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Autore: Sunako_7    12/12/2018    1 recensioni
Delle volte si crede di essere davanti a un vicolo cieco, di non avere una via d’uscita dai problemi o, al contrario, che la soluzione richieda un prezzo da pagare troppo alto. Si crede che la vita non sia altro che chinare la testa e seguire un percorso preimpostato, oppure delle volte la libertà di scegliere è un fardello più pesante di ciò che si crede.
Itachi e Karin, due facce diverse di una medaglia in cui amore, disperazione e destino sono fusi da una mano invisibile.
[Questa storia ha partecipato al contest di Halloween indetto sul gruppo SasuNaru fanfiction Italia]
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Itachi, Karin, Shisui Uchiha, Suigetsu | Coppie: Karin/Suigetsu
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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All magic comes with a price.
(Rumpelstiltskin)

 

Out of the blue and into the dark

 

 

 

freddézza s. f.
1. Qualità, condizione di ciò che è freddo: la f. della temperatura; la f. delle acque di un fiume.
2. Fig., capacità di dominare i propri nervi e sentimenti, impassibilità, autocontrollo: f. di carattere, di temperamento; mancanza di calore; indifferenza gelida.

 

La temperatura della stanza era impostata sui ventidue gradi con una bassa percentuale d’umidità, l’illuminazione bilanciava la scarsa luce proveniente dalla finestra e, in generale, tutti i sistemi erano mantenuti al livello ottimale dal sofisticato sistema elettronico di controllo.
Itachi Uchiha non badava a niente di tutto ciò, fin dall’infanzia era abituato a essere circondato dalla tecnologia e da servitori dalle forme bizzarre, lontane da quelle del corpo umano ma adattate alle funzioni preposte. Non era però l’unico motivo per la sua poca attenzione: il suo sguardo era fisso allo specchio, intento a osservare le proprie mani impegnate nell’allacciare la cravatta. Un gesto banale che richiedeva pochi secondi, eppure per qualche motivo quel giorno era terribilmente difficile. Avrebbe potuto chiamare un androide che avrebbe risolto il problema in un battito di ciglia, ma testardamente aveva deciso di fare da sé; il funerale di suo fratello Sasuke richiedeva almeno quello sforzo, rifletté.
Guardava le sue dita lunghe e pallide contro la seta nera, solitamente erano eleganti e precise, ma in quel momento parevano goffe, incerte, come se davvero annodare della stoffa fosse un’impresa titanica.
Stizzito, Itachi si sfilò del tutto la cravatta dal colletto e la gettò a terra, calpestandola col piede nudo. Vide il suo maggiordomo meccanico avanzare senza rumore, sollevato dal pavimento di qualche millimetro grazie a un leggero campo magnetico, ma lo bloccò con un cenno della mano, facendolo tornare in un angolo della stanza. Si chinò lui stesso a raccogliere la cravatta e la tenne tra le mani, fissandola.
“Questo non è da me” sussurrò senza ricevere nessuna risposta, se si escludevano i rumori ovattati del condizionatore e delle altre apparecchiature.
Si stropicciò gli occhi e si voltò di nuovo verso lo specchio. Stavolta osservò il suo viso ovale, gli zigomi affilati, le ombre scure sotto le palpebre che sembravano creare dei solchi, infine le proprie iridi nere che in quel momento parevano riflettere il vuoto. Appoggiò una mano sulla superficie liscia e fredda, come carezzando il proprio volto riflesso, lo fissò con intensità fino a vedere dei piccoli flash danzargli sulla retina, ma anche allora continuò.
Vide uno scheletro fluttuare su uno sfondo scuro.
Fu questione di un battito di ciglia, non di più, ed era sparito.
Itachi scosse la testa e si stropicciò nuovamente le palpebre, ma quella volta vide solo il suo viso stanco sopra una camicia bianca dal colletto disadorno. Si mise la cravatta mettendoci pochi istanti per fare un nodo perfetto, per poi uscire dalla stanza senza gettare una seconda occhiata allo specchio e a quello che avrebbe potuto riflettere.
Le luci artificiali si spensero quando varcò la soglia e il sistema entrò in stand-by fino al suo ritorno, un respiro trattenuto in polmoni d’acciaio e fili elettrici.

 

 

negazióne s. f. [dal lat. negatio -onis]
1. L’atto del negare, e l’espressione con cui si nega (il contrario di affermazione)
2. In psicanalisi, meccanismo di difesa attraverso il quale il soggetto si oppone alla percezione cosciente di pensieri o desideri proibiti negando che questi gli appartengano

 

L’automobile si fermò dolcemente contro il ciglio del marciapiede e il motore silenzioso si spense. Shisui Uchiha guardò suo cugino Itachi seduto al proprio fianco, ma ancora non disse nulla. Nemmeno durante il viaggio avevano aperto bocca, non perché la guida fosse stata impegnativa – tutto il sistema stradale era automatizzato, bastava salire a bordo e nominare l’indirizzo – ma perché quella volta nemmeno lui trovava qualche frase da dire, nemmeno una sbagliata.
Itachi continuava a rigirare tra le dita lunghe un piccolo chip che fino a un’ora prima era stato seppellito sotto le pelle di Sasuke. Ogni persona ne aveva uno dietro la spalla destra, veniva impiantato alla nascita, aveva un codice unico e con esso si accedeva agli account personali, alla propria macchina, abitazione o ogni altro ritrovato tecnologico della loro era. Quel microchip in particolare era stato disattivato al momento della morte di Sasuke, non avrebbe aperto più nulla, né fatto avviare alcun macchinario, ma Itachi aveva chiesto agli addetti del crematorio di rimuoverlo: voleva avere almeno qualcosa del fratello. Come da prassi le sue ceneri non sarebbero state restituite alla famiglia, bensì sarebbero state smaltite come rifiuti speciali; era stato persino inusuale che qualche parente fosse presente alla cremazione in realtà.
Shisui guardò fuori dal finestrino la lunga fila di automobili parcheggiate e non biasimò il cugino se si attardava ancora un po’ in macchina, nemmeno lui moriva dalla voglia di entrare in una casa dove il proprio fratello non avrebbe più potuto mettere piede e trovarla invece invasa di familiari e altra gente.
D’istinto allungò un braccio e sistemò dietro l’orecchio di Itachi una ciocca di capelli più corta e sfuggita dall’elastico; a quel modo sentì i fili scorrergli tra le dita come seta, nonché la pelle liscia che sfiorò appena. Il cugino piegò inconsapevolmente il collo, come per agevolarlo, e lui si ritrovò a indugiare qualche secondo più del dovuto in quel contatto.
“Abbiamo fatto bene ad andare al crematorio, a Sasuke sarebbe piaciuto vederci infrangere qualche regola” disse abbassando il braccio.
Finalmente il fantasma di un sorriso comparve sulle labbra di Itachi.
“Già, in fondo lui era l’emblema dell’infrangere le regole, no? Un figlio della libertà”
Poggiò la nuca contro il morbido poggiatesta e alzò lo sguardo verso il tettuccio in vetro trasparente, forse con la speranza di vedere qualche uccello librarsi nel cielo; peccato che fossero estinti da tempo e nel loro mondo solo gli aeroplani fossero i padroni delle nuvole.
“Già” convenne Shisui. In quell’unica sillaba riuscì in qualche modo a condensare rimpianto, malinconia e una punta di amarezza, tuttavia non diede tempo a quei sentimenti di sedimentare perché diede una pacca rumorosa sulla coscia del cugino e, con voce allegra, aggiunse “Andiamo a infrangere qualche altra regola, mi sento in giornata!”
Itachi lo guardò con stupore non tanto per le parole, forse quanto per quel contatto fisico, per quelle dita che erano ancora sui suoi pantaloni e di cui poteva sentire il tepore attraverso la stoffa. Trovava sempre incredibile il calore di un altro tocco umano, in contrasto col mondo sterile e preconfezionato in cui vivevano.
“Andiamo allora, non facciamoci sfuggire questa rara congiunzione astrale” scherzò, poggiando la propria mano su quella dell’altro. Le sue dita erano fredde, eppure Shisui non si scostò ma rimase qualche istante a guardarlo con un sorriso morbido prima di interrompere quel contatto e uscire dalla macchina.
Il fievole sorriso di Itachi morì di nuovo quando si fermò sul marciapiede fissando in lontananza La Torre, lo scrigno protettivo del cuore pulsante della loro società: L’Ufficio Di Controllo; un nome banale e poco pretenzioso a dispetto di quello che faceva. La Torre in realtà non aveva la forma di una torre, bensì era solo un palazzo, nemmeno troppo alto. Sul suo tetto erano stipate decine di parabole, ricevitori e antenne dalla forma bizzarra, alcune di esse si allungavano in alto e poi curvavano in basso, sembrava si stessero gettando nel vuoto senza alcun paracadute. Le pareti erano tappezzate da finestre specchiate, tuttavia il cemento in cui erano affondate appariva talmente pesante, opaco e greve da soffocare la luce che riflettevano, donando alla costruzione un’aria di grigia desolazione impossibile da scrollarsi di dosso.
Itachi lo trovava un connubio perfetto per quello che, a conti fatti, era il luogo dove venivano decisi i loro destini senza possibilità di scampo, dove la speranza veniva uccisa ancora prima di nascere.
“Sì, siamo nati tutti là in un certo senso”
La voce di Shisui lo fece sobbalzare perché sembrava avergli letto nel pensiero; quanto di quello che nascondeva nella scatola cranica Itachi riusciva davvero a tenergli nascosto?
“Ci pensi mai? – gli chiese – Cosa sarebbe potuto succedere se fossi nato per sbaglio come Sasuke? Se le nostre nascite fossero dominate dal caso come nei secoli passati. Io esisterei? Tu? Chi ci sarebbe su questa Terra… o ci sarebbe ancora la razza umana?”
Si passò una mano sul viso come a lavare via quei pensieri pericolosi e aggiunse “Lascia stare, sto farneticando”
“Scherzi? È un discorso affascinante! – esclamò Shisui per poi assumere un aria meditabonda – Dando per scontata la presenza del genere umano, credo che ci sarebbe molto più caos e incertezza rispetto alle vite preimpostate che conduciamo e sinceramente non so dire se ciò sarebbe un male, a differenza di quanto dice la propaganda. Non so immaginare se io o te ci saremmo lo stesso, ma so che ci divertiremmo e magari… magari potremmo innamorarci di chiunque desideriamo”
Il suo sguardo malinconico sembrò scavare un buco nel petto di Itachi che però non mostrò quell’espressione sul viso o in altro modo, anche se avrebbe voluto portarsi una mano alla gola, massaggiandosela per lasciar passare meglio l’aria che sembrava non voler andare nei polmoni.
Cosa sarebbe successo se non fosse esistito L’Ufficio Di Controllo a decidere quali famiglie potessero avere dei figli e quanti, a scegliere attraverso l’analisi genetica quali embrioni far sviluppare in uteri artificiali, quali lavori avrebbe svolto una persona in base a delle analisi fatte ancor prima della sua nascita? Cosa sarebbe successo se tutti loro avessero potuto nascere come Sasuke, a seguito di un atto di amore non controllato, un errore? Un evento non previsto che però Mikoto e Fugaku avevano amato, difendendo la loro scelta con le unghie e con i denti fino alla morte del loro figlio speciale che aveva avuto una vita breve, divorato da una malattia cardiaca; eppure, forse, era stato più felice di tutti loro che vivevano lunghe esistenze grazie al DNA accuratamente scelto.
Nella morte precoce di Sasuke tutti avevano visto la conferma della giustezza del sistema, non Itachi che vi aveva scorto la stessa libertà con cui il ragazzo era venuto al mondo e che gli aveva sempre invidiato segretamente.
“L’amore è sopravvalutato, Shisui” rispose, rendendosi conto di essere stato in silenzio anche troppo a lungo.
Il cugino però scosse la testa dai corti capelli mossi e rise, posandogli una mano sulla spalla.
“L’amore è l’unica variabile impazzita che ci è rimasta. Ancora non ci hanno detto chi amare o chi sposare, possono scegliere quanti figli avrò, se saranno femmine o maschi, se i loro occhi saranno neri come i miei o magari come quelli della madre, fino a che età potranno vivere o per quale professione saranno portati a seconda delle necessità della società, ma non mi toglieranno l’unica libertà che mi è rimasta. Io e solo io scelgo chi amare, non dimenticartelo”
Il buco nel petto di Itachi si allargò e lui vi finì dentro, eppure non aveva paura, sentiva di non essere solo in quella discesa verso l’ignoto.
Shisui aveva ragione: anche lui era libero. Aveva amato suo fratello, amava i genitori e forse, se quegli occhi scuri che lo fissavano non lo stavano ingannando, avrebbe potuto…
“Itachi! Shisui!”
I due ragazzi si riscossero, rendendosi conto di essersi isolati dal resto del mondo; peccato che avessero scelto di farlo su un marciapiede, a pochi passi dall’ingresso della casa piena di parenti e gente varia accorsa per la commemorazione di Sasuke.
Itachi si allontanò di qualche passo dal cugino, abbassando lo sguardo con fare colpevole. Fece un cenno alla zia che li aveva chiamati, si affrettò a raggiungerla e a stare al fianco dei genitori che avevano più che mai bisogno di lui, anche se era solo un figlio perfetto, non scelto dal destino.
 

 

 
frustrazióne s. f. [dal lat. frustratio -onis «delusione»]
1. Sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia stato o sia vano: provare un senso di frustrazione. 2. In psicologia, condizione di tensione psichica determinata da un mancato o ostacolato appagamento di un bisogno; può avere cause esterne (per es., un’educazione troppo autoritaria), o interne (per es., presenza di due bisogni di uguale intensità ma di opposta direzione o comunque incompatibili)

 

 La quiete mattutina non era destinata a durare e non per colpa della sveglia. Ben più acuta di un trillo, si elevò la voce di Karin, tanto che Suigetsu sprofondò anche con la testa nella vasca da bagno, pur sapendo che era un gesto inutile. Distorta dall’acqua, vide l’immagine della sua donna sporgersi oltre il bordo, con le punte dei capelli rossi che si bagnarono inevitabilmente. Le fece un sorriso che doveva risultare furbo, ma agli occhi di lei sembrò solo idiota nonché irritante, tanto che immerse le braccia per afferrarlo per le spalle e tirarlo fuori in modo da urlargli direttamente nelle orecchie.
“Ti ammazzo razza di squalo sottosviluppato!”
“Cosa? Cos’è stavolta? Ho lasciato le mutande sporche per terra, un cucchiaio era fuori posto? Cosa c’è stamattina, Karin?”
Non stava urlando, ma la sua voce era comunque alta, con un vago sentore di esasperazione. Fin dal primo momento in cui si erano conosciuti, si erano punzecchiati e avevano battibeccato, ma quello che succedeva da qualche mese a quella parte era su tutt’altro livello. Lo sguardo di Suigetsu cadde sul ventre arrotondato della compagna, così lasciò che lo ricoprisse di insulti senza ribattere o sottrarsi alla presa delle sue mani. Ancora un po’ di pazienza e gli ormoni avrebbero smesso di farla diventare ancora più pazza di quello che era, doveva solo essere paziente, si ripeteva ogni giorno.
Quando sembrò che avesse esaurito le parole – si trattava più probabilmente solo del fiato nei polmoni – si guardarono per un lungo, silenzioso istante.
“Ti senti meglio ora?” domandò Suigetsu, per poi alzarsi in piedi e uscire dalla vasca, sgocciolando sul tappeto.
“Muori, idiota!” esalò Karin uscendo di gran corsa dal bagno, con le guance accese dalla rabbia e un nodo in gola.
Si rifugiò su una poltrona del salotto, tirando su le gambe e cercando inutilmente di rannicchiarsi, ostacolata dal pancione della gravidanza. Lo fissò con astio e fu così che la trovò Suigetsu quando entrò nella stanza vestito e con uno zaino in spalla, pronto a uscire per andare a lavoro. Si avvicinò alla compagna, ma lei rifiutò testardamente di alzare la testa per guardarlo.
“Ci vediamo stasera, bada alla piccola e non stancarti troppo quando uscirai”
“L’unica cosa stupida che potrei fare sarebbe andarmene col primo che incontro, ma nel mio caso sarebbe una decisione saggia!”
Il mento era sollevato e i suoi occhi rossi sembravano veramente fiammeggianti, tanta era la rabbia che covava dentro di sé.
Suigetsu allontanò di scatto il braccio con cui stava per farle una carezza sulla testa, forse per paura di rimanere scottato se l’avesse sfiorata; non era un’ipotesi tanto stramba.
“Sei proprio una strega!”
“E tu un genio, visto che la maggior parte delle persone usa la magia. Sei uno stregone da quattro soldi, infatti ti trasformi in uno squaletto sfigato, utile solo per fare una zuppa!”
Suigetsu si morse un labbro coi denti affilati ma, invece di rispondere, riprese lo zaino in mano e uscì di casa. Quella mattina Karin sembrava più arrabbiata del solito e rischiavano di passare tutto il giorno a litigare, inoltre sapeva che, sottraendosi a quel loro schema consolidato di insulti e frecciate, l’avrebbe irritata di più che se fosse rimasto lì. Sperava solo che la loro bambina non assorbisse l’acidità della madre attraverso il cordone ombelicale, in quel caso sarebbe stato davvero fregato a dover avere a che fare con due donne che amava ma che sapevano rapportarsi ai sentimenti solo in quel modo contorto.
Una volta rimasta sola, Karin si alzò dalla poltrona e in camera da letto rovesciò il contenuto dei cassetti del compagno per tutta la stanza. Passeggiò avanti e indietro sulla sua maglietta preferita, lanciò i calzini sulla cima dell’armadio, si fermò solo quando trovò una tutina da neonato con il cappuccio a forma di testa di squalo che non aveva mai visto prima.

Una stupida testa da squalo, si disse nella sua testa mentre si sedeva, esausta, su uno sgabello di fronte a un’elegante specchiera dove c’erano le sue creme e costosi cosmetici. Si sentì immensamente triste, sgonfiata da tutta la rabbia, così posò la tutina sul ripiano assieme ai propri occhiali dalla montatura spessa e si prese il viso tra le mani, singhiozzando sommessamente. Udì quei rumori attutiti riverberare nella stanza vuota e li detestò, detestando se stessa e la propria inutilità. Non avrebbe potuto sentirsi meglio nemmeno litigando un mese intero con Suigetsu, perché il problema che la rodeva da dentro non sarebbe sparito così facilmente: aveva bisogno di una soluzione immediata, non avrebbe aspettato altri tre mesi che lei scodellasse la marmocchia. Ora o mai; era semplice, ma non lo era affatto.
Prese un fazzoletto dalla scatola poggiata sul ripiano e si asciugò gli occhi che ora facevano davvero impressione: non era rossa solo l’iride, ma anche il resto. Pianse ancora perché Suigetsu, in un raro slancio di dolcezza, le aveva confessato che gli piacevano i suoi occhi simili a rubini, come gocce di sangue cristallizzato e lei invece da mesi rimuginava di fare qualcosa che avrebbe distrutto l’uomo con cui stava per avere una bambina, lo stesso che aveva comprato quella stupida tutina per farle una sorpresa.
“Cosa devo fare?” domandò alla se stessa riflessa nello specchio.
L’immagine era nebulosa senza i suoi occhiali, ma riusciva a vedere a sufficienza, quel tanto che bastò per farle sbarrare lo sguardo e inforcare gli occhiali di tutta fretta, ma era tardi. Lo scheletro che aveva visto ondeggiare nello specchio non c’era più, se mai c’era stato.
Inspirò a fondo per calmarsi e riflettere: nel loro mondo popolato da magia le stranezze erano all’ordine del giorno, ma quello doveva essere stato solo uno scherzo giocato dai suoi occhi irritati.
Sbuffando si diresse in bagno, accantonando quanto appena successo in un angolo remoto della mente: c’erano questioni ben più importanti da affrontare. Sasuke la aspettava in ospedale e lei era già in ritardo per colpa di Suigetsu.

 

 

 risoluzióne s. f. [dal lat. tardo resolutio -onis «scioglimento, annullamento»].
1. L’azione di risolvere, il fatto di venire risolto, nel sign. di sciogliere e annullare, scomporre, chiarire e trovare la soluzione o la spiegazione: r. di un patto, di un accordo; r. di un dubbio, di un enigma.
2. L’azione di risolvere e il fatto di risolversi, nel sign. di prendere una decisione, e la decisione stessa adottata: prendere una r.; mantenere una r.; pronta, tarda, meditata, libera, spontanea, opportuna, dannosa, definitiva, irrevocabile, eroica risoluzione.

 

 Si diceva che la notte portava consiglio, ma Itachi aveva sempre dubitato di quel detto; non che nella loro società dalle esistenze preconfezionate fossero rimaste molte faccende su cui scegliere o farsi venire dubbi. Eppure quella notte non riusciva a dormire. Si rigirava nel letto e stava scomodo, nonostante il materasso si adattasse al suo corpo, o la temperatura della camera fosse mantenuta al livello ottimale dai sensori appositi.
Alla fine decise di alzarsi e camminò nella stanza, con la testa che sembrava sul punto di esplodere, infiammata dai pensieri. Si domandò se non avesse la febbre, ma si diede dello sciocco: in una simile evenienza il suo androide infermiere sarebbe già stato lì. Itachi era sì malato, ma non nel senso canonico del termine, il suo virus non era qualcosa che si poteva debellare con una medicina o un’aggiustatina a del DNA fuori controllo, era qualcosa che stava mettendo radici dentro di lui, nel terreno fertile che aveva trovato quando invece il ragazzo si era sempre creduto un campo sterile. Quel pomeriggio Shisui lo aveva arato con le sue parole, aveva rivoltato le zolle, spingendo la terra secca nel profondo, facendo affiorare in superficie quella umida e ricca dove aveva attecchito un’idea, una speranza, una possibilità.
Era davvero possibile amare qualcuno liberamente, anche se questo avrebbe significato andare contro il sistema?
La risposta era sì, ovviamente: il controllo esercitato sulle loro esistenze era stretto, ma non esisteva qualcosa che controllasse i loro pensieri; non ancora almeno.
La domanda era in realtà un’altra, più subdola: era possibile venire ricambiati in questo amore impossibile e folle?
Era quell’interrogativo che ronzava nella mente di Itachi e gli impediva di dormire, perché credeva di aver letto una risposta negli occhi di Shisui, un .
Aveva sempre saputo di essere diverso, forse gli ingegneri che avevano selezionato i suoi geni avevano fatto un errore, oppure col tempo c’era stata una mutazione imprevista, forse era stata la nascita di Sasuke a far scaturire qualcosa che altrimenti non sarebbe mai nato. Grazie a lui, nel vedere mese dopo mese la pancia di Mikoto crescere a differenza di quella delle altre madri, aveva realizzato che era possibile una vita diversa da quella che conoscevano, eppure era stato un codardo. Aveva visto crescere Sasuke, le difficoltà contro cui aveva lottato per cercare un posto nella loro società in cui gli errori e le variabili non erano accettate, invece di lottare al suo fianco aveva semplicemente nascosto la testa sotto la sabbia; fino a quel giorno almeno. Sasuke era dovuto morire per aprirgli gli occhi e fargli realizzare quanto la vita fosse breve, la facilità con cui si poteva spezzare e che non era giusto sprecarla, nemmeno se era già pianificata come la sua: era pur sempre vita, poteva fare ancora tante altre cose a differenza di suo fratello dal momento che aveva preso dimora fissa nell’aldilà.
Era davvero possibile a quel punto che anche Shisui fosse difettoso come lui? Era possibile per due cugini arrivare a toccarsi più profondamente di come avevano fatto quel pomeriggio, quando le loro mani avevano indugiato sulla pelle dell’altro come ladri vergognosi?
“Luce” disse Itachi e la stanza venne rischiarata dall’illuminazione proveniente dal soffitto: non avrebbe dormito, era inutile continuare a stare al buio.
Andò sul divano e pensò che l’unica cosa da fare era tentare, fare un salto nel vuoto e… accettare le conseguenze; ora o mai più. Forse aveva vissuto in funzione di quel momento, l’attimo speciale in cui una decisione sua e solo sua avrebbe potuto cambiare tutto. Forse c’era un disegno dietro a ciò, forse esisteva una forza superiore che aveva soffiato nelle vele della sua barchetta barcollante, facendogli solcare il mare verso una meta ben precisa.
Itachi rise nella stanza vuota: se qualcuno avesse letto nei suoi pensieri probabilmente avrebbe ricevuto una multa o si sarebbe ritrovato in prigione, visto il reato di immaginare che esistesse qualcosa al di sopra della scienza che governava le loro esistenze. Probabilmente non avrebbe dovuto preoccuparsi di una simile evenienza, considerato ciò che aveva deciso di fare il giorno seguente: andare da Shisui e confessargli i suoi sentimenti, il bisogno spasmodico che aveva di toccarlo e baciarlo, di sapere come fosse essere stretti da lui, fregandosene delle regole e del loro futuro dal sapore di plastica. Magari avrebbero dato il via a una rivoluzione, avrebbero cambiato le cose, la sua vita avrebbe avuto un significato, uno scopo scelto da se stesso; le possibilità erano infinite, impossibili da quantificare.
Si alzò dal divano e andò in bagno, si sciacquò il viso e, mentre si passava l’asciugamano sulla pelle, si guardò allo specchio. Si studiò minuziosamente, da ogni ciglia attorno agli occhi scuri ai piccolissimi pori visibili vicino al naso, le occhiaie che proprio non volevano saperne di sparire, i capelli sciolti sulle spalle.
Poi ci furono degli occhi rossi allo specchio, rossi come delle braci e dei capelli altrettanto infuocati, delle labbra più carnose delle sue. Poi ci fu un urlo soffocato e il nero, nient’altro.
 

 

 vita s. f. [lat. vīta, affine a vivĕre «vivere»]
Nella concezione e nel linguaggio comune si intende per vita lo spazio temporale compreso tra la nascita e la morte di un individuo; a questo sign. si riconnettono gran numero di frasi e locuzioni, riferite soprattutto a esseri umani, e anche ad animali: venire alla v., nascere; dare la v. a qualcuno, generarlo; avere v., essere in v., vivere; tenere, mantenere in v.; essere in fin di v.; restare, rimanere in v., sopravvivere; morire; privare della v., uccidere; togliersi la v., uccidersi.

 

Karin si sistemò meglio sulla poltrona, sentiva un dolore alla gamba destra, segno che tutto il suo peso stava premendo troppo su qualche terminazione nervosa. Fece un gesto con le dita e un cuscino uscì dall’armadio, arrivandole dritto in mano, finendo poi dietro la sua schiena per un maggior confort.
Finalmente più comoda, la ragazza riportò la sua attenzione su Sasuke, al suo corpo pallido steso su lenzuola altrettanto bianche. Vari cavi partivano da dentro la sua pelle per collegarsi a delle macchine che emettevano dei suoni a intervalli regolari come a dire “ehi, è tutto regolare, se qualcosa cambia ci sentirai fischiare, non preoccuparti.”
A rigor di logica Karin non avrebbe dovuto trovarsi lì dato che non era un parente stretto di Sasuke, ma lavorava da anni in quell’ospedale e tutto lo staff la conosceva, così aveva potuto chiedere quell’eccezione. D’altronde, se non fosse stato per lei, quella sedia al fianco del letto sarebbe stata sempre vuota.
Si alzò con attenzione e si avvicinò al comodino, prese la crema idratante e iniziò a spalmarla sulle mani secche di Sasuke, senza che questi aprisse gli occhi o avesse altre reazioni. Karin avrebbe potuto schioccare le dita e quella crema si sarebbe stesa da sola sulla pelle del ragazzo, eppure lei voleva farlo personalmente; anche se il loro mondo era governato dalla magia, valeva la pena fare alcune cose diversamente. Inoltre la magia aveva dei limiti, non era davvero possibile fare qualsiasi cosa grazie a essa, in quei casi si ricorreva alla scienza in un’equilibrata commistione tra le due; quando invece né la magia, né la scienza erano utili… beh, in quei casi si finiva come Sasuke.
Karin sentì gli occhi bruciarle per nuove lacrime, nel tenere tra le proprie mani quelle fragili del ragazzo che aveva amato fin da bambina. Non ricordava come fosse iniziata, forse ci era nata con quei sentimenti, però alla fine non c’era mai stato niente tra di loro se non amicizia e lunghi voli nei cieli. Forse era stato meglio così, aveva avuto molto più da Sasuke che non una relazione travagliata e senza futuro a causa dei loro caratteri incompatibili. Lei gli era stata vicino nei suoi momenti più difficili, non era mai stata respinta a differenza di tante altre persone e il suo amore si era evoluto, era mutato pian piano, quasi fosse l’osso di un adolescente alle prese con i cambiamenti della pubertà. Alla fine era entrato Suigetsu nella sua vita, amava anche lui ma in modo diverso: Sasuke era un’altra cosa. Se Suigetsu era il suo futuro, la sua realizzazione, Sasuke era le sue radici, il ricordo dei sogni adolescenziali che si accarezzano con dolce nostalgia; non avrebbe potuto vivere senza nessuno dei due.
Per quel motivo piangeva, perché Sasuke stava morendo e la magia era inutile così come la scienza, forse ci sarebbe stato un altro modo, ma si trattava un salto nel buio; non aveva la certezza della riuscita, solo di ciò che avrebbe dovuto sacrificare.
Posò con delicatezza le mani ora morbide del ragazzo sul letto, si premurò di sistemargli le lenzuola, poi andò in bagno e si sciacquò il viso al lavandino. Non le piacque ciò che vide sotto le luci al neon nel piccolo specchio: era lo sguardo di qualcuno che stava per prendere una decisione, sfiancato dalla tensione continua.
Poi, all’improvviso, la visione cambiò, pensò di avere un’allucinazione perché vide degli occhi tanto simili a quelli di Sasuke. Non ebbe tempo di riflettere più a lungo perché ci fu solo nero e nient’altro e, scioccamente, pensò di essere stata risucchiata da quegli occhi.

 

 

 Black echo, eng.
È l’eco della mente, quando l’oscurità, il senso di claustrofobica strettezza attanagliano la gola. L’urlo nella propria testa è di solito mitigato dalla realtà, ma quando la paura dirompe e non si vede altro che oscurità e non c’è nessun suono a guidarci, allora l’eco nero è il riflesso di ciò che c’è nella mente, negli occhi, nelle orecchie… nel proprio animo.
(Anonimo, internet)

 

 Nessuno pensa mai a un concetto scontato come la profondità spaziale. Come si fa a dire che un posto è grande, piccolo o che qualcosa è più alta di un’altra se manca questa semplice ma impercettibile nozione? In assenza di punti di riferimento lo spazio è tutto e niente, un oceano sconfinato o la capocchia di uno spillo.
Karin stava fluttuando con una sensazione di nausea ad attanagliarle lo stomaco e, per una volta, non era colpa della gravidanza. Aveva l’impressione di essere a testa in giù, ma non ne era certa dato che i suoi piedi non poggiavano su nulla e i capelli rimanevano dritti lungo la schiena. Vide alla propria destra un’altra persona, forse era vicina perché riusciva a distinguerne i capelli lunghi e le spalle larghe, ma non era sicura nemmeno di quello.
“Ehi! Ehi tu!” gridò.
Stranamente la sua voce non risuonò forte e risoluta come aveva creduto, bensì aveva una vena di nervosismo che proprio non le piacque. Vide che comunque lo sconosciuto l’aveva sentita, perché si voltò nella sua direzione e all’improvviso non fu più uno sconosciuto. Karin si tolse gli occhiali, si strofinò forte gli occhi, per poi tornare a riaprirli e guardare di nuovo attraverso le lenti: non si era sbagliata, quello davanti a sé era proprio Itachi Uchiha, solo più vecchio rispetto a come lo ricordava lei; in fondo era stato solo un adolescente il giorno in cui era morto.
“Cosa…? Itachi, come è possibile?”
La sua voce fu ancora più carica di nervosismo e incertezza, si morse un labbro tentando di elaborare una spiegazione, ma soprattutto un piano di fuga: se davvero aveva a che fare con un morto, voleva dire che lei e la suo bambina erano in pericolo!
“Chi sei? Come conosci il mio nome? Dove siamo?” domandò l’uomo con una voce profonda che la ragazza non riconobbe, come era logico d’altronde. L’Itachi che aveva conosciuto era stato forse altrettanto alto ma non così sviluppato, le sue guance più tonde avevano avuto solo l’ombra della barba e anche la voce era ancora da ragazzino; il loro sguardo però era tanto simile: quello di una persona più vecchia, in qualche modo saggia o forse solo consapevole del mondo che li circondava.
Karin non riuscì a rispondere, la sua gola solitamente così piena di voce sembrò essersi prosciugata, annodata su se stessa, così come la sua mente che riusciva solo a pensare alla bambina e alla paura che provava.
Vide quell’Itachi farsi più vicino, confuso forse tanto quanto lei ma deciso a trovare una risposta, a non lasciarsi sopraffare dall’assurdità della situazione.
“Bene, vedo che vi siete già trovati, meglio così”
I due si girarono di scatto nella direzione da cui sembrava che provenisse la voce, ma non videro nulla, si voltarono anche dall’altra parte, trovando solo una distesa di nero ininterrotta. Karin d’istinto piegò la testa all’indietro, con gli occhiali che le scivolarono lungo il naso, e vide uno scheletro penzolare sopra di loro.
“Ma sei scemo o cosa? Farmi prendere uno spavento simile? Vieni giù e facciamo i conti!”
La sua voce risuonò più agguerrita e sicura grazie alla carica di rabbia, mentre il viso di Itachi si fece più pallido e sconcertato.
“U-uno scheletro… e parla – balbettò dopo qualche istante di silenzio – deve essere un sogno. Mi devo essere addormentato sul divano senza accorgermene”
Karin stava per domandargli che diavolo stesse blaterando, perché sembrasse quasi terrorizzato: anche per lei era la prima volta con uno scheletro parlante, ma nel loro mondo, con tutta quella magia, non si poteva veramente rimanere sorpresi dalle stranezze. Non riuscì però a dare fiato alla sua proverbiale boccaccia – come la chiamava Suigetsu – perché quel mucchietto d’ossa calò tra di loro ed entrambi poterono osservare tra le sue coste un fiore bianco con la testa rivolta verso il basso. Karin sapeva che tre petali più grandi ne nascondevano tre più piccoli macchiati di verde, Itachi invece non aveva mai visto un bucaneve e per un attimo lo fissò, affascinato e dimentico della situazione in cui si trovava.
Non erano stati solo gli uccelli a estinguersi nel suo mondo, anche la natura era stata in qualche modo ridimensionata, salvaguardando solo le specie strettamente necessarie per la sopravvivenza e nulla più; L’Ufficio Di Controllo controllava davvero tutte le forme di vita.
Un cilindro stretto e alto dall’aria vezzosa era poggiato sul cranio nudo, ma non c’era altro a decorare quello scheletro che sembrava parlare, espirare parole attraverso dei polmoni e una gola inesistenti.
“Sono sceso, vogliamo fare questi conti allora? Tra l’altro dobbiamo sbrigarci, la nostra finestra temporale è breve, ma forse, in fondo, nemmeno una più lunga sarebbe bastata per rispondere al milione di domande che avete in mente”
Nonostante non fosse dotato di palpebre o muscoli in grado di tendersi, sembrò comunque che avesse strizzato un occhio con fare sornione ai due presenti che continuarono a rimanere immobili e muti.
“Oh beh, che non mi si dica che sono un maleducato coi miei ospiti!”
Dal nulla spuntarono delle poltrone dietro alle loro gambe e Karin fece un mezze urletto quando si sentì cadere all’improvviso sul cuscino soffice.
“Ben arrivati miei cari, accomodatevi e sentitevi benvenuti nel… beh, come dire? – una falange grattò contro una tempia, spostando appena la tuba – Benvenuti nella mia dimensione, ho già detto che abbiamo poco tempo? Non vi annoierò coi dettagli inutili”
“Dettagli inutili? Ero in ospedale, mi stavo sciacquando la faccia e all’improvviso sono qui, ti sembra un dettaglio?” urlò Karin, inviperita, lanciandogli addosso un cuscino che però scomparve senza mai colpire il misterioso padrone di casa, se così si poteva definire.
“Lo sapevo che non sarebbe stato semplice. A volte mi chiedo perché mi impiccio ancora nelle vostre faccende – sospirò lo scheletro, sollevando e abbassando le spalle ossute come se avesse respirato davvero – visto che sembri smaniare per delle spiegazioni cercherò di darvene qualcuna. Tu invece sei meraviglioso, Itachi: silenzioso, diligente e calmo, ma in fondo lo sapevo già. In qualche altro mondo sei un po’ più ribelle, ma in fondo tu sei sempre tu. Vale anche per te, Karin”
Fissare le sue orbite vuote, riempite dello stesso nero che li circondava, la zittì, facendole provare un serpeggiante senso di inquietudine, così rimase ad ascoltare, attenta; era rumorosa, non stupida.
“Sembri conoscerci a quanto pare. E anche tu – disse Itachi rivolto alla ragazza dai capelli e gli occhi di fuoco – io invece non conosco nessuno dei due; in verità sono ancora convinto di trovarmi in un sogno”
Lo scheletro sventolò in aria una mano dalle lunghe dita, come a scacciare via quelle parole ed entrambi i ragazzi realizzarono di non sentire nessun rumore quando si muoveva, non c’era quell’acciottolio che gli scheletri facevano sempre nei film dell’orrore; pareva quasi che non esistesse realmente in forma corporea.
“Nessun sogno, è la realtà – lo corresse – inusuale, ve lo concedo, ma è la realtà. Come ho detto, il tempo stringe e se qualcuno dei miei… colleghi dovesse scoprire quello che sto combinando sarei nei guai, ma in un certo senso ho un’anima romantica e non ho resistito a impicciarmi. Posso iniziare?”
Si voltò di nuovo verso Karin che si morse le labbra, evidentemente pronta a sciorinare un’altra serie di insulti o forse di domande; Suigetsu avrebbe scommesso su un mix di entrambi.
La tuba si inclinò un po’ di più sul cranio lucente ma non scivolò, rimase adesa, così come il bucaneve che era sospeso tra due coste, dove avrebbe dovuto esserci il cuore.
“Esiste più di un mondo, più di una realtà dell’esistenza così come la conoscete. Ognuna è diversa da un’altra, a volte di poco, a volte le differenze sono così grandi e innumerevoli che non basterebbe una giornata per elencarle e questo è il vostro caso – li indicò con gli indici di entrambe le mani – una cosa rimane però uguale: le persone. C’è una copia di voi stessi in ognuno di questi mondi, anche se non condividete lo stesso destino, perché ovviamente quello dipende dalle scelte personali e non. Insomma se una macchina o un carro di buoi vi investe non è che potevate fare molto per prevederlo, vi pare? Tra l’altro, questo discorso ti suona familiare, Itachi?”
Il ragazzo parve volersi fondere con la poltrona tanto sentì i muscoli tremargli, diventare incapaci di sostenerlo, privi di forza. Su scala molto più piccola aveva fatto delle ipotesi simili quel pomeriggio assieme a Shisui, dopo essere stati al crematorio a osservare il corpo di Sasuke divenire cenere incorporea.
Cos’altro sapeva quell’essere? Poteva leggere anche dentro di loro, violare il pensiero, l’unico territorio che Itachi aveva creduto sacro e inviolabile?
“Sì, altrimenti nessuno di noi tre sarebbe qui”
Karin fece una faccia strana non comprendendo quell’ultima frase enigmatica dello scheletro, ma intuì che dovesse avere un significato per Itachi, dato che lo vide portarsi una mano al petto e posarla lì, tremante vessillo.
Non capì, ma iniziava a intuire qualcosa e a credere che non fosse un sogno, ma che quel momento, immersi nel nero, fosse reale anche se fuori dallo spazio e dal tempo, almeno secondo i canoni con cui il cervello umano si relazionava a quei concetti.
“Siamo qui per un motivo, quindi – dedusse, per poi mordersi un labbro – è per Sasuke, vero? Tu puoi…”
Non riuscì a completare la frase per il fiotto di felicità che all’improvviso la pervase, tuttavia un attimo dopo si diede dell’idiota: se lo scheletro avesse potuto salvarlo, lo avrebbe già fatto senza trascinarla lì o chiamare quell’Itachi da un altro mondo.
“Sei sempre così acuta, una dei miei umani preferiti, Karin – rise lo scheletro carezzando lieve il bucaneve e a lei sembrò che le sfiorasse il cuore – nel mondo di questo Itachi Sasuke è morto da pochissimo, nel mondo di questa Karin invece Sasuke è in fin di vita, senza alcuna speranza. Non dalla scienza o dalla magia perlomeno… giusto, mia cara?”
“Magia? Sasuke?” domandò Itachi.
Stentava a realizzare che potesse esistere qualcosa a cui nemmeno i bambini credevano, ma soprattutto che il fratello fosse in pericolo anche in una realtà diversa dalla sua. Doveva avere della sfiga cosmica attaccata alla suola delle scarpe.
Karin invece si alzò in piedi e si avvicinò allo scheletro con aria minacciosa, tremando per la rabbia e la frustrazione. Diede un calcio alla poltrona, ma il mucchietto d’ossa non si scompose, non ci fu nessun rumore, nemmeno la tuba si spostò di un millimetro.
“Bastardo – sibilò, chinandosi col busto per avvicinarsi al suo volto, ostacolata solo dal pancione – sai cosa stavo per sacrificare, quindi smettila di prendermi per il culo. Dici che abbiamo poco tempo, ma a me sembra che tu te ne stia prendendo a sufficienza per divertirti, finora non ho sentito ancora nessuna spiegazione, solo fumo negli occhi”
A Itachi sembrò che l’ombra delle fiamme si sprigionasse dal suo corpo, che i capelli si attorcigliassero su di loro, sollevandosi, mutando, prendendo la forma di… piume.
“Cosa sta succedendo a Sasuke e perché io non sto facendo niente nel mio mondo, al contrario tuo?” domandò alzandosi in piedi di scatto. I suoi occhi scuri la squadrarono in cerca di risposte e di altre stranezze, ma lei sembrava di nuovo normale; se poteva dirsi normale avere le iridi rosse.
Karin si voltò a guardarlo, raddrizzando la schiena. Lo scheletro non parlava e fu certa che non lo avrebbe fatto, lasciando a lei quell’incombenza.
“Sei morto assieme ai tuoi genitori quando Sasuke aveva solo dieci anni. È stato cresciuto assieme ad altri orfani del clan piumato, ma non ha mai legato davvero con nessuno, io ero una vostra vicina di casa prima dell’incidente e, anche dopo, sono stata l’unica che Sasuke lasciava avvicinare, ma ammetto che a volte non è stato facile nemmeno per me”
Itachi appoggiò una mano sul bracciolo della poltrona in cerca di stabilità: faceva un certo effetto venire a conoscenza della propria morte, anche se in un universo parallelo. Sentì una stretta al cuore al pensiero del fratello cresciuto da solo, probabilmente ombroso e tormentato, diverso dal proprio Sasuke pieno di vita ed energia nonostante la malattia e una società che lo rifiutava.
Karin gli diede qualche secondo per assorbire le notizie, ma riprese a parlare veloce, se era vero che avevano poco tempo e c’era una possibilità di salvare Sasuke non l’avrebbe sprecata.
Gli raccontò di come il loro mondo fosse governato dalla magia che coesisteva con la scienza visto che non tutte le persone ne erano dotate, gli stregoni inoltre erano divisi in clan a seconda della razza di animali in cui si trasformavano. A quella notizia lo vide spalancare gli occhi, meravigliato, e così, nonostante la fretta, si prese del tempo per raccontargli qualcosa in più.
“Sasuke è un falco, io sono una fenice. Non è vero che muoio e rinasco, ma le piume sono rosse e dorate e sono abbastanza rara persino nel mio mondo. Io e Sasuke abbiamo passato tanto tempo a volare assieme in cielo, perché non c’era bisogno di parlare, stare vicini bastava e il vento tra le piume sembrava strapparci via le preoccupazioni. Sasuke… era così felice quando volava, ma ormai è malato e non lo fa più da tempo”
Detto ciò, tacque, disinteressandosi di Itachi e delle sue difficoltà nell’elaborare quelle informazioni. Si rivolse allo scheletro che giaceva sulla poltrona, con una gamba accavallata sull’altra e il mento appoggiato sulla punta delle dita intrecciate tra loro.
“Allora, perché siamo qui?”
“Devi prima finire di raccontare la storia, così non basta, Karin. E tu vuoi salvare il tuo primo amore, vero?”
La donna contrasse la mandibola sentendo i denti scricchiolare per la tensione, non c’era espressione su quelle ossa color avorio, ma lei era certa che quell’essere si stesse divertendo nel tormentarli, tuttavia non poteva sottrarsi, in fondo era vero che voleva salvare il ragazzo a cui aveva dato il suo cuore senza che lo chiedesse.
“Quindi questo bambino...?”
“No, non è di Sasuke, ed è una bambina – disse brusca, interrompendo Itachi che la guardò interrogativo – “Sasuke non mi ha mai vista a quel modo, ero la sua famiglia, una sorella potremmo dire, ma io ho continuato ad amarlo a modo mio, anche se ho trovato un altro uomo con cui… insomma…”
Nonostante la situazione paradossale, provava ancora imbarazzo nel parlare dei suoi sentimenti per Suigetsu, così decise di tagliare corto e arrivare al nocciolo della questione. “Lui fa parte di un altro clan, si trasforma in squalo. In pratica è impossibile per due persone di clan diversi avere un figlio, ma a noi è successo; siamo una rarità. Tutti dicono che è accaduto perché io sono una fenice, un animale antico, dotato di uno speciale potere magico, infatti io… – fece un respiro profondo – le mie lacrime sono capaci di curare le ferite”
Itachi fece un paio di passi in avanti in modo istintivo per avvicinarsi, la afferrò per le braccia, sentendola reale e non un’illusione. All’improvviso la meraviglia e lo stupore nel sentire raccontare di animali visti solo sui libri e di mondi paralleli vennero spazzati via da un sentimento molto più forte: la speranza che almeno in qualche universo suo fratello potesse essere vivo e… felice.
“Allora puoi curare Sasuke, dov’è il problema?” disse incredulo che la faccenda non fosse già risolta. Forse la magia non era poi questo granché, gli suggerì la sua mente scettica e votata alla razionalità.
“Idiota! – urlò Karin divincolandosi dalla presa lieve – Pensi che non lo avrei già fatto, se avessi potuto? Non è sicuro che funzioni, le lacrime curano tagli, ematomi, ferite del genere, non ho mai nemmeno provato su qualcosa di più grave. E poi Sasuke si è ammalato quando ero già incinta, non posso trasformarmi o perderò il bambino! Io…”
Dagli occhi coperti dalle lenti cominciarono a sgorgare lacrime lente, inutili nella sua forma umana, mentre lei si premeva un pugno contro la bocca per evitare di singhiozzare o forse di impedire che parole inutili uscissero fuori. Era impossibile spiegare come si sentisse lacerata al pensiero di perdere Sasuke, il suo primo amore, le sue radici, e quello di perdere il bambino, il suo futuro nonché miracolo personale; con lui avrebbe perduto anche Suigetsu, il proprio presente.
Itachi fece un passo indietro per sottrarsi a quel torrente di sentimenti ed emozioni a cui non era abituato, si sentì a disagio di fronte alla sua umanità espressa senza alcuna vergogna; chissà se erano tutti come lei nel suo mondo, si domandò. Scosse la testa per allontanare quella considerazione inutile e si concentrò sulle informazioni ricevute, valutandone i pro e i contro con la sua mente analitica.
“È un sacrificio troppo grande, non puoi farlo. Sono certo che ami Sasuke e tieni a lui, ma devi pensare al tuo bambino, anche se non fosse stato la rarità che è, avrebbe comunque meritato la possibilità di nascere – fece un sorriso, bellissimo ma malinconico – sai, nel mio mondo le coppie non possono procreare liberamente. C’è un ufficio apposito che valuta quanti figli possono avere, poi preleva i loro ovuli e spermatozoi, sceglie i più idonei, crescendoli in uteri artificiali. Mio fratello è stato una rarità a suo modo: mia madre rimase incinta e non volle abortire a nessun costo, nonostante avesse il mondo intero contro. Anche se Sasuke è nato con una malattia cardiaca ed è morto troppo giovane, nessuno di noi ha rimpianto quella scelta, nemmeno lui. Forse il tuo Sasuke è più triste e schivo di quello che conoscevo io, ma se ognuno di noi rimane comunque se stesso come ha detto lo scheletro, allora sono certo che ti direbbe di non rischiare, di dare alla luce tuo figlio e offrirgli una possibilità”
Concluso quel lungo discorso per una persona così poco abituata a parlare come era lui, Itachi si prese un istante per guardare quel ventre sporgente, immaginare la pelle tesa e il cuore che batteva al riparo di un utero vivo. Cacciò indietro l’emozione che minacciava di travolgerlo e puntò lo sguardo sullo scheletro che sedeva ancora nella stessa posizione.
“Sì, è per questo che sei qui” confermò quello.
“Mi sta bene, ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me” rispose Itachi.
L’essere annuì con il cranio coperto dalla tuba e fece un gesto con la mano, facendo apparire un tavolino con sopra un bisturi, una penna e una lettera bianca.
Karin non comprese quegli scambi di battute, trattenne a stento un grido quando Itachi, dopo aver scritto poche parole, si incise la spalla destra con la lama affilata. Il sangue sgorgò, gli infradiciò le dita, ma lui le infilò nel taglio e ne tirò fuori un oggettino piccolo, quasi microscopico, che lei non riconobbe.
“Siete impazziti? Cosa sta succedendo?” domandò, osservandolo infilarlo nella busta assieme alla lettera con le dita pulite, grazie allo scheletro che aveva fatto sparire il sangue e richiuso la ferita.
“È giusto così, è questo il mio destino. Non preoccuparti, andrà tutto bene” le assicurò Itachi, sempre con quel suo sorriso bellissimo e malinconico.
“Di che parli? Quale destino? Non sapevi niente fino a dieci minuti fa e ora blateri di destino!”
“È vero, ma in fondo stavo aspettando qualcosa, sentivo che c’era qualcosa in attesa, credevo erroneamente di averlo compreso prima di venire qui, ma mi ero sbagliato. In questo modo posso rendere felici molte più persone, di’ a Sasuke di sorridere e volare in alto, sempre più in alto che può”
A Karin non piacquero quelle parole che sapevano tanto di addio e credette di comprendere cosa stava per accadere, ma tentò testardamente di negarlo con se stessa. Aprì la bocca per protestare, ma lo scheletro le posò la mano ossuta sulla bocca e lei rabbrividì nel sentirla calda e non gelida come aveva immaginato.
“Basta così – disse l’essere senza più traccia di scherno nella voce fantasma – il tempo è quasi scaduto e Itachi ha preso la decisione che tu non sei riuscita a prendere in questi mesi. Non fartene una colpa, era impossibile, ma adesso basta così: niente più domande e niente più risposte perché sono inutili. Possiamo stare qui a filosofeggiare su quanto tutto ciò è giusto e ingiusto, puoi chiedere perché proprio ora e posso parlare per giorni di congiunzioni astrali, mondi che collidono, coincidenze, destino e altro ancora, ma alla fine la cosa che conta è una e una sola: una vita per una vita”
“Penso che il tuo mondo pieno di magia mi sarebbe piaciuto. Fa’ in modo che la tua bambina lo ami”
Le parole di Itachi furono accompagnate da un sorriso, ma stavolta meno malinconico, sereno addirittura. Karin lo vide sciogliersi i capelli e sparire in un bagliore di luce, così come la lettera.
“Lui…” mormorò dopo che lo scheletro si fu allontanato, dandole le spalle.
“Andrà tutto bene, ora tornerai a casa anche tu” rispose quello, voltandosi.
La ragazza vide che nel suo petto, sospeso tra le coste come un cuore, non c’era più il bucaneve, simbolo di speranza, bensì un pennacchio rosso simile a delle piume, un fiore di amaranto a rappresentare la profondità e l’immutabilità dei sentimenti: non importava se si trattava di mondi diversi e lontani, l’amore rimaneva lo stesso, oltre il tempo e lo spazio.
“Andrà tutto bene” mormorò chiudendo gli occhi con fiducia nel proprio destino e una mano a carezzarsi il ventre. Si vedeva a volare di nuovo assieme a Sasuke, ma stavolta con loro ci sarebbe stata anche sua figlia; sì, avrebbe avuto una bambina dalle piume di fuoco, anche lei avrebbe conosciuto la libertà dei cieli. Karin le avrebbe spiegato l’importanza di non sprecare il tempo e le occasioni o, forse, sua figlia sarebbe arrivata a comprenderlo da sola, come ogni uccello capisce cosa fare per librarsi tra le correnti e galleggiare nell’azzurro, libero.

 

 

 sacrifìcio s. m. [dal lat. sacrificium, comp. di sacrum «rito sacro» e –ficium «-ficio»]
1. Atto di culto rituale presente in tutte le tradizioni religiose, che implica generalmente un atteggiamento di sottomissione al sacro e il desiderio di stabilire un rapporto con esso; può comportare offerte di doni, cerimonie, invocazioni, preghiere
2. fig. a. Grave privazione o rinuncia, volontaria o imposta, a beni e necessità elementari, materiali o morali.

 

 Shisui aprì gli occhi prima del trillo della sveglia, in realtà non aveva dormito molto, eppure si sentiva bene ed energico. Scacciò con un gesto della mano il servitore che era accorso e decise di fare le cose da sé, in fondo perché una macchina doveva servirgli il caffè?
Sorrideva perché quel giorno avrebbe visto Itachi e avrebbero parlato, a costo di legarlo a una sedia: non aveva più intenzione di tenersi dentro ciò che aveva nascosto per anni e al diavolo tutto quanto, cosa significava vivere senza poter amare?
Come una lampadina difettosa, il sorriso però si spense quando sul tavolo della cucina vide una lettera e riconobbe la grafia del cugino sulla busta. Chiamò il servitore per interrogarlo, ma l’androide non ne sapeva nulla e anzi i suoi circuiti iniziarono un rapido check-up: doveva esserci stato qualche guasto se una cosa del genere era passata inosservata al sistema.
Shisui se ne disinteressò, poteva andare tutto a fuoco per quello che gli importava. Osservò la busta bianca, senza riuscire a decidere di toccarla: sentiva un brutto presentimento torcergli lo stomaco e la certezza che la sua vita sarebbe stata sconvolta da ciò che avrebbe letto.
“Oh, al diavolo! Tanto è già cambiato tutto!” esclamò afferrandola.
Sentì qualcosa muoversi al suo interno e, quando la aprì, la inclinò per farsi scivolare sul palmo un piccolo microchip, simile a quello che Itachi aveva stretto tra le proprie mani il giorno prima, eppure in qualche modo seppe che non si trattava dello stesso.
Gli sfuggì un singulto dalla gola e il labbro inferiore tremò quando lesse le poche righe nell’inconfondibile calligrafia che conosceva tanto bene.

 
Sono saltato nel nero per andare incontro al mio destino, ma non ho paura. Sono felice, Shisui.
Trova qualcun altro da amare, ma stavolta diglielo, non fare lo stesso sbaglio due volte: non rimanere mai più in silenzio come abbiamo fatto noi. Siamo stati due sciocchi, vero?
Ci rincontreremo in qualche nuova esistenza e saremo insieme.
È il nostro destino.

 
Non c’era nessuna firma, né altre parole più illuminanti, ma Shisui in fondo non ne aveva bisogno: Itachi aveva trovato la sua strada ed era felice, tanto gli bastava. Sarebbe andato avanti con la speranza di rincontrarlo in un’altra esistenza; non dubitava delle sue parole, se Itachi diceva che sarebbero stati insieme sarebbe successo.
Ciò però non gli impedì di posare sul tavolo la lettera e il prezioso microchip, le uniche cose tangibili che gli rimanessero di Itachi. Si sedette, prendendosi la faccia tra le mani ora libere.
Pianse perché il futuro era ancora lontano, il presente e la consapevolezza del tempo perduto, dell’impossibilità di rimediare invece erano lì, dentro al suo petto.

 

 

 

 

 

 

L’angolino oscuro: Con questa storia ho partecipato a un contest di Halloween sui tarocchi, indetto dal gruppo SasuNaru fanfiction Italia. Il tarocco che ho scelto è stato L’Appeso, con questo ho dovuto obbligatoriamente inserire nella storia l’elemento scheletro. Ho sperimentato qualcosa di veramente lontano dalla mia comfort zone, però mi stuzzicava l’idea di buttarmi su un genere per me nuovo, i giudici hanno confermato i miei dubbi e ho pensato a lungo se rimettere mano alla storia, però alla fine ho deciso di lasciarla com’era perché in fondo mi piace e forse sarà anche un monito per i miei prossimi tentativi. E poi ci ho vinto il Premio Gray's Anatomy (chirurgia portami via) mica cazzi XD
Le definizioni a inizio di ogni scena sono prese dal dizionario della treccani, quindi ci sono abbreviazioni e accenti che usualmente non vengono usati nello scrivere comune, ma non ho voluto cambiarli per mantenere il tutto simile alla definizione del dizionario.
L’ispirazione per questa storie viene da svariate fonti: Fringe su tutte, uno dei telefilm più emozionanti che abbia mai visto, ma anche la serie de La torre nera di Sthephen King e il film Gattaga hanno avuto la loro importanza, grazie netfilx per averlo messo sul catalogo XD il titolo della OS non è riferito alla canzone di Neil Young, bensì al modo usato dai soldati americani in Vietnam per descrivere la discesa nei tunnel, cioè via dal blu del cielo e giù nel buio, via da quello che conosci e un salto nel vuoto; in sostanza è ciò che volevo trasmettere con questa storia tra le varie cose. Black echo è un altro termine collegato a questo salto nel buio.
Che altro dire? Mi piacerebbe scrivere di amori coronati e roba bella, ma ho proprio l’animo votato alla tragedia! Nella storia ho cercato di infondere il significato del tarocco a tutta la situazione, anche se ho cercato di dare a Itachi più caratteristiche positive e a Karin quelle negative, come i due poli di una batteria o le due facce di una medaglia. L’idea dello scheletro parlante è forse un cliché, però mi piaceva vederlo nelle vesti di questo deus ex machina che interviene a salvare la situazione. Chi è in realtà? La morte? Un dio? Un demone? Non ho approfondito la questione e l’ho lasciata un po’ in sospeso, in modo che il lettore stesso trovasse una risposta.
Spero che la storia vi sia piaciuta e vi abbia lasciato qualcosa e no, non intendo la domanda “Ma che cacchio di schifezza ho letto?”

 

 

   
 
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