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Autore: honeysuckle    03/12/2018    0 recensioni
«Allora, te lo spiego in breve. La Cava è come un'arena da combattimento. In questo posto, come puoi vedere, ci vengono davvero tante persone. Ogni giorno. Alcuni sono interessati solamente a fumare, bere, ascoltare qualche stronzo che legge le sue poesie e a procurarsi qualche copia gratuita di un lavoro decente. Ma il vero pericolo della Cava sono gli altri scrittori [...] Nella Cava non ci sono regole. Non è una libreria abusiva né un teatro. La Cava è un trampolino di lancio, un ambiente letterario che può essere sia molto piacevole che molto spiacevole. Qua nessuno ti da soldi per niente, se vuoi qualcosa devi mettere tutto di tasca tua. La cosa bella della Cava è proprio questa: coloro che sono più motivati a spendere soldi per mettere in circolazione copie dei loro lavori sono i più bravi e vengono sempre apprezzati. Gli sfigati che non sono capaci di scrivere due parole di fila non durano niente qui [...]»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ore 1.03

 

 

Lane fu il primo a scendere. Non appena si fermarono davanti alla casa, spense il motore con un movimento secco del polso e fece scivolare le gambe di lato, smontando dal sedile con una leggera spinta. Jay lo fissò mentre apriva rapidamente la lampo della tasca della giacca, vi infilava dentro la mano e un secondo dopo la ritirava stringendo un mazzo di chiavi, scintillanti sotto la luce pallida dei lampioni.

Le chiavi cozzarono tra loro, producendo un fastidioso tintinnio, quando il ragazzo si chinò per aprire la serratura del cancello.

Jay allungò le gambe, strisciando le suole delle scarpe sulla ghiaia, e appoggiò i gomiti al sedile. Rimase sdraiato mollemente in quella posizione a guardarlo, con la testa inclinata da un lato, finché la serratura non scattò come uno sparo nella notte.

«Andiamo» disse Lane, abbassando la maniglia cigolante e facendo scorrere piano il cancello su un lato.

Jay rimase un secondo a osservare i riflessi dorati della luce che guizzavano sui suoi capelli, prima di sollevarsi pigramente e afferrare il manubrio.

«Dove lo metto?» chiese, mentre l’amico spariva oltre l’ombra del cancello.

«Dove ti pare» rispose Lane. Il rumore attutito dei suoi passi si faceva sempre più lontano.

Jay sbuffò. Aspettò di vedere il tenue e caldo bagliore della lampadina espandersi nel piccolo e buio giardino, seguito dal prepotente rumore delle chiavi che sbattevano sul legno della porta, prima di cominciare a fare forza per disincastrare le ruote dalla scricchiolante distesa di pietrisco.

«Odio il tuo cortile» urlò, trascinando faticosamente il vecchio fardello oltre il cancello. Appena fu vicino al muro diede un calcio al cavalletto e lo infilò bruscamente fra le pietre.

Anche se gli dava le spalle, era certo che Lane avesse alzato gli occhi al cielo.

Infatti la sua risposta seccata non tardò ad arrivare.

«Muoviti, si gela» disse, mentre il fruscio morbido delle sue scarpe sul vialetto di cemento tradiva la sua impazienza.

Jay si voltò. La porta era aperta, le luci dentro la casa già accese. Lane era in piedi di fronte a lui, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, e lo stava fissando.

Rimase a guardarlo solo per un secondo, poi si incamminò nella sua direzione.

 

 

*

 

 

Lane si passò stancamente le mani sul viso, indugiando per qualche secondo con i polpastrelli sulle palpebre stanche. I suoi occhi stavano chiedendo pietà, le lenti erano ormai completamente asciutte e irrimediabilmente appiccicate alle sue iridi sofferenti.

Sbatté un paio di volte le palpebre, senza successo, poi lanciò le chiavi sul tavolo.

Jay era in piedi, immobile come una statua, con la giacca abbottonata fino al collo, completamente assorbito dalla contemplazione dello schermo del suo cellulare. Il casco gli pendeva ancora dal braccio.

Lane distolse lo sguardo da lui e si sfilò la giacca con un movimento fluido, posandola  distrattamente sullo schienale della sedia più vicina.  Poi si voltò e si diresse verso la cucina.

«Hai fame?» chiese a Jay in tono noncurante, aprendo il frigo e lanciando una breve occhiata delusa agli scompartimenti semivuoti.

«No» urlò di rimando l’amico «tu?»

Lane sbuffò e richiuse il frigo.

«No» disse, passandosi una mano fra i capelli «sono troppo nervoso»

«Ancora per questa storia?»

La sua voce era molto più vicina ora. Si appoggiò sul bordo del tavolo, tamburellando debolmente con le unghie sulla superficie morbida della tovaglia, e si voltò a guardarlo.

La maglietta era decisamente troppo grande per il suo busto magro, e le braccia bianchissime, incrociate sul petto, spiccavano in modo abbagliante contro il tessuto nero. Era in piedi davanti a lui, appoggiato allo stipite della porta, e Lane sapeva perfettamente cosa stava per accadere.

«Lascia perdere» gli disse, spostando lo sguardo sulle sue scarpe.

«Non ha senso» continuò Jay, ignorandolo e tirando fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni «Fai sempre così. L’hai vista, ci hai parlato, è andato tutto bene e senz’altro si ricorderà di te. Non vedo perché debba sprecare energie»

«Mh mh» mormorò, esaminando con estrema attenzione i suoi lacci logori.

Lo stava fissando, lo sapeva. Alzò brevemente gli occhi: era immobile, con una sigaretta spenta sospesa a mezz’aria.

«Parlo sul serio» disse, infilandosela tra le labbra.

«Si, anche io parlavo sul serio quando ti ho detto di lasciar perdere» rispose Lane irritato, alzando bruscamente la testa e piantando gli occhi nei suoi. Poi il suo sguardo cadde sulla sigaretta.

«Ti dispiacerebbe metterla via?» sbuffò, indicandola con un cenno del mento.

Jay sorrise e alzò le sopracciglia.

«Perché? Tanto abbiamo ancora tre giorni» rispose.

Lane osservò le sue lunghe dita bianche muoversi rapide. Avvicinò l’accendino alla bocca, tenendolo con entrambe le mani, e fece scorrere il pollice destro sulla rotella. La fiamma scaturì con un sibilo. Aspirò e suo viso si distese completamente, mentre la brace della sigaretta brillava debolmente nella penombra. Sulla mano sinistra aveva due graffi, incredibilmente rossi contro la pelle pallida.

Soffiò il fumo in alto, lontano da lui. Poi si appoggiò con la schiena contro lo stipite, lanciandogli una breve occhiata nervosa. Si era accorto che non aveva smesso di guardarlo per un secondo.

Aveva le guance così incavate che le ossa sembravano sul punto di bucare la pelle. Le labbra e la punta del naso erano arrossate per il freddo, mentre i capelli gli cadevano sulla fronte in sottili ciuffi disordinati. Gli occhi erano chiusi, le ciglia, ridicolmente lunghe, proiettavano un’ombra leggera sui suoi zigomi bianchi.

Non distolse lo sguardo dal suo viso nemmeno quando ruppe la perfetta immobilità della sua posizione per portare la sigaretta alla bocca. I graffi guizzarono sotto la luce fioca della lampadina.

«Dovresti mangiare qualcosa» mormorò, mentre Jay si passava la mano libera fra i capelli, come per sistemarli. Incontrò il suo sguardo per un secondo, e lo distolse subito. Pareva non avere la forza di sostenerlo.

«No, non credo» rispose stancamente, colpendo piano il filtro per far cadere la cenere a terra.

Lane sbuffò.

«Sei incredibile» disse, alzandosi improvvisamente e aprendo il frigo  «non riesci nemmeno a tenere l’accendino con una mano sola».

«Sono stressato, tutto qui» disse debolmente Jay, mentre Lane tirava fuori una bottiglia d’acqua.

«Sei sempre stressato» disse bruscamente, sbattendo di malo modo due bicchieri sul tavolo. Svitò maldestramente il tappo alla bottiglia e vi versò un parte del contenuto.

«Questa volta è diverso»

«Ah si? E cosa è successo?»

Jay non rispose subito. Avanzò lentamente verso il tavolo, e senza una parola buttò la cicca ormai finita dentro quello che doveva essere il suo bicchiere. Poi sospirò e si appoggiò al tavolo, accanto a Lane.

«Mia madre» mormorò semplicemente, grattandosi nervosamente il dorso della mano sfregiata.

Nella piccola cucina calò il silenzio. Lane aprì la bocca, poi la richiuse, consapevole di non conoscere ancora le parole giuste da dire in quel momento. Sentì l’imbarazzo serpeggiare fra loro, posarsi sulla sua pelle, avvolgerlo come un serpente, invisibile ma incredibilmente pesante. Sentì anche dolore, genuino dispiacere, pulsare dentro il suo petto.

Si impose di reagire.

«Che cosa ha fatto?» chiese, avvicinandosi impercettibilmente.

«Ha deciso di tornare per Natale» disse Jay, in tono insofferente. Lo vide scrollare piano le spalle, come per liquidare la cosa, e girarsi a guardare la triste sigaretta grigiastra che si stava pian piano sciogliendo nell’acqua gelida. 

Sapeva che cercava solamente una scusa per far scivolare piano gli occhi su di lui, per cercare i suoi pensieri nel suo volto prima che nelle sue parole e prendersi la libertà di decidere se alzare lo scudo o tenerlo giù.

E Lane voleva davvero sembrare rassicurante e pratico e saldo ma nel momento in cui la parola “Natale” rotolò via dalle labbra di Jay e rimbalzò nella vuota, solida aria intorno a loro, percepì distintamente un rantolo di indignazione prendere forma nel suo petto, crescere e cominciare ad arrampicarsi su per la sua gola.

Lo ricacciò indietro appena in tempo.

«Quando l’hai saputo?»

«Un po’ di tempo fa» rispose Jay, senza smettere di sfregare rabbiosamente le unghie sui graffi, con lo sguardo perso nel vuoto.

«E perché non me l’hai detto subito?» disse Lane, con lo sguardo fisso sulla sua mano, che stava diventando sempre più rossa. Si accorse troppo tardi di aver usato un tono più duro di quanto non intendesse fare, ma Jay non diede segno di averci fatto caso.

«Perché…» cominciò, poi si interruppe scuotendo la testa. Incrociò le braccia sul petto e lo guardò negli occhi, come se avesse bisogno di un appiglio per continuare.

«Stavamo pensando ad altro in questi giorni, e poi dovevamo fare questa cosa. Non mi andava di rovinartela» disse semplicemente, scrollando le spalle.

Lane cominciò a giocherellare distrattamente con il suo bicchiere, osservando l’acqua al suo interno incresparsi e ruotare. Non aveva idea di cosa dire.

 «Sono giorni che fumo come un disperato» aggiunse Jay, sbuffando piano.

«Dovevi dirmelo subito» mormorò infine, passandosi una mano fra i capelli, cercando di soffocare la frustrazione. Posò il bicchiere sul tavolo «avrei potuto fare qualcosa per aiutarti» aggiunse.

Jay alzò le spalle.

«Non importa» disse, scostandosi dal tavolo. Fece un mezzo sorriso forzato, sollevando appena l’angolo della bocca.

«Ne abbiamo parlato anche troppo» disse, avanzando di un passo verso di lui. I suoi occhi scuri rilucevano debolmente, illuminati dal neon scadente della cucina. Sembravano offuscati. Aveva infilato le mani nelle tasche dei jeans, probabilmente per riuscire a tenerle ferme.

«In realtà» mormorò Lane, spostando lo sguardo sulle sue labbra «non ne abbiamo parlato affatto»

Sapeva cosa stava facendo Jay. Infatti, esattamente secondo le sue previsioni, vide l’amico alzare gli occhi al cielo e ridurre ulteriormente la distanza che li separava.

«Possiamo non farlo, almeno per stasera?» soffiò, passandosi la lingua sulle labbra secche. Sembravano una ferita sul suo viso di gesso.

Lane rimase immobile, seduto sul bordo del tavolo con le braccia incrociate. Spostò lo sguardo sulle sue pupille dilatate e gli rivolse una lunga, gelida occhiata.

«Non puoi fare sempre così, lo sai vero?» mormorò, consapevole di averlo in pugno. Andava fuori di testa quando non rispondeva alle sue attenzioni.

Lo vide vacillare per un secondo. Poi i suoi occhi ritornarono freddi e asciutti, e la sua mano corse a cercare il pacchetto nella tasca posteriore dei jeans. Si allontanò di un passo, poi di un altro, fino a toccare lo sportello del frigorifero con la schiena.

Lane sospirò.

«Allison lo sa?» chiese, immaginando già la risposta. Jay non diede segno di aver sentito: la sua attenzione era totalmente assorbita dalla nuova sigaretta. La teneva stretta, così stretta che non riusciva più a distinguere le labbra livide dalla sua pelle. La debole fiamma dell’accendino tremava, così come le sue mani.

Aspettò, senza muoversi. Non aveva intenzione di mollare.

«Rispondimi» disse semplicemente, mentre l’amico aspirava la prima boccata di fumo come se fosse aria fresca. Lo vide grattarsi piano la fronte, poi chiuse la mano e lasciò cadere il braccio lungo il corpo rigido.

«Certo che lo sa, me l’ha detto lei» rispose, senza guardarlo.

«Le hai detto che non vuoi vederla?»

Jay fece una smorfia.

«Lo sa benissimo che non voglio vederla»

«Non credo che lo sappia. Non ti obbligherebbe mai a farlo»

Lane sapeva di averlo spinto in un angolo, così come sapeva che era molto semplice intaccare la sua ostinata barricata di ghiaccio, se riusciva a coglierlo di sorpresa. Azzardò un passo verso di lui, abbandonando il suo posto sicuro.

«Non sei costretto a fare niente» aggiunse, cercando di assumere un tono più morbido.

Ma Jay continuava ad evitare il suo sguardo.

Era difficile capire quale mossa fosse quella giusta con lui.

Scosse rabbiosamente la mano per far cadere la cenere.

«Questo non è vero» ringhiò.

La sua voce aveva quella sfumatura rauca di chi cerca di impedirsi di soccombere alla frustrazione, di chi vuole arginare quel sordo e tremendo bisogno di esplodere.

«L’unico che ti costringe a farlo sei tu» sbuffò Lane, che nonostante la crescente apprensione non aveva intenzione di retrocedere «e non dovresti metterti in queste situazioni»

«Non capisci» il volto di Jay si stava trasformando sotto i suoi occhi  «non importa che cosa voglio, ci sono delle cose che…” si interruppe all’improvviso. Si portò una mano alla testa e si strinse i capelli, tirandoli leggermente. Respirò profondamente.

«Possiamo smettere di parlarne adesso?» disse, senza alzare gli occhi dal pavimento. La sigaretta era ormai finita, e tremava nella sua mano.

Lane alzò le spalle. Lo aveva spinto molto vicino al limite, e adesso era arrabbiato.

«Dammene una» disse, indicando con il mento la cicca morente.

Jay lo guardò in faccia per la prima volta da quando aveva subdolamente cercato di distrarlo, ma non disse nulla. Estrasse rapidamente il pacchetto dalla tasca e glielo lanciò. Poi si avvicinò al tavolo e buttò la sua nel bicchiere.

Lane tirò fuori l’accendino e una sigaretta, e l’accese con un solo, fluido movimento. Il sollievo fu immediato, così come il sapore pungente sulla lingua.

Aveva ancora le mani fredde.

Tenne lo sguardo puntato davanti a sé mentre fumava, pur essendo consapevole che Jay non gli staccava un secondo gli occhi di dosso. Per la prima volta in tutta la serata si sentiva esausto: la stanchezza gli era piombata addosso tutta insieme, percepiva il suo peso sulle spalle come un macigno.

Guardò la sigaretta nella sua mano accorciarsi sempre di più. Voleva spegnerla, gli girava già la testa, ma non voleva voltarsi. Il silenzio fra loro era opprimente.

Non fumava quasi mai, perché non lo trovava particolarmente piacevole e perché non ne aveva mai voglia. Ma era consapevole che, ancora una volta, era riuscito a cogliere Jay di sorpresa, e questo gli dava un certo vantaggio, oltre che una certa soddisfazione.

Lo sentì sospirare. Un attimo dopo, un rumore attutito di passi annunciò che aveva lasciato la stanza.

Lane si passò stancamente una mano tra i capelli, poi si sporse leggermente verso il bicchiere di Jay e spense quel che rimaneva della sigaretta nell’acqua torbida e piena di cenere.

Improvvisamente, un breve trillo si espanse nel silenzio cupo della piccola cucina e subito morì, lasciandosi dietro un sottile e vibrante eco. Lane si irrigidì per un secondo, spiazzato. Poi estrasse lentamente il cellulare dalla tasca.

La prima cosa che vide fu l’ora, e pensò che fosse molto più tardi di quanto non credesse.

Ma il suo sguardo, dopo quella banale constatazione, corse subito a cercare il motivo per il quale il suo telefono aveva risuonato come uno sparo nell’aria immobile, e il respiro gli si mozzò nel petto.

Una sottile, luccicante notifica campeggiava al centro dello schermo. Semplice, pulita, bianca contro lo sfondo scuro.

Recitava semplicemente: Zoey Kingsley ti ha inviato una richiesta di amicizia.

La fissò stupito, con gli occhi spalancati. La lesse una volta, e subito pensò ad un errore.

Ma restava lì, inequivocabile, trionfalmente vivida, e pareva lo fissasse di rimando, in attesa di essere aperta, quasi come una sfida.

La rilesse un numero spropositato di volte, con una dedizione quasi ridicola, ma pareva che quelle poche, fottutamente semplici parole rimbalzassero subdolamente contro le pareti del suo cranio, sfuggenti e sfocate, impedendogli di dare il comando necessario alle sue dita per sbloccare e accettare.

Fece appena in tempo a realizzare il significato di quelle parole, prima che un urlo soffocato giungesse dal salotto e lo strappasse via dallo stato di irrequieta trance nella quale era immerso.

«Hai intenzione di venire o no?»

Con il cuore che vibrava insistentemente nel petto, insofferente al suo pallido tentativo di calmarlo, Lane si costrinse a premere il pulsante per bloccare lo schermo e si ficcò di nuovo il cellulare in tasca. Prese un bel respiro, si concesse un breve sorriso liberatorio, e inforcò la porta.

 

*

 

«Stavo pensando»

Jay aprì le palpebre di un millimetro. Benché la voce di Lane fosse solo un bisbiglio, l’aveva udita perfettamente. Si mosse piano contro le sue gambe e si voltò il tanto necessario che gli serviva per far entrare il volto del ragazzo nel suo campo visivo. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, ma non aveva spostato la mano dai suoi capelli.

Ritornò nella sua posizione iniziale e chiuse di nuovo gli occhi.

«A cosa?» mugugnò in risposta.

Lane non rispose subito. Jay sentiva il contatto tiepido delle sue dita spostarsi piano sulla sua fronte e ritornare indietro, seguendo distrattamente un percorso invisibile. Aspettò in silenzio, concentrandosi solo su quel movimento.

Era quasi riuscito a rilassarsi completamente quando udì un altro sussurro provenire dallo stesso punto imprecisato sopra di lui.

«Stavo pensando» ripeté Lane «che potrei esserci anch’io»

Fece una pausa. Sapeva che stava aspettando una sua reazione, ma Jay rimase immobile, in ascolto.

«Il giorno in cui tua madre arriverà» riprese. La mano non si muoveva più.

«Con te» aggiunse nervosamente qualche secondo dopo, ritirandola definitivamente. Il calore scomparve improvvisamente e la fredda sensazione di mancanza gli fece contrarre lo stomaco. Il suo viso si tese in una smorfia involontaria.

«Oppure no» si affrettò a dire Lane.

Era certo che non gli avesse tolto un secondo gli occhi di dosso.

Attese un altro secondo, poi sospirò brevemente.

«Va bene» mormorò, atono.

«Sei sicuro?»

Aprì le palpebre controvoglia, socchiudendole appena. La prima cosa che vide furono i suoi iridi, limpidi e preoccupati, che lo scrutavano dall’alto. Ma nel momento in cui i loro sguardi si incrociarono, Lane distolse rapidamente il suo e lo inchiodò di nuovo davanti a sé.

«Si» rispose Jay, tirandosi su e incrociando le gambe «mi sembra una buona idea» aggiunse.

La mano di Lane, che solo due minuti prima gli stava accarezzando i capelli, era abbandonata sulla sua stessa coscia e la stringeva nervosamente. La vide rilassarsi sotto il suo sguardo, ma l’altro braccio rimase avvolto intorno alla pancia, rigido.

Jay si avvicinò lentamente. Sapeva che, anche se cercava in tutti i modi di evitare di guardarlo, era attento ad ogni suo movimento.

«Puoi smettere di preoccuparti adesso» soffiò ad un centimetro dal suo orecchio.

Lane non disse nulla, ma Jay vide chiaramente che si stava sforzando per trattenere un sorriso.

«Non sono preoccupato» rispose, voltando di un millimetro la testa verso di lui e lanciandogli una breve occhiata nervosa.

«Meglio così» sussurrò Jay, facendo scivolare lentamente lo sguardo lungo il suo viso.

I suoi occhi erano così chiari da sembrare trasparenti. La luce proveniente dallo schermo del televisore proiettava dei riflessi bianchi e luminosi sulle sue guance, facendolo sembrare ancora più pallido.

 Notò che aveva spostato il braccio.

Si avvicinò ancora. Percepì il suo corpo irrigidirsi e rilassarsi, il respiro farsi più pesante. Gli occhi erano fissi sulle sue labbra, le ciglia quasi sfioravano gli zigomi.

Jay sorrise lievemente. Avvertiva la tensione dell’altro, la sentiva come se fosse stata sua.

In quel momento Lane spostò lo sguardo e piantò gli occhi nei suoi. Jay rimase immobile per un secondo, poi il suo sorriso si allargò, e improvvisamente raddrizzò la schiena.

Vide la confusione lampeggiare sul volto di Lane.

Si accasciò di nuovo sulle sue gambe, sistemandosi nella stessa posizione di poco prima, perfettamente consapevole della propria vittoria.

«Sei un idiota» mormorò il ragazzo, passandosi una mano sul viso.

«Te lo sei meritato» rispose, senza smettere di sorridere.

Lane sbuffò.

«Potresti passarmi il telefono? Dovrebbe essere sul tavolino» aggiunse con tono noncurante.

Lo sentì muoversi piano sotto la sua testa.

«Andiamo di sopra» mugugnò Lane, ignorando completamente la sua richiesta.

Jay non rispose. Chiuse gli occhi e lasciò che le sue parole galleggiassero nel silenzio teso ed elettrico della stanza, come bolle di sapone.

Era consapevole di avere la propria soddisfazione stampata in faccia.

Si tirò su lentamente e lo guardò in silenzio. Stava di nuovo evitando il suo sguardo, fissando con estremo interesse le figure che scorrevano rapidamente sullo schermo davanti a lui.

«Cosa?» disse, cercando di soffocare un sorrisetto compiaciuto.

Lane sospirò. Poi si voltò il tanto che bastava per scoccargli una breve occhiata esasperata.

Capì di aver vinto prima ancora di sentirgli pronunciare quelle parole, prima ancora perfino che schiudesse le labbra.

«Ho detto» mormorò «andiamo di sopra».

   
 
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