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Autore: kurojulia_    12/12/2018    0 recensioni
Yuki ringhiò, stringendo i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era quella di levare le tende. Eppure, la sola idea di lasciarli continuare a vivere, impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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13.

 



In quel posto – abbandonato da chiunque, persino da Dio – l'umidità era così intensa da far gelare le ossa. Ormai, quel luogo non veniva nemmeno più considerato come parte della città; non era altro che un vecchio garage, di un'altrettanta abitazione, fatisciente, situata vicino al ponte del fiume. Era una casa costruita su due piani, spaziosi e ampi. Il primo piano aveva parecchie finestre, e la maggior parte di quelle era a pezzi.

Takeshi ci aveva passato molto tempo, anni addietro, quando la sua vita si limitava a molti conflitti interiori. Ci era stato con i suoi "amici", se così si potevano chiamare, a non fare assolutamente nulla. Quei ragazzi, più grandi di lui di alcuni anni, ne avevano combinate parecchie.

Lui, un ragazzino appena entrato nelle medie, osservava freddamente le loro azioni – senza fare una piega.

 


Con quel giorno, era passata una settimana da quando ci era tornato. Era già una settimana che vi si recava.

Si piegò un istante sulle ginocchia, per poi rimettersi velocemente dritto. Nella mano destra, a circondargli le nocche, brillava il suo antico tirapugni di ferro.
Cercava di non pensare a lei; cercava di non concentrarsi su Londra e sulla distanza infinita che c'era adesso fra loro. In tutta quella situazione, la presenza di Sayumi e Tetsuya gli era di grande aiuto; la prima non perdeva occasione di trascinarli a mangiare un gelato – nonostante il freddo atroce –, a guardare un film, a passeggiare fra i negozi.

Ciononostante, quando Takeshi tornava solo, la rabbia gli ribolliva dentro – sferzò l'aria con l'ennesimo pugno.

Il tirapugni cominciava a diventare pesante nella sua mano destra. Stava esagerando.

Stava stressando il suo corpo, ma era più forte di lui: aveva bisogno di fare qualcosa. Qualcosa che potesse essere utile, in qualche modo.
Con un sospiro, la mano sinistra corse al bordo della canottiera nera, tirandola per scacciare il fastidioso strato di sudore. Scosse il capo, liberandosi anche i capelli.

 

Ah, che scocciatura, pensò.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Quindi, in breve, potete rimanere giovani e belli solo fin quando vi nutrite?».

«Ah-ah». Yuki fermò la mano che girava le pagine, sollevando lo sguardo. «Beh, la bellezza è... ».

«Questa pazzia di cui mi hai parlato», proseguì lui. «non ha senso nemmeno il modo stesso in cui è apparsa. Perché i demoni? Perché dovrebbero impazzire solo usando i propri poteri? C'è qualcosa che non mi quadra».

 

Yuki sospirò. Era seduta sul letto, con le gambe incrociate, da quasi un'ora – per cercare di rispondere alle domande del sanguemisto.

 

Intanto, il cielo di Londra era diventato arancione. La sua luce filtrava tra le tende, illuminando una piccola porzione del copriletto blu e un'altra del ginocchio di Yuki. Le lezioni erano finite da qualche ora ma Christian non era tornato subito; quando ormai erano le 17.00, la porta della camera si era aperta e il ragazzo si era palesato con un paio di libri sottobraccio.
A quanto pare, era stato per la maggior parte del tempo in biblioteca a studiare, ma non solo storia o letteratura inglese, fra i libri che aveva cercato c'era anche qualcuno che trattava il sovrannaturale. Aveva cercato nozioni su demoni e vampiri, ma molto di ciò che c'era scritto sembrava essere sbagliato, a quanto pareva, e questa cosa lo mandava in bestia.

 

 

«Osi sospirare?».

«Ah?».

Christian era seduto sul letto accanto, nella medesima posizione. Davanti a lui, sul letto, c'erano aperti due libri piuttosto spessi e un quaderno per appunti, al centro una penna a sfera. A calargli sul naso, un paio di occhiali dalla montatura nera. Chris si puntò il palmo sul petto, con aria orgogliosa. «Dovresti essere grata – tu e gli altri demoni – che qualcuno, un umano tra l'altro, si stia prodigando così tanto per capire il vostro problema. Quindi, non osare sospirare!».

«Senti, Chris», ribatté l'altra. «non è che non sia grata. L'unico problema è che sono più di sei secoli che stiamo cercando di capire la natura di questo fantomatico "sintomo della follia"».

«E quindi?».

«Eh?».

«E quindi, cosa? Sono più di sei secoli, mi stai dicendo, e allora?». Christian tirò un leggero sospiro e si sfilò gli occhiali, strofinando la lente sinistra col bordo della t-shirt, continuando a parlare. «È passato tanto tempo, sì, ma non dovete perdere interesse per questa faccenda, e nemmeno la speranza. D'altronde, non state certo per estinguervi, quindi ci saranno sempre demoni là fuori. Ci sarà sempre qualcuno per cui varrà la pena di continuare a cercare». Quando ebbe finito di pulire anche l'altra lente, sollevò gli occhiali all'altezza dei suoi occhi, e strizzò quest'ultimi per individuare la polvere.

 

Yuki rimase immobile, ad ascoltare il battito del suo stesso cuore. Batteva leggermente più veloce. Quello di Christian era regolare come una mare calmo. «Sei un ragazzo strano», sussurrò.

«Ma allora non hai capito nien– ».

«E intelligente». La mezzosangue chiuse la mano a pugno, toccando la carta del libro con le nocche, e sollevò il viso verso Christian. Quando incrociarono gli sguardi, lui sussultò, stupefatto – perché gli occhi oro della ragazza erano lucidi e lievemente arrossati. «Grazie. Per quello che hai detto. Per quello che stai facendo adesso».

 

 

Christian indugiò – imbarazzato. Oh, ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa: era arrossito. Beh, non era colpa sua, ma di quella strampalata – lei che era strana. Con quale leggerezza riusciva a dire “grazie”? O rivolgergli quello sguardo, così forte, sebbene sul punto di crollare?
Ancora, il ragazzo tentennò. Aprì la bocca per parlare, ma ne uscì qualche frase sconnessa, spezzata.

 

«Io... », dentro di sé scosse la testa. Se doveva dire qualcosa, doveva farlo subito. Adesso. Sollevò il volto e finalmente parlò. «Yu-chan, io... !».


«Sto tornando in Giappone, in ogni caso».


Chris socchiuse le palpebre. «... Che?».

«Ah, beh», riprese Yuki, passandosi una mano dietro al collo. «non dovrei. Non mi è permesso tornare adesso, non ho bisogno nemmeno di chiederlo a mio padre. Per questo tornerò in Giappone di nascosto». Si fermò, e poi annuì. «Devo pensare ad un piano».

«Dimmi una cosa, Yu-chan».

«Ah?».

«Sei per caso diventata stupida?».

 

 

Yuki corrugò la fronte. Che razza di antipatico. Come si permetteva di darle certi epiteti? Piccata, l'albina schioccò la lingua. «No», rispose. «perché altrimenti avrei cercato di ucciderti sin da subito, dato quanto sei fastidioso».

«Sei sicura?», sbottò lui. Sciolse le gambe e scese dal letto, camminando fino al centro della stanza. Quand'era nervoso faceva così, gli permetteva di ragionare e riflettere lucidamente. Si voltò verso la ragazza, compiendo un passo per raggiungere i piedi del letto. «Ti rendi conto di che idea malsana è?».

«Quanto la fai lunga. È molto più attuabile di quanto credi».

«E perché non l'hai fatto prima, allora?».

 

Yuki richiuse il libro e sollevò le ginocchia per appoggiarci il mento. Con lo sguardo, guardò verso la finestra. Stava ricominciando a nevicare. «Perché... », era venuta fin lì per un nobile motivo. Erano passati due giorni dal suo arrivo, eppure voleva già mandare tutto in malora. «Perché volevo proteggere i miei amici – voglio proteggerli. E la mia presenza li metteva in pericolo. Metteva in pericolo loro e me».

Christian la guardò, serio. «Se è così che stanno le cose, non dovresti tornare in Giappone. Sbaglio?».

 

 

Non sbagliava. Almeno in teoria, non sbagliava. Ciononostante, la sensazione di alienamento che stava provando in quel momento – e che aveva provato sin dall'inizio – era talmente opprimente da soffocarla.
E poi, la guerra di cui aveva parlato Ichiro; poteva essere una menzogna inventata da lui per farla tornare in Giappone e così essere nuovamente nell'occhio vigile del Consiglio, non lo metteva in dubbio, ma... «Mi fido delle sue parole», bisbigliò.

«Che hai detto?».

Yuki si voltò, con occhi fiammeggianti. «Ho detto: mi fido delle parole di Ichiro».

 




 

 

***

 

 

 

 

 

Era passata una settimana.
Fuori era buio pesto da ormai diverse ore e l'aria si era fatta gelata. Per terra si erano formate vere e proprie lastre di ghiaccio, sottili, ma abbastanza scivolose da essere pericolose.
L'unico suono che si udiva, ogni tanto, era il soffio sinistro del vento. L'intero college era assorbito in un fitto silenzio – ma, d'altro canto, erano le 3.00 del mattino.

Yuki si era alzata dal suo letto mezz'ora prima. Non si era addormentata – aveva riposato dalle 18.00 fino a mezzanotte, e questo le bastava – e aveva aspettato che arrivasse la notte. Quando non aveva sentito più nessun suono e nessun movimento, solo a quel punto era sgusciata via dalle lenzuola come un serpente.
Aveva raccattato tutte le cose e si era diretta in bagno per cambiarsi; aveva indossato il vestito rosso con il quale era arrivata a Londra, come buon auspicio, e si era messa gli stessi stivali beige. Il suo sguardo era ricaduto sull'anello – presto li avrebbe rivisti, tutti loro.

 

Se da una parte non stava più nella pelle, dall'altra si sentiva inquieta e preoccupata.

Stava facendo la cosa giusta? No. Stava facendo la cosa sbagliata, tutt'al più.

 

Sospirò e aprì la porta del bagno più piano che poté, uscendo.

Si avvicinò al centro della stanza e fece per raccogliere il cappotto che aveva lasciato sul letto. A quel punto si fermò. Christian era seduto sul letto dell'albina e stava facendo un grosso sbadiglio.
Oh, bene, pensò, e adesso che dovrei fare? Dovrei rimetterlo a dormire?

 

 

«Pensavi di andartene senza salutare?». I capelli scompigliati, il sanguemisto guardò l'albina con le sopracciglia leggermente inarcate e la bocca chiusa in una smorfia di disappunto. «Sei davvero un brutto soggetto».

Yuki sorrise e allungò la mano sul cappotto. «In effetti era quello il piano», ma quando la sua mano toccò il tessuto dell'indumento, quella di Christian la prese per il polso. L'albina girò il viso verso il ragazzo, trovando un espressione di pura determinazione.
Aah, quel ragazzo... le dispiaceva, almeno un po', dovergli dire addio. Non era poi tanto male, alla fine. Yuki gli restituì l'occhiata, sebbene la sua fosse molto più pacata.

«Allora mi spiace – per così dire –, ma ho intenzione di infrangere il tuo piano». Gli occhi neri come il petrolio di Chris erano quasi abbaglianti, a contatto con la luce lunare.

«Ci tieni così tanto a salutarmi? Fai pure, allora».

«Se così vogliamo metterla».

 

Christian le lasciò il polso, con il solo intento di alzarsi dal bordo del letto. Con due passi, arrivò di fronte alla ragazza. Yuki levò il viso verso l'alto. Sulle prime, le era sembrato quasi basso, ma in realtà era più alto di lei di quasi dieci centimetri. Adesso, guardandolo da quella prospettiva, sembrava essere cresciuto tutto d'un fiato.

«Che c'è?», disse la mezzosangue, aggrottando la fronte.

Christian sorrise, scrollando le spalle. «Ahh, se fosse in mio potere, non ti permetterei di andare via dal college. Ma immagino che funzioni così con un demone. E un vampiro».

«Eh? Ma... », l'albina batté le ciglia, stupita. «Era... era questo che volevi dire oggi pomeriggio?».

«Ah, ma allora mi avevi sentito».

«Sì, ammetto che ti ho sentito, e ammetto che ti ho interrotto di proposito. Avevo paura di quello che avresti detto».

«Ma va», inarcò un sopracciglio, sornione. «allora hai finalmente capito con chi è che hai a che fare».

«Avevo paura che avresti detto qualcos'altro di carino e che poi mi sarei sentita ancora più dispiaciuta nel lasciare questo posto. Non voglio sentire altre emozioni, all'infuori del sollievo e della gioia di tornare a casa», Yuki chiuse gli occhi per un istante, per poi riaprirli e inchiodarli in quelli di Christian. «È questa la verità».

 

Christian alzò le sopracciglia, stupito - ma, alla fine, sospirò teatralmente e scrollò la testa. «Siete proprio stupide, voi ragazze. E se siete un demone o un vampiro è anche peggio».

«Ecco. Bravo. Così mi semplifichi molto il lavoro».

 

Christian rise, cercando di tenere la voce bassa – wow, era la prima volta che lo sentiva ridere. Dopo una settimana che avevano passato insieme, non pensava che avrebbe avuto questo privilegio. La stanza era tutta immersa nella fredda luce della luna, e colorava di un leggero e tenue blu la moquette e le coperte del letto. Per un secondo, il tempo era diventato rarefatto.

Per un secondo, Yuki aveva avuto l'impressione che Christian si stesse chinando verso di lei per baciarla.

Solo per quell'attimo.

 

Poi, si erano detti addio.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Sayumi, daresti un'occhiata ai crisantemi? E dopo anche ai narcisi autunnali!».

«Ceeerto!».

 

Sayumi, seduta sui talloni di fronte alla vetrina del negozio di fiori, si rimise in piedi in una sola mossa. Si stiracchiò per bene, facendo suonare le ossa come un pianoforte, e guardò verso il cielo. Era una bella giornata di sole e persino il freddo era più gestibile degli scorsi giorni. Qualche giorno prima aveva nevicato moltissimo e la neve si era depositata sulle strade come un leggero mantello.

«Etciù– !», si chiuse la bocca e il naso con le mani, rabbrividendo. Come non detto.

Rientrò in fretta dentro il negozio e si diresse verso il fondo del negozio. Si piegò verso il penultimo scaffale per prendere le forbici e se le infilò nell'ampia tasca del grembiule verde scuro. Dopo di ché si girò e tornò vicino alla porta. All'interno, piazzati di fronte alla vetrina, erano stati sistemate tutte le piante che necessitavano molta luce del sole, tra questi i crisantemi e i narcisi autunnali.

Sayumi si avvicinò e ispezionò i petali dei crisantemi. «Bene, voi siete apposto. Sembra che non debba tagliare nulla», rifletteva. Si spostò di un basso e si inginocchiò, passando ai narcisi. «Oh, perfetto, anche voi state più che bene. Tra due ore vi verrò a spostare».

 

Sorrise, sfiorando con la punta delle dita i petali dei narcisi – si sollevò, premendo le mani sulla schiena per raddrizzarsi.

E fu così che notò Yuki fuori in strada. Fu solo per pochi secondi ma la vide passare di fronte alla vetrina, veloce come il suono, percorrendo la strada in salita.

 

«Yu... », aprì la bocca per urlare il suo nome ma era già troppo tardi. Sayumi batté le palpebre svariate volte e richiuse le labbra. In un gesto spaesato si portò le dita al mento, abbassando lo sguardo sulle piante.

 

Quella era... lei, vero? Non ho le allucinazione, vero?, pensava.

 

C'era solo un modo per capirlo.

 

 

Si slacciò il fiocco al collo che reggeva il grembiule e lanciò l'indumento sul tavolo dietro di lei, per poi uscire di corsa dal negozio. Fuori in strada non c'era nessuna traccia dell'albina.
Con ogni probabilità, si stava dirigendo alla residenza, o almeno questo era ciò che pensava Sayumi. Si fermò sul marciapiedi, di fronte alla porta del negozio, titubante; non sapeva perché ma aveva la sensazione che c'era un motivo se era corsa via senza fermarsi. Era appena passata di fronte alla vetrina quindi avrebbe potuto entrare e salutarla.

Perché ho la sensazione che sia in pericolo?, pensò, quasi in automatico – chiuse i denti, digrignandoli, e cominciò a correre verso la residenza Akawa.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Con un salto, Yuki scavalcò la cancellata di ferro e atterrò sul sentiero incolto. Di nuovo in equilibrio, ricominciò a camminare velocemente, percorrendo quel tanto nostalgico sentiero che l'avrebbe condotta a casa.
Come volevasi dimostrare, Oseroth non le avrebbe mai permesso di tornare a casa così facilmente; sin dal momento in cui aveva lasciato il college per dirigersi all'aeroporto, aveva dovuto fronteggiare diverse guardie al servizio di Oseroth. Fra questi, naturalmente, anche Alberich, che si era dimostrato molto forte. Con fatica era riuscita a metterli fuori gioco e aveva preso il primo aereo per il Giappone – ma da quel momento in poi aveva prestato il doppio dell'attenzione.

Aveva cercato di evitare i combattimenti il più possibile, e ci era riuscita, fino a tornare in città.

Proprio per questo si stava muovendo così velocemente; per quanto avrebbe voluto fermarsi da Sayumi, doveva raggiungere casa sua al più presto e parlare con suo padre.

Finalmente, era di fronte alla porta di casa, imponente come l'entrata degli Inferi.



Però non ho più le chiavi, pensò, colta da quell'illuminazione, da dove potrei entrare?

Sollevò la testa, ispezionando la facciata alla ricerca di un'entrata. Le finestre erano tutte chiuse e coperte dalle tende, quindi probabilmente era lo stesso per la sua camera. I sotterranei erano sigillati e fortificati, quindi era fuori discussione. L'unica alternativa che le rimaneva era quella di chiamare Kukuri o Sebastian. 

 

 

«Yu... ki... ?».

 

L'albina si voltò di scatto, pronta allo scontro – ma quando i suoi occhi li vide, le gambe le cedettero come gelatina.

A pochi metri di distanza, loro erano lì, scioccati ed esterrefatti quanto lei, aggrovigliati dalle stesse emozioni turbinose. Takeshi e Tetsuya, l'uno accanto all'altro. Le bocche aperte, gli occhi sbarrati, fermi nei gesti che stavano per compiere, sospesi nel tempo quasi.
Quando i suoi occhi li vede, si riempirono di lacrime roventi. «Takeshi... Tetsu... ».

Tetsuya si riscosse di fronte alle lacrime dell'amica, e appoggiò la mano sulla spalla di Takeshi, e il moro sobbalzo, le sue iridi sembrarono riacquistare colore. «Yuki... »

 

«YUKI-CHAN!». Sollevando un enorme polverone, Sayumi era apparsa dalla cancellata. Con un agile balzo riuscì a superarla e poi scattò come un fulmine lungo il percorso di terra incolta.

«Y-Yumi?!», esclamò la mezzosangue, rimettendosi faticosamente sulle proprie gambe. «Ma tu... voi... cosa ci fate qui?!».

«Questa è la nostra domanda!».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Kukuri aveva mantenuto la sua promessa: la stanza non aveva un granello di polvere.

Era pulita e ordinata come uno specchio; le lenzuola del letto e il copriletto non avevano nemmeno una piega; i vetri delle due finestre brillavano come stelle, la specchiera tersa; il pavimento privo di qualsiasi impurità.
Kukuri era una professionista nel suo lavoro e lo dimostrava giorno dopo giorno, secondo dopo secondo. Con un gran sorriso, Yuki entrò nella sua stanza e la cameriera la seguì, adagiando le due valige accanto alla porta; l'albina la ringraziò e le fece un cenno col capo, e subito dopo rimase da sola.

 

Aveva quasi la tentazione di lanciarsi sul materasso. Era sempre così morbido.

A ben vedere, quella camera era molto bella. Il suo piccolo regno.

 

 

«Disturbo?».

La mezzosangue si voltò e sorrise. Takeshi era appena apparso sulla soglia della porta, l'avambraccio sullo stipite; sebbene l'espressione fosse rilassata, il moro era allegro e felice come un bambino, e l'aria da playboy che aveva assunto era una piccola prova a dimostrazione.

«Ehy», rispose l'albina.

«Ehy». Si staccò dalla porta e se la chiuse alle spalle, senza girarsi. Sorrideva, un po' imbarazzato, spazzolandosi i capelli dietro il collo per mantenersi occupato. «Cavolo... ».

«Eh? Cosa?».

Takeshi inclinò la testa di lato, la mano ancora sullo stesso punto. «È che sembra un sogno... rivederti. Rivederti qui, in carne ed ossa, nella tua stanza».

Yuki schiuse le labbra con aria assorta. Sì, in effetti, stentava a crederci anche lei. «Mi sento un po' confusa... ».

«Sarà a causa del jet-lag».

«Ah, non pensavo che ne avrei mai sofferto».

Takeshi ridacchiò – soffermandosi poi a osservarla. «Sbaglio o non sei per niente truccata?».

«Cosa?». Oh, giusto, non le era passato nemmeno per l'anticamera del cervello di truccarsi. Istintivamente si toccò il viso con le mani, un po' in imbarazzo. «Non c'era il tempo per... ».

«Non importa», replicò Takeshi – che, all'improvviso, era già di fronte a lei. «Ti amo a prescindere. Da tutto».

 

 

Yuki sollevò il viso in un guizzo, con le labbra tremanti. Takeshi, con la sua figura, creava una grossa penombra che l'avvolgeva come un'ala. Il suo sorriso era così bello... emanava talmente tanto calore. Era più simile al sole di qualsiasi cosa.
Stendeva le labbra carnose, gli angoli si sollevavano verso l'alto e formavano piccolissime fossette, una piccola porzione di denti che si affacciava appena appena – e i suoi occhi diventavano ancora più luminosi.
Lei lo vide piegare la schiena e il collo e il suo viso farsi sempre più vicino, fin quando il respiro di Takeshi non fu ad un passo dalla sua bocca. «Takeshi», bisbigliò.

Le palpebre chiuse, lui rispose: «Sì?».

«Credo che Chris volesse baciarmi».

Takeshi aprì gli occhi. «Chris chi?».

«Christian. È il fratello di Hokori ed è stato il mio compagno di stanza durante la settimana a Lond– … per caso sei arrabbiato?».

«Per niente». Non gliene importava niente se era il fratello di Hokori, né perché il ragazzo si trovasse in Inghilterra. Quel ragazzo – beh, forse, non era del tutto certo – aveva cercato di superare la linea di confine. La stessa linea che lo separava da un trattamento molto, molto spiacevole. Takeshi, che aveva le mani sulla vita della sua ragazza, fece un lungo sospiro. Al Diavolo. Si sarebbe arrabbiato dopo.

 

Lei alzò il viso per guardarlo negli occhi e balbettò: «Take– », ma la sua voce venne schiacciata dalle labbra del ragazzo. Quel bacio era stato talmente fulmineo che per un attimo le mancò l'equilibrio e dovette aggrapparsi alle sue spalle, allacciandogli le braccia intorno al collo. «Tak– », niente da fare, Katugawa non aveva nessuna voglia di parlare.
Yuki si sollevò sulle punte e Takeshi le avvolse la vita, stringendola a sé con una dolce forza – lui si allontanò e lo schioccò delle loro labbra rimbombò nella sua testa.
Fece scivolare le mani dalla sua vita fino ai fianchi e sollevò la testa, per raddrizzarsi, ma la mezzosangue gli prese subito le mani e in un secondo vorticoso erano sul letto a baldacchino.

 

«Yuki», bisbigliò, piano, con gli occhi un po' aperti per lo stupore perché, tutto d'un tratto, si era ritrovato su un letto. Sotto di lui, la sua ragazza. Lei sorrise e lui la imitò, prima di avvicinare la bocca sulla sua guancia, appena accanto alle sue labbra, e poi scendere sotto la mandibola.
Sentiva che ogni suo bacio – sul collo, sulle clavicole, sulle labbra – riusciva a farle andare a fuoco la pelle, come se volesse rivestirla di lava, viva e ardente, e volesse prendere il posto del freddo dentro le ossa dell'albina – Takeshi si stava prendendo quel posto.


Sdraiata supina su quel grande letto, i capelli sparpagliati da tutte le parti, chiuse per un istante gli occhi. Nell'attimo dopo, in un altro scatto di velocità sovrumana, la mezzosangue aveva ribaltato la situazione e si era seduta a cavalcioni su di lui.

Il moro, in tutta risposta, le aveva lanciato un'occhiata – un sopracciglio inarcato, l'altro sollevato. "Ah, davvero?", sembrava dire il suo sguardo. Poi, con le mani sulle gambe, aveva abbassato gli occhi sulle mani di Yuki mentre gli percorrevano il torso, accelerando sui bottoni della camicia, soffermandosi sul marmo impeccabile dei suoi addominali, tracciandoli come una mappa. La vide piegare la schiena e avvicinarsi, fin quando non incollò le labbra su quelle del ragazzo.

 

 

«SIGNORINAAAAA!». All'urlo decisamente sgraziato della cameriera, Yuki e Takeshi fecero un balzo. L'albina alzò la schiena, ruotandola come una vite per guardare verso la porta alle loro spalle. Takeshi, sul punto di scoppiare in una fragorosa risata, si tappò la bocca con la mano. «Signorina, i vostri genitori la stanno aspettando!».

«E c'era bisogno di urlare per... », Yuki si bloccò, serrando le labbra.

 

 

Rimasero entrambi in silenzio, mentre lei continuò a fissare la porta. Dopo un minuto, la ragazza tirò un sospirone, e tornò verso il moro. «Scusa, non so proprio cosa le sia preso... ».

«No? Io qualche idea ce l'avrei», ribatté lui, ridacchiando. «Ad esempio, che magari hanno sospettato qualcosa».

 

Yuki sbatté le ciglia.

 

Takeshi incrociò le braccia dietro la testa, i capelli scompigliati, la camicia completamente aperta. Yuki era ancora seduta sul suo bassoventre, le guance rosse. «Piuttosto, me ne torno a Londra».

«Non pensarci nemmeno». Il suo tono era scherzoso e il sorriso anche, ma il significato era più che serio. Poi alzò le sopracciglia, guardando in basso. «Non è un problema, ma... credi di restare lì per molto?».

«N-non fare lo stupido. Sto scendendo proprio adesso, ecco».

 

Takeshi si mise a ridere, sciogliendo le braccia dietro la testa e sollevando il busto dal materasso. Dovendo essere onesto, gli dispiaceva parecchio che la situazione fosse finita così; d'altro canto, non si sarebbe sentito mai a suo agio – o meglio, al sicuro – in casa della sua fidanzata, c'erano fin troppe figure pericolose.
Paradossalmente quella cameriera gli aveva appena salvato la vita.

 

«Take... posso?».

«Eh? Cosa?».

«La camicia», bisbigliò la mezzosangue. «Posso richiudertela?».

«Wow. Intraprendente. Sicura che non perderai la concentrazione, mentre cerchi di abbottonarla?».

«... come non detto».

 

Nuovamente, Takeshi fece una risatina. «Dai. Mi farebbe piacere. Vieni qui». Di fronte alla reazione dell'albina, terribilmente prevedibile, non poté fare a meno di sorridere ancora di più. Alzata di spalle, sbuffata. Avrebbe potuto indovinarla ad occhi chiusi.

Lei si spostò sul bordo del letto, accanto a lui, e cominciava ad armeggiare con i bottoni della camicia. La vedeva inarcare le sopracciglia, come se ci stesse mettendo tutta l'attenzione dell'universo, arrossire leggermente quando si rendeva conto che fino ad un momento prima erano in tutt'altra situazione.

Dannazione. Non credeva di potersi sentire così felice.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Fuori dalla camera, sulla passerella, Takeshi si sporse dal parapetto, appoggiandoci le mani. Si voleva concedere qualche momento per osservare ciò che stava succedendo; il suo ritorno del tutto improvviso, l'intimità che avevano attraversato qualche minuto prima, il fatto stesso di trovarsi di nuovo dentro quella casa. Era forse la terza volta che si muoveva tra le sue mura, che sembravano respirare, che sembravano più vive di qualsiasi altra cosa.

Che fosse una casa particolare, era logico. Saltava all'occhio. Ma c'era qualcos'altro, qualcosa che era molto più insito... qualcosa che voleva capire, soprattutto.

 

«Take? Ti sei incantato?». Yuki, alle sue spalle, aveva appeno chiuso la porta. Fece due passetti, arrivando al lato destro del ragazzo, guardando anche lei di fronte a sé. Inclinò la testa, con una faccia confusa. «Cosa c'è di tanto interessante, là?».

Takeshi fece un sorriso, appoggiando i gomiti. «Molto più di quanto pensiamo».

«Molto più di quanto pensiamo... », ripetendo le sue parole, Yuki volse il viso verso il moro, guardandolo assorta per qualche istante. A proposito, ancora non sapeva perché lui e Tetsuya si trovavano proprio lì, in un momento come quello. «Ehy, dì un po'... perché eravate di fronte a casa mia?».

«Ah, quello, eh? Non te ne abbiamo ancora parlato, in effetti. Vedi, avevo intenzione di parlare con tuo padre e tua madre, a quattrocchi, e volevo farlo per conto mio. Ne ho parlato con Tetsuya e Yumi e... », il moro sospirò, con un sorriso beffardo. «... Tetsuya non voleva saperne di lasciarmi andare da solo».

Non voleva farlo andare da solo, pensò l'albina, perché sapeva quanto avrebbe rischiato la vita.

Sorrise. Quello stupido vampiro si era affezionato proprio per bene.

 

 

«Signorina Yuki, signorino Takeshi». Apparsa dall'angolo delle scale, con il respiro lievemente accelerato, Kukuri interruppe il flusso di pensieri di entrambi. La ragazza si aggiustò velocemente gli occhiali del naso, e fece un inchino con la schiena.

«Kukuri-chan», disse Takeshi, alzando le sopracciglia. «Ti prego. Non chiamarmi in quel modo, non sono nemmeno un aristocratico».

«Mi dispiace... non posso fare altrimenti. È questione di decoro, e poi voi siete una persona molto importante per la signorina, quindi... ».

«Lascia perdere, non riuscirai a farle cambiare idea», Yuki ridacchiò, per poi rivolgersi alla ragazza. «Dovevi dirci qualcosa?».

Kukuri sussultò, ricordandosi del suo compito, e annuì con un po' di imbarazzo. «Oh, sì; i vostri amici vi stanno aspettando nella Stanza delle Mappe. Il signorino Tetsuya mi ha chiesto anche di riferirvi che “dovete darvi una mossa, siete della dannate lumache”». Kukuri sollevò il polso, dando un'occhiata all'orologio da polso, e scrollò la testa. «Questo è tutto, adesso devo andare. Siamo un pochino in ritardo con la cena di stasera. Con permesso!». Dopo un altro inchino, la ragazza si voltò e con passo veloce scese le scale.

Yuki e Takeshi ne seguirono i movimenti per un tratto, finché il secondo non intervenne: «La Stanza delle Mappe?».

La mezzosangue annuì, staccando gli occhi dall'esile figura della cameriera. «Sì; è una camera che si trova sull'altra passerella. L'abbiamo chiamata così perché vi sono conservate tantissime mappe, carte e libri sulla geografia. Però, se devo essere sincera... ».

«Ha un qualche strano marchingegno?».

 

L'albina si mise a ridere. «Non che io sappia!», rispose. «Volevo dire che, ad essere sincera, non so bene che senso abbia o a cosa serve, specialmente perché abbiamo già una biblioteca».

«... questa frase è davvero assurda».

«Ah-ah. Vogliamo andare?».

 

 

Senza indugiare oltre, scesero le scale e si diressero verso la passerella parallela. Superate le prime quattro porte – sua sorella stava ancora dormendo, per lei era complicato stare sveglia durante il giorno –, i due arrivarono di fronte alla quinta. Yuki ruotò il pomello della porta verso destra e l'aprì, spalancandola del tutto.
Takeshi, che era alle sue spalle, inclinò la testa di lato per guardare all'interno; piuttosto grande e spaziosa, di forma rettangolare, aveva una lunga e grande tavolata al centro, stracolma di libri e cartine geografiche, penne e matite, e un candelabro appoggiato sul bordo, un po' in bilico. Al di sotto di tutta quella cianfrusaglia spuntava un drappo rosso dal motivo persiano, il cui bordo era tutto a frange.

La parete sulla destra era interamente occupata da una gigantesca libreria, fitta di tomi, e accanto a quella – tra il tavolo e la libreria – c'era un piccolo salottino, con un divano e una poltrona color sangria. A terra un tappeto dello stesso motivo del drappo e di fronte un caminetto spento, un po' impolverato.

 

«Alla faccia... », bisbigliò Takeshi, alzando l'angolo della bocca.

 

«Ragazzi!». Sayumi balzò dal divano, veloce come il vento, e corse dai due. Nonostante si fossero già salutate – calorosamente -, Sayumi non poté fare a meno di abbracciare l'amica, circondandole le spalle con tutta la forza che aveva.

«Yumi– », tossicchiò l'albina, battendole la spalla.

«Questa ragazza non conosce limiti, eh?», disse Tetsuya. Il vampiro si conteneva molto di più nelle reazioni, sebbene fosse davvero felice in quel momento. Si era appoggiato al bordo della lunga tavolata, con le braccia incrociate al petto, e osservava la scena con un sorriso sulle labbra.

«Nemmeno tu», rispose Takeshi, ridendo. «E non chiamarci “dannate lumache”, è rude».

«Ma è ciò che siete. Ci avete messo una vita». Il vampiro abbassò le palpebre, squadrando il viso del moro con sospetto velato – il suo sorriso si fece più intenso, con una punta di malizia. «Oppure abbiamo interrotto qualcosa?».

«Tetsuya!», quasi urlò Yuki, ancora immobilizzata nella presa di Sayumi. Appoggiò il mento sulla spalla dell'amica, continuando ad urlargli contro: «Sei davvero pessimo! Che insinuazioni fai!».

Takeshi non riusciva a smettere di ridere. «Se te la prendi così gli stai praticamente dando corda».

«Che c'è di male?», ribatté Tetsuya, chiudendo le palpebre e alzando le spalle. «Sono già sette mesi che state insieme. Persino io vi ho dato la mia benedizione».

 

Sette mesi? Era passato davvero così tanto tempo?

Se ci pensava un attimo, il periodo che avevano trascorso fino a quel momento era stato molto travagliato. Sostanzialmente, non c'era stata una settimana senza che qualcosa si mettesse fra loro. Sayumi si allontanò da Yuki, per poi guardarla negli occhi, tenendosi a lei per le spalle.

«Sembri più... », disse l'albina. «... adulta. Sei diversa, ecco». Infatti, lo sguardo nei suoi occhi azzurri si era fatto ancora più limpido. Anche mentre sorrideva, contenta di essersi ricongiunta con la sua amica, Sayumi aveva un qualcosa di serio e determinato... qualcosa che la faceva apparire come pronta a tutto.

Alle parole dell'albina, Sayumi inclinò la testa di lato. «Chissà?», disse. «Forse è così. D'altronde, durante la tua assenza, qualcosa è successo».

«Qualcosa... ? Ma», preoccupata, la mezzosangue lanciò delle occhiate ai suoi amici. «Stai bene? Non sarete stati attaccati, vero?».

«No, niente del genere», rispose Sayumi. «Ma te ne parlerò. Mi sembra giusto». Alzò il viso, spostando la sua attenzione su Takeshi per pochi secondi, rivolgendogli un sorriso stoico. Yuki seguì i movimenti dell'amica, la curva delle sue labbra. Non capiva. Non capiva per niente.

Ma andava bene così, Sayumi le avrebbe detto tutto.

 

Dopo qualche istante di silenzio, Tetsuya indicò alle sue spalle col pollice. «Perché non ci sediamo e non ci racconti qualcosa di Londra?».

Sayumi lasciò le spalle dell'amica e si voltò con una giravolta improvvisata, raggiungendo il vampiro. «Oh, sì! Non ci credo neanche morta che non hai niente da raccontare!».

«Ah, a dire il vero», cominciò l'albina, seguendoli fino al divano insieme a Takeshi. «Ho fin troppo da raccontarvi. La vostra curiosità sarà felicemente soddisfatta, miei sciocchi amici». Con una risata, si fermò in piedi di fronte al divano, su cui i tre si erano già accomodati, l'uno accanto all'altro, guardandosi fra di loro e guardando lei.

«Prima di tutto– ».

 



Ma a quel punto successe qualcosa.

 

La porta, che era stata richiusa, si aprì lentamente. Il suo cigolio echeggiò come un mantra, il legno della porta lamentò rumorosamente. Yuki non si era ancora girata, non ancora. Invece, il suo sguardo era ancora fermo davanti a sé, in quello interrogativo dei due esseri umani e in quello sconcertato del vampiro. A vedere il suo viso così turbato, le gambe divennero velocemente pesanti, come macigni – perché Tetsuya non si faceva prendere così alla sprovvista.
Allora, con la stessa lentezza della porta, Yuki ruotò i piedi di poco, quel tanto che le bastava per incontrare la porta.

 

E ritrovare così l'empia figura di Alyon Akawa.

 

   
 
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