(Rumpelstiltskin)
Out of the blue and
into the dark
freddézza
s. f.
1. Qualità,
condizione di ciò che è freddo: la f. della
temperatura; la f. delle acque di
un fiume.
2. Fig.,
capacità di dominare i propri nervi e sentimenti,
impassibilità, autocontrollo:
f. di carattere, di temperamento; mancanza di calore; indifferenza
gelida.
Itachi Uchiha
non badava a niente di tutto ciò, fin
dall’infanzia era abituato a essere
circondato dalla tecnologia e da servitori dalle forme bizzarre,
lontane da
quelle del corpo umano ma adattate alle funzioni preposte. Non era
però l’unico
motivo per la sua poca attenzione: il suo sguardo era fisso allo
specchio,
intento a osservare le proprie mani impegnate nell’allacciare
la cravatta. Un
gesto banale che richiedeva pochi secondi, eppure per qualche motivo
quel
giorno era terribilmente difficile. Avrebbe potuto chiamare un androide
che
avrebbe risolto il problema in un battito di ciglia, ma testardamente
aveva
deciso di fare da sé; il funerale di suo fratello Sasuke
richiedeva almeno
quello sforzo, rifletté.
Guardava le sue
dita lunghe e pallide contro la seta nera, solitamente erano eleganti e
precise, ma in quel momento parevano goffe, incerte, come se davvero
annodare
della stoffa fosse un’impresa titanica.
Stizzito, Itachi
si sfilò del tutto la cravatta dal colletto e la
gettò a terra, calpestandola
col piede nudo. Vide il suo maggiordomo meccanico avanzare senza
rumore,
sollevato dal pavimento di qualche millimetro grazie a un leggero campo
magnetico, ma lo bloccò con un cenno della mano, facendolo
tornare in un angolo
della stanza. Si chinò lui stesso a raccogliere la cravatta
e la tenne tra le
mani, fissandola.
“Questo non è da
me” sussurrò senza ricevere nessuna risposta, se
si escludevano i rumori
ovattati del condizionatore e delle altre apparecchiature.
Si stropicciò
gli occhi e si voltò di nuovo verso lo specchio. Stavolta
osservò il suo viso
ovale, gli zigomi affilati, le ombre scure sotto le palpebre che
sembravano
creare dei solchi, infine le proprie iridi nere che in quel momento
parevano
riflettere il vuoto. Appoggiò una mano sulla superficie
liscia e fredda, come
carezzando il proprio volto riflesso, lo fissò con
intensità fino a vedere dei
piccoli flash danzargli sulla retina, ma anche allora
continuò.
Vide uno
scheletro fluttuare su uno sfondo scuro.
Fu questione di
un battito di ciglia, non di più, ed era sparito.
Itachi scosse la
testa e si stropicciò nuovamente le palpebre, ma quella
volta vide solo il suo
viso stanco sopra una camicia bianca dal colletto disadorno. Si mise la
cravatta mettendoci pochi istanti per fare un nodo perfetto, per poi
uscire
dalla stanza senza gettare una seconda occhiata allo specchio e a
quello che
avrebbe potuto riflettere.
Le luci
artificiali si spensero quando varcò la soglia e il sistema
entrò in stand-by
fino al suo ritorno, un respiro trattenuto in polmoni
d’acciaio e fili
elettrici.
negazióne
s. f.
[dal lat. negatio -onis]
1. L’atto del
negare, e l’espressione con cui si nega (il contrario di
affermazione)
2. In
psicanalisi, meccanismo di difesa attraverso il quale il soggetto si
oppone
alla percezione cosciente di pensieri o desideri proibiti negando che
questi
gli appartengano
Itachi
continuava a rigirare tra le dita lunghe un piccolo chip che fino a
un’ora
prima era stato seppellito sotto le pelle di Sasuke. Ogni persona ne
aveva uno
dietro la spalla destra, veniva impiantato alla nascita, aveva un
codice unico
e con esso si accedeva agli account personali, alla propria macchina,
abitazione o ogni altro ritrovato tecnologico della loro era. Quel
microchip in
particolare era stato disattivato al momento della morte di Sasuke, non
avrebbe
aperto più nulla, né fatto avviare alcun
macchinario, ma Itachi aveva chiesto
agli addetti del crematorio di rimuoverlo: voleva avere almeno qualcosa
del
fratello. Come da prassi le sue ceneri non sarebbero state restituite
alla
famiglia, bensì sarebbero state smaltite come rifiuti
speciali; era stato
persino inusuale che qualche parente fosse presente alla cremazione in
realtà.
Shisui guardò
fuori dal finestrino la lunga fila di automobili parcheggiate e non
biasimò il
cugino se si attardava ancora un po’ in macchina, nemmeno lui
moriva dalla
voglia di entrare in una casa dove il proprio fratello non avrebbe
più potuto
mettere piede e trovarla invece invasa di familiari e altra gente.
D’istinto allungò
un braccio e sistemò dietro l’orecchio di Itachi
una ciocca di capelli più
corta e sfuggita dall’elastico; a quel modo sentì
i fili scorrergli tra le dita
come seta, nonché la pelle liscia che sfiorò
appena. Il cugino piegò
inconsapevolmente il collo, come per agevolarlo, e lui si
ritrovò a indugiare
qualche secondo più del dovuto in quel contatto.
“Abbiamo fatto
bene ad andare al crematorio, a Sasuke sarebbe piaciuto vederci
infrangere
qualche regola” disse abbassando il braccio.
Finalmente il
fantasma di un sorriso comparve sulle labbra di Itachi.
“Già, in fondo
lui era l’emblema dell’infrangere le regole, no? Un
figlio della libertà”
Poggiò la nuca
contro il morbido poggiatesta e alzò lo sguardo verso il
tettuccio in vetro
trasparente, forse con la speranza di vedere qualche uccello librarsi
nel
cielo; peccato che fossero estinti da tempo e nel loro mondo solo gli
aeroplani
fossero i padroni delle nuvole.
“Già” convenne
Shisui. In quell’unica sillaba riuscì in qualche
modo a condensare rimpianto,
malinconia e una punta di amarezza, tuttavia non diede tempo a quei
sentimenti
di sedimentare perché diede una pacca rumorosa sulla coscia
del cugino e, con
voce allegra, aggiunse “Andiamo a infrangere qualche altra
regola, mi sento in
giornata!”
Itachi lo guardò
con stupore non tanto per le parole, forse quanto per quel contatto
fisico, per
quelle dita che erano ancora sui suoi pantaloni e di cui poteva sentire
il tepore
attraverso la stoffa. Trovava sempre incredibile il calore di un altro
tocco
umano, in contrasto col mondo sterile e preconfezionato in cui vivevano.
“Andiamo allora,
non facciamoci sfuggire questa rara congiunzione astrale”
scherzò, poggiando la
propria mano su quella dell’altro. Le sue dita erano fredde,
eppure Shisui non
si scostò ma rimase qualche istante a guardarlo con un
sorriso morbido prima di
interrompere quel contatto e uscire dalla macchina.
Il fievole
sorriso di Itachi morì di nuovo quando si fermò
sul marciapiede fissando in
lontananza La Torre, lo scrigno protettivo del cuore pulsante della
loro
società: L’Ufficio Di Controllo; un nome banale e
poco pretenzioso a dispetto
di quello che faceva. La Torre in realtà non aveva la forma
di una torre, bensì
era solo un palazzo, nemmeno troppo alto. Sul suo tetto erano stipate
decine di
parabole, ricevitori e antenne dalla forma bizzarra, alcune di esse si
allungavano in alto e poi curvavano in basso, sembrava si stessero
gettando nel
vuoto senza alcun paracadute. Le pareti erano tappezzate da finestre
specchiate, tuttavia il cemento in cui erano affondate appariva
talmente
pesante, opaco e greve da soffocare la luce che riflettevano, donando
alla
costruzione un’aria di grigia desolazione impossibile da
scrollarsi di dosso.
Itachi lo
trovava un connubio perfetto per quello che, a conti fatti, era il
luogo dove
venivano decisi i loro destini senza possibilità di scampo,
dove la speranza
veniva uccisa ancora prima di nascere.
“Sì, siamo nati
tutti là in un certo senso”
La voce di
Shisui lo fece sobbalzare perché sembrava avergli letto nel
pensiero; quanto di
quello che nascondeva nella scatola cranica Itachi riusciva davvero a
tenergli
nascosto?
“Ci pensi mai? –
gli chiese – Cosa sarebbe potuto succedere se fossi nato per
sbaglio come
Sasuke? Se le nostre nascite fossero dominate dal caso come nei secoli
passati.
Io esisterei? Tu? Chi ci sarebbe su questa Terra… o ci
sarebbe ancora la razza
umana?”
Si passò una
mano sul viso come a lavare via quei pensieri pericolosi e aggiunse
“Lascia
stare, sto farneticando”
“Scherzi? È un
discorso affascinante! – esclamò Shisui per poi
assumere un aria meditabonda –
Dando per scontata la presenza del genere umano, credo che ci sarebbe
molto più
caos e incertezza rispetto alle vite preimpostate che conduciamo e
sinceramente
non so dire se ciò sarebbe un male, a differenza di quanto
dice la propaganda.
Non so immaginare se io o te ci saremmo lo stesso, ma so che ci
divertiremmo e
magari… magari potremmo innamorarci di chiunque
desideriamo”
Il suo sguardo
malinconico sembrò scavare un buco nel petto di Itachi che
però non mostrò
quell’espressione sul viso o in altro modo, anche se avrebbe
voluto portarsi
una mano alla gola, massaggiandosela per lasciar passare meglio
l’aria che
sembrava non voler andare nei polmoni.
Cosa sarebbe
successo se non fosse esistito L’Ufficio Di Controllo a
decidere quali famiglie
potessero avere dei figli e quanti, a scegliere attraverso
l’analisi genetica
quali embrioni far sviluppare in uteri artificiali, quali lavori
avrebbe svolto
una persona in base a delle analisi fatte ancor prima della sua
nascita? Cosa
sarebbe successo se tutti loro avessero potuto nascere come Sasuke, a
seguito
di un atto di amore non controllato, un errore? Un evento non previsto
che però
Mikoto e Fugaku avevano amato, difendendo la loro scelta con le unghie
e con i
denti fino alla morte del loro figlio speciale che aveva avuto una vita
breve,
divorato da una malattia cardiaca; eppure, forse, era stato
più felice di tutti
loro che vivevano lunghe esistenze grazie al DNA accuratamente scelto.
Nella morte
precoce di Sasuke tutti avevano visto la conferma della giustezza del
sistema,
non Itachi che vi aveva scorto la stessa libertà con cui il
ragazzo era venuto
al mondo e che gli aveva sempre invidiato segretamente.
“L’amore è
sopravvalutato, Shisui” rispose, rendendosi conto di essere
stato in silenzio
anche troppo a lungo.
Il cugino però
scosse la testa dai corti capelli mossi e rise, posandogli una mano
sulla
spalla.
“L’amore è
l’unica variabile impazzita che ci è rimasta.
Ancora non ci hanno detto chi
amare o chi sposare, possono scegliere quanti figli avrò, se
saranno femmine o
maschi, se i loro occhi saranno neri come i miei o magari come quelli
della
madre, fino a che età potranno vivere o per quale
professione saranno portati a
seconda delle necessità della società, ma non mi
toglieranno l’unica libertà
che mi è rimasta. Io e solo io scelgo chi amare, non
dimenticartelo”
Il buco nel
petto di Itachi si allargò e lui vi finì dentro,
eppure non aveva paura, sentiva
di non essere solo in quella discesa verso l’ignoto.
Shisui aveva
ragione: anche lui era libero. Aveva amato suo fratello, amava i
genitori e
forse, se quegli occhi scuri che lo fissavano non lo stavano
ingannando,
avrebbe potuto…
“Itachi!
Shisui!”
I due ragazzi si
riscossero, rendendosi conto di essersi isolati dal resto del mondo;
peccato che
avessero scelto di farlo su un marciapiede, a pochi passi
dall’ingresso della
casa piena di parenti e gente varia accorsa per la commemorazione di
Sasuke.
Itachi si
allontanò di qualche passo dal cugino, abbassando lo sguardo
con fare colpevole.
Fece un cenno alla zia che li aveva chiamati, si affrettò a
raggiungerla e a
stare al fianco dei genitori che avevano più che mai bisogno
di lui, anche se
era solo un figlio perfetto, non scelto dal destino.
frustrazióne s.
f. [dal lat. frustratio -onis «delusione»]
1. Sentimento di
chi ritiene che il proprio agire sia stato o sia vano: provare un senso
di
frustrazione. 2. In psicologia, condizione di tensione psichica
determinata da
un mancato o ostacolato appagamento di un bisogno; può avere
cause esterne (per
es., un’educazione troppo autoritaria), o interne (per es.,
presenza di due
bisogni di uguale intensità ma di opposta direzione o
comunque incompatibili)
“Ti ammazzo
razza di squalo sottosviluppato!”
“Cosa? Cos’è
stavolta? Ho lasciato le mutande sporche per terra, un cucchiaio era
fuori
posto? Cosa c’è stamattina, Karin?”
Non stava
urlando, ma la sua voce era comunque alta, con un vago sentore di
esasperazione. Fin dal primo momento in cui si erano conosciuti, si
erano
punzecchiati e avevano battibeccato, ma quello che succedeva da qualche
mese a
quella parte era su tutt’altro livello. Lo sguardo di
Suigetsu cadde sul ventre
arrotondato della compagna, così lasciò che lo
ricoprisse di insulti senza
ribattere o sottrarsi alla presa delle sue mani. Ancora un
po’ di pazienza e
gli ormoni avrebbero smesso di farla diventare ancora più
pazza di quello che
era, doveva solo essere paziente, si ripeteva ogni giorno.
Quando sembrò
che avesse esaurito le parole – si trattava più
probabilmente solo del fiato
nei polmoni – si guardarono per un lungo, silenzioso istante.
“Ti senti meglio
ora?” domandò Suigetsu, per poi alzarsi in piedi e
uscire dalla vasca,
sgocciolando sul tappeto.
“Muori, idiota!”
esalò Karin uscendo di gran corsa dal bagno, con le guance
accese dalla rabbia
e un nodo in gola.
Si rifugiò su
una poltrona del salotto, tirando su le gambe e cercando inutilmente di
rannicchiarsi, ostacolata dal pancione della gravidanza. Lo
fissò con astio e
fu così che la trovò Suigetsu quando
entrò nella stanza vestito e con uno zaino
in spalla, pronto a uscire per andare a lavoro. Si avvicinò
alla compagna, ma
lei rifiutò testardamente di alzare la testa per guardarlo.
“Ci vediamo
stasera, bada alla piccola e non stancarti troppo quando
uscirai”
“L’unica cosa
stupida che potrei fare sarebbe andarmene col primo che incontro, ma
nel mio
caso sarebbe una decisione saggia!”
Il mento era
sollevato e i suoi occhi rossi sembravano veramente fiammeggianti,
tanta era la
rabbia che covava dentro di sé.
Suigetsu
allontanò di scatto il braccio con cui stava per farle una
carezza sulla testa,
forse per paura di rimanere scottato se l’avesse sfiorata;
non era un’ipotesi
tanto stramba.
“Sei proprio una
strega!”
“E tu un genio,
visto che la maggior parte delle persone usa la magia. Sei uno stregone
da
quattro soldi, infatti ti trasformi in uno squaletto sfigato, utile
solo per
fare una zuppa!”
Suigetsu si morse
un labbro coi denti affilati ma, invece di rispondere, riprese lo zaino
in mano
e uscì di casa. Quella mattina Karin sembrava più
arrabbiata del solito e
rischiavano di passare tutto il giorno a litigare, inoltre sapeva che,
sottraendosi a quel loro schema consolidato di insulti e frecciate,
l’avrebbe
irritata di più che se fosse rimasto lì. Sperava
solo che la loro bambina non
assorbisse l’acidità della madre attraverso il
cordone ombelicale, in quel caso
sarebbe stato davvero fregato a dover avere a che fare con due donne
che amava
ma che sapevano rapportarsi ai sentimenti solo in quel modo contorto.
Una volta
rimasta sola, Karin si alzò dalla poltrona e in camera da
letto rovesciò il
contenuto dei cassetti del compagno per tutta la stanza.
Passeggiò avanti e
indietro sulla sua maglietta preferita, lanciò i calzini
sulla cima
dell’armadio, si fermò solo quando
trovò una tutina da neonato con il cappuccio
a forma di testa di squalo che non aveva mai visto prima.
Una
stupida testa da squalo, si disse nella sua testa mentre
si sedeva,
esausta, su uno sgabello di fronte a un’elegante specchiera
dove c’erano le sue
creme e costosi cosmetici. Si sentì immensamente triste,
sgonfiata da tutta la
rabbia, così posò la tutina sul ripiano assieme
ai propri occhiali dalla
montatura spessa e si prese il viso tra le mani, singhiozzando
sommessamente. Udì
quei rumori attutiti riverberare nella stanza vuota e li
detestò, detestando se
stessa e la propria inutilità. Non avrebbe potuto sentirsi
meglio nemmeno
litigando un mese intero con Suigetsu, perché il problema
che la rodeva da
dentro non sarebbe sparito così facilmente: aveva bisogno di
una soluzione
immediata, non avrebbe aspettato altri tre mesi che lei scodellasse la
marmocchia. Ora o mai; era semplice, ma non lo era affatto.
Prese un
fazzoletto dalla scatola poggiata sul ripiano e si asciugò
gli occhi che ora
facevano davvero impressione: non era rossa solo l’iride, ma
anche il resto.
Pianse ancora perché Suigetsu, in un raro slancio di
dolcezza, le aveva
confessato che gli piacevano i suoi occhi simili a rubini, come gocce
di sangue
cristallizzato e lei invece da mesi rimuginava di fare qualcosa che
avrebbe
distrutto l’uomo con cui stava per avere una bambina, lo
stesso che aveva
comprato quella stupida tutina per farle una sorpresa.
“Cosa devo
fare?” domandò alla se stessa riflessa nello
specchio.
L’immagine era
nebulosa senza i suoi occhiali, ma riusciva a vedere a sufficienza,
quel tanto
che bastò per farle sbarrare lo sguardo e inforcare gli
occhiali di tutta
fretta, ma era tardi. Lo scheletro che aveva visto ondeggiare nello
specchio
non c’era più, se mai c’era stato.
Inspirò a fondo
per calmarsi e riflettere: nel loro mondo popolato da magia le
stranezze erano
all’ordine del giorno, ma quello doveva essere stato solo uno
scherzo giocato
dai suoi occhi irritati.
Sbuffando si
diresse in bagno, accantonando quanto appena successo in un angolo
remoto della
mente: c’erano questioni ben più importanti da
affrontare. Sasuke la aspettava
in ospedale e lei era già in ritardo per colpa di Suigetsu.
1. L’azione di
risolvere, il fatto di venire risolto, nel sign. di sciogliere e
annullare,
scomporre, chiarire e trovare la soluzione o la spiegazione: r. di un
patto, di
un accordo; r. di un dubbio, di un enigma.
2. L’azione di
risolvere e il fatto di risolversi, nel sign. di prendere una
decisione, e la
decisione stessa adottata: prendere una r.; mantenere una r.; pronta,
tarda,
meditata, libera, spontanea, opportuna, dannosa, definitiva,
irrevocabile,
eroica risoluzione.
Alla fine decise
di alzarsi e camminò nella stanza, con la testa che sembrava
sul punto di
esplodere, infiammata dai pensieri. Si domandò se non avesse
la febbre, ma si
diede dello sciocco: in una simile evenienza il suo androide infermiere
sarebbe
già stato lì. Itachi era sì malato, ma
non nel senso canonico del termine, il
suo virus non era qualcosa che si poteva debellare con una medicina o
un’aggiustatina a del DNA fuori controllo, era qualcosa che
stava mettendo
radici dentro di lui, nel terreno fertile che aveva trovato quando
invece il
ragazzo si era sempre creduto un campo sterile. Quel pomeriggio Shisui
lo aveva
arato con le sue parole, aveva rivoltato le zolle, spingendo la terra
secca nel
profondo, facendo affiorare in superficie quella umida e ricca dove
aveva
attecchito un’idea, una speranza, una possibilità.
Era davvero
possibile amare qualcuno liberamente, anche se questo avrebbe
significato
andare contro il sistema?
La risposta era
sì, ovviamente: il controllo esercitato sulle loro esistenze
era stretto, ma
non esisteva qualcosa che controllasse i loro pensieri; non ancora
almeno.
La domanda era
in realtà un’altra, più subdola: era
possibile venire ricambiati in questo
amore impossibile e folle?
Era quell’interrogativo
che ronzava nella mente di Itachi e gli impediva di dormire,
perché credeva di
aver letto una risposta negli occhi di Shisui, un sì.
Aveva sempre
saputo di essere diverso, forse gli ingegneri che avevano selezionato i
suoi
geni avevano fatto un errore, oppure col tempo c’era stata
una mutazione
imprevista, forse era stata la nascita di Sasuke a far scaturire
qualcosa che
altrimenti non sarebbe mai nato. Grazie a lui, nel vedere mese dopo
mese la
pancia di Mikoto crescere a differenza di quella delle altre madri,
aveva
realizzato che era possibile una vita diversa da quella che
conoscevano, eppure
era stato un codardo. Aveva visto crescere Sasuke, le
difficoltà contro cui
aveva lottato per cercare un posto nella loro società in cui
gli errori e le
variabili non erano accettate, invece di lottare al suo fianco aveva
semplicemente nascosto la testa sotto la sabbia; fino a quel giorno
almeno.
Sasuke era dovuto morire per aprirgli gli occhi e fargli realizzare
quanto la
vita fosse breve, la facilità con cui si poteva spezzare e
che non era giusto
sprecarla, nemmeno se era già pianificata come la sua: era
pur sempre vita,
poteva fare ancora tante altre cose a differenza di suo fratello dal
momento che
aveva preso dimora fissa nell’aldilà.
Era davvero
possibile a quel punto che anche Shisui fosse difettoso
come lui? Era possibile per due cugini arrivare a
toccarsi più profondamente di come avevano fatto quel
pomeriggio, quando le
loro mani avevano indugiato sulla pelle dell’altro come ladri
vergognosi?
“Luce” disse
Itachi e la stanza venne rischiarata dall’illuminazione
proveniente dal
soffitto: non avrebbe dormito, era inutile continuare a stare al buio.
Andò sul divano
e pensò che l’unica cosa da fare era tentare, fare
un salto nel vuoto e… accettare
le conseguenze; ora o mai più. Forse aveva vissuto in
funzione di quel momento,
l’attimo speciale in cui una decisione sua e solo sua avrebbe
potuto cambiare
tutto. Forse c’era un disegno dietro a ciò, forse
esisteva una forza superiore
che aveva soffiato nelle vele della sua barchetta barcollante,
facendogli
solcare il mare verso una meta ben precisa.
Itachi rise
nella stanza vuota: se qualcuno avesse letto nei suoi pensieri
probabilmente
avrebbe ricevuto una multa o si sarebbe ritrovato in prigione, visto il
reato
di immaginare che esistesse qualcosa al di sopra della scienza che
governava le
loro esistenze. Probabilmente non avrebbe dovuto preoccuparsi di una
simile
evenienza, considerato ciò che aveva deciso di fare il
giorno seguente: andare
da Shisui e confessargli i suoi sentimenti, il bisogno spasmodico che
aveva di
toccarlo e baciarlo, di sapere come fosse essere stretti da lui,
fregandosene
delle regole e del loro futuro dal sapore di plastica. Magari avrebbero
dato il
via a una rivoluzione, avrebbero cambiato le cose, la sua vita avrebbe
avuto un
significato, uno scopo scelto da se stesso; le possibilità
erano infinite,
impossibili da quantificare.
Si alzò dal
divano e andò in bagno, si sciacquò il viso e,
mentre si passava l’asciugamano
sulla pelle, si guardò allo specchio. Si studiò
minuziosamente, da ogni ciglia
attorno agli occhi scuri ai piccolissimi pori visibili vicino al naso,
le
occhiaie che proprio non volevano saperne di sparire, i capelli sciolti
sulle
spalle.
Poi ci furono
degli occhi rossi allo specchio, rossi come delle braci e dei capelli
altrettanto infuocati, delle labbra più carnose delle sue.
Poi ci fu un urlo
soffocato e il nero, nient’altro.
Nella concezione
e nel linguaggio comune si intende per vita lo spazio temporale
compreso tra la
nascita e la morte di un individuo; a questo sign. si riconnettono gran
numero
di frasi e locuzioni, riferite soprattutto a esseri umani, e anche ad
animali:
venire alla v., nascere; dare la v. a qualcuno, generarlo; avere v.,
essere in
v., vivere; tenere, mantenere in v.; essere in fin di v.; restare,
rimanere in
v., sopravvivere; morire; privare della v., uccidere; togliersi la v.,
uccidersi.
Finalmente più
comoda, la ragazza riportò la sua attenzione su Sasuke, al
suo corpo pallido
steso su lenzuola altrettanto bianche. Vari cavi partivano da dentro la
sua
pelle per collegarsi a delle macchine che emettevano dei suoni a
intervalli
regolari come a dire “ehi,
è tutto
regolare, se qualcosa cambia ci sentirai fischiare, non
preoccuparti.”
A rigor di
logica Karin non avrebbe dovuto trovarsi lì dato che non era
un parente stretto
di Sasuke, ma lavorava da anni in quell’ospedale e tutto lo
staff la conosceva,
così aveva potuto chiedere quell’eccezione.
D’altronde, se non fosse stato per
lei, quella sedia al fianco del letto sarebbe stata sempre vuota.
Si alzò con
attenzione e si avvicinò al comodino, prese la crema
idratante e iniziò a
spalmarla sulle mani secche di Sasuke, senza che questi aprisse gli
occhi o
avesse altre reazioni. Karin avrebbe potuto schioccare le dita e quella
crema
si sarebbe stesa da sola sulla pelle del ragazzo, eppure lei voleva
farlo
personalmente; anche se il loro mondo era governato dalla magia, valeva
la pena
fare alcune cose diversamente. Inoltre la magia aveva dei limiti, non
era
davvero possibile fare qualsiasi cosa grazie a essa, in quei casi si
ricorreva
alla scienza in un’equilibrata commistione tra le due; quando
invece né la
magia, né la scienza erano utili… beh, in quei
casi si finiva come Sasuke.
Karin sentì gli
occhi bruciarle per nuove lacrime, nel tenere tra le proprie mani
quelle
fragili del ragazzo che aveva amato fin da bambina. Non ricordava come
fosse
iniziata, forse ci era nata con quei sentimenti, però alla
fine non c’era mai
stato niente tra di loro se non amicizia e lunghi voli nei cieli. Forse
era
stato meglio così, aveva avuto molto più da
Sasuke che non una relazione
travagliata e senza futuro a causa dei loro caratteri incompatibili.
Lei gli
era stata vicino nei suoi momenti più difficili, non era mai
stata respinta a
differenza di tante altre persone e il suo amore si era evoluto, era
mutato
pian piano, quasi fosse l’osso di un adolescente alle prese
con i cambiamenti
della pubertà. Alla fine era entrato Suigetsu nella sua
vita, amava anche lui
ma in modo diverso: Sasuke era un’altra cosa. Se Suigetsu era
il suo futuro, la
sua realizzazione, Sasuke era le sue radici, il ricordo dei sogni
adolescenziali
che si accarezzano con dolce nostalgia; non avrebbe potuto vivere senza
nessuno
dei due.
Per quel motivo
piangeva, perché Sasuke stava morendo e la magia era inutile
così come la
scienza, forse ci sarebbe stato un altro modo, ma si trattava un salto
nel buio;
non aveva la certezza della riuscita, solo di ciò che
avrebbe dovuto
sacrificare.
Posò con
delicatezza le mani ora morbide del ragazzo sul letto, si
premurò di
sistemargli le lenzuola, poi andò in bagno e si
sciacquò il viso al lavandino.
Non le piacque ciò che vide sotto le luci al neon nel
piccolo specchio: era lo
sguardo di qualcuno che stava per prendere una decisione, sfiancato
dalla
tensione continua.
Poi, all’improvviso,
la visione cambiò, pensò di avere
un’allucinazione perché vide degli occhi tanto
simili a quelli di Sasuke. Non ebbe tempo di riflettere più
a lungo perché ci
fu solo nero e nient’altro e, scioccamente, pensò
di essere stata risucchiata
da quegli occhi.
È l’eco della
mente, quando l’oscurità, il senso di
claustrofobica strettezza attanagliano la
gola. L’urlo nella propria testa è di solito
mitigato dalla realtà, ma quando
la paura dirompe e non si vede altro che oscurità e non
c’è nessun suono a
guidarci, allora l’eco nero è il riflesso di
ciò che c’è nella mente, negli
occhi, nelle orecchie… nel proprio animo.
(Anonimo,
internet)
Karin stava
fluttuando con una sensazione di nausea ad attanagliarle lo stomaco e,
per una
volta, non era colpa della gravidanza. Aveva l’impressione di
essere a testa in
giù, ma non ne era certa dato che i suoi piedi non
poggiavano su nulla e i
capelli rimanevano dritti lungo la schiena. Vide alla propria destra
un’altra
persona, forse era vicina perché riusciva a distinguerne i
capelli lunghi e le
spalle larghe, ma non era sicura nemmeno di quello.
“Ehi! Ehi tu!”
gridò.
Stranamente la
sua voce non risuonò forte e risoluta come aveva creduto,
bensì aveva una vena
di nervosismo che proprio non le piacque. Vide che comunque lo
sconosciuto
l’aveva sentita, perché si voltò nella
sua direzione e all’improvviso non fu
più uno sconosciuto. Karin si tolse gli occhiali, si
strofinò forte gli occhi,
per poi tornare a riaprirli e guardare di nuovo attraverso le lenti:
non si era
sbagliata, quello davanti a sé era proprio Itachi Uchiha,
solo più vecchio
rispetto a come lo ricordava lei; in fondo era stato solo un
adolescente il
giorno in cui era morto.
“Cosa…? Itachi,
come è possibile?”
La sua voce fu
ancora più carica di nervosismo e incertezza, si morse un
labbro tentando di
elaborare una spiegazione, ma soprattutto un piano di fuga: se davvero
aveva a
che fare con un morto, voleva dire che lei e la suo bambina erano in
pericolo!
“Chi sei? Come
conosci il mio nome? Dove siamo?” domandò
l’uomo con una voce profonda che la
ragazza non riconobbe, come era logico d’altronde.
L’Itachi che aveva
conosciuto era stato forse altrettanto alto ma non così
sviluppato, le sue
guance più tonde avevano avuto solo l’ombra della
barba e anche la voce era
ancora da ragazzino; il loro sguardo però era tanto simile:
quello di una
persona più vecchia, in qualche modo saggia o forse solo
consapevole del mondo
che li circondava.
Karin non riuscì
a rispondere, la sua gola solitamente così piena di voce
sembrò essersi
prosciugata, annodata su se stessa, così come la sua mente
che riusciva solo a
pensare alla bambina e alla paura che provava.
Vide
quell’Itachi farsi più vicino, confuso forse tanto
quanto lei ma deciso a
trovare una risposta, a non lasciarsi sopraffare
dall’assurdità della
situazione.
“Bene, vedo che
vi siete già trovati, meglio così”
I due si
girarono di scatto nella direzione da cui sembrava che provenisse la
voce, ma
non videro nulla, si voltarono anche dall’altra parte,
trovando solo una
distesa di nero ininterrotta. Karin d’istinto
piegò la testa all’indietro, con
gli occhiali che le scivolarono lungo il naso, e vide uno scheletro
penzolare
sopra di loro.
“Ma sei scemo o
cosa? Farmi prendere uno spavento simile? Vieni giù e
facciamo i conti!”
La sua voce
risuonò più agguerrita e sicura grazie alla
carica di rabbia, mentre il viso di
Itachi si fece più pallido e sconcertato.
“U-uno
scheletro… e parla – balbettò dopo
qualche istante di silenzio – deve essere un
sogno. Mi devo essere addormentato sul divano senza
accorgermene”
Karin stava per
domandargli che diavolo stesse blaterando, perché sembrasse
quasi terrorizzato: anche per lei
era la prima
volta con uno scheletro parlante, ma nel loro mondo, con tutta quella
magia,
non si poteva veramente rimanere sorpresi dalle stranezze. Non
riuscì però a
dare fiato alla sua proverbiale boccaccia – come la chiamava
Suigetsu – perché
quel mucchietto d’ossa calò tra di loro ed
entrambi poterono osservare tra le
sue coste un fiore bianco con la testa rivolta verso il basso. Karin
sapeva che
tre petali più grandi ne nascondevano tre più
piccoli macchiati di verde,
Itachi invece non aveva mai visto un bucaneve e per un attimo lo
fissò,
affascinato e dimentico della situazione in cui si trovava.
Non erano stati
solo gli uccelli a estinguersi nel suo mondo, anche la natura era stata
in
qualche modo ridimensionata, salvaguardando solo le specie strettamente
necessarie per la sopravvivenza e nulla più;
L’Ufficio Di Controllo controllava
davvero tutte le forme di vita.
Un cilindro
stretto e alto dall’aria vezzosa era poggiato sul cranio
nudo, ma non c’era
altro a decorare quello scheletro che sembrava parlare, espirare parole
attraverso dei polmoni e una gola inesistenti.
“Sono sceso,
vogliamo fare questi conti allora? Tra l’altro dobbiamo
sbrigarci, la nostra
finestra temporale è breve, ma forse, in fondo, nemmeno una
più lunga sarebbe
bastata per rispondere al milione di domande che avete in
mente”
Nonostante non
fosse dotato di palpebre o muscoli in grado di tendersi,
sembrò comunque che
avesse strizzato un occhio con fare sornione ai due presenti che
continuarono a
rimanere immobili e muti.
“Oh beh, che non
mi si dica che sono un maleducato coi miei ospiti!”
Dal nulla
spuntarono delle poltrone dietro alle loro gambe e Karin fece un mezze
urletto
quando si sentì cadere all’improvviso sul cuscino
soffice.
“Ben arrivati
miei cari, accomodatevi e sentitevi benvenuti nel… beh, come
dire? – una
falange grattò contro una tempia, spostando appena la tuba
– Benvenuti nella
mia dimensione, ho già detto che abbiamo poco tempo? Non vi
annoierò coi
dettagli inutili”
“Dettagli
inutili? Ero in ospedale, mi stavo sciacquando la faccia e
all’improvviso sono
qui, ti sembra un dettaglio?” urlò Karin,
inviperita, lanciandogli addosso un
cuscino che però scomparve senza mai colpire il misterioso
padrone di casa, se
così si poteva definire.
“Lo sapevo che
non sarebbe stato semplice. A volte mi chiedo perché mi
impiccio ancora nelle
vostre faccende – sospirò lo scheletro, sollevando
e abbassando le spalle
ossute come se avesse respirato davvero – visto che sembri
smaniare per delle
spiegazioni cercherò di darvene qualcuna. Tu invece sei
meraviglioso, Itachi:
silenzioso, diligente e calmo, ma in fondo lo sapevo già. In
qualche altro
mondo sei un po’ più ribelle, ma in fondo tu sei
sempre tu. Vale anche per te,
Karin”
Fissare le sue
orbite vuote, riempite dello stesso nero che li circondava, la
zittì, facendole
provare un serpeggiante senso di inquietudine, così rimase
ad ascoltare,
attenta; era rumorosa, non stupida.
“Sembri
conoscerci a quanto pare. E anche tu – disse Itachi rivolto
alla ragazza dai
capelli e gli occhi di fuoco – io invece non conosco nessuno
dei due; in verità
sono ancora convinto di trovarmi in un sogno”
Lo scheletro
sventolò in aria una mano dalle lunghe dita, come a
scacciare via quelle parole
ed entrambi i ragazzi realizzarono di non sentire nessun rumore quando
si
muoveva, non c’era quell’acciottolio che gli
scheletri facevano sempre nei film
dell’orrore; pareva quasi che non esistesse realmente in
forma corporea.
“Nessun sogno, è
la realtà – lo corresse – inusuale, ve
lo concedo, ma è la realtà. Come ho
detto, il tempo stringe e se qualcuno dei miei… colleghi dovesse scoprire quello che sto
combinando sarei nei guai,
ma in un certo senso ho un’anima romantica e non ho resistito
a impicciarmi.
Posso iniziare?”
Si voltò di
nuovo verso Karin che si morse le labbra, evidentemente pronta a
sciorinare
un’altra serie di insulti o forse di domande; Suigetsu
avrebbe scommesso su un
mix di entrambi.
La tuba si
inclinò un po’ di più sul cranio
lucente ma non scivolò, rimase adesa, così
come il bucaneve che era sospeso tra due coste, dove avrebbe dovuto
esserci il
cuore.
“Esiste più di
un mondo, più di una realtà
dell’esistenza così come la conoscete. Ognuna
è
diversa da un’altra, a volte di poco, a volte le differenze
sono così grandi e
innumerevoli che non basterebbe una giornata per elencarle e questo
è il vostro
caso – li indicò con gli indici di entrambe le
mani – una cosa rimane però
uguale: le persone. C’è una copia di voi stessi in
ognuno di questi mondi,
anche se non condividete lo stesso destino, perché
ovviamente quello dipende
dalle scelte personali e non. Insomma se una macchina o un carro di
buoi vi
investe non è che potevate fare molto per prevederlo, vi
pare? Tra l’altro,
questo discorso ti suona familiare, Itachi?”
Il ragazzo parve
volersi fondere con la poltrona tanto sentì i muscoli
tremargli, diventare
incapaci di sostenerlo, privi di forza. Su scala molto più
piccola aveva fatto
delle ipotesi simili quel pomeriggio assieme a Shisui, dopo essere
stati al
crematorio a osservare il corpo di Sasuke divenire cenere incorporea.
Cos’altro sapeva
quell’essere? Poteva leggere anche dentro di loro, violare il
pensiero, l’unico
territorio che Itachi aveva creduto sacro e inviolabile?
“Sì, altrimenti
nessuno di noi tre sarebbe qui”
Karin fece una
faccia strana non comprendendo quell’ultima frase enigmatica
dello scheletro,
ma intuì che dovesse avere un significato per Itachi, dato
che lo vide portarsi
una mano al petto e posarla lì, tremante vessillo.
Non capì, ma
iniziava a intuire qualcosa e a credere che non fosse un sogno, ma che
quel momento,
immersi nel nero, fosse reale anche se fuori dallo spazio e dal tempo,
almeno
secondo i canoni con cui il cervello umano si relazionava a quei
concetti.
“Siamo qui per
un motivo, quindi – dedusse, per poi mordersi un labbro
– è per Sasuke, vero? Tu
puoi…”
Non riuscì a
completare la frase per il fiotto di felicità che
all’improvviso la pervase,
tuttavia un attimo dopo si diede dell’idiota: se lo scheletro
avesse potuto
salvarlo, lo avrebbe già fatto senza trascinarla
lì o chiamare quell’Itachi da
un altro mondo.
“Sei sempre così
acuta, una dei miei umani preferiti, Karin – rise lo
scheletro carezzando lieve
il bucaneve e a lei sembrò che le sfiorasse il cuore
– nel mondo di questo
Itachi Sasuke è morto da pochissimo, nel mondo di questa
Karin invece Sasuke è
in fin di vita, senza alcuna speranza. Non dalla scienza o dalla magia
perlomeno… giusto, mia cara?”
“Magia? Sasuke?”
domandò Itachi.
Stentava a
realizzare che potesse esistere qualcosa a cui nemmeno i bambini
credevano, ma
soprattutto che il fratello fosse in pericolo anche in una
realtà diversa dalla
sua. Doveva avere della sfiga cosmica attaccata alla suola delle scarpe.
Karin invece si
alzò in piedi e si avvicinò allo scheletro con
aria minacciosa, tremando per la
rabbia e la frustrazione. Diede un calcio alla poltrona, ma il
mucchietto
d’ossa non si scompose, non ci fu nessun rumore, nemmeno la
tuba si spostò di
un millimetro.
“Bastardo –
sibilò, chinandosi col busto per avvicinarsi al suo volto,
ostacolata solo dal
pancione – sai cosa stavo per sacrificare, quindi smettila di
prendermi per il
culo. Dici che abbiamo poco tempo, ma a me sembra che tu te ne stia
prendendo a
sufficienza per divertirti, finora non ho sentito ancora nessuna
spiegazione,
solo fumo negli occhi”
A Itachi sembrò
che l’ombra delle fiamme si sprigionasse dal suo corpo, che i
capelli si
attorcigliassero su di loro, sollevandosi, mutando, prendendo la forma
di…
piume.
“Cosa sta
succedendo a Sasuke e perché io non sto facendo niente nel
mio mondo, al
contrario tuo?” domandò alzandosi in piedi di
scatto. I suoi occhi scuri la
squadrarono in cerca di risposte e di altre stranezze, ma lei sembrava
di nuovo
normale; se poteva dirsi normale avere le iridi rosse.
Karin si voltò a
guardarlo, raddrizzando la schiena. Lo scheletro non parlava e fu certa
che non
lo avrebbe fatto, lasciando a lei quell’incombenza.
“Sei morto
assieme ai tuoi genitori quando Sasuke aveva solo dieci anni.
È stato cresciuto
assieme ad altri orfani del clan piumato, ma non ha mai legato davvero
con
nessuno, io ero una vostra vicina di casa prima
dell’incidente e, anche dopo,
sono stata l’unica che Sasuke lasciava avvicinare, ma ammetto
che a volte non è
stato facile nemmeno per me”
Itachi appoggiò
una mano sul bracciolo della poltrona in cerca di stabilità:
faceva un certo
effetto venire a conoscenza della propria morte, anche se in un
universo
parallelo. Sentì una stretta al cuore al pensiero del
fratello cresciuto da
solo, probabilmente ombroso e tormentato, diverso dal proprio Sasuke
pieno di
vita ed energia nonostante la malattia e una società che lo
rifiutava.
Karin gli diede
qualche secondo per assorbire le notizie, ma riprese a parlare veloce,
se era
vero che avevano poco tempo e c’era una
possibilità di salvare Sasuke non
l’avrebbe sprecata.
Gli raccontò di come
il loro mondo fosse governato dalla magia che coesisteva con la scienza
visto
che non tutte le persone ne erano dotate, gli stregoni inoltre erano
divisi in clan
a seconda della razza di animali in cui si trasformavano. A quella
notizia lo
vide spalancare gli occhi, meravigliato, e così, nonostante
la fretta, si prese
del tempo per raccontargli qualcosa in più.
“Sasuke è un
falco, io sono una fenice. Non è vero che muoio e rinasco,
ma le piume sono
rosse e dorate e sono abbastanza rara persino nel mio mondo. Io e
Sasuke
abbiamo passato tanto tempo a volare assieme in cielo,
perché non c’era bisogno
di parlare, stare vicini bastava e il vento tra le piume sembrava
strapparci
via le preoccupazioni. Sasuke… era così felice
quando volava, ma ormai è malato
e non lo fa più da tempo”
Detto ciò,
tacque, disinteressandosi di Itachi e delle sue difficoltà
nell’elaborare
quelle informazioni. Si rivolse allo scheletro che giaceva sulla
poltrona, con
una gamba accavallata sull’altra e il mento appoggiato sulla
punta delle dita
intrecciate tra loro.
“Allora, perché
siamo qui?”
“Devi prima
finire di raccontare la storia, così non basta, Karin. E tu
vuoi salvare il tuo
primo amore, vero?”
La donna contrasse
la mandibola sentendo i denti scricchiolare per la tensione, non
c’era
espressione su quelle ossa color avorio, ma lei era certa che
quell’essere si
stesse divertendo nel tormentarli, tuttavia non poteva sottrarsi, in
fondo era
vero che voleva salvare il ragazzo a cui aveva dato il suo cuore senza
che lo
chiedesse.
“Quindi questo
bambino...?”
“No, non è di
Sasuke, ed è una bambina – disse brusca,
interrompendo Itachi che la guardò
interrogativo – “Sasuke non mi ha mai vista a quel
modo, ero la sua famiglia,
una sorella potremmo dire, ma io ho continuato ad amarlo a modo mio,
anche se
ho trovato un altro uomo con cui…
insomma…”
Nonostante la
situazione paradossale, provava ancora imbarazzo nel parlare dei suoi
sentimenti per Suigetsu, così decise di tagliare corto e
arrivare al nocciolo
della questione. “Lui fa parte di un altro clan, si trasforma
in squalo. In
pratica è impossibile per due persone di clan diversi avere
un figlio, ma a noi
è successo; siamo una rarità. Tutti dicono che
è accaduto perché io sono una
fenice, un animale antico, dotato di uno speciale potere magico,
infatti io… –
fece un respiro profondo – le mie lacrime sono capaci di
curare le ferite”
Itachi fece un
paio di passi in avanti in modo istintivo per avvicinarsi, la
afferrò per le
braccia, sentendola reale e non un’illusione.
All’improvviso la meraviglia e lo
stupore nel sentire raccontare di animali visti solo sui libri e di
mondi
paralleli vennero spazzati via da un sentimento molto più
forte: la speranza
che almeno in qualche universo suo fratello potesse essere vivo
e… felice.
“Allora puoi
curare Sasuke, dov’è il problema?” disse
incredulo che la faccenda non fosse
già risolta. Forse la magia non era poi questo
granché, gli suggerì la sua
mente scettica e votata alla razionalità.
“Idiota! – urlò
Karin divincolandosi dalla presa lieve – Pensi che non lo
avrei già fatto, se
avessi potuto? Non è sicuro che funzioni, le lacrime curano
tagli, ematomi,
ferite del genere, non ho mai nemmeno provato su qualcosa di
più grave. E poi
Sasuke si è ammalato quando ero già incinta, non
posso trasformarmi o perderò
il bambino! Io…”
Dagli occhi
coperti dalle lenti cominciarono a sgorgare lacrime lente, inutili
nella sua
forma umana, mentre lei si premeva un pugno contro la bocca per evitare
di
singhiozzare o forse di impedire che parole inutili uscissero fuori.
Era
impossibile spiegare come si sentisse lacerata al pensiero di perdere
Sasuke,
il suo primo amore, le sue radici, e quello di perdere il bambino, il
suo
futuro nonché miracolo personale; con lui avrebbe perduto
anche Suigetsu, il
proprio presente.
Itachi fece un
passo indietro per sottrarsi a quel torrente di sentimenti ed emozioni
a cui
non era abituato, si sentì a disagio di fronte alla sua
umanità espressa senza
alcuna vergogna; chissà se erano tutti come lei nel suo
mondo, si domandò.
Scosse la testa per allontanare quella considerazione inutile e si
concentrò
sulle informazioni ricevute, valutandone i pro e i contro con la sua
mente analitica.
“È un sacrificio
troppo grande, non puoi farlo. Sono certo che ami Sasuke e tieni a lui,
ma devi
pensare al tuo bambino, anche se non fosse stato la rarità
che è, avrebbe
comunque meritato la possibilità di nascere – fece
un sorriso, bellissimo ma malinconico
– sai, nel mio mondo le coppie non possono procreare
liberamente. C’è un
ufficio apposito che valuta quanti figli possono avere, poi preleva i
loro
ovuli e spermatozoi, sceglie i più idonei, crescendoli in
uteri artificiali.
Mio fratello è stato una rarità a suo modo: mia
madre rimase incinta e non
volle abortire a nessun costo, nonostante avesse il mondo intero
contro. Anche
se Sasuke è nato con una malattia cardiaca ed è
morto troppo giovane, nessuno
di noi ha rimpianto quella scelta, nemmeno lui. Forse il tuo Sasuke
è più
triste e schivo di quello che conoscevo io, ma se ognuno di noi rimane
comunque
se stesso come ha detto lo scheletro, allora sono certo che ti direbbe
di non
rischiare, di dare alla luce tuo figlio e offrirgli una
possibilità”
Concluso quel
lungo discorso per una persona così poco abituata a parlare
come era lui,
Itachi si prese un istante per guardare quel ventre sporgente,
immaginare la
pelle tesa e il cuore che batteva al riparo di un utero vivo.
Cacciò indietro
l’emozione che minacciava di travolgerlo e puntò
lo sguardo sullo scheletro che
sedeva ancora nella stessa posizione.
“Sì, è per
questo che sei qui” confermò quello.
“Mi sta bene, ma
ho bisogno che tu faccia una cosa per me” rispose Itachi.
L’essere annuì
con il cranio coperto dalla tuba e fece un gesto con la mano, facendo
apparire
un tavolino con sopra un bisturi, una penna e una lettera bianca.
Karin non
comprese quegli scambi di battute, trattenne a stento un grido quando
Itachi,
dopo aver scritto poche parole, si incise la spalla destra con la lama
affilata. Il sangue sgorgò, gli infradiciò le
dita, ma lui le infilò nel taglio
e ne tirò fuori un oggettino piccolo, quasi microscopico,
che lei non
riconobbe.
“Siete
impazziti? Cosa sta succedendo?” domandò,
osservandolo infilarlo nella busta
assieme alla lettera con le dita pulite, grazie allo scheletro che
aveva fatto
sparire il sangue e richiuso la ferita.
“È giusto così,
è questo il mio destino. Non preoccuparti, andrà
tutto bene” le assicurò
Itachi, sempre con quel suo sorriso bellissimo e malinconico.
“Di che parli?
Quale destino? Non sapevi niente fino a dieci minuti fa e ora blateri
di
destino!”
“È vero, ma in
fondo stavo aspettando qualcosa, sentivo che c’era qualcosa
in attesa, credevo
erroneamente di averlo compreso prima di venire qui, ma mi ero
sbagliato. In
questo modo posso rendere felici molte più persone,
di’ a Sasuke di sorridere e
volare in alto, sempre più in alto che
può”
A Karin non
piacquero quelle parole che sapevano tanto di addio e credette di
comprendere
cosa stava per accadere, ma tentò testardamente di negarlo
con se stessa. Aprì
la bocca per protestare, ma lo scheletro le posò la mano
ossuta sulla bocca e
lei rabbrividì nel sentirla calda e non gelida come aveva
immaginato.
“Basta così –
disse l’essere senza più traccia di scherno nella
voce fantasma – il tempo è
quasi scaduto e Itachi ha preso la decisione che tu non sei riuscita a
prendere
in questi mesi. Non fartene una colpa, era impossibile, ma adesso basta
così:
niente più domande e niente più risposte
perché sono inutili. Possiamo stare
qui a filosofeggiare su quanto tutto ciò è giusto
e ingiusto, puoi chiedere
perché proprio ora e posso parlare per giorni di
congiunzioni astrali, mondi
che collidono, coincidenze, destino e altro ancora, ma alla fine la
cosa che
conta è una e una sola: una vita per una vita”
“Penso che il
tuo mondo pieno di magia mi sarebbe piaciuto. Fa’ in modo che
la tua bambina lo
ami”
Le parole di
Itachi furono accompagnate da un sorriso, ma stavolta meno malinconico,
sereno
addirittura. Karin lo vide sciogliersi i capelli e sparire in un
bagliore di
luce, così come la lettera.
“Lui…” mormorò
dopo che lo scheletro si fu allontanato, dandole le spalle.
“Andrà tutto
bene, ora tornerai a casa anche tu” rispose quello,
voltandosi.
La ragazza vide
che nel suo petto, sospeso tra le coste come un cuore, non
c’era più il
bucaneve, simbolo di speranza, bensì un pennacchio rosso
simile a delle piume,
un fiore di amaranto a rappresentare la profondità e
l’immutabilità dei
sentimenti: non importava se si trattava di mondi diversi e lontani,
l’amore
rimaneva lo stesso, oltre il tempo e lo spazio.
“Andrà tutto
bene” mormorò chiudendo gli occhi con fiducia nel
proprio destino e una mano a
carezzarsi il ventre. Si vedeva a volare di nuovo assieme a Sasuke, ma
stavolta
con loro ci sarebbe stata anche sua figlia; sì, avrebbe
avuto una bambina dalle
piume di fuoco, anche lei avrebbe conosciuto la libertà dei
cieli. Karin le avrebbe
spiegato l’importanza di non sprecare il tempo e le occasioni
o, forse, sua
figlia sarebbe arrivata a comprenderlo da sola, come ogni uccello
capisce cosa
fare per librarsi tra le correnti e galleggiare nell’azzurro,
libero.
1. Atto di culto
rituale presente in tutte le tradizioni religiose, che implica
generalmente un
atteggiamento di sottomissione al sacro e il desiderio di stabilire un
rapporto
con esso; può comportare offerte di doni, cerimonie,
invocazioni, preghiere
2. fig. a. Grave
privazione o rinuncia, volontaria o imposta, a beni e
necessità elementari,
materiali o morali.
Sorrideva perché
quel giorno avrebbe visto Itachi e avrebbero parlato, a costo di
legarlo a una
sedia: non aveva più intenzione di tenersi dentro
ciò che aveva nascosto per
anni e al diavolo tutto quanto, cosa significava vivere senza poter
amare?
Come una
lampadina difettosa, il sorriso però si spense quando sul
tavolo della cucina
vide una lettera e riconobbe la grafia del cugino sulla busta.
Chiamò il
servitore per interrogarlo, ma l’androide non ne sapeva nulla
e anzi i suoi
circuiti iniziarono un rapido check-up: doveva esserci stato qualche
guasto se
una cosa del genere era passata inosservata al sistema.
Shisui se ne
disinteressò, poteva andare tutto a fuoco per quello che gli
importava. Osservò
la busta bianca, senza riuscire a decidere di toccarla: sentiva un
brutto
presentimento torcergli lo stomaco e la certezza che la sua vita
sarebbe stata sconvolta
da ciò che avrebbe letto.
“Oh, al diavolo!
Tanto è già cambiato tutto!”
esclamò afferrandola.
Sentì qualcosa
muoversi al suo interno e, quando la aprì, la
inclinò per farsi scivolare sul
palmo un piccolo microchip, simile a quello che Itachi aveva stretto
tra le
proprie mani il giorno prima, eppure in qualche modo seppe che non si
trattava
dello stesso.
Gli sfuggì un singulto
dalla gola e il labbro inferiore tremò quando lesse le poche
righe
nell’inconfondibile calligrafia che conosceva tanto bene.
Sono
saltato nel nero per andare incontro al mio
destino, ma non ho paura. Sono felice, Shisui.
Trova qualcun altro da amare, ma stavolta diglielo,
non fare lo stesso sbaglio due volte: non rimanere mai più
in silenzio come
abbiamo fatto noi. Siamo stati due sciocchi, vero?
Ci rincontreremo in qualche nuova esistenza e saremo
insieme.
È il nostro destino.
Non c’era nessuna
firma, né altre parole più
illuminanti, ma Shisui in fondo non ne aveva bisogno: Itachi aveva
trovato la
sua strada ed era felice, tanto gli bastava. Sarebbe andato avanti con
la
speranza di rincontrarlo in un’altra esistenza; non dubitava
delle sue parole,
se Itachi diceva che sarebbero stati insieme sarebbe successo.
Ciò però non gli impedì di posare sul
tavolo la lettera
e il prezioso microchip, le uniche cose tangibili che gli rimanessero
di
Itachi. Si sedette, prendendosi la faccia tra le mani ora libere.
Pianse perché il futuro era ancora lontano, il
presente e la consapevolezza del tempo perduto,
dell’impossibilità di rimediare
invece erano lì, dentro al suo petto.
Le definizioni
a
inizio di ogni scena sono prese dal dizionario della treccani, quindi
ci sono
abbreviazioni e accenti che usualmente non vengono usati nello scrivere
comune,
ma non ho voluto cambiarli per mantenere il tutto simile alla
definizione del
dizionario.
L’ispirazione
per questa storie viene da svariate fonti: Fringe su tutte, uno dei
telefilm
più emozionanti che abbia mai visto, ma anche la serie de La
torre nera di
Sthephen King e il film Gattaga hanno avuto la loro importanza, grazie
netfilx
per averlo messo sul catalogo XD il titolo della OS non è
riferito alla canzone
di Neil Young, bensì al modo usato dai soldati americani in
Vietnam per
descrivere la discesa nei tunnel, cioè via dal blu del cielo
e giù nel buio,
via da quello che conosci e un salto nel vuoto; in sostanza
è ciò che volevo
trasmettere con questa storia tra le varie cose. Black echo
è un altro termine
collegato a questo salto nel buio.
Che altro
dire? Mi
piacerebbe scrivere di amori coronati e roba bella, ma ho proprio
l’animo
votato alla tragedia! Nella storia ho cercato di infondere il
significato del
tarocco a tutta la situazione, anche se ho cercato di dare a Itachi
più
caratteristiche positive e a Karin quelle negative, come i due poli di
una
batteria o le due facce di una medaglia. L’idea dello
scheletro parlante è forse
un cliché, però mi piaceva vederlo nelle vesti di
questo deus ex machina che
interviene a salvare la situazione. Chi è in
realtà? La morte? Un dio? Un
demone? Non ho approfondito la questione e l’ho lasciata un
po’ in sospeso, in
modo che il lettore stesso trovasse una risposta.
Spero che la
storia vi sia piaciuta e vi abbia lasciato qualcosa e no, non intendo
la
domanda “Ma che cacchio di schifezza ho letto?”