usciti
fuori dalla tana in cui si erano imboscati. «Diciamo al tuo bel lupo come ti
chiami?».
Stavano
giocando, in modo affine e dolce, puntando magistralmente ai segreti che Stiles
non voleva venissero fuori, per vergogna o per altro, scuotendo la testolina e
lamentandosi vigorosamente, mettendo in mostra quel broncio che aveva già un
notevole effetto sul suo viso da diciasettenne, ma su quello da cinquenne
stendeva completamente. Partita chiusa.
La massima
autorità della legge gli baciò la punta del naso, la fronte ed una guancia e
Stiles si strusciò sul suo volto, prendendo tutto il suo calore ed il suo
amore; sembrava meno arrabbiato, quasi a dimenticarsi della storia del nome,
una verità che fino a quel momento Derek aveva ignorato, senza saperne
dell’esistenza. Ma era importante saperlo? Perfino il padre si limitava a
chiamarlo con il nome che Stiles aveva evidentemente scelto, senza ricatti o
compromessi. Stiles era soltanto Stiles.
Il bambino
ridacchiò per qualche motivo che il mannaro si era perso e subito dopo
sbadigliò, ricevendo un nuovo bacio tra i capelli. «È molto tardi».
Derek capì
che la figura autoritaria stesse interagendo con lui. «Andremo via appena
Stiles si sentirà pronto».
«Se tutto
dipendesse da lui, saremmo nei guai» lo sceriffo stava scherzando, ma era una
bugia, era Stiles a tirarli fuori dai disastri ed a caderci tutto d’un pezzo al
posto loro.
Stiles si
lamentò indispettito ed il genitore sorrise con spensieratezza. «Non viziarlo
troppo, Derek».
Viziarlo, forse era
l’unica cosa che potesse fare nelle circostanze in cui si trovavano, nel torto
che gli aveva arrecato. «È solo una cosa che doveva fare» il cucciolo non
poteva più aspettare, anche se ci aveva provato e ne aveva subito gli effetti.
Derek non si sarebbe mai potuto tirare indietro davanti a quella richiesta
innocente e bisognosa.
Noah annuì, ma sembrava che qualcosa lo preoccupasse.
«Non ha mai
chiesto di lei» riferì la creatura
della notte, guidato da qualcosa che dopotutto turbava anche lui. «Soltanto una
volta, all’inizio di tutto, ma poi non ne ha fatto più parola» lei non era nient’altri che sua madre.
Stiles l’aveva invocata quando si era aggrappato ai suoi jeans, in mezzo alla
radura, ripiena di persone che non aveva mai visto ed aveva chiesto dell’unica
figura che si prendeva giornalmente cura di lui. Era stata la prima cosa che la
sua nuova voce da bambino aveva pronunciato e poi non era più saltata fuori.
Le dita di
una mano del grado più alto della città si annodarono ai capelli castani di suo
figlio, accarezzandogli la cute. «È sempre stato troppo sveglio» Stiles lo
riabbracciò d’istinto e l’agente lo cullò ancora. «Si ha l’ardire di affermare
di proteggere i propri figli, ma come puoi farlo quando sono più perspicaci e
furbi di te?».
«Come una
volpe?» buttò giù il mutaforma, senza soffermarcisi troppo su quel soprannome
scoperto per caso e fin troppo in simbiosi con la vera natura di Stiles; Derek
doveva ammettere di essere ben conoscitore di quella verità.
«Esattamente
come una volpe» depositò un nuovo bacio sulla tempia del bambino, dolcemente ed
amorevolmente. «Vero, volpacchiotto?».
«Papà»
Stiles mugolò contrariato, storcendo il nasino e la massima autorità della
città ne rise caldamente.
«Fa
l’imbarazzato, ma in realtà gli piace» sia mai che il piccolo frugoletto
venisse sbeffeggiato davanti all’omone che si occupava quotidianamente di lui.
Stiles mise
su un broncio falso, Derek poteva percepire come in realtà quel nomignolo lo
facesse stare bene, a casa, sicuro, certo di essere davvero con chi aveva
bisogno e che non vi fosse alcun inganno. Quello era davvero il suo papà ed
ogni volta che tirava fuori qualcosa che conoscevano soltanto loro due, Stiles
era nettamente più tranquillo e sereno.
«Pensi sia
una buona cosa che non chieda?» domandò la figura paterna, ricollegandosi al
discorso precedente senza aver perso il filo del discorso.
Una buona cosa. «Credo che
abbia intuito che qualcosa non quadri e che per una qualche ragione sia meglio
non chiedere» Derek da una parte ne era grato, sollevato, non aveva idea di
come avrebbe dovuto spiegare o dire la verità ad un bambino di cinque anni che
improvvisamente si ritrovava senza una madre. Senza nessuno che ne parlasse o
ne facesse cenno. Non era un tabù, ma lo percepiva come tale. «Ma lo fa per noi
più che per se stesso» ma come doveva sentirsi? Come
riusciva a sopravvivere e passare sopra all’esigenza di chiedere di sua madre?
Di poterla vedere come stava accadendo con suo padre.
Due paia
d’occhi chiari si posarono sul corpicino che lo sceriffo teneva intrappolato
con attenzione, osservandolo con scarsa moderazione, cercando una conferma a
quelle parole, il grande peso sulle piccole spalle che Stiles si portava
addosso, ma il cucciolo d’uomo aveva le iridi annacquate e semichiuse, il capo
abbandonato contro il mento del genitore e tutta l’aria di non aver sentito una
parola.
L’uomo di
legge sospirò, ma non era per il sollievo. «È sempre lui alla fine a prendersi
cura di noi» Noah l’aveva detto, ad alta voce. Aveva
espresso quello che tutti dopotutto pensavano. Perfino nelle sue fattezze
bambinesche, fragili, da proteggere con tutta l’anima, Stiles si immolava per sostituirli,
cercando in ogni modo possibile di non fare del male. Di non scomodarli ed
arrecare danno. Derek avrebbe voluto che almeno per una volta fossero proprio
loro a muoversi per il suo bene, invece non stavano concludendo nulla.
L’agente
Stilinski si avvicinò al lupo, depositando un ultimo bacio al centro della
fronte del cucciolo umano, relegandolo con tutta l’accortezza e gentilezza
dell’universo tra le braccia forti del ragazzo. «Prenditene cura, Derek. È
tutto ciò di più prezioso ho al mondo».
Derek lo
afferrò rapidamente, senza distrarsi un attimo, tenendolo vicino al cuore,
esattamente dove piaceva stare a Stiles. «Vale anche per me».
Noah lo guardò fisso, penetrante, a trafiggerlo con
decisione e Derek non avrebbe potuto fare niente per tirarsi indietro.
«Papà» ma
Stiles con le sue ultime forze che combattevano contro il sonno dei giusti si
aggrappò alla sensazione di star per essere separato dalla figura genitoriale e
non gli andava affatto bene.
«È tardi e
sei stanco, è tempo di tornare a casa» proferì il mannaro con il tono più basso
che possedesse, cercando di non svegliarlo troppo.
«Ancora un
po’, voglio stare con papà» ribatté con la voce impastata dalla prossimità di
raggiungere il regno di Morfeo, le manine che tentavano di sollevare il corpo e
distanziarsi da quello del mutaforma, per scindere la culla fatta di braccia e
raggiungere il padre.
«Domani» lo
incantò la creatura della notte, una melodia che prendeva vita soltanto con la
piccola creatura che teneva tra gli arti superiori. «Domani torneremo».
Stiles
sbatté varie volte le palpebre, cacciando indietro il velo d’acqua creato dalla
sonnolenza, sbadigliando a mezza bocca. «Sì?».
«Sì» confermò con autenticità il Beta, schioccandogli
un bacio leggero come il battito d’ali di una farfalla sotto un occhio, a
contatto con le ciglia inferiori.
Stiles
ridacchiò deliziato, il risolino portato dal solletico creato dall’incontro
morbido delle ciglia aperte del mannaro. «Va bene, Der» acconsentì stregato,
sistemandosi meglio nella presa del licantropo. «Buonanotte, papà».
Lo sceriffo
lo vide sventolare la manina in segno di saluto, sbadigliando un’altra volta e
portando le braccine ad avvolgere il collo della creatura sovrannaturale,
esattamente come aveva fatto con lui quando gli era corso incontro; la
differenza consisteva nel vederlo sereno, tranquillo ed in pace con la natura,
abbandonato adorabilmente e senza alcuno sforzo alle fattezze dell’unica
persona di cui si fidasse ciecamente in quel momento. «Buonanotte, Stiles»
circondava con le piccole braccia, il sorriso piacevole sulle labbra e le
palpebre delicatamente chiuse a coprirgli gli occhi, l’uomo che lo Stiles
adolescente e prossimo alla maggiore età amava.
Derek non
impiegò molto a riportarlo al loft, adagiandolo con ogni previsione sui sedili
posteriori della Camaro, sentendolo ronfare beatamente per l’intero tragitto.
Lo cambiò
in un baleno, rimettendogli quel pigiamino con i lupi che Stiles adorava,
sistemandolo perfettamente sul materasso a due piazze, che si presentava
esageratamente più grande viste le dimensioni minuscole del suo occupante.
Ed era
tutto lì, il frugoletto cucciolo umano che dormiva senza un pensiero al mondo
nel letto del grande lupo cattivo.
«Grazie,
Der» sopraggiunse la vocina piena di sonno del bello addormentato.
Derek non
ne era minimamente impressionato, era come se Stiles non potesse concludere una
giornata se non avesse messo tutto a posto. «Sei più tranquillo adesso?».
Le fauci
del bambino si spalancarono, segno che il regno di Morfeo fosse ad un battito
di palpebra. «Sta bene».
Troppo
sveglio, troppo perspicace. «Eri preoccupato che stesse male?».
Stiles
annuì ad occhi serrati, strofinando il viso sulla federa pulita. «Sembrava
stanco, è sempre stanco. Papà lavora tanto».
Stiles non
aveva voluto incontrare suo padre per un pensiero egoistico ed infantile.
Stiles aveva avuto un bisogno disperato di vederlo per accertarsi delle sue
condizioni, di seguire quella sensazione che l’aveva accompagnano dal momento
in cui l’aveva visto per la prima volta con quelle iridi innocenti, che non
conoscevano le disgrazie che la vita aveva avuto in serbo per lui. Stiles aveva
voluto vedere suo padre perché sapeva che la sua presenza avrebbe fatto la
differenza. «Domani andremo a trovarlo e potrai distrarlo un altro po’».
«Davvero?»
chiese conferma il fagottino avvolto dalle coperte calde, accompagnate dalla
temperatura alta della creatura della notte.
«Ogni tuo
desiderio è un ordine, piccola volpe» le dita del mannaro scivolarono
armoniosamente tra le ciocche castane del bambino, scostandole dal viso, che
gli coprivano la visuale.
Le labbra
di Stiles si curvarono verso l’alto al suono di quell’ulteriore soprannome e si
godette le attenzioni meticolose che l’altro aveva in serbo per lui. «Perché?».
«Perché sei
importante» il lupo gli scivolò accanto, distendendosi al suo fianco e
sistemandosi sotto le lenzuola. Era una pratica talmente ripetuta che non aveva
più nulla di nuovo o stonato.
Le grandi
gemme d’ambra si mostrarono e Derek si perse senza avere la prontezza di
salvarsi. «Per chi?».
«Per molte
persone. Per Allison, Scott, Lydia. Per tuo padre» esisteva un elenco più
lungo, avrebbe tanto voluto includervi Erica, ma lei non c’era più. «Sei
importante per me».
Un barlume
improvviso prese vita dalle iridi dorate, in un vortice che per un momento si
era aperto, ma era sparito così com’era apparso.
Stiles gli
sorrise, caloroso, affettuoso, pieno di quell’amore autentico e genuino che
ogni bambino sapeva dare. «Ti voglio bene, Der» ma quello era un bambino
speciale.
Il cuore di
Derek fece una capriola, si gonfiò talmente tanto da temere che scoppiasse e
tutto andasse in malora. Derek è buono.
Derek non meritava affatto una persona meravigliosa qual era Stiles.
Gli
depositò un bacio candido sul ponte del naso, scompigliandogli benevolmente i
capelli di per sé disastrosi ed accarezzandogli con il pollice l’attaccatura
sulla fronte. «Te ne voglio anch’io».
Mai come in quel momento avrebbe voluto stringere
tra le braccia lo Stiles che gli era stato strappato per punirlo delle sue
malefatte.
Peter
è sempre Peter, tre passi avanti rispetto a tutti gli altri. Ma immagino che in
questo caso possiamo concederglielo.
Scott
deve un po’ sudarsi la fiducia di Stiles, probabilmente come non gli è mai
capitato, ma Allison è capace di intercedere per lui.
L’incontro
tra il piccolo Stiles e lo sceriffo è sempre stato un po’ il cardine di questa
storia, forse è il primo vero capriccio di Stiles, ma ne aveva disperatamente
bisogno e Derek non può e non riesce a tirarsi indietro; sarebbe capace di
concedergli qualsiasi cosa gli chiedesse a qualsiasi orario, tocca poi a lui
gestire l’evento.
A
venerdì,
Antys