Ore 1.03
Lane fu il primo a scendere. Non
appena si fermarono davanti
alla casa, spense il motore con un movimento secco del polso e fece
scivolare
le gambe di lato, smontando dal sedile con una leggera spinta. Jay lo
fissò
mentre apriva rapidamente la lampo della tasca della giacca, vi
infilava dentro
la mano e un secondo dopo la ritirava stringendo un mazzo di chiavi,
scintillanti sotto la luce pallida dei lampioni.
Le chiavi cozzarono tra loro,
producendo un fastidioso
tintinnio, quando il ragazzo si chinò per aprire la
serratura del cancello.
Jay allungò le gambe,
strisciando le suole delle scarpe
sulla ghiaia, e appoggiò i gomiti al sedile. Rimase sdraiato
mollemente in
quella posizione a guardarlo, con la testa inclinata da un lato,
finché la
serratura non scattò come uno sparo nella notte.
«Andiamo» disse
Lane, abbassando la maniglia cigolante e
facendo scorrere piano il cancello su un lato.
Jay rimase un secondo a osservare i
riflessi dorati della
luce che guizzavano sui suoi capelli, prima di sollevarsi pigramente e
afferrare il manubrio.
«Dove lo metto?»
chiese, mentre l’amico spariva oltre
l’ombra del cancello.
«Dove ti pare»
rispose Lane. Il rumore attutito dei suoi
passi si faceva sempre più lontano.
Jay sbuffò.
Aspettò di vedere il tenue e caldo bagliore
della lampadina espandersi nel piccolo e buio giardino, seguito dal
prepotente
rumore delle chiavi che sbattevano sul legno della porta, prima di
cominciare a
fare forza per disincastrare le ruote dalla scricchiolante distesa di
pietrisco.
«Odio il tuo
cortile» urlò, trascinando faticosamente il
vecchio
fardello oltre il cancello. Appena fu vicino al muro diede un calcio al
cavalletto e lo infilò bruscamente fra le pietre.
Anche se gli dava le spalle, era
certo che Lane avesse
alzato gli occhi al cielo.
Infatti la sua risposta seccata non
tardò ad arrivare.
«Muoviti, si
gela» disse, mentre il fruscio morbido delle
sue scarpe sul vialetto di cemento tradiva la sua impazienza.
Jay si voltò. La porta era
aperta, le luci dentro la casa
già accese. Lane era in piedi di fronte a lui, con le mani
affondate nelle
tasche dei pantaloni, e lo stava fissando.
Rimase a guardarlo solo per un
secondo, poi si incamminò
nella sua direzione.
*
Lane si passò stancamente
le mani sul viso, indugiando per
qualche secondo con i polpastrelli sulle palpebre stanche. I suoi occhi
stavano
chiedendo pietà, le lenti erano ormai completamente asciutte
e
irrimediabilmente appiccicate alle sue iridi sofferenti.
Sbatté un paio di volte le
palpebre, senza successo, poi
lanciò le chiavi sul tavolo.
Jay era in piedi, immobile come una
statua, con la giacca
abbottonata fino al collo, completamente assorbito dalla contemplazione
dello
schermo del suo cellulare. Il casco gli pendeva ancora dal braccio.
Lane distolse lo sguardo da lui e si
sfilò la giacca con un
movimento fluido, posandola
distrattamente sullo schienale della sedia più
vicina. Poi si
voltò e si diresse verso la cucina.
«Hai fame?»
chiese a Jay in tono noncurante, aprendo il
frigo e lanciando una breve occhiata delusa agli scompartimenti
semivuoti.
«No»
urlò di rimando l’amico «tu?»
Lane sbuffò e richiuse il
frigo.
«No» disse,
passandosi una mano fra i capelli «sono troppo
nervoso»
«Ancora per questa
storia?»
La sua voce era molto più
vicina ora. Si appoggiò sul bordo
del tavolo, tamburellando debolmente con le unghie sulla superficie
morbida
della tovaglia, e si voltò a guardarlo.
La maglietta era decisamente troppo
grande per il suo busto
magro, e le braccia bianchissime, incrociate sul petto, spiccavano in
modo
abbagliante contro il tessuto nero. Era in piedi davanti a lui,
appoggiato allo
stipite della porta, e Lane sapeva perfettamente cosa stava per
accadere.
«Lascia perdere»
gli disse, spostando lo sguardo sulle sue
scarpe.
«Non ha senso»
continuò Jay, ignorandolo e tirando fuori il
pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni «Fai sempre
così. L’hai vista,
ci hai parlato, è andato tutto bene e senz’altro
si ricorderà di te. Non vedo
perché debba sprecare energie»
«Mh mh»
mormorò, esaminando con estrema attenzione i suoi
lacci logori.
Lo stava fissando, lo sapeva.
Alzò brevemente gli occhi: era
immobile, con una sigaretta spenta sospesa a mezz’aria.
«Parlo sul serio»
disse, infilandosela tra le labbra.
«Si, anche io parlavo sul
serio quando ti ho detto di
lasciar perdere» rispose Lane irritato, alzando bruscamente
la testa e
piantando gli occhi nei suoi. Poi il suo sguardo cadde sulla sigaretta.
«Ti dispiacerebbe metterla
via?» sbuffò, indicandola con un
cenno del mento.
Jay sorrise e alzò le
sopracciglia.
«Perché? Tanto
abbiamo ancora tre giorni» rispose.
Lane osservò le sue lunghe
dita bianche muoversi rapide.
Avvicinò l’accendino alla bocca, tenendolo con
entrambe le mani, e fece
scorrere il pollice destro sulla rotella. La fiamma scaturì
con un sibilo.
Aspirò e suo viso si distese completamente, mentre la brace
della sigaretta
brillava debolmente nella penombra. Sulla mano sinistra aveva due
graffi,
incredibilmente rossi contro la pelle pallida.
Soffiò il fumo in alto,
lontano da lui. Poi si appoggiò con
la schiena contro lo stipite, lanciandogli una breve occhiata nervosa.
Si era
accorto che non aveva smesso di guardarlo per un secondo.
Aveva le guance così
incavate che le ossa sembravano sul punto
di bucare la pelle. Le labbra e la punta del naso erano arrossate per
il
freddo, mentre i capelli gli cadevano sulla fronte in sottili ciuffi
disordinati. Gli occhi erano chiusi, le ciglia, ridicolmente lunghe,
proiettavano un’ombra leggera sui suoi zigomi bianchi.
Non distolse lo sguardo dal suo viso
nemmeno quando ruppe la
perfetta immobilità della sua posizione per portare la
sigaretta alla bocca. I
graffi guizzarono sotto la luce fioca della lampadina.
«Dovresti mangiare
qualcosa» mormorò, mentre Jay si passava
la mano libera fra i capelli, come per sistemarli. Incontrò
il suo sguardo per
un secondo, e lo distolse subito. Pareva non avere la forza di
sostenerlo.
«No, non credo»
rispose stancamente, colpendo piano il
filtro per far cadere la cenere a terra.
Lane sbuffò.
«Sei incredibile»
disse, alzandosi improvvisamente e aprendo
il frigo «non
riesci nemmeno a tenere
l’accendino con una mano sola».
«Sono stressato, tutto
qui» disse debolmente Jay, mentre
Lane tirava fuori una bottiglia d’acqua.
«Sei sempre
stressato» disse bruscamente, sbattendo di malo
modo due bicchieri sul tavolo. Svitò maldestramente il tappo
alla bottiglia e
vi versò un parte del contenuto.
«Questa volta è
diverso»
«Ah si? E cosa è
successo?»
Jay non rispose subito.
Avanzò lentamente verso il tavolo, e
senza una parola buttò la cicca ormai finita dentro quello
che doveva essere il
suo bicchiere. Poi sospirò e si appoggiò al
tavolo, accanto a Lane.
«Mia madre»
mormorò semplicemente, grattandosi nervosamente
il dorso della mano sfregiata.
Nella piccola cucina calò
il silenzio. Lane aprì la bocca,
poi la richiuse, consapevole di non conoscere ancora le parole giuste
da dire
in quel momento. Sentì l’imbarazzo serpeggiare fra
loro, posarsi sulla sua
pelle, avvolgerlo come un serpente, invisibile ma incredibilmente
pesante.
Sentì anche dolore, genuino dispiacere, pulsare dentro il
suo petto.
Si impose di reagire.
«Che cosa ha
fatto?» chiese, avvicinandosi
impercettibilmente.
«Ha deciso di tornare per
Natale» disse Jay, in tono
insofferente. Lo vide scrollare piano le spalle, come per liquidare la
cosa, e girarsi
a guardare la triste sigaretta grigiastra che si stava pian piano
sciogliendo
nell’acqua gelida.
Sapeva che cercava solamente una
scusa per far scivolare
piano gli occhi su di lui, per cercare i suoi pensieri nel suo volto
prima che
nelle sue parole e prendersi la libertà di decidere se
alzare lo scudo o
tenerlo giù.
E Lane voleva davvero sembrare
rassicurante e pratico e saldo ma
nel momento in cui la parola
“Natale” rotolò via dalle labbra di Jay
e rimbalzò nella vuota, solida aria
intorno a loro, percepì distintamente un rantolo di
indignazione prendere forma
nel suo petto, crescere e cominciare ad arrampicarsi su per la sua gola.
Lo ricacciò indietro
appena in tempo.
«Quando l’hai
saputo?»
«Un po’ di tempo
fa» rispose Jay, senza smettere di sfregare
rabbiosamente le unghie sui graffi, con lo sguardo perso nel vuoto.
«E perché non me
l’hai detto subito?» disse Lane, con lo
sguardo fisso sulla sua mano, che stava diventando sempre
più rossa. Si accorse
troppo tardi di aver usato un tono più duro di quanto non
intendesse fare, ma
Jay non diede segno di averci fatto caso.
«Perché…»
cominciò, poi si interruppe scuotendo la testa.
Incrociò le braccia sul petto e lo guardò negli
occhi, come se avesse bisogno
di un appiglio per continuare.
«Stavamo pensando ad altro
in questi giorni, e poi dovevamo
fare questa cosa. Non mi andava di rovinartela» disse
semplicemente, scrollando
le spalle.
Lane cominciò a
giocherellare distrattamente con il suo
bicchiere, osservando l’acqua al suo interno incresparsi e
ruotare. Non aveva
idea di cosa dire.
«Sono
giorni che fumo
come un disperato» aggiunse Jay, sbuffando piano.
«Dovevi dirmelo
subito» mormorò infine, passandosi una mano
fra i capelli, cercando di soffocare la frustrazione. Posò
il bicchiere sul
tavolo «avrei potuto fare qualcosa per aiutarti»
aggiunse.
Jay alzò le spalle.
«Non importa»
disse, scostandosi dal tavolo. Fece un mezzo
sorriso forzato, sollevando appena l’angolo della bocca.
«Ne abbiamo parlato anche
troppo» disse, avanzando di un
passo verso di lui. I suoi occhi scuri rilucevano debolmente,
illuminati dal
neon scadente della cucina. Sembravano offuscati. Aveva infilato le
mani nelle
tasche dei jeans, probabilmente per riuscire a tenerle ferme.
«In
realtà» mormorò Lane, spostando lo
sguardo sulle sue
labbra «non ne abbiamo parlato affatto»
Sapeva cosa stava facendo Jay.
Infatti, esattamente secondo
le sue previsioni, vide l’amico alzare gli occhi al cielo e
ridurre
ulteriormente la distanza che li separava.
«Possiamo non farlo, almeno
per stasera?» soffiò, passandosi
la lingua sulle labbra secche. Sembravano una ferita sul suo viso di
gesso.
Lane rimase immobile, seduto sul
bordo del tavolo con le
braccia incrociate. Spostò lo sguardo sulle sue pupille
dilatate e gli rivolse
una lunga, gelida occhiata.
«Non puoi fare sempre
così, lo sai vero?» mormorò,
consapevole di averlo in pugno. Andava fuori di testa quando non
rispondeva
alle sue attenzioni.
Lo vide vacillare per un secondo. Poi
i suoi occhi ritornarono
freddi e asciutti, e la sua mano corse a cercare il pacchetto nella
tasca
posteriore dei jeans. Si allontanò di un passo, poi di un
altro, fino a toccare
lo sportello del frigorifero con la schiena.
Lane sospirò.
«Allison lo sa?»
chiese, immaginando già la risposta. Jay
non diede segno di aver sentito: la sua attenzione era totalmente
assorbita
dalla nuova sigaretta. La teneva stretta, così stretta che
non riusciva più a
distinguere le labbra livide dalla sua pelle. La debole fiamma
dell’accendino
tremava, così come le sue mani.
Aspettò, senza muoversi.
Non aveva intenzione di mollare.
«Rispondimi»
disse semplicemente, mentre l’amico aspirava la
prima boccata di fumo come se fosse aria fresca. Lo vide grattarsi
piano la
fronte, poi chiuse la mano e lasciò cadere il braccio lungo
il corpo rigido.
«Certo che lo sa, me
l’ha detto lei» rispose, senza
guardarlo.
«Le hai detto che non vuoi
vederla?»
Jay fece una smorfia.
«Lo sa benissimo che non
voglio vederla»
«Non credo che lo sappia.
Non ti obbligherebbe mai a farlo»
Lane sapeva di averlo spinto in un
angolo, così come sapeva
che era molto semplice intaccare la sua ostinata barricata di ghiaccio,
se
riusciva a coglierlo di sorpresa. Azzardò un passo verso di
lui, abbandonando
il suo posto sicuro.
«Non sei costretto a fare
niente» aggiunse, cercando di assumere
un tono più morbido.
Ma Jay continuava ad evitare il suo
sguardo.
Era difficile capire quale mossa
fosse quella giusta con
lui.
Scosse rabbiosamente la mano per far
cadere la cenere.
«Questo non è
vero» ringhiò.
La sua voce aveva quella sfumatura
rauca di chi cerca di
impedirsi di soccombere alla frustrazione, di chi vuole arginare quel
sordo e
tremendo bisogno di esplodere.
«L’unico che ti
costringe a farlo sei tu» sbuffò Lane, che
nonostante la crescente apprensione non aveva intenzione di retrocedere
«e non
dovresti metterti in queste situazioni»
«Non capisci» il
volto di Jay si stava trasformando sotto i
suoi occhi «non
importa che cosa voglio, ci sono
delle cose che…” si
interruppe all’improvviso. Si portò una mano alla
testa e si strinse i capelli,
tirandoli leggermente. Respirò profondamente.
«Possiamo smettere di
parlarne adesso?» disse, senza alzare
gli occhi dal pavimento. La sigaretta era ormai finita, e tremava nella
sua
mano.
Lane alzò le spalle. Lo
aveva spinto molto vicino al limite,
e adesso era arrabbiato.
«Dammene una»
disse, indicando con il mento la cicca
morente.
Jay lo guardò in faccia
per la prima volta da quando aveva
subdolamente cercato di distrarlo, ma non disse nulla. Estrasse
rapidamente il
pacchetto dalla tasca e glielo lanciò. Poi si
avvicinò al tavolo e buttò la sua
nel bicchiere.
Lane tirò fuori
l’accendino e una sigaretta, e l’accese con
un solo, fluido movimento. Il sollievo fu immediato, così
come il sapore pungente
sulla lingua.
Aveva ancora le mani fredde.
Tenne lo sguardo puntato davanti a
sé mentre fumava, pur
essendo consapevole che Jay non gli staccava un secondo gli occhi di
dosso. Per
la prima volta in tutta la serata si sentiva esausto: la stanchezza gli
era
piombata addosso tutta insieme, percepiva il suo peso sulle spalle come
un
macigno.
Guardò la sigaretta nella
sua mano accorciarsi sempre di
più. Voleva spegnerla, gli girava già la testa,
ma non voleva voltarsi. Il
silenzio fra loro era opprimente.
Non fumava quasi mai,
perché non lo trovava particolarmente
piacevole e perché non ne aveva mai voglia. Ma era
consapevole che, ancora una
volta, era riuscito a cogliere Jay di sorpresa, e questo gli dava un
certo
vantaggio, oltre che una certa soddisfazione.
Lo sentì sospirare. Un
attimo dopo, un rumore attutito di
passi annunciò che aveva lasciato la stanza.
Lane si passò stancamente
una mano tra i capelli, poi si
sporse leggermente verso il bicchiere di Jay e spense quel che rimaneva
della
sigaretta nell’acqua torbida e piena di cenere.
Improvvisamente, un breve trillo si
espanse nel silenzio cupo
della piccola cucina e subito morì, lasciandosi dietro un
sottile e vibrante
eco. Lane si irrigidì per un secondo, spiazzato. Poi
estrasse lentamente il
cellulare dalla tasca.
La prima cosa che vide fu
l’ora, e pensò che fosse molto più
tardi di quanto non credesse.
Ma il suo sguardo, dopo quella banale
constatazione, corse
subito a cercare il motivo per il quale il suo telefono aveva risuonato
come
uno sparo nell’aria immobile, e il respiro gli si
mozzò nel petto.
Una sottile, luccicante notifica
campeggiava al centro dello
schermo. Semplice, pulita, bianca contro lo sfondo scuro.
Recitava semplicemente: Zoey
Kingsley ti ha inviato una richiesta di amicizia.
La fissò stupito, con gli
occhi spalancati. La lesse una
volta, e subito pensò ad un errore.
Ma restava lì,
inequivocabile, trionfalmente vivida, e
pareva lo fissasse di rimando, in attesa di essere aperta, quasi come
una
sfida.
La rilesse un numero spropositato di
volte, con una
dedizione quasi ridicola, ma pareva che quelle poche, fottutamente
semplici
parole rimbalzassero subdolamente contro le pareti del suo cranio,
sfuggenti e
sfocate, impedendogli di dare il comando necessario alle sue dita per
sbloccare
e accettare.
Fece appena in tempo a realizzare il
significato di quelle
parole, prima che un urlo soffocato giungesse dal salotto e lo
strappasse via
dallo stato di irrequieta trance nella quale era immerso.
«Hai intenzione di venire o
no?»
Con il cuore che vibrava
insistentemente nel petto, insofferente
al suo pallido tentativo di calmarlo, Lane si costrinse a premere il
pulsante
per bloccare lo schermo e si ficcò di nuovo il cellulare in
tasca. Prese un bel
respiro, si concesse un breve sorriso liberatorio, e inforcò
la porta.
*
«Stavo pensando»
Jay aprì le palpebre di un
millimetro. Benché la voce di
Lane fosse solo un bisbiglio, l’aveva udita perfettamente. Si
mosse piano
contro le sue gambe e si voltò il tanto necessario che gli
serviva per far
entrare il volto del ragazzo nel suo campo visivo. Teneva lo sguardo
fisso
davanti a sé, ma non aveva spostato la mano dai suoi capelli.
Ritornò nella sua
posizione iniziale e chiuse di nuovo gli
occhi.
«A cosa?»
mugugnò in risposta.
Lane non rispose subito. Jay sentiva
il contatto tiepido delle
sue dita spostarsi piano sulla sua fronte e ritornare indietro,
seguendo
distrattamente un percorso invisibile. Aspettò in silenzio,
concentrandosi solo
su quel movimento.
Era quasi riuscito a rilassarsi
completamente quando udì un
altro sussurro provenire dallo stesso punto imprecisato sopra di lui.
«Stavo pensando»
ripeté Lane «che potrei esserci
anch’io»
Fece una pausa. Sapeva che stava
aspettando una sua
reazione, ma Jay rimase immobile, in ascolto.
«Il giorno in cui tua madre
arriverà» riprese. La mano non
si muoveva più.
«Con te» aggiunse
nervosamente qualche secondo dopo,
ritirandola definitivamente. Il calore scomparve improvvisamente e la
fredda
sensazione di mancanza gli fece contrarre lo stomaco. Il suo viso si
tese in
una smorfia involontaria.
«Oppure no» si
affrettò a dire Lane.
Era certo che non gli avesse tolto un
secondo gli occhi di
dosso.
Attese un altro secondo, poi
sospirò brevemente.
«Va bene»
mormorò, atono.
«Sei sicuro?»
Aprì le palpebre
controvoglia, socchiudendole appena. La
prima cosa che vide furono i suoi iridi, limpidi e preoccupati, che lo
scrutavano dall’alto. Ma nel momento in cui i loro sguardi si
incrociarono,
Lane distolse rapidamente il suo e lo inchiodò di nuovo
davanti a sé.
«Si» rispose Jay,
tirandosi su e incrociando le gambe «mi
sembra una buona idea» aggiunse.
La mano di Lane, che solo due minuti
prima gli stava
accarezzando i capelli, era abbandonata sulla sua stessa coscia e la
stringeva nervosamente.
La vide rilassarsi sotto il suo sguardo, ma l’altro braccio
rimase avvolto
intorno alla pancia, rigido.
Jay si avvicinò
lentamente. Sapeva che, anche se cercava in
tutti i modi di evitare di guardarlo, era attento ad ogni suo movimento.
«Puoi smettere di
preoccuparti adesso» soffiò ad un
centimetro dal suo orecchio.
Lane non disse nulla, ma Jay vide
chiaramente che si stava
sforzando per trattenere un sorriso.
«Non sono
preoccupato» rispose, voltando di un millimetro la
testa verso di lui e lanciandogli una breve occhiata nervosa.
«Meglio
così» sussurrò Jay, facendo scivolare
lentamente lo
sguardo lungo il suo viso.
I suoi occhi erano così
chiari da sembrare trasparenti. La
luce proveniente dallo schermo del televisore proiettava dei riflessi
bianchi e
luminosi sulle sue guance, facendolo sembrare ancora più
pallido.
Notò
che aveva
spostato il braccio.
Si avvicinò ancora.
Percepì il suo corpo irrigidirsi e
rilassarsi, il respiro farsi più pesante. Gli occhi erano
fissi sulle sue
labbra, le ciglia quasi sfioravano gli zigomi.
Jay sorrise lievemente. Avvertiva la
tensione dell’altro, la
sentiva come se fosse stata sua.
In quel momento Lane
spostò lo sguardo e piantò gli occhi
nei suoi. Jay rimase immobile per un secondo, poi il suo sorriso si
allargò, e
improvvisamente raddrizzò la schiena.
Vide la confusione lampeggiare sul
volto di Lane.
Si accasciò di nuovo sulle
sue gambe, sistemandosi nella
stessa posizione di poco prima, perfettamente consapevole della propria
vittoria.
«Sei un idiota»
mormorò il ragazzo, passandosi una mano sul
viso.
«Te lo sei
meritato» rispose, senza smettere di sorridere.
Lane sbuffò.
«Potresti passarmi il
telefono? Dovrebbe essere sul tavolino»
aggiunse con tono noncurante.
Lo sentì muoversi piano
sotto la sua testa.
«Andiamo di
sopra» mugugnò Lane, ignorando completamente la
sua richiesta.
Jay non rispose. Chiuse gli occhi e
lasciò che le sue parole
galleggiassero nel silenzio teso ed elettrico della stanza, come bolle
di
sapone.
Era consapevole di avere la propria
soddisfazione stampata
in faccia.
Si tirò su lentamente e lo
guardò in silenzio. Stava di
nuovo evitando il suo sguardo, fissando con estremo interesse le figure
che
scorrevano rapidamente sullo schermo davanti a lui.
«Cosa?» disse,
cercando di soffocare un sorrisetto
compiaciuto.
Lane sospirò. Poi si
voltò il tanto che bastava per
scoccargli una breve occhiata esasperata.
Capì di aver vinto prima
ancora di sentirgli pronunciare
quelle parole, prima ancora perfino che schiudesse le labbra.
«Ho detto»
mormorò «andiamo di sopra».