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Autore: alessandroago_94    03/12/2018    8 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo ventotto

CAPITOLO VENTOTTO

 

 

 

 

 

 

Piergiorgio come al solito fu puntualissimo, talmente tanto da poter dire che aveva spaccato il secondo.

L’orologio a cucù della saletta suonava piano, emettendo i suoi rintocchi, che venivano soffocati dalla porta chiusa, in modo che il rumore emesso non si propagasse per tutta casa durante la notte e le ore di riposo, e non desse in alcun modo fastidio.

Mi affrettai ad andare ad aprirlo; in realtà, avevo già preparato tutto da un po’ di tempo, poiché per fortuna mia madre alle ventuno si era già ritirata in camera, ed allora avevo avuto modo per sistemarmi a dovere, così da non dover poi rischiare nulla in seguito.

Quando udii il rumore inconfondibile nella notte, prodotto dal fuoristrada di George, aprii piano la porta d’ingresso.

Lo accolsi quindi tacitamente, dopo che lui aveva lasciato la macchina un po’ distante da casa di mia madre, in modo da non dare nell’occhio e da non rischiare di essere notata subito, o per caso.

George non disse nulla, si limitò a sorridermi.

Da parte mia, mi limitai ad afferrarlo con dolcezza per un braccio e a farlo entrare, per poi richiudere con attenzione la porta dietro di me.

Lo attrassi con prepotenza, lasciai che le mie labbra si appiccicassero alle sue, e che poi fosse la mia lingua a cercare la sua. Sentivo che dovevo farmi perdonare.

A luci spente, e procedendo pianissimo e a tentoni, muovendoci però in un ambiente che ormai conoscevamo entrambi, anche se lo tenevo per mano e lo aiutavo un minimo a procedere e a orientarsi nella giusta maniera, giungemmo a destinazione. Trattenni il fiato, di fronte alla porta di mia madre.

Ci riuscimmo, comunque.

“Dio mio”, si lasciò andare il mio amante, una volta giunto in camera, “una di queste volte faccio un capitombolo giù dalle scale che passerà alla Storia”.

“Sempre a ironizzare, eh”, sussurrai, “sarà comunque meglio che tu non ne faccia, di capitomboli. Mi servi integro”.

“Sono un essere umano alquanto inutile”.

“Non direi”, affermai, mentre cominciavo a svestirmi, già preda dei miasmi dell’amore. Se fino a qualche istante prima ero stata vittima dei miei pensieri ossessivi e delle paure per il mio immediato futuro, in quell’istante le pulsioni del mio corpo e i loro bisogni avevano ripreso il controllo di me stessa.

“Oh, calma, mio gentile amore. Non eri spaventata? Qualche ora fa, al telefono, stentavo a riconoscere la tua voce”, mi disse, sempre pianissimo, però cominciando anche lui a togliersi i vestiti di dosso.

Si levò la leggera camicia che indossava, e restò a busto totalmente nudo, in piedi di fronte a me, ed io, lasciva come noi mai, ero distesa sul mio letto ormai costantemente sfatto, colmo dell’odore della sua pelle, a togliermi di dosso gli ultimi vestiti. Interruppi i movimenti rivolti a svestirmi solo per infilare sotto al letto le sue scarpe invadenti, che avevo portato di sopra a mano.

“Mi fa piacere che tu sia qui, mi dispiace solo per averti messo fretta. In ogni caso, ti chiedo scusa”, gli dissi, sincera, sempre attenta però a tenere un tono di voce molto basso e controllato.

“Ti ho detto che è già un discorso chiuso. Piuttosto, andiamo al punto”, disse con risolutezza.

“Proprio adesso?”, mormorai, provocante, con i problemi che passavano in secondo piano. Era incredibile quanto la passione che mi ardeva dentro potesse accecarmi, fintanto che non la rendevo soddisfatta.

Piergiorgio, ancora in piedi a fianco del letto, scosse il capo, fingendosi pensieroso. Mi attendevo un suo no, giustamente, poiché in fondo era venuto lì apposta per ascoltarmi, come gli avevo richiesto, e la mia passione cominciò a scemare, in fretta, e in men che non si dica mi ritrovai a diventare rossa in viso, vergognandomi della mia inutile lascivia, e pensando a cosa stava pensando su di me l’uomo che mi osservava, sempre serissimo.

Per fortuna, la penombra della mia stanza, illuminata in modo molto blando dalla lucina flebile dell’abatjour, i miei lineamenti imbarazzati e contratti probabilmente non poteva osservarli nei particolari che avrei voluto celare.

Stavo per aprire la bocca per cominciare a narrare, tornando ben composta sul letto, quando lui mi balzò a fianco, così, all’improvviso. Fece anche cigolare il mio ben misero giaciglio, tra l’altro.

Il mio viso in fiamme dall’imbarazzo appena provato fu cinto dalle sue mani, che lo percorsero, e mi trovai soffocata da un suo bacio.

“Ti vengono spesso, questi scatti?”, gli sussurrai, quando la sua bocca si rimosse dalla mia, le labbra ancora socchiuse e rese umide dalla sua saliva.

George ridacchiò, molto sommessamente.

“Cavolo, eri così bella! E poi mi stavi provocando”.

“La prossima volta, non sfondarmi il letto”, gli dissi, e tornai a baciarlo, senza fregarmene del rumore che aveva provocato. Immaginavo che mia madre avesse di certo udito il brevissimo fracasso, se era ancora sveglia, tuttavia dubitavo che lo fosse. Inoltre, con la porta chiusa a chiave, non aveva modo di entrarmi in camera e di coglierci in flagrante.

I sensi tornarono ad accecare ogni sorta di razionalità, e mi lasciai andare tra le sue braccia, ai suoi baci e alle sue carezze.

“Non è colpa mia se questa è la cosa più bella da fare in due”, quasi esclamò.

“Sei ancora lì a parlare? Facciamola, no?”, tornai a stuzzicarlo.

Sapevo che non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere altro, almeno per un po’, fintanto che i nostri corpi non fossero stati sazi, e i nostri istinti non si fossero placati.

 

“Sono nei casini, George”, esordii, infatti, solo una ventina di minuti dopo.

Avevamo fatto l’amore, in quel momento giacevo ancora tra le sue braccia, a fianco del suo corpo leggermente sudaticcio a causa dell’amplesso e dell’estate che ancora premeva su di noi con tutta la sua torrida potenza, ma mi sentivo al sicuro, nonostante il turbamento che, pian piano, tornava a riaffiorare e a prendere possesso della mia povera anima spaurita, che ormai non era più in preda all’istinto e al desiderio.

Era molto meglio prima, ma sapevo che quel momento sarebbe arrivato, e in fretta; io e Piergiorgio cercavamo il piacere, lo volevamo entrambi, e ormai, ultimamente, nonostante cercassimo di far durare il più possibile questo momento di ricerca, purtroppo tutto si rendeva molto veloce a causa della nostra irrefrenabile passione di coppia.

Tra le coperte, non avevamo alcun genere di problema. Almeno lì.

“Sì, mi avevi già accennato qualcosa, poco fa”, mi sussurrò, il suo fiato caldo a sfiorarmi il viso, e la sua peluria a stuzzicare la mia pelle candida, che nonostante fosse estate non aveva ancora visto un raggio di sole.

“In due parole, mio padre è morto”.

“Condoglianze”.

“Non è il momento di fare i gentili”, lo ripresi, per poi ridacchiare scherzosamente. Lui alzò la mano destra in segno di resa.

“Non ho detto niente di che”, si scusò.

“Non è il momento, perché è un casino immondo. Mi credi?”.

Tornai seria.

“Se lo dici tu, ti credo”, mi rassicurò, ancora un minimo con fare burlone. Era colpa mia, ero io che lo stimolavo a far peggio.

“Comunque, adesso basta scherzare”, presi posizione con fermezza, “perché mi è arrivata questa lettera, che sembra una missiva direttamente giunta dall’inferno”.

Gli passai la lettera che durante tutta la serata era stata sballottolata tra le mie mani e quelle di mia madre.

George si mise gli occhiali, lasciati sul comodino, e, ancora nudo, si sedette sul ciglio del letto, vicino all’abatjour, per poter leggere meglio.

“Cos’ha detto tua madre a riguardo?”, mi chiese, dopo qualche minuto, tornando a passarmi la lettera.

Io, che fino a poco prima l’avevo lasciata a terra, sulla pedana del mio lato del letto, gli feci cenno di non ridarmela. L’appoggiò con prontezza sul comodino.

“Ha detto che devo andare là a prendermi ciò che è mio, e non ha neppure pensato a come dovrò andare in quel buco di posto…”.

“Non sei amica dei mezzi pubblici, mi pare di capire”, mi fece notare.

“Direi di no. So che ti potrò sembrare cretina, ma ho preso il treno al massimo tre volte in vita mia, e mai da sola. Non ci capisco un cazzo”.

“Ehi”, mi riprese, “devi stare tranquilla, non perdere mica la pazienza per così poco. Questo è un problema che si rimedia, e facilmente… anzi, ogni problema ha sempre un rimedio, basta saper trovare la soluzione più giusta”.

“Che risposta filosofica, eh! Questa te la sei studiata2, gli sussurrai, ancora una volta in modo scherzoso, ma anche disperato. Stavo per mettermi a piangere.

“Oh, non piangere! Se ti vedo piangere, piango anch’io”.

Tornò a distendersi, e ad avvolgermi nel suo caldo abbraccio. Infossai il mio viso nel suo petto, e percepii il suo capo appoggiato sul mio, mentre cominciava a cullarmi, pianissimo e con delicatezza.

“Ti voglio solo dire che, con l’aiuto di qualcuno, nessun problema è insormontabile. Io a volte credo che tu, Isa, non riesca a capire che non siamo perfetti… siamo umani, ci sono cose che non sappiamo fare, e ogni giorno di vita è una prova nuova. E se una cosa non la sai fare, la impari, o qualcuno ti sostiene. In questo caso”, e mi strinse con maggior vigore a sé, “ci sono io. Ti porto io a Milano, ci vieni con me”.

Un’affermazione improvvisa come un fulmine a ciel sereno, che mi lasciò basita per qualche secondo.

“Cosa stai dicendo?”, mi venne spontaneo chiedere, sommersa dagli eventi.

Non volevo crederci che mi avesse risposto in quel modo. Inoltre, e soprattutto, non volevo che sacrificasse qualcos’altro a causa mia… anche solo del tempo. Tempo che per lui era prezioso, e anche se non sapevo ancora per bene come lo utilizzasse tutto il giorno, avevo comunque capito che aveva spesso da fare. I suoi pazienti, la sua vita e la sua professione venivano prima di tutti i miei problemi che, in fondo, erano davvero futili.

Avrei preso il mio treno, come facevano anche gli altri, e mi sarei arrangiata, per due giorni.

“Ti ho detto che a Milano ti porto io. Ci vieni con me”, specificò, risoluto.

“No”, mi affrettai a negare, “non posso permetterlo. Tu hai da fare…”.

Mi zittì con un baciò sulle labbra.

“Non ti devi preoccupare per me. Come ti ho già detto, la mia carriera ha già superato il suo culmine, e adesso posso prendermi tutto il tempo di cui necessito. Il tempo necessario per stare con te, e starti vicino”.

“Io invece non voglio essere una palla al piede”, tornai a dire, ma ricevetti un altro bacio sulla bocca.

“Non sei una palla al piede, anzi, sei l’occasione giusta per offrirmi l’occasione di andare in compagnia a Milano. In questi giorni ci sono numerose conferenze di cardiologi di fama internazionale, in quella grande e relativamente lontana città, ed io avevo fin da principio ignorato l’opportunità di parteciparvi e di ascoltare i miei esimi colleghi, di certo molto più bravi di me. E allora, a Milano ci andiamo assieme, così io vado alle conferenze, in quei due giorni, e tu svolgi le tue pratiche”, mi spiegò.

La verità era che non avevo molto altro da ribattere, anzi, potevo solo accettare la sua cortesia, che mi stava pure giustificando, seppur non ce ne fosse stato bisogno. Ma ben sapeva che, senza motivazioni plausibili e credibili, non avrei mai accettato un aiuto di quella portata.

Potevo solo cogliere la palla al balzo, e la gentilezza del mio tenero amante. Così ci avrei guadagnato un compagno di viaggio, e un passaggio sicuro e rapido.

“Oddio… io e te… due giorni in quella metropoli?”, mormorai, un po’ sognante.

Non ero mai stata a Milano, anche solo a pensarla mi sembrava qualcosa di astratto, di indistinto, di caotico, di lontano e di irraggiungibile, e all’improvviso mi ritrovavo a pianificare di recarmi fin là, con un compagno di viaggio che era molto più di una semplice compagnia, per l’appunto.

Tutt’a un tratto, l’ansia infinita che avevo provato fino a poco prima, totalmente rivolta alla mia paura dell’ignoto e di quello che avrei potuto trovare così distante da casa, molto infantile tra l’altro, svanì in un baleno.

“Beh, facciamo finta che sia una nostra prima vacanza assieme, che ne dici?”, mi sussurrò a sua volta. Fu il mio turno di baciarlo.

“Tutto assume un sapore meno amaro, a questo punto”, riconobbi, “ma il resto del problema resta”.

“Dio mio, Isa! Sei così catastrofista. Tua madre che ne pensa, della questione?”, tornò a chiedermi, interessato.

“Ne abbiamo parlato molto, e l’unica cosa che mi ha sempre ripetuto è stata quella che devo andare là e accettare ciò che mi è stato lasciato. Qualunque cosa sia, perché è mio diritto averla”, riassunsi.

“Non ha mica tutti i torti. E comunque, non dovrai far altro che ascoltare un notaio che leggerà il testamento. Fine. Poi, alle altre possibili considerazioni ci penserai in seguito, no? Non fasciarti subito la testa in questo modo”.

“George, tu sai sempre tranquillizzarmi. Possibile che tu sia sempre così calmo e tranquillo, così pacato? A me sembra di impazzire, quando appare un pasticcio all’orizzonte”, tornai a riconoscere. Ancora ero una ragazzina, interiormente, e questo mio lato un po’ infantile tornava a riemergere ogni qual volta che qualcosa mi turbava.

Dovevo crescere, lo sapevo, ma crescere era difficile, oltre che complicato. Non avevo problemi a riconoscere che andavo in difficoltà per ogni cosa, ma mi faceva male convivere con questo aspetto fragile del mio modo di comportarmi e di ragionare. Avrei tanto voluto avere un pochino della serena tranquillità del mio uomo, lui sì che era una roccia. Il mio scoglio, la mia àncora di salvezza.

“E’ l’età che ti rende così. Tu mi piaci perché sei vivace e emotiva”, mi disse, sornione.

Strofinò poi il suo viso ispido contro le mie guance, spingendomi ad accarezzarlo.

“Quanto sei dolce, quando fai così?”, non mi preoccupai di fargli notare, ormai cotta di lui. Seriamente, quando si comportava in quel modo, solo per attirare maggiori attenzioni e coccole, mi sembrava di vivere una relazione davvero da favola, dove per qualche attimo dimenticavo che il mondo era composto da botte e da urti, e in cui restava solo il giusto spazio per qualche tenerezza di coppia.

“Sei tu che mi hai reso uno zuccherino”.

“Io sono acida come un limone ancora verde”, affermai.

“Oh”, mi prese le mani tra le sue, “non è vero… il fatto è che a prima vista puoi sembrare troppo sulle tue, molto chiusa, e quindi anche antipatica, come conseguenza, ma più ti conosco e più riconosco che quella è solo apparenza. Il muro che metti tra te e un mondo di merda, poiché se qualcuno nota che sei debole non si farà problemi a schiacciarti. In realtà, sotto ad una prima scorza fredda, fatta anche di occhiatacce, sei uno zuccherino anche tu, che ha il giusto bisogno di attenzioni”.

Mi fece sorridere in modo spontaneo e genuino.

“Nessuno è mai stato così dolce con me, prima d’ora”, sussurrai, un po’ commossa.

“Non dire così”.

“E’ vero. Con Marco era tutto diverso”.

Percepii che s’irrigidiva, a mio fianco. Avevo toccato il tasto sbagliato, e non mi aspettavo che il suo corpo reagisse in quel modo, seppur il suo viso non si scompose affatto. I suoi lineamenti rilassati, a meno di un palmo dai miei occhi, sembrarono restare impassibili e immobili.

Sentivo però che dovevamo abbattere quella nostra paura di ricordare quello che ormai era solo un passato vissuto e trascorso, e quindi affrontarlo liberamente poteva aiutarci a sentirci ancor più in intimità, e a comprenderci meglio a vicenda.

“Non era galante, con te?”, riuscì a chiedermi, dopo qualche istante di pesante silenzio, quasi ci avesse riflettuto attentamente su cosa pronunciare.

“Macché. Era un vagabondo di prim’ordine, e basta!”, borbottai, lasciandomi poi andare a una risatina soffocata.

“Oh”.

Ancora impassibile.

“Niente regali, niente di niente. Alla sera uscivamo assieme, e stavo in compagnia del suo gruppo di amici, così ho perso di vista quelli che frequentavo prima, che hanno poi iniziato a credermi troppo snob per parlare con loro. Non avevano tutti i torti, Marco era un figo assurdo ed era abbastanza conosciuto, quindi si dava anche tante arie… e poi vestiva benissimo, i suoi amici erano tutti dei quartieri alti”, narrai.

“Un figo…?”, intervenne, pianissimo, George.

Io tornai a ridere, cercando di contenermi al massimo.

“Mai figo quanto te, però”, lo rassicurai.

Era vero; Piergiorgio e Marco non erano paragonabili, erano proprio due persone agli antipodi, sia per modo di fare, sia nel vestire e sia nell’età, tuttavia il primo aveva una dose di charme che, quando veniva messa a frutto e sfoderata per bene, poteva far innamorare qualunque donna, di qualunque età, a mio avviso. Ma George restava di gran lunga il migliore, la sua maturità e la sua gentilezza erano ineguagliabili, e questo lo rendeva un figo ai miei occhi.

Anche il suo corpo non era assolutamente malvagio, anzi. Meglio il suo di quello tutto muscoli del mio ex.

“Comunque”, e ripresi a raccontare, “noi due facevamo solo sesso. Niente fare l’amore. Due spinte, forti, così, senza passione, dotate di un rigoroso profilattico, tanto per colmare il vuoto che fin dall’inizio ci portavamo appresso. La fine era inevitabile”, conclusi, senza scendere in volgarità e cercando di mantenere aulico il mio linguaggio.

“Con me quindi è diverso?”, mi interloquì, ed io lo baciai.

“Certo che lo è. E il fatto è che vorrei che tu fossi sempre con me, George. Ovunque. Tu sei anche una sorta di angelo protettore, con te mi sento al sicuro, come se avessi una corazza davanti a me”.

“Anche io non sono mai sazio di te. Quando ero con mia moglie, certe cose le facevamo solo perché tanto ormai eravamo sposati, per non tradirci… capisci, vero? Poi, le pulsioni sessuali in un modo o in un altro vanno sfogate. Con te, invece, è qualcosa che vorrei non finisse mai, e non sto scherzando! Vorrei che non venisse più il giorno, che la notte diventi eterna, fissa qui, in questo momento, con i nostri due corpi che si cercano, che si vogliono, che si desiderano…”.

“Che poeta che sei”, gli riconobbi, quando le parole gli morirono in gola, a causa dell’enfasi del parlare sottovoce.

“Senza di te non vivo più. Senza te, non è più vita”, continuò.

“Cristo, mi metti ansia, quando parli così! Io non mi sento per niente indispensabile”, ridacchiai.

Lasciò le mie mani e mi cinse in un caloroso abbraccio, tornando a premere il suo corpo contro il mio, con delicatezza.

“Sai che ti amo, vero?”, insistette, serio.

“Lo so. Lo stesso vale per me”.

“E allora, spero che queste parole ti offrano un sonno ristoratore. È ora di dormire, domattina devi andare al lavoro e fare quella chiamata importante, poi se va tutto bene ci aspettano alcune giornatine fuori porta”.

Così, era riuscito a farmi ricordare del mio problema riguardante il probabile testamento di mio padre. Fu il mio turno d’irrigidirmi.

“Cazzo, potevi evitare di farmelo tornare in mente…”.

Mi strofinai lentamente le sopracciglia, quasi a volerle massaggiare. La notte aveva il brutto vizio di ingigantire i problemi, o di farli dimenticare, a seconda del momento. George era riuscito a portare di nuovo a galla il problema abnorme, e dovevo farmene una ragione.

“Non ci devi pensare; quello è davvero un problema che, proporzionato ad altri, è irrisorio. Dormici sopra, e vedrai, anzi, ti prometto, che tutto si sistemerà molto in fretta, più di quel che tu stessa credi”, cercò di rassicurarmi.

“Parli bene tu, che non ci sei dentro fino al collo”.

“Smettila di lagnarti, e riposiamo. Domattina sarà tutto più tranquillo”. Si allungò e spense l’abatjour.

Io non volevo, fui sul punto di intervenire e di dirgli di lasciare accesa la fioca luce, e di farmi compagnia, anche di consolarmi ancora per un po’, se gli era possibile. Ma George non mi lasciò il tempo per lamentarmi, siccome dopo aver spento il lumicino si spinse di nuovo verso di me, e mi cinse in un caldo e tenero abbraccio, che mi fece sciogliere.

Mi accoccolai contro di lui, nonostante fosse piena estate, e i nostri corpi nudi tornarono ad essere appiccicati l’uno all’altra, e quello mi passò una sensazione di protezione ancor più profonda e forte di tutto ciò che avrebbe potuto esprimere a parole.

Il mio uomo era lì con me, io ero stretta al suo corpo, percepivo ogni suo battito cardiaco, ed era così vulnerabile… stava concedendo tutto sé stesso a me, e compresi che non avevo nulla di cui lagnarmi. Ero amata, mi sentivo apprezzata da quello che stava diventando l’uomo della mia vita, e non dovevo chiedere altro, il resto poi si sarebbe sistemato, o ci avrei pensato poi.

In quegli istanti contavamo solo noi, e dovevo imparare a trarre una sensazione piacevole da quei momenti di inimitabile calore reciproco. Dopo solo un paio di minuti di silenzio, percepii che si era già addormentato; era molto stanco, per quello aveva invitato anche me al riposo. D’altronde, ormai era notte fonda.

Il suo respiro si fece regolare e lento, ed io mi avvicinai, pianissimo, al suo viso, lasciandomi coccolare dal calore del suo fiato, almeno fin quando il sonno non giunse anche da me, a riscuotere il suo quotidiano tributo. E allora dormii serenamente, nonostante tutto, con il mio principe azzurro che non sciolse mai l’abbraccio in cui mi aveva avvolto prima di addormentarsi.

 

Ci risvegliammo che era tardissimo; il sole cominciava ad alzarsi in modo ben delineato all’orizzonte, e fummo costretti a non dirci nulla.

Aiutai Piergiorgio a rivestirsi, poi l’accompagnai al piano di sotto, e lo lasciai sgattaiolare fuori.

Non ci fu tempo per una qualche smanceria, se non un bacetto sulle labbra, siccome mia madre, che era sempre più mattiniera, ben presto si sarebbe alzata, ed ero sicura che non sarebbe stata tanto contenta di trovarsi di fronte ad un eventuale ospite, che aveva trascorso la notte a casa sua, ma a sua completa insaputa.

Io me ne tornai ancora una mezz’ora a letto, prima di vestirmi a mia volta, e di andare a fare colazione. A quel punto, mia madre era già sveglia e pronta ad affrontare la giornata, e mi aveva pure scaldato una tazza di latte.

“Non dovevi preoccuparti”, le dissi, quando, una volta giunta in cucina, notai le sue leggere occhiaie, e l’indolenza con cui mi porse la mia tazza.

“In realtà, sono più preoccupata per te”, mi fece notare.

“Perché?”, sobbalzai. Me l’aveva detto in modo così serio che mi sembrava un preambolo a qualcosa di funesto.

“Per tutta la vicenda che abbiamo scoperto ieri. Sai, poi ti ho visto molto turbata e agitata”, chiarì.

“Oh, è tutto a posto. Questa mattina chiamo quello stronzo, poi quando la faccenda sarà chiara, andrò il prima possibile, sia anche domani”.

Mia madre mi guardò con stupore.

“Così mi piaci, figlia mia! Questo è il modo giusto di reagire”, si complimentò con me.

Le sorrisi, pensando che era tutto merito di Piergiorgio; era stato lui ad offrimi il suo importantissimo aiuto, e con la sua presenza aveva medicato le mie ferite interiori per l’ennesima volta.

“I veri problemi sono altri. A riguardo di questa faccenda, farò quel che devo, il mio dovere, e nulla di più”.

Con quella serie di frasi correlate, mi alzai, scolai la mia tazza, e abbandonai la cucina, pronta a cominciare un nuovo giorno di lavoro. Il notaio l’avrei chiamato durante la pausa pomeridiana, verso le quattordici.

Mi sentivo pronta a passare all’azione, finalmente, e ormai non mi sentivo più sola e spaesata. Avevo metabolizzato tutto, e in fretta, per fortuna.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Il nostro amico George ha caricato a dovere la protagonista; sembra che sia l’unico ad avere effetti positivi su di lei.

Sarà una passeggiata? ^^

Chissà.

Ci attendono altre piccole avventure.

Grazie ancora per essere qui ^^

   
 
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