CAPITOLO VENTOTTO
Piergiorgio come al solito fu puntualissimo, talmente tanto
da poter dire che aveva spaccato il secondo.
L’orologio a cucù della saletta suonava piano, emettendo i
suoi rintocchi, che venivano soffocati dalla porta chiusa, in modo che il
rumore emesso non si propagasse per tutta casa durante la notte e le ore di
riposo, e non desse in alcun modo fastidio.
Mi affrettai ad andare ad aprirlo; in realtà, avevo già
preparato tutto da un po’ di tempo, poiché per fortuna mia madre alle ventuno
si era già ritirata in camera, ed allora avevo avuto modo per sistemarmi a
dovere, così da non dover poi rischiare nulla in seguito.
Quando udii il rumore inconfondibile nella notte, prodotto
dal fuoristrada di George, aprii piano la porta d’ingresso.
Lo accolsi quindi tacitamente, dopo che lui aveva lasciato la
macchina un po’ distante da casa di mia madre, in modo da non dare nell’occhio
e da non rischiare di essere notata subito, o per caso.
George non disse nulla, si limitò a sorridermi.
Da parte mia, mi limitai ad afferrarlo con dolcezza per un
braccio e a farlo entrare, per poi richiudere con attenzione la porta dietro di
me.
Lo attrassi con prepotenza, lasciai che le mie labbra si
appiccicassero alle sue, e che poi fosse la mia lingua a cercare la sua.
Sentivo che dovevo farmi perdonare.
A luci spente, e procedendo pianissimo e a tentoni,
muovendoci però in un ambiente che ormai conoscevamo entrambi, anche se lo
tenevo per mano e lo aiutavo un minimo a procedere e a orientarsi nella giusta
maniera, giungemmo a destinazione. Trattenni il fiato, di fronte alla porta di
mia madre.
Ci riuscimmo, comunque.
“Dio mio”, si lasciò andare il mio amante, una volta giunto
in camera, “una di queste volte faccio un capitombolo giù dalle scale che
passerà alla Storia”.
“Sempre a ironizzare, eh”, sussurrai, “sarà comunque meglio
che tu non ne faccia, di capitomboli. Mi servi integro”.
“Sono un essere umano alquanto inutile”.
“Non direi”, affermai, mentre cominciavo a svestirmi, già
preda dei miasmi dell’amore. Se fino a qualche istante prima ero stata vittima
dei miei pensieri ossessivi e delle paure per il mio immediato futuro, in
quell’istante le pulsioni del mio corpo e i loro bisogni avevano ripreso il
controllo di me stessa.
“Oh, calma, mio gentile amore. Non eri spaventata? Qualche
ora fa, al telefono, stentavo a riconoscere la tua voce”, mi disse, sempre
pianissimo, però cominciando anche lui a togliersi i vestiti di dosso.
Si levò la leggera camicia che indossava, e restò a busto
totalmente nudo, in piedi di fronte a me, ed io, lasciva come noi mai, ero
distesa sul mio letto ormai costantemente sfatto, colmo dell’odore della sua
pelle, a togliermi di dosso gli ultimi vestiti. Interruppi i movimenti rivolti
a svestirmi solo per infilare sotto al letto le sue scarpe invadenti, che avevo
portato di sopra a mano.
“Mi fa piacere che tu sia qui, mi dispiace solo per averti
messo fretta. In ogni caso, ti chiedo scusa”, gli dissi, sincera, sempre
attenta però a tenere un tono di voce molto basso e controllato.
“Ti ho detto che è già un discorso chiuso. Piuttosto, andiamo
al punto”, disse con risolutezza.
“Proprio adesso?”, mormorai, provocante, con i problemi che
passavano in secondo piano. Era incredibile quanto la passione che mi ardeva
dentro potesse accecarmi, fintanto che non la rendevo soddisfatta.
Piergiorgio, ancora in piedi a fianco del letto, scosse il
capo, fingendosi pensieroso. Mi attendevo un suo no, giustamente, poiché in
fondo era venuto lì apposta per ascoltarmi, come gli avevo richiesto, e la mia
passione cominciò a scemare, in fretta, e in men che non si dica mi ritrovai a
diventare rossa in viso, vergognandomi della mia inutile lascivia, e pensando a
cosa stava pensando su di me l’uomo che mi osservava, sempre serissimo.
Per fortuna, la penombra della mia stanza, illuminata in modo
molto blando dalla lucina flebile dell’abatjour, i miei lineamenti imbarazzati
e contratti probabilmente non poteva osservarli nei particolari che avrei
voluto celare.
Stavo per aprire la bocca per cominciare a narrare, tornando
ben composta sul letto, quando lui mi balzò a fianco, così, all’improvviso.
Fece anche cigolare il mio ben misero giaciglio, tra l’altro.
Il mio viso in fiamme dall’imbarazzo appena provato fu cinto
dalle sue mani, che lo percorsero, e mi trovai soffocata da un suo bacio.
“Ti vengono spesso, questi scatti?”, gli sussurrai, quando la
sua bocca si rimosse dalla mia, le labbra ancora socchiuse e rese umide dalla
sua saliva.
George ridacchiò, molto sommessamente.
“Cavolo, eri così bella! E poi mi stavi provocando”.
“La prossima volta, non sfondarmi il letto”, gli dissi, e
tornai a baciarlo, senza fregarmene del rumore che aveva provocato. Immaginavo
che mia madre avesse di certo udito il brevissimo fracasso, se era ancora
sveglia, tuttavia dubitavo che lo fosse. Inoltre, con la porta chiusa a chiave,
non aveva modo di entrarmi in camera e di coglierci in flagrante.
I sensi tornarono ad accecare ogni sorta di razionalità, e mi
lasciai andare tra le sue braccia, ai suoi baci e alle sue carezze.
“Non è colpa mia se questa è la cosa più bella da fare in
due”, quasi esclamò.
“Sei ancora lì a parlare? Facciamola, no?”, tornai a
stuzzicarlo.
Sapevo che non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere altro,
almeno per un po’, fintanto che i nostri corpi non fossero stati sazi, e i
nostri istinti non si fossero placati.
“Sono nei casini, George”, esordii, infatti, solo una ventina
di minuti dopo.
Avevamo fatto l’amore, in quel momento giacevo ancora tra le
sue braccia, a fianco del suo corpo leggermente sudaticcio a causa
dell’amplesso e dell’estate che ancora premeva su di noi con tutta la sua
torrida potenza, ma mi sentivo al sicuro, nonostante il turbamento che, pian
piano, tornava a riaffiorare e a prendere possesso della mia povera anima
spaurita, che ormai non era più in preda all’istinto e al desiderio.
Era molto meglio prima, ma sapevo che quel momento sarebbe
arrivato, e in fretta; io e Piergiorgio cercavamo il piacere, lo volevamo
entrambi, e ormai, ultimamente, nonostante cercassimo di far durare il più
possibile questo momento di ricerca, purtroppo tutto si rendeva molto veloce a
causa della nostra irrefrenabile passione di coppia.
Tra le coperte, non avevamo alcun genere di problema. Almeno
lì.
“Sì, mi avevi già accennato qualcosa, poco fa”, mi sussurrò,
il suo fiato caldo a sfiorarmi il viso, e la sua peluria a stuzzicare la mia
pelle candida, che nonostante fosse estate non aveva ancora visto un raggio di
sole.
“In due parole, mio padre è morto”.
“Condoglianze”.
“Non è il momento di fare i gentili”, lo ripresi, per poi
ridacchiare scherzosamente. Lui alzò la mano destra in segno di resa.
“Non ho detto niente di che”, si scusò.
“Non è il momento, perché è un casino immondo. Mi credi?”.
Tornai seria.
“Se lo dici tu, ti credo”, mi rassicurò, ancora un minimo con
fare burlone. Era colpa mia, ero io che lo stimolavo a far peggio.
“Comunque, adesso basta scherzare”, presi posizione con
fermezza, “perché mi è arrivata questa lettera, che sembra una missiva direttamente
giunta dall’inferno”.
Gli passai la lettera che durante tutta la serata era stata
sballottolata tra le mie mani e quelle di mia madre.
George si mise gli occhiali, lasciati sul comodino, e, ancora
nudo, si sedette sul ciglio del letto, vicino all’abatjour, per poter leggere
meglio.
“Cos’ha detto tua madre a riguardo?”, mi chiese, dopo qualche
minuto, tornando a passarmi la lettera.
Io, che fino a poco prima l’avevo lasciata a terra, sulla
pedana del mio lato del letto, gli feci cenno di non ridarmela. L’appoggiò con
prontezza sul comodino.
“Ha detto che devo andare là a prendermi ciò che è mio, e non
ha neppure pensato a come dovrò andare in quel buco di posto…”.
“Non sei amica dei mezzi pubblici, mi pare di capire”, mi
fece notare.
“Direi di no. So che ti potrò sembrare cretina, ma ho preso
il treno al massimo tre volte in vita mia, e mai da sola. Non ci capisco un
cazzo”.
“Ehi”, mi riprese, “devi stare tranquilla, non perdere mica
la pazienza per così poco. Questo è un problema che si rimedia, e facilmente…
anzi, ogni problema ha sempre un rimedio, basta saper trovare la soluzione più
giusta”.
“Che risposta filosofica, eh! Questa te la sei studiata2, gli
sussurrai, ancora una volta in modo scherzoso, ma anche disperato. Stavo per
mettermi a piangere.
“Oh, non piangere! Se ti vedo piangere, piango anch’io”.
Tornò a distendersi, e ad avvolgermi nel suo caldo abbraccio.
Infossai il mio viso nel suo petto, e percepii il suo capo appoggiato sul mio,
mentre cominciava a cullarmi, pianissimo e con delicatezza.
“Ti voglio solo dire che, con l’aiuto di qualcuno, nessun
problema è insormontabile. Io a volte credo che tu, Isa, non riesca a capire
che non siamo perfetti… siamo umani, ci sono cose che non sappiamo fare, e ogni
giorno di vita è una prova nuova. E se una cosa non la sai fare, la impari, o
qualcuno ti sostiene. In questo caso”, e mi strinse con maggior vigore a sé, “ci
sono io. Ti porto io a Milano, ci vieni con me”.
Un’affermazione improvvisa come un fulmine a ciel sereno, che
mi lasciò basita per qualche secondo.
“Cosa stai dicendo?”, mi venne spontaneo chiedere, sommersa
dagli eventi.
Non volevo crederci che mi avesse risposto in quel modo.
Inoltre, e soprattutto, non volevo che sacrificasse qualcos’altro a causa mia…
anche solo del tempo. Tempo che per lui era prezioso, e anche se non sapevo
ancora per bene come lo utilizzasse tutto il giorno, avevo comunque capito che
aveva spesso da fare. I suoi pazienti, la sua vita e la sua professione
venivano prima di tutti i miei problemi che, in fondo, erano davvero futili.
Avrei preso il mio treno, come facevano anche gli altri, e mi
sarei arrangiata, per due giorni.
“Ti ho detto che a Milano ti porto io. Ci vieni con me”,
specificò, risoluto.
“No”, mi affrettai a negare, “non posso permetterlo. Tu hai
da fare…”.
Mi zittì con un baciò sulle labbra.
“Non ti devi preoccupare per me. Come ti ho già detto, la mia
carriera ha già superato il suo culmine, e adesso posso prendermi tutto il
tempo di cui necessito. Il tempo necessario per stare con te, e starti vicino”.
“Io invece non voglio essere una palla al piede”, tornai a
dire, ma ricevetti un altro bacio sulla bocca.
“Non sei una palla al piede, anzi, sei l’occasione giusta per
offrirmi l’occasione di andare in compagnia a Milano. In questi giorni ci sono
numerose conferenze di cardiologi di fama internazionale, in quella grande e
relativamente lontana città, ed io avevo fin da principio ignorato
l’opportunità di parteciparvi e di ascoltare i miei esimi colleghi, di certo
molto più bravi di me. E allora, a Milano ci andiamo assieme, così io vado alle
conferenze, in quei due giorni, e tu svolgi le tue pratiche”, mi spiegò.
La verità era che non avevo molto altro da ribattere, anzi,
potevo solo accettare la sua cortesia, che mi stava pure giustificando, seppur
non ce ne fosse stato bisogno. Ma ben sapeva che, senza motivazioni plausibili
e credibili, non avrei mai accettato un aiuto di quella portata.
Potevo solo cogliere la palla al balzo, e la gentilezza del
mio tenero amante. Così ci avrei guadagnato un compagno di viaggio, e un
passaggio sicuro e rapido.
“Oddio… io e te… due giorni in quella metropoli?”, mormorai,
un po’ sognante.
Non ero mai stata a Milano, anche solo a pensarla mi sembrava
qualcosa di astratto, di indistinto, di caotico, di lontano e di
irraggiungibile, e all’improvviso mi ritrovavo a pianificare di recarmi fin là,
con un compagno di viaggio che era molto più di una semplice compagnia, per
l’appunto.
Tutt’a un tratto, l’ansia infinita che avevo provato fino a
poco prima, totalmente rivolta alla mia paura dell’ignoto e di quello che avrei
potuto trovare così distante da casa, molto infantile tra l’altro, svanì in un
baleno.
“Beh, facciamo finta che sia una nostra prima vacanza
assieme, che ne dici?”, mi sussurrò a sua volta. Fu il mio turno di baciarlo.
“Tutto assume un sapore meno amaro, a questo punto”,
riconobbi, “ma il resto del problema resta”.
“Dio mio, Isa! Sei così catastrofista. Tua madre che ne pensa,
della questione?”, tornò a chiedermi, interessato.
“Ne abbiamo parlato molto, e l’unica cosa che mi ha sempre
ripetuto è stata quella che devo andare là e accettare ciò che mi è stato
lasciato. Qualunque cosa sia, perché è mio diritto averla”, riassunsi.
“Non ha mica tutti i torti. E comunque, non dovrai far altro
che ascoltare un notaio che leggerà il testamento. Fine. Poi, alle altre
possibili considerazioni ci penserai in seguito, no? Non fasciarti subito la
testa in questo modo”.
“George, tu sai sempre tranquillizzarmi. Possibile che tu sia
sempre così calmo e tranquillo, così pacato? A me sembra di impazzire, quando
appare un pasticcio all’orizzonte”, tornai a riconoscere. Ancora ero una
ragazzina, interiormente, e questo mio lato un po’ infantile tornava a
riemergere ogni qual volta che qualcosa mi turbava.
Dovevo crescere, lo sapevo, ma crescere era difficile, oltre
che complicato. Non avevo problemi a riconoscere che andavo in difficoltà per
ogni cosa, ma mi faceva male convivere con questo aspetto fragile del mio modo
di comportarmi e di ragionare. Avrei tanto voluto avere un pochino della serena
tranquillità del mio uomo, lui sì che era una roccia. Il mio scoglio, la mia
àncora di salvezza.
“E’ l’età che ti rende così. Tu mi piaci perché sei vivace e
emotiva”, mi disse, sornione.
Strofinò poi il suo viso ispido contro le mie guance,
spingendomi ad accarezzarlo.
“Quanto sei dolce, quando fai così?”, non mi preoccupai di
fargli notare, ormai cotta di lui. Seriamente, quando si comportava in quel modo,
solo per attirare maggiori attenzioni e coccole, mi sembrava di vivere una
relazione davvero da favola, dove per qualche attimo dimenticavo che il mondo
era composto da botte e da urti, e in cui restava solo il giusto spazio per
qualche tenerezza di coppia.
“Sei tu che mi hai reso uno zuccherino”.
“Io sono acida come un limone ancora verde”, affermai.
“Oh”, mi prese le mani tra le sue, “non è vero… il fatto è
che a prima vista puoi sembrare troppo sulle tue, molto chiusa, e quindi anche
antipatica, come conseguenza, ma più ti conosco e più riconosco che quella è
solo apparenza. Il muro che metti tra te e un mondo di merda, poiché se
qualcuno nota che sei debole non si farà problemi a schiacciarti. In realtà,
sotto ad una prima scorza fredda, fatta anche di occhiatacce, sei uno
zuccherino anche tu, che ha il giusto bisogno di attenzioni”.
Mi fece sorridere in modo spontaneo e genuino.
“Nessuno è mai stato così dolce con me, prima d’ora”,
sussurrai, un po’ commossa.
“Non dire così”.
“E’ vero. Con Marco era tutto diverso”.
Percepii che s’irrigidiva, a mio fianco. Avevo toccato il
tasto sbagliato, e non mi aspettavo che il suo corpo reagisse in quel modo,
seppur il suo viso non si scompose affatto. I suoi lineamenti rilassati, a meno
di un palmo dai miei occhi, sembrarono restare impassibili e immobili.
Sentivo però che dovevamo abbattere quella nostra paura di
ricordare quello che ormai era solo un passato vissuto e trascorso, e quindi
affrontarlo liberamente poteva aiutarci a sentirci ancor più in intimità, e a
comprenderci meglio a vicenda.
“Non era galante, con te?”, riuscì a chiedermi, dopo qualche
istante di pesante silenzio, quasi ci avesse riflettuto attentamente su cosa
pronunciare.
“Macché. Era un vagabondo di prim’ordine, e basta!”, borbottai,
lasciandomi poi andare a una risatina soffocata.
“Oh”.
Ancora impassibile.
“Niente regali, niente di niente. Alla sera uscivamo assieme,
e stavo in compagnia del suo gruppo di amici, così ho perso di vista quelli che
frequentavo prima, che hanno poi iniziato a credermi troppo snob per parlare
con loro. Non avevano tutti i torti, Marco era un figo assurdo ed era
abbastanza conosciuto, quindi si dava anche tante arie… e poi vestiva
benissimo, i suoi amici erano tutti dei quartieri alti”, narrai.
“Un figo…?”, intervenne, pianissimo, George.
Io tornai a ridere, cercando di contenermi al massimo.
“Mai figo quanto te, però”, lo rassicurai.
Era vero; Piergiorgio e Marco non erano paragonabili, erano
proprio due persone agli antipodi, sia per modo di fare, sia nel vestire e sia
nell’età, tuttavia il primo aveva una dose di charme che, quando veniva messa a
frutto e sfoderata per bene, poteva far innamorare qualunque donna, di
qualunque età, a mio avviso. Ma George restava di gran lunga il migliore, la sua
maturità e la sua gentilezza erano ineguagliabili, e questo lo rendeva un figo
ai miei occhi.
Anche il suo corpo non era assolutamente malvagio, anzi.
Meglio il suo di quello tutto muscoli del mio ex.
“Comunque”, e ripresi a raccontare, “noi due facevamo solo
sesso. Niente fare l’amore. Due spinte, forti, così, senza passione, dotate di
un rigoroso profilattico, tanto per colmare il vuoto che fin dall’inizio ci
portavamo appresso. La fine era inevitabile”, conclusi, senza scendere in
volgarità e cercando di mantenere aulico il mio linguaggio.
“Con me quindi è diverso?”, mi interloquì, ed io lo baciai.
“Certo che lo è. E il fatto è che vorrei che tu fossi sempre
con me, George. Ovunque. Tu sei anche una sorta di angelo protettore, con te mi
sento al sicuro, come se avessi una corazza davanti a me”.
“Anche io non sono mai sazio di te. Quando ero con mia
moglie, certe cose le facevamo solo perché tanto ormai eravamo sposati, per non
tradirci… capisci, vero? Poi, le pulsioni sessuali in un modo o in un altro
vanno sfogate. Con te, invece, è qualcosa che vorrei non finisse mai, e non sto
scherzando! Vorrei che non venisse più il giorno, che la notte diventi eterna,
fissa qui, in questo momento, con i nostri due corpi che si cercano, che si
vogliono, che si desiderano…”.
“Che poeta che sei”, gli riconobbi, quando le parole gli
morirono in gola, a causa dell’enfasi del parlare sottovoce.
“Senza di te non vivo più. Senza te, non è più vita”,
continuò.
“Cristo, mi metti ansia, quando parli così! Io non mi sento
per niente indispensabile”, ridacchiai.
Lasciò le mie mani e mi cinse in un caloroso abbraccio,
tornando a premere il suo corpo contro il mio, con delicatezza.
“Sai che ti amo, vero?”, insistette, serio.
“Lo so. Lo stesso vale per me”.
“E allora, spero che queste parole ti offrano un sonno ristoratore.
È ora di dormire, domattina devi andare al lavoro e fare quella chiamata
importante, poi se va tutto bene ci aspettano alcune giornatine fuori porta”.
Così, era riuscito a farmi ricordare del mio problema
riguardante il probabile testamento di mio padre. Fu il mio turno
d’irrigidirmi.
“Cazzo, potevi evitare di farmelo tornare in mente…”.
Mi strofinai lentamente le sopracciglia, quasi a volerle
massaggiare. La notte aveva il brutto vizio di ingigantire i problemi, o di
farli dimenticare, a seconda del momento. George era riuscito a portare di
nuovo a galla il problema abnorme, e dovevo farmene una ragione.
“Non ci devi pensare; quello è davvero un problema che,
proporzionato ad altri, è irrisorio. Dormici sopra, e vedrai, anzi, ti
prometto, che tutto si sistemerà molto in fretta, più di quel che tu stessa
credi”, cercò di rassicurarmi.
“Parli bene tu, che non ci sei dentro fino al collo”.
“Smettila di lagnarti, e riposiamo. Domattina sarà tutto più
tranquillo”. Si allungò e spense l’abatjour.
Io non volevo, fui sul punto di intervenire e di dirgli di
lasciare accesa la fioca luce, e di farmi compagnia, anche di consolarmi ancora
per un po’, se gli era possibile. Ma George non mi lasciò il tempo per
lamentarmi, siccome dopo aver spento il lumicino si spinse di nuovo verso di
me, e mi cinse in un caldo e tenero abbraccio, che mi fece sciogliere.
Mi accoccolai contro di lui, nonostante fosse piena estate, e
i nostri corpi nudi tornarono ad essere appiccicati l’uno all’altra, e quello
mi passò una sensazione di protezione ancor più profonda e forte di tutto ciò
che avrebbe potuto esprimere a parole.
Il mio uomo era lì con me, io ero stretta al suo corpo,
percepivo ogni suo battito cardiaco, ed era così vulnerabile… stava concedendo
tutto sé stesso a me, e compresi che non avevo nulla di cui lagnarmi. Ero
amata, mi sentivo apprezzata da quello che stava diventando l’uomo della mia
vita, e non dovevo chiedere altro, il resto poi si sarebbe sistemato, o ci
avrei pensato poi.
In quegli istanti contavamo solo noi, e dovevo imparare a
trarre una sensazione piacevole da quei momenti di inimitabile calore
reciproco. Dopo solo un paio di minuti di silenzio, percepii che si era già
addormentato; era molto stanco, per quello aveva invitato anche me al riposo.
D’altronde, ormai era notte fonda.
Il suo respiro si fece regolare e lento, ed io mi avvicinai,
pianissimo, al suo viso, lasciandomi coccolare dal calore del suo fiato, almeno
fin quando il sonno non giunse anche da me, a riscuotere il suo quotidiano tributo.
E allora dormii serenamente, nonostante tutto, con il mio principe azzurro che
non sciolse mai l’abbraccio in cui mi aveva avvolto prima di addormentarsi.
Ci risvegliammo che era tardissimo; il sole cominciava ad
alzarsi in modo ben delineato all’orizzonte, e fummo costretti a non dirci
nulla.
Aiutai Piergiorgio a rivestirsi, poi l’accompagnai al piano
di sotto, e lo lasciai sgattaiolare fuori.
Non ci fu tempo per una qualche smanceria, se non un bacetto
sulle labbra, siccome mia madre, che era sempre più mattiniera, ben presto si
sarebbe alzata, ed ero sicura che non sarebbe stata tanto contenta di trovarsi
di fronte ad un eventuale ospite, che aveva trascorso la notte a casa sua, ma a
sua completa insaputa.
Io me ne tornai ancora una mezz’ora a letto, prima di
vestirmi a mia volta, e di andare a fare colazione. A quel punto, mia madre era
già sveglia e pronta ad affrontare la giornata, e mi aveva pure scaldato una
tazza di latte.
“Non dovevi preoccuparti”, le dissi, quando, una volta giunta
in cucina, notai le sue leggere occhiaie, e l’indolenza con cui mi porse la mia
tazza.
“In realtà, sono più preoccupata per te”, mi fece notare.
“Perché?”, sobbalzai. Me l’aveva detto in modo così serio che
mi sembrava un preambolo a qualcosa di funesto.
“Per tutta la vicenda che abbiamo scoperto ieri. Sai, poi ti
ho visto molto turbata e agitata”, chiarì.
“Oh, è tutto a posto. Questa mattina chiamo quello stronzo,
poi quando la faccenda sarà chiara, andrò il prima possibile, sia anche domani”.
Mia madre mi guardò con stupore.
“Così mi piaci, figlia mia! Questo è il modo giusto di
reagire”, si complimentò con me.
Le sorrisi, pensando che era tutto merito di Piergiorgio; era
stato lui ad offrimi il suo importantissimo aiuto, e con la sua presenza aveva
medicato le mie ferite interiori per l’ennesima volta.
“I veri problemi sono altri. A riguardo di questa faccenda,
farò quel che devo, il mio dovere, e nulla di più”.
Con quella serie di frasi correlate, mi alzai, scolai la mia
tazza, e abbandonai la cucina, pronta a cominciare un nuovo giorno di lavoro.
Il notaio l’avrei chiamato durante la pausa pomeridiana, verso le quattordici.
Mi sentivo pronta a passare all’azione, finalmente, e ormai
non mi sentivo più sola e spaesata. Avevo metabolizzato tutto, e in fretta, per
fortuna.
NOTA DELL’AUTORE
Il nostro amico George ha caricato a dovere la protagonista;
sembra che sia l’unico ad avere effetti positivi su di lei.
Sarà una passeggiata? ^^
Chissà.
Ci attendono altre piccole avventure.
Grazie ancora per essere qui ^^