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Autore: Athelye    07/12/2018    0 recensioni
Una mattina come tutte le altre stava scivolando via, era un comunissimo venerdì mattina. L’inverno alle porte, e anche il Natale lo era, se si fermava un attimo a pensarci. Il 5 dicembre però gli sembrava ancora troppo lontano per pensare ai regali da fare e alle faccende da sbrigare.
[...]
John stava sinceramente iniziando a odiare la parola tempo. Sembrava che tutti, in qualche modo, gli dicessero che aveva tutto il tempo del mondo per fare quello che voleva.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Paul lo fissò senza parlare. Era arrabbiato. Era incredulo. E si rifiutava di accettare la cosa.
Stupido John, e stupida la loro amicizia. E stupida anche quella donna che gli aveva detto così. Fare certi scherzi alla gente non è normale.
E quello era uno scherzo, doveva esserlo. Paul sapeva che era solo uno stupidissimo scherzo. Ma allora perché il suo cuore batteva a mille di paura?
“Beh, quindi cosa pensi di fare?” Chiese dopo un po’, infilando con forza le mani in tasca.
“Non lo so ancora. Non so cosa voglio fare per l’ultima volta, né ho mai fatto una lista delle cose da fare prima di morire. Pensavo di avere tutto il tempo per farla, sai.”
“Perché mi hai chiamato, allora?”
“Perché sei l’unica persona sulla Terra che è in grado di tranquillizzarmi. Pensavo di poter aggiustare qualcosa.”
E, per quanto gli facesse male ammetterlo, Paul provava la stessa cosa, ma non lo disse.
“Sai che non puoi cancellare anni di dispetti, scaramucce, cose non dette e altre dette di troppo, vero?”
Eppure, nonostante quello, il minore era lì, davanti a lui, a centinaia di chilometri da dove sarebbe dovuto essere in quel momento.
“Lo so.” Annuì John, sentendo una fitta al cuore. Le cose non dette si erano accumulate negli anni, e quelle dette di troppo sembravano sovrastare ciò che di bello erano stati loro da ragazzi. All’inizio in due contro il mondo, poi si erano ritrovati ad esserne i re in pochissimo tempo, e infine ad essere separati da quello stesso mondo che si erano promessi di girare insieme.
“Quindi?”
“Quindi cosa? Non farò smettere di girare il mondo per le tue manie di persecuzione, John.”
“Una volta l’avresti fatto.”
“Una volta non è oggi.” Sospirò. “Fammi sapere quando ti sarai ripreso da questa cazzata.”
Lo salutò così, nascondendo una vena di preoccupazione, mentre si allontanava dandogli le spalle.
John rimase seduto sulla panchina. Non provò neanche ad alzarsi per seguirlo, quello avrebbe dovuto farlo anni prima. Dopotutto cosa si aspettava? Quegli anni pesavano, e chiamarsi ogni tot mesi per parlare di faccende domestiche e figli, di come si fa il pane, di niente, non era comparabile a tutto quello che era passato in mezzo.
Si diede dello stupido per aver sperato di aggiustare qualcosa di inevitabilmente rotto, perché in fondo lo capiva.
Si alzò dopo aver ripensato per un po’ a tutto quello che avevano passato insieme. Ripercorse i ricordi belli come quelli dolorosi, scovando tutti gli errori che aveva fatto nella sua vita. Ricominciare in due giorni non era possibile, quindi doveva accettare quello che era stato.
 
* * *
                            
Rientrando a casa, la prima cosa che fece fu andare al telefono e comporre un numero inglese.
. . .
Pronto?” Rispose una voce stanca. “Chi parla?
“Ciao zia.” Biascicò, sentendosi in colpa per ciò che stava per fare. Era una piccola bugia, dolorosa, ma voleva dirla.
Nipote, finalmente ti fai sentire! Era tanto che non chiamavi.
“Hai ragione, Mimi. Scusa, ho avuto da fare ultimamente. Sai, Sean si era beccato l’influenza e mi sono concentrato praticamente solo su di lui.” Sentì la donna sospirare con un mezzo sorriso. Probabilmente aveva pensato qualcosa di positivo su di lui, qualcosa come ‘non è del tutto un irresponsabile’.
Hai fatto bene allora.” John sorrise a quella risposta.
“Senti zia.. Stavo pensando di tornare per un po’ in Inghilterra, forse sotto Natale. Mi manca un po’ casa. Non so, ti andrebbe di..”
Certo.” Lo interruppe lei.
“Ma non ho finito di..”
John, ti ho cresciuto io, saprò sempre dove vai a parare. è un po’ un autoinvito, non la cosa più educata da fare e decisamente non te l’ho insegnata io, ma mi manca vedere mio nipote.” L’uomo si aggrappò alla cornetta, mordendosi l’interno delle labbra. Non era giusto ingannarla così, ma anche a lui mancava sentirsi rimproverare da sua zia. E gli sarebbe mancato sempre, ne era certo.
“D’accordo, allora ci risentiamo presto, così ti dico i giorni esatti in cui torno.” Soffocò in gola un singulto.
Mi raccomando, nipote. Non far passare di nuovo un mese.
“Lo prometto. Ora però devo andare. Ti voglio bene, Mimi.” Dall’altra parte ci fu silenzio.
Anche io, John. A presto.
 
Yoko entrò in casa proprio nell’istante in cui John aveva chiuso la chiamata. Posò le buste della spesa accanto all’ingresso, poi si avvicinò al marito con aria preoccupata.
“Ehi John, dove sei stato? Hai una faccia..” Chiese, posando premurosamente una mano sul suo braccio.
Nella propria testa, l’uomo sentì una voce lontana, quella del suo migliore amico, che diceva ‘Ma ti sei vista la tua?’, e accennò un sorriso.
“Sì, tranquilla. Sono solo un po’ stanco.” Le rispose, tenendo una mano sopra quella della donna.
“Va bene..” Lei controllò l’orologio. “Comunque ora inizio a fare la cena, quindi hai ancora tempo per fare qualcosa.”
John stava sinceramente iniziando a odiare la parola tempo. Sembrava che tutti, in qualche modo, gli dicessero che aveva tutto il tempo del mondo per fare quello che voleva. Tuttavia gli venne un’idea, una cosa che voleva decisamente fare prima di morire.
Annuì e lasciò un bacio sui capelli neri della donna. Andò a prendere carta e penna e iniziò a scrivere qualcosa. Lesse e rilesse le righe che aveva scritto. Decise di metterle in musica e andò a sedersi al pianoforte. Sean fece capolino dal corridoio quando sentì alcune note diffondersi nell’aria.
In cucina, Yoko rallentò la preparazione della cena. Era un po’ di tempo che John non componeva qualcosa così spontaneamente, quindi pensò che non fosse una buona idea finire con l’interromperlo e beccarsi una sfuriata dal marito.
John fece scivolare veloce le dita sui tasti bianchi e neri. Canticchiando sottovoce, cambiò più volte note, intonazione della voce.
Dopo vari tentativi, quando si ritenne sufficientemente soddisfatto, prese un registratore e lo avviò, registrando la musica profonda del piano e la sua voce. Riascoltò la registrazione. Brusio di fondo a parte, il risultato non era affatto male. Andò a cercare un’etichetta e ce la attaccò, scrivendoci qualcosa sopra, poi andò in camera e mise la cassettina nel proprio comodino. La dicitura ‘Per Paul’ sull’etichetta avrebbe scoraggiato Yoko dall’ascoltarla, almeno fino a lunedì probabilmente.
La donna chiamò i due a tavola, e la cena proseguì tranquilla.
Anche quella sera, John pensò di trascorrerla col figlio, raccontandogli cose di quand’era giovane e altre cose sdolcinate che si raccontano ai bambini per farli addormentare sereni.
 
* * *
 
Improvvisamente si trovò sul vagone di un treno. L’aria era bianca e fresca, risplendendo l’ambiente fuori dai finestrini. Il treno sembrava viaggiare sul mare, scivolando leggero sul pelo dell’acqua.
Era comodamente seduto su un divanetto bianco con i cuscini rossi, e in quello speculare a lui c’era un signore che doveva aver visto la guerra. Leggeva il giornale imperterrito, nonostante i bruschi scossoni dati dalle curve improvvise: niente sembrava distrarlo dalla lettura.
Erano separati da un tavolinetto, bianco come il resto del vagone, su cui poggiava una tazzina piena di the, che ogni tanto l’uomo canuto prendeva per berne un sorso caldo. A causa di quelle momentanee turbolenze, la porcellana scivolava in una direzione o l’altra, ma l’uomo allungava la mano, afferrava il piattino e lo riposizionava al centro del tavolino con nonchalance, senza neanche guardare, a volte approfittandone per prenderne un sorso.
John era rimasto in silenzio per una quindicina buona di curve, osservando il signore e studiando i suoi movimenti.
Si sistemò le lenti rotonde e si schiarì la gola.
“Uhm.. Salve.”
Era certo di essere lì da almeno una mezzoretta, possibile che quello non se ne fosse accorto? Perché non ha detto nulla? E poi, quante cazzo di pagine ha quel dannato giornale? è una vita che sfoglia..
“Buon giorno, signore.” Ritentò con una nota di disappunto, in fondo lui era John Lennon, diamine!
Quello abbassò il lato superiore del giornale per guardarlo da sopra la montatura scura degli occhiali da lettura.
Aveva gli occhi marrone scuro, degli occhi comuni da trovare, ma profondi e segnati dalla guerra. Quegli occhi avevano visto mille e più vite aggrapparsi alla speranza, venir strappate via come petali da un fiore, e abbandonate nella terra fredda e arida.
Di colpo John si sentì piccolo piccolo sotto quello sguardo, e, dopo aver serrato la mascella per assicurarsi di non aprirla di nuovo a sproposito, fece una cosa che da anni pensava non avrebbe mai più fatto: abbassò lo sguardo, colpevole, e stette in silenzio.
Si sentì per un attimo di nuovo bambino, come quando Mimi lo sgridava e lui stava in piedi davanti a lei, con gli occhi puntati a terra, già pensando alla prossima marachella da combinare.
“Figliolo, guardami.” Disse quello, in tono cordiale.
John alzò lo sguardo e trovò l’espressione dell’anziano più rabbonita.
“Da quanto sei in viaggio?” Chiese abbozzando un sorriso sotto i folti baffi bianchi.
“Non lo so.. Circa un’ora, credo..” Rispose dopo essersi preso un minuto per rifletterci.
L’altro uomo sorrise e tornò a leggere il suo giornale, prendendo un sorso dalla sua tazzina.
“Lei, signore?”
“Ottantatré anni.”
John sgranò gli occhi. “Così tanto?!”
“Oh, questo non è niente, figliolo. Alcuni passeggeri viaggiano ancora adesso dopo centinaia di anni.”
“E dove stanno..” Fece una piccola pausa per correggersi. “Dove stiamo andando?”
“Avanti.”
John corrugò le sopracciglia, confuso. “Beh, questo immagino sia normale per un treno..”
L’anziano ridacchiò familiarmente, come solo un nonno potrebbe fare del nipote. Abbassò nuovamente il giornale.
“Da dove vieni, ragazzo?”
“New York.”
“Intendevo l’anno.”
John sembrò perplesso. “1980, signore.”
Quello annuì pensoso. “Non l’ho mai visto.. è un bell’anno?”
John si prese qualche momento per pensare a cosa dire. “Sì, sì. Direi che è un bell’anno. Colorato. Frizzante, ecco. È armonioso anche nel suo stesso numero poi. Uno, nove, otto, zero. Uno più otto fa nove, e nove meno nove fa zero.”
Si rese conto dell’assurdo ragionamento che aveva appena fatto e aggiunse in fretta, sorridendo imbarazzato. “Si dimentichi dell’ultima cosa, era un ragionamento davvero stupido.”
L’altro ridacchiò ancora. “No, invece. Tu non lo trovi curioso?”
“Immagino di sì, in qualche modo..”
L’uomo annuì e riprese a leggere. Ci fu di nuovo silenzio per un po’, ma siccome John non aveva niente da fare o qualcosa con cui armeggiare, al contrario del suo compagno di viaggio, non rimaneva molto da fare se non tentare di nuovo una conversazione.
“E lei dove scende?” Chiese ingenuamente.
“Al capolinea.”
“Mh..” Si bagnò le labbra con la lingua, annuendo come se l’altro avesse detto una cosa molto giusta e saggia. “E.. Dove sarebbe? Giusto per avere un’idea di quante fermate ci siano ecco.”
“Oh, non ne ho idea, ma sarà sicuramente segnalato.”
“Mi scusi, ma lei non sa dove scendere? E se la sua fermata fosse già passata?”
“Allora sarà un viaggio molto più lungo.”
“E la cosa non la tocca minimamente?” Ora John era davvero confuso, e aveva anche involontariamente alzato la voce.
L’anziano però scosse la testa tranquillamente. E questo fece saltare i nervi appena contenuti del quarantenne.
“Mi scusi, può alzare gli occhi da quel dannato giornale?! Che poi, cosa diavolo legge con tanto interesse?!”
L’uomo abbassò il giornale in silenzio, ripiegandolo ed appoggiandolo accanto alla sua tazzina, spostata all’occorrenza, posando lo sguardo su di lui.
“Ha ragione, mi scusi signor Lennon, ma non sono più abituato alle visite. Ormai da molto tempo non ho più un ospite.” Aveva cambiato atteggiamento, sentendosi probabilmente preso in causa.
John si sentì soddisfatto della totale attenzione appena ottenuta, sebbene si sentisse anche molto in soggezione.
“Bene..” Annuì, sobbalzando poi. “Aspetti.. Come sa il mio nome, se io non gliel’ho detto?” Quell’uomo viaggiava da ottantatré anni, non era possibile che lo conoscesse.
“Lei è famoso, signor Lennon. Anche per un vecchio come me.” Gli fece l’occhiolino sorridendo.
John accennò un sorriso di rimando, mentre il nervosismo di poco prima scemava.
“Sto leggendo di mio figlio, comunque.”
“Suo figlio?”
“Sì, è uno di quelli.. Sai, quei tizi che lavorano con i soldi, le azioni..”
“Gioca in borsa?”
“Beh, a quanto ho capito è un lavoro serio e non un gioco, ma spero per lui si diverta. Sta andando bene.”
“E lei legge di lui? Tutto il tempo?”
“Principalmente. Le previsioni del tempo sono un po’ noiose e ripetitive, ma mi diverto a leggere l’oroscopo ogni tanto. Non ci credo, ma è divertente da leggere.”
John si chiese se quell’uomo leggesse sempre la stessa notizia da decenni.
“Lei ha figli, signor Lennon?”
“Sì.” Rispose con un sorriso. “Due.”
“Deve esserne molto orgoglioso, allora.”
“In realtà non ho un buon rapporto con il primo.. Non ero pronto a fare il padre, e si è visto.”
La sua mente lo portò a Cynthia e a ciò che era successo in quegli anni del divorzio. Gli avvocati, i litigi, Julian. Non si pentì, ne prese solo atto per la prima volta.
“Ma con il secondo sta andando meglio.”
L’anziano annuì, comprensivo. “Mi dispiace.”
John aggrottò le sopracciglia. “No.. Sono contento adesso, davvero.”
“Per questo lo dico. Se vuole un consiglio, si porti un giornale quando salirà per restare.” Sorrise, poi aprì e riprese a leggere il suo. “è arrivato alla sua fermata. È stato un piacere, John.”
“Cosa? In che senso? Non ho sentito l’annuncio..”
 
Una luce abbagliante lo avvolse alle sue spalle come in un abbraccio, facendolo svegliare.
 
* * *
 
Si era addormentato con il corpicino di Sean fra le braccia, accoccolato contro di lui mentre stringeva debolmente la sua maglietta, creando delle pieghette intorno al suo piccolo pugno di bambino.
John fece l’errore madornale di contrarre anche una sola fibra del suo corpo, sentendo immediatamente quella terribile sensazione di fastidio misto a dolore di quando il corpo è intorpidito.
Strinse i denti e pensò che tutto sommato poteva anche restare fermo lì. Dopotutto ci si era addormentato, no?
Sfiorò qualcosa di morbido e si accorse che sopra di loro era stata messa una coperta. Yoko doveva aver pensato che fosse meglio non svegliarli. E forse lo era stato davvero.
Ripensò all’uomo di quello che per lui era stato uno dei sogni più strani della sua vita. Non gli aveva chiesto il suo nome. Per una sorta di riflesso, la sua mente gli suggerì che non importava, perché l’avrebbe rivisto.
E con questo pensiero inquietò un po’ se stesso.
Il cielo di New York si stava colorando appena di ciliegia, segno che era ancora davvero presto, e John non era mai stato il tipo da alzarsi presto per ammirare romanticamente la silhouette della metropoli mentre nasce il sole per farla brillare.
L’aveva fatto solo una volta con Paul, quando erano ad Amburgo, ed erano quasi morti di freddo quella volta. Erano giovani allora. Giovani e stupidi.
Sorrise comunque al pensiero e chiuse nuovamente gli occhi, stringendo a sé l’esile corpicino del figlio.













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Note dell'Autrice
Buon giorno again, sunshines! Come va?
Come avrete intuito anche dalle note al capitolo precedente, questa è una long ‘short’.
La stesura di questo capitolo, come ho detto ieri, è stata liberatoria su più punti di vista. L’ho scritto in treno, e probabilmente proprio per questo mi è balenata nella mente quest’idea per questo capitolo.
L’uomo di cui parlo non è nessuno in particolare, solo una persona come tante, che il ‘900 non l’ha vissuto. Posso tranquillizzavi, però, dicendovi che non è morto sul campo di battaglia, ma a casa sua, accanto alla moglie e al figlio di cui parla, in abbastanza pace e serenità. Vi posso dire anche che, nel mio immaginario, John lo incontrerà di nuovo e faranno il viaggio insieme, ma non in questa storia, la cui fine è segnata in un istante ben preciso.
Scriverla è stato davvero strano. Non mi era mai capitato di scrivere con un personaggio che sa di dover morire. È più facile quando sei l’autore di una storia: da una parte ti senti dio, sapendo chi vive e chi muore e provando anche un po’ di senso colpa verso i tuoi personaggi inconsapevoli, dall’altra resti anche tu col fiato sospeso perché c’è sempre la Moira, superiore a qualsiasi dio, che fa uscire dalla penna situazioni e scene che tu non hai deciso ma che ti sei ritrovato a scrivere. O forse questo capita solo a me, ma non credo.
Comunque sia, in questo caso la storia era diversa: la Moira qua poteva farci ben poco, sia io sia il nostro caro Johnny, sapevamo chi doveva morire e quando. L’unico svantaggio per lui è che io sapevo anche come, e lui no.
Inoltre, ho avuto un nodo alla gola per tutto il tempo in cui ho scritto la telefonata con Mimi (ma non solo scrivendo quella), in cui mi sono sentita terribilmente scorretta nei suoi confronti. Ma d’altronde, io avrei fatto esattamente così. E in più, in qualche intervista, avevo letto che John stesso aveva in programma di tornare presto in Inghilterra, così ho fatto combaciare le due cose.
Lo strano calcolo matematico invece è stata una follia scritta sul momento, pensando a Carroll e ai suoi giochi numerici. Non ha assolutamente senso se lo leggo adesso, ma la me di più di un anno fa l’aveva trovato un ragionamento perfettamente logico e coerente. Quindi presumo che, un giorno, se mai rileggerò questa mia storia, ci ritroverò quel senso che aveva avuto la prima volta.
 
Detto ciò, ringrazio di cuore chi è arrivato fin qui a leggere, in silenzio e non, chi ha pensato di aggiungere questa storia a una qualche raccolta, chi l’ha aperta anche solo per curiosità.
Grazie alla mia Beta, che mi ha sopportato e mi sta sopportando anche all’università, nonostante lo studio. Perché, giustamente, lei studia. Io no.
Grazie alla mia fiancée, che mi ha tartassata per mesi chiedendomi se avrei pubblicato qualcosa a breve, e ha insistito nonostante le avessi detto di no. È così che si sprona una persona, più o meno. Ma alla fine ha funzionato, no?
 
Ora vi saluto, con la tromba e con l’imbuto, e ci si legge domani con l’ultimo capitolo.
Un abbraccio e un bacio enormi,


Athelye ~♥
   
 
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