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Autore: Watson_my_head    11/12/2018    2 recensioni
Sherlock è morto. Cosa è successo in quei due anni prima del suo ritorno?
Questa è la storia di John, un uomo distrutto costretto a venire a patti con se stesso e a trovare la forza, forse, di cambiare il proprio destino.
#introspettivo #friendstolover #fixingpostreichenbach #happyending #dontbescared!
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Forse le avrebbe fatto piacere confidarsi con qualcuno su tutte queste cose.
Ma come esprimere quell’inafferrabile malessere che muta d’aspetto come le nuvole, che turbina come il vento?
Le mancavano le parole, e l’occasione, e l’ardire
.”

Gustave Flaubert, “Madame Bovary”

 

 

 

 

Quel giorno fu surreale. Alieno. Tanto che non posso fidarmi, nemmeno dei miei ricordi. Ogni cosa aveva cessato di appartenermi, questo lo so. Sangue, ossa, carne e testa, mani, cuore. Niente mi apparteneva. Non c'ero più io dentro di me. Mi ero scivolato via dalle dita delle mani come rivoli d'acqua. Rivoli di John Hamish Watson. Non ero più con me. E quella voce che sempre mi accompagnava, i miei pensieri, la mia coscienza, la parte razionale di me, aveva smesso di parlarmi. Come drenata via, anch'essa. Ero completamente solo. Abbandonato due volte.

Vedevo però. Riuscivo solo a vedere anzi. Non a sentire. Non sentivo niente. Ma vedevo cose. Cose che mi succedevano intorno, noncuranti, estranee da me. Come se mi fossi fermato in mezzo ad un incrocio mentre centinaia di persone mi passavano accanto per andare altrove. Come un punto fermo attorno al quale girano altre vite.

Avevo un vestito nero da indossare, quel giorno. Nero. Mai stato il mio colore. Di qualcun altro si, certo. Non il mio, mai. Qualcuno lo aveva lasciato sul mio letto, pronto per essere indossato. Io, seduto rigidamente lì affianco, con i pugni stretti sulle ginocchia, lo guardavo, anzi, lo vedevo e non riuscivo a pensare a niente, se non a quanto fosse nero.

 

“Sarà breve, John.”- qualcuno aveva tenuto a precisare la sera prima toccandomi una spalla, una parte del mio corpo che come le altre a malapena percepivo. Non ricordo chi fosse, forse Mrs Hudson, forse Greg. Mike? Ricordo solo che ero seduto sulla mia poltrona, il solito posto, al solito modo, da due giorni. Gli stessi vestiti, gli stessi occhi. Scalzo, come ero stato tante volte, ma mai a causa del sangue. Non del tuo comunque. Non vidi mai più quelle scarpe. Il resto invece era completamente diverso. Anche io ero diverso. Il tappeto, il camino, la finestra, i mattoni del palazzo di fronte, i quadri, le assi del pavimento. Tutto era uguale e diverso. Come se si fosse spenta una luce all'improvviso. E dopotutto, qualcosa si era spento davvero. Poco prima li avevo sentiti parlottare in cucina. Qualcuno aveva pianto. Mrs Hudson, di questo sono certo. Qualcun altro aveva speso poche sussurrate parole per me, come se non avessi potuto sentirlo ugualmente. In effetti, non ero molto presente, ma non ero ancora diventato sordo.

“John, mi preoccupa”. Aveva detto non so dire chi. E mi mancò quella voce dentro di me che avrebbe saputo cosa rispondere, forse addirittura con del sarcasmo. Ma non ci fu nessuna voce quella volta. Nessuna risposta. Solo silenzio, fuori e dentro. Mi sentivo vuoto.

“Sarà difficile.” Gli aveva risposto un'altra voce.

Ed io, che fingevo di non ascoltare, che pretendevo di non essere nemmeno lì, guardavo fisso un niente sul muro del palazzo di fronte e desideravo follemente che tutti sparissero all'improvviso.

 

Avrei barattato una qualsiasi di quelle vite per avere la tua indietro.

 

Il vestito nero era ancora affianco a me. Cercai la forza di indossarlo e la trovai nella mia disciplina. Lo feci come se mi stessi preparando per andare in battaglia, ed era un po' così in effetti, anche se sapevo di aver già perso tutto. Prima di scendere mi guardai allo specchio, forse pensando di ritrovare la mia voce in quel riflesso. Ma vidi solo gli occhi blu di un uomo che mi fissavano. Poteva essere chiunque. Mi appoggiai con le mani sul lavandino e abbassai la testa. Non ero pronto per farlo, per dire addio. Ma sapevo che non lo sarei mai stato comunque. Respirai a fondo. Qualcuno chiamò il mio nome dolcemente dal fondo delle scale. Era ora.

Uscii dalla stanza senza specchiarmi di nuovo e fui quasi certo che l'uomo di quel riflesso mi stava guardando mentre mi allontanavo. Scesi le scale lentamente, gli occhi fissi davanti a me ad ogni gradino. Entrai in salotto. Ricordo che c'era una luce strana. Le tende erano tirate per metà e il grigio della pioggia che scendeva delicata da ore, entrava prepotente cambiando i colori di ogni cosa. O forse erano solo i miei occhi. Mrs Hudson era seduta sul divano con lo sguardo un po' vacuo e gli occhi rossi di chi aveva pianto forse per tutta la notte. Mi rivolse un leggero sorriso a cui risposi con un'espressione che non saprei dire. Qualsiasi cosa riuscì a fare la mia faccia, fui sicuro che andasse bene, per quel che mi importava. In piedi vicino alla porta della cucina, Greg aspettava in silenzio. Aveva le braccia incrociate sul petto e guardava il pavimento. Non mi rivolse sorrisi di circostanza, né frasi di alcun genere. Lo apprezzai molto. Mrs Hudson si alzò.

“Mycroft ha mandato un'auto.” - disse, muovendosi impacciata nel suo vestito nero, asciugandosi una lacrima con un fazzolettino che aveva nella mano destra. Afferrò la sua borsetta dal tavolino e passandomi accanto mi strinse il braccio.

“Ha mandato un'auto, certo.” - dissi accennando un sorriso tagliente. Ero disgustato. Come se potesse anche solo pensare di poter in qualche modo riparare a quello che aveva fatto. Era tutta colpa sua, ogni cosa. Avevo passato gli ultimi due giorni in silenzio a guardare fissamente il muro cercando di capire e le notti sveglio a torturarmi, a piangere qualche volta, chiedendomi cosa avessi potuto fare per impedire che tutto ciò accadesse, a maledirmi ogni istante per essere uscito da quel laboratorio e a ripercorrere ogni passo di quegli ultimi giorni, ma tutto inutilmente. Perché ogni cosa mi riconduceva sempre a quel dannato club e a quel discorso. Tutta la vita di Sherlock regalata al suo peggior nemico come se valesse niente. Niente.

Ed io non riuscivo a sopportare una tale aberrazione.

Ogni avvenimento che aveva portato a quel preciso giorno, a noi tre in quella stanza, al mio vestito nero che odorava di lavanderia, alle lacrime di Mrs. Hudson, alla faccia costernata di Greg, alla poltrona vuota, ai miei occhi scuri, ogni cosa, ogni cosa, era stata colpa di Mycroft Holmes.

Mrs Hudson mi strinse il braccio più forte, riportandomi alla realtà.

“John, caro. Dobbiamo andare” - disse dolcemente.

La guardai. Lo stomaco mi si contorceva. Avrei voluto spaccare ogni cosa, prendere a calci i mobili e mettermi a urlare. Invece mi girai verso le scale e cominciai a scenderle in silenzio. Sentii Greg avviarsi dietro di noi.

La macchina ci aspettava fuori, sotto la pioggia. L'autista, impalato davanti alla porta con un ombrello aperto sulla testa aiutò Mrs Hudson, io feci il giro per salire dall'altra parte e mi bagnai un po' i capelli e quell'orribile completo. L'odore di lavanderia svanì appena. Vidi Greg salire sulla sua macchina grigia e seguirci. Appoggiai la testa al vetro del finestrino e rimasi in silenzio con gli occhi aperti a guardare fuori, senza vedere niente. Fu un viaggio di cui non ricordo molto, se non i singhiozzi sommessi di Mrs Hudson e il silenzio assordante della mia testa. Mi sentivo un involucro senza contenuto.

 

La cerimonia civile fu organizzata direttamente all'interno del cimitero, nel punto esatto in cui Mycroft aveva deciso di seppellire suo fratello. Non aveva smesso un secondo di piovere ed io ero fermo lì, davanti a quella lapide nera senza essere in grado di ricordare come ci fossi arrivato. Mrs Hudson mi stringeva il braccio e con l'altra mano reggeva uno degli ombrelli neri che qualcuno aveva distribuito all'ingresso, credo, coprendo parzialmente anche me. La sua stretta era un'ancora che mi teneva legato al terreno, a quel momento preciso, in quel terribile luogo. Ogni volta che chiudevo gli occhi, la sua presenza al mio fianco mi riportava alla realtà. Non ascoltai una sola parola di quello che il celebrante disse. Non ricordo nemmeno la sua faccia e potrebbe non aver avuto voce, per quel che mi riguarda. Muoveva la bocca e spostava lo sguardo su ognuno di noi a turno, come fosse un pesce. Guardai gli altri. Greg, le mani dietro la schiena, lo sguardo basso verso la lapide, la fronte appena corrucciata. Mike, era lì più per me che per Sherlock, ne ero sicuro. Di tanto in tanto mi lanciava delle occhiate che io facevo finta di non cogliere. Molly. Tra tutti, l'atteggiamento di Molly è quello che ricordo maggiormente perché se ne stava immobile, fissando il celebrante e torturando un fazzolettino con le mani, ma soprattutto, e questo lo ricordo bene, non versò mai una lacrima. Aveva lo sguardo perso di chi è profondamente distrutto, ma non pianse mai. Non piansi nemmeno io, e questo mi fece provare un moto di pietà per entrambi.

I genitori di Sherlock non erano venuti. Mi chiesi perché in un attimo di lucida constatazione di quello che mi avveniva accanto, ma mi risposi che probabilmente la perdita di un figlio era un dolore troppo grande da sopportare. Fu il mio cervello a trovare questa risposta in qualche meandro della coscienza dove teniamo le cose che si sentono dire continuamente. E smisi di pensarci. E poi, c'era Mycroft.

Dritto, elegante nel suo completo nero e nella sua postura perfetta. Il mento leggermente alzato, lo sguardo fisso sul celebrante in un'espressione distaccata, un sopracciglio appena più su dell'altro, quasi impercettibilmente. La bocca, una linea sottile i cui angoli tendevano al basso. Le lunghe dita di una mano, nascoste in guanti neri, tenevano elegantemente l'ombrello aperto. L'altra riposava lungo il fianco. Non poteva essere più se stesso di così. Ed io, lo odiavo profondamente.

Ero arrabbiato, più di ogni altra cosa. Disperato, affranto, stremato, ma soprattutto arrabbiato. Con la polizia, con le persone presenti a quella orribile cerimonia, con Moriarty, con Sherlock, con Mycroft, oh quanto lo odiavo, e con me stesso. Ero così arrabbiato che avrei potuto mettermi a urlare. Ma non lo feci, nemmeno quella volta. Mi limitai ad osservare quella bella lapide lucida, l'unica cosa più nera del mio vestito.

Non so quanto tempo durò. Nessuno dei partecipanti disse niente, come invece mi era capitato di vedere ad altri funerali a cui avevo assistito nella mia vita. Commilitoni, vecchi parenti, conoscenti. Qualcuno trovava sempre la forza di dire qualcosa, riportare qualche aneddoto divertente tra le lacrime, ricordare quanto fosse speciale chiunque fosse morto. Io stesso mi trovai a dire due parole in più di un'occasione, più per cortesia verso i famigliari che per vero spirito d'iniziativa. Avevo sempre pensato che quella fosse una pratica discutibile. Se c'è un momento sbagliato per dire qualcosa, quello è proprio un funerale. Le cose andrebbero dette prima, quando le persone sono ancora in vita e in grado di ascoltare. Quindi fui grato del fatto che nessuno disse niente. Probabilmente una richiesta specifica di Mycroft.

E comunque, nessuno dei presenti avrebbe potuto dire niente su Sherlock Holmes. Nessuno, a parte me. Nessuno ti conosceva come ti conoscevo io. Nessuno avrebbe potuto anche solo azzardarsi a dire qualcosa su di te. Solo io. Solo io avrei potuto raccontare di quanto la mia vita fosse vuota e triste prima di incontrarti, e di quanto fu diversa a partire dall'esatto momento in cui ti guardai per la prima volta. Di quanto tu, in qualche modo, sapessi tutto su di me. Di quanto fossi arrogante, maleducato, probabilmente pazzo e assolutamente affascinante e di quanto mi piacessi in modo del tutto folle e incomprensibile. E ancora non sapevo niente di te. Nessuno potrebbe raccontare di come sia stato correre con te nella notte più ridicola della mia vita, per le strade di Londra e poi, di quanto sia stato bello ridere, senza fiato, contro il muro del nostro nuovo appartamento. Nessuno potrebbe dire cosa si prova nel momento esatto in cui si sceglie di uccidere qualcuno per salvare la vita di una persona che si conosce appena. Nessuno saprebbe dire qual è il suono di una tua risata sincera. Io potrei. Io lo so. Avrei potuto raccontare di come sia stato svegliarsi ogni mattina ed odiarti per la cucina ridotta ad un laboratorio e per tutta le strane cose da dover spostare solo per poter fare il tè, anche per te. E poi sorridere del fatto che fossi del tutto ignorante di politica, geografia astronomica e comportamento sociale. Ed adorarti per questo, forse ancora di più. Nessuno avrebbe potuto descrivere l'esatto colore dei tuoi capelli alla luce di una giornata grigia, mentre suonavi il violino tristemente, dandomi le spalle. E nessuno potrebbe descrivere l'assurdità dei tuoi occhi alla luce del sole, accesi di emozione, davanti ad un cadavere. Avrei potuto raccontare dei lunghi silenzi, delle frasi non dette, degli sguardi intensi. Avrei potuto dire di quanto odiassi vederti rannicchiato sul divano, annoiato e di quanto avrei voluto poter fare qualcosa per te. Avrei potuto raccontare di quanto, troppo spesso, mi sentissi ordinario e completamente inutile in confronto a te. E di quante volte io mi sia chiesto se davvero avessi bisogno di me come mi facevi credere ogni giorno. Di ogni volta in cui mi hai salvato, di ogni volta in cui hai rischiato la tua vita solo per salvare la mia. Avrei potuto raccontare di quella volta in cui ti sei ammalato e di quanto fui felice nel sentirti silenzioso e remissivo nelle mie mani. Ma su questo, devo ammettere che nemmeno io saprei rendere a parole quanto fossero liquidi e grandi i tuoi occhi, quella volta. E di quanto fui ad un passo dal perdermi completamente. Non lo saprei dire. Ma tanto non lo capireste. E avrei potuto raccontare della volta in cui mi resi conto che avrei voluto guardarti dormire tutte le notti. E di come quel pensiero mi tormenti ancora, ogni giorno.

Eri come una droga per me.

Avrei potuto raccontare in mille modi diversi quanto tu fossi straordinario, senza tuttavia poterti rendere giustizia perché mi mancherebbero le parole giuste e forse anche la forza per poterle esprimere.

E potrei raccontare di come io mi senta adesso. Di come io mi senta a pezzi, ogni giorno che passa, di come mi manchi la vita che avevamo, di come mi manchi tu, e il tuo sorriso. E il cinese da asporto con te, i programmi stupidi alla televisione, e il non fare niente insieme. E di quanto ti odio per aver fatto quello che hai fatto e di quanto odio me stesso per non aver capito e per non essere stato in grado di fermarti. Avrei potuto dire tutte queste cose, ma non dissi mai niente.

Perché se c'è un momento sbagliato per dire qualcosa, quello è proprio un funerale.

 

Mi accorsi che la cerimonia era finita quando ad uno ad uno gli altri mi passarono accanto sfiorandomi un braccio o dicendo qualche breve parola che non ricordo. Molly mi guardò per un breve, intenso istante negli occhi. E fu strano. Guardai altrove. Alla fine anche Mrs Hudson lasciò il mio braccio e mi disse qualcosa che io ignorai. Rifiutai con un cenno della testa l'ombrello che cercò di lasciarmi e quindi, affranta, si allontanò. Rimasi lì fermo con le mani unite a guardare i fiori che qualcuno aveva lasciato, mentre la pioggia mi bagnava completamente. Non me ne accorsi nemmeno. Di nuovo cercai quella voce dentro di me che sapeva riportarmi indietro, che mi aveva sorretto nei giorni peggiori dell'Afghanistan, che mi aveva impedito di compiere gesti irreparabili una volta tornato. Quella voce che mi permetteva di non affogare e di resistere ogni giorno. Quella voce che mi suggeriva cose che non volevo ascoltare, sentimenti che non potevo lasciar uscire, verità da tacere. La cercai fissando le lettere dorate impresse sulla lapide, ma quando misi a fuoco trovai solo il mio riflesso e vidi, che non ero solo.

Mycroft Holmes era in piedi, pochi metri dietro di me. Ne vedevo la sagoma chiaramente riflessa accanto alla mia, sulla costosa lapide che lui aveva scelto per suo fratello. Non mi voltai sperando che decidesse di andare via, ma non lo fece. Sentivo montare dentro di me quella rabbia che da due giorni, anzi, fin da quell'incontro rivelatore mi portavo dentro e che cercavo di sopire. Si avvicinò invece, coprendo anche la mia testa con il suo ombrello.

“Mycroft, vattene.” - dissi in un sussurro teso. Diglielo.

Ed eccola, per la prima volta da giorni, quella voce che avevo bisogno di risentire. Gli Holmes riuscivano sempre ad avere un'influenza su di me, in qualche modo. Proprio fantastico.

“Dottor Watson, la prego di lasciarmi esprimere...” - cercò di dire con quel suo tono educato e asettico che mi innervosiva ogni volta.

“No.” - mi voltai fissandolo negli occhi e facendo un passo indietro in modo da essere fuori dal suo spazio personale. Tornai a bagnarmi. “No.” - ripetei. Mi accorsi che avevo iniziato a respirare affannosamente e che avevo un dito puntato contro di lui. Stai calmo, John.

“Non voglio ascoltarti”. E per un po' ci fu solo il rumore della pioggia che rimbalzava leggera sul suo ombrello e cadeva a terra in rivoli sottili. Io ormai, ero completamente fradicio.

Rimase in silenzio per qualche secondo fissandomi negli occhi. Il suo sguardo era peggio di quello di Sherlock quando cercava di dedurre qualcosa. Molto peggio. Sherlock era veloce, ma Mycroft, Mycroft era letale. Metodico. Dal modo in cui ti guardava potevi quasi credere che avesse letto nei meandri più profondi di te, quelli dove nemmeno tu stesso osi addentrarti. E probabilmente era così.

“Oddio, non farlo.” - abbassai la testa lasciandomi andare ad un tono affranto che avrei preferito non condividere con lui. Non puoi, non voglio...Passai una mano sugli occhi, tentando in un gesto impacciato di asciugare inutilmente la pioggia. “Non farlo”. Mi sentivo completamente esposto. Non leggermi dentro.

“John.” - mi chiamò per nome stavolta e non so se avesse cambiato registro per ciò che era riuscito a capire guardandomi negli occhi o per semplice pietà. “Sono estremamente dispiaciuto. La perdita di mio fratello è un dolore che condividiamo entrambi.” - disse, accantonando per un momento la sua freddezza.

Mi venne da ridere. Rialzai lo sguardo. Avrei potuto ucciderlo con le mie mani in quel preciso momento. Fallo.

“Un dolore che condividiamo entrambi. Un dolore...” - spostai lo sguardo verso gli alberi per un secondo, cercando di riallacciare il filo dei miei pensieri. Mi passai la lingua sulle labbra mordendo quello inferiore in un sorriso angosciato.

“Come ti permetti? Come ti permetti di dirmi una cosa del genere? Lo sai perché siamo qui? Eh? Lo sai?” - avevo alzato la voce senza nemmeno rendermene conto. “E' tutta colpa tua. Ogni cosa. E' solo colpa tua. Come hai potuto? Come...Dio!” - mi piegai un po' su me stesso appoggiando le mani sulle ginocchia. Non riuscivo più a sostenere il mio peso, né quello delle parole che ci stavamo dicendo. Non ce la faccio. Io così non ce la faccio.

“Io non immaginavo...” - provò a rispondere, ma lo bloccai immediatamente, rialzandomi. Con un movimento veloce coprii la distanza che ci separava fino a quando non fummo di nuovo insieme sotto l'ombrello, questa volta faccia a faccia. Si mosse impercettibilmente all'indietro, ma il mio movimento lo aveva sorpreso e immobilizzato. Hai paura, Mycroft?

“Tu non immaginavi”. Avevo smesso di urlare. La mia voce ora era un sussurro freddo tra un respiro e l'altro. Lui non immaginava. “No, non immaginavi. Mh?” - ci fissavamo, occhi negli occhi. “E tu dovevi essere quello più intelligente. Così intelligente da fornire al peggior nemico di tuo fratello l'arma perfetta per distruggerlo.” - scavavo nei suoi occhi alla ricerca di una ragione, una spiegazione che mi facesse capire. Non trovai niente. Sei un fottuto bastardo. “Come puoi averlo fatto?”

“Mi dispiace.” - fu l'unica cosa che disse dopo un po'. E ci fu un cambiamento nel suo sguardo. Feci un passo indietro, disgustato. Tornai a bagnarmi. Non osare.

“Non provarci. Non provarci nemmeno” - mi stava guardando con...pietà? Non potevo sopportarlo, non da lui. “Non ti permettere di guardarmi in quel modo”. E non so che cosa mi trattenne, ma non lo picchiai. Sei uno stupido, Watson. Gli passai accanto e mi allontanai di qualche metro prima di voltarmi di nuovo verso di lui.

“L'unico per cui dovresti provare pietà, sei tu, Mycroft”.

Non si voltò. Guardava la tomba di suo fratello e non so dire per quanto tempo rimase lì. Io assunsi una postura più rigida prima di andarmene, rialzai il mento e respirai a fondo guardando la lapide un'ultima volta. Promisi silenziosamente che sarei tornato.

Per dirti quello che non sono mai riuscito a dirti.

 

 

***

 

 

Resto seduto ancora qualche istante cercando di recuperare il contatto con la realtà. Mi sento a pezzi, ho una sete tremenda e la testa mi pulsa. Meraviglioso, lo rifacciamo? La figura davanti a me resta in silenzio, forse per darmi il tempo di riprendermi. Io non ho nessuna voglia di riprendermi, né di parlargli. Non ho voglia di parlare con nessuno in realtà.

“E' passato un po' di tempo dal nostro ultimo...incontro” - dice all'improvviso voltandosi e andando verso la finestra.

“Intendi dal funerale di tuo fratello, quello che si è ucciso per colpa tua? Si in effetti è passato un po' di tempo, eppure non mi sembra abbastanza.” E se non te ne vai, questa volta ti spacco quella faccia.

“Perché sei venuto qui, John?” - con un gesto disinvolto della mano indica la stanza. Si volta di nuovo verso di me. Ha quel sorriso appena accennato che vorrei tanto toglierli con un cazzotto. Mi alzo lentamente strisciando la schiena sul muro e restando appoggiato lì. Si in effetti, perché sei venuto qui? Quand'è che hai deciso di farlo?

Ignoro i miei stessi, traditori pensieri.

“Ma passi la tua vita a controllare i video di sorveglianza di tutta Londra? Devi essere molto solo.” - gli dico con cattiveria.

“Almeno quanto lo sei tu.” - risponde reclinando leggermente la testa di lato - “e comunque ho delle persone che lo fanno per me.” - aggiunge immediatamente, forse pentito della sua prima risposta. Sposta lo sguardo sul suo ombrello.

Ha ragione comunque.

“Smetterete mai di tenermi d'occhio come se fossi un sospettato?” - alzo appena la voce ma me ne pento subito. La mia testa non apprezza. No, non lo rifacciamo, forse.

Sorride appena più apertamente. “John.”

“Cosa? Che cosa? Mycroft, seriamente, che cosa sei venuto a fare qui? Che cosa vuoi da me? Quello che ti ho detto l'ultima volta è quello che penso ancora. Niente mi farà cambiare idea. E potresti smetterla di farti gli affari miei? Gradirei non essere osservato 24 ore su 24.”

Mi guarda in silenzio per pochi secondi. “Potrei essere in qualche modo, come dire...preoccupato.” - dice, e sembra qualcuno a cui si sta estorcendo una confessione con la forza.

Ah, questa poi. Scoppio a ridere di gusto.

“Per favore.” - incrocio le braccia al petto e lo guardo, con sincera incredulità. Lui mi fissa di rimando, senza quel sorriso accennato che si ostina ad indossare quasi sempre. Per un momento, solo per un breve momento, scorgo nel suo sguardo la stessa ferma decisione di quelli che a volte Sherlock riservava solo per me quando voleva convincermi a fare o a non fare qualcosa. Ma soprattutto quando aveva bisogno che io credessi fermamente in quello che stava dicendo. Come se fosse mai stato necessario.

Mi costringo a dirigere lo sguardo altrove. Non posso farcela adesso. Non se immagino i tuoi occhi. Resta concentrato John.

“Sto bene” - è l'unica cosa che riesco a rispondere. Ho il cervello fuso. Mi sento ancora ubriaco, ho mal di testa, il ricordo dei tuoi occhi fissi nella mente, Mycroft che sembra volermi tirare fuori cose che non posso dire e sono a Baker Street. Non è proprio il mio momento migliore. Mi sento vacillare. E' tutto bellissimo.

Sento che lui mi sta osservando. E' evidente che non sto bene, altrimenti non mi troverei qui nel pieno della notte. Non c'è bisogno di essere un genio per capirlo.

“John, vorrei solo che fosse chiaro che se mai tu avessi bisogno di qualcosa, dovresti solo chiedere. Mio fratello avrebbe voluto...”

Lo interrompo immediatamente. “Tuo fratello cosa?” - sento montare di nuovo quella rabbia che per qualche breve momento avevo dimenticato. - “Tuo fratello ha perso ogni diritto di volere qualcosa o di pensare qualcosa nel momento stesso in cui mi ha telefonato...Dio.” - mi blocco. Non riesco. Non posso ripensare a quella telefonata, a quel giorno. Non adesso. Non di fronte a Mycroft. Mi piego un po' su me stesso abbassando la testa.

“John..” - si avvicina ma fa solo un passo, restando impalato in mezzo alla stanza. Ed io ringrazio la sua completa incapacità di gestire i rapporti umani. Se non altro lo tiene lontano da me. Non lo sopporterei.

Prendo un respiro. “Per cui, non venirmi a parlare di quello che tuo fratello avrebbe voluto o non avrebbe voluto, perché non me ne importa niente. E vale lo stesso per te.” - rialzo la testa, fissando i miei occhi nei suoi e sorridendo gelido - “non seguirmi più e non controllare più quello che faccio. Credi che non mi accorga di macchine nere che di tanto in tanto vedo agli angoli delle strade? O di tizi strambi che mi guardano seduti sulle panchine dietro gli occhiali da sole? Ma pensate tutti che io sia così stupido?”

Lui sembra non trovare una risposta e si limita a reclinare appena la testa.

Sento che è troppo. Mi muovo verso le scale.

“John.”

Mi fermo, dandogli le spalle. Che cosa vuoi ancora.

“Abbi cura della tua persona” - dice, in maniera fin troppo delicata.

Non rispondo niente. Scendo velocemente i gradini lasciandolo lì, in quello che una volta era il mio appartamento, insieme a tutti i miei ricordi, ai tuoi sorrisi e ai miei rimpianti.

E mentre chiudo la porta e attraverso la strada, prometto a me stesso che non vi avrei mai più fatto ritorno.

 

 

 

Nota dell'autrice:

 

Per la prima volta, da quando ho iniziato questa ff mi sento di lasciare una nota personale. Questo capitolo è stato davvero difficile per me da scrivere. Più volte mi sono trovata a cancellare tutto, a scrivere sfilze di lettere tutte uguali o parole messe a caso senza senso compiuto (come John). Spero quindi che lo apprezzerete anche se forse è un po' diverso dai precedenti. La “seconda” voce che accompagna sempre John non è molto presente. Si è persa. E' che non riuscivo a sentirla mentre scrivevo. Immagino e so come ci si sente, in certi momenti, e il mio John non ha fatto eccezione. A volte ci si annulla, e non si sente più niente. Nemmeno se stessi.

Alcune delle cose che John elenca tra quelle che avrebbe potuto dire al funerale, sono liberamente tratte dal suo blog (per chi non lo avesse letto, consiglio vivamente di farlo. E' straordinario).
Infine, ringrazio chi ha letto questa storia e chi continuerà a farlo, nonostante i lunghi intervalli di tempo. Mi dispiace. A volte semplicemente la vita è troppo piena, o troppo vuota, per farci entrare qualcos'altro. 
A presto (spero).

   
 
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