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Autore: hotaru    16/07/2009    8 recensioni
"L’aveva ammesso anche lui, quando Hinata aveva posato quella corona floreale sui capelli corvini. Malgrado avesse solo otto anni e lei fosse sua cugina, malgrado le femmine non gli interessassero e dovesse pensare solo a studiare e a fare il bravo bambino.
Era bella. Bellissima. Forse nemmeno la vera Titania avrebbe retto il confronto.
E quando lei gli aveva timidamente chiesto se avesse voglia di fare la parte di Oberon, non aveva saputo dire di no. Anche se quei giochi in realtà non gli piacevano, e avrebbe voluto andare da suo padre che gli stava insegnando le regole degli scacchi.
Pensava che sarebbe stato Oberon solo per mezz’ora. E non per tutta la vita."
Neji/Hinata sulle note di “Gioco di bimba” delle Orme
Prima classificata al contest "Al parco per caso..." di Amrlide e vincitrice del Premio Shock
Genere: Drammatico, Erotico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Neji Hyuuga
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Gioco di bimba Nota iniziale: inutile dire che, visto che si tratta di una song-fic, la lettura perde molto senza l’ascolto della canzone a cui si fa riferimento.
È “Gioco di bimba” del gruppo Le Orme.



Gioco di bimba



Gioco di bimba



Come d’incanto lei si alza di notte
cammina in silenzio con gli occhi ancor chiusi
come seguisse un magico canto
e sull’altalena ritorna a sognare


Normalmente la sera apprezzava un buon tè, ma quella volta sentì che un whisky liscio era ciò di cui aveva più bisogno.
Rimescolando piano il bicchiere, spense le luci e si avvicinò alla finestra. Inizialmente si era chiesto se avesse fatto bene a far spegnere anche tutti i lampioncini disseminati per il parco, ma un’occhiata fuori spazzò via ogni suo dubbio.
La luna crescente, non ancora piena del tutto, era più che sufficiente ad illuminare i grandi prati e i vialetti che li contornavano. Solo l’ombra degli alberi era fuori dalla sua portata, ma per arrivarci chiunque avrebbe dovuto attraversare il resto del parco.
Attese paziente, centellinando il suo whisky, gli occhi dello stesso colore della luna puntati sull’erba regolare.
Non dovette aspettare molto: quelle notti chiare sembravano attirarla come un magnete; era praticamente certo che sarebbe uscita.
Se non fosse stato per la pelle pallida, però, avrebbe faticato non poco ad individuarla nell’oscurità: la vestaglia viola e i lunghi capelli neri contribuivano a farla sembrare quasi l’ombra di un sogno.
Ma lui sapeva che c’era, ed era sufficiente.

Sapeva anche dove era diretta: non aveva ancora fatto smontare quella vecchia altalena in ferro battuto, ormai fuori da qualunque norma di sicurezza. Fosse stato un parco pubblico, sarebbe stata smantellata già da un pezzo; ma dato che quell’enorme appezzamento di terreno apparteneva alla sua famiglia da generazioni, nessuno era mai venuto a ficcare il naso nella loro tenuta. Oltretutto, era da tempo che non ci salivano più dei bambini.
Ma non era un buon motivo per disfarsene.
Era rimasta lì, arrugginita e pericolosa nei suoi spigoli vivi, con un’unica persona che ogni tanto la facesse sentire ancora il prezioso gioco che era stata un tempo.
Le sarebbe mancata, quando se ne fosse andata.



La lunga vestaglia, il volto di latte
i raggi di luna sui folti capelli
la statua di cera s’allunga tra i fiori
folletti gelosi la stanno a spiare


-    “Io servo la regina delle fate, irroro di rugiada i suoi cerchi d’erba. Le primule alte le fanno da scorta; le macchie sui loro mantelli dorati sono rubini, doni di fate, nèi che diffondono profumi inebrianti.” – recitò.
-    Oh! – esclamò la bambina al suo fianco – L’hai già imparata?
Lui annuì.
-    “Ora vado a cogliere stille di rugiada, perle da appendere all’orecchio di ogni primula. Addio, spirito zotico, ora devo andarmene. Verrà qui la regina col suo seguito etereo.”
-    Sei bravissimo – disse ancora una volta lei, ammirata – A me piace tantissimo, ma sono riuscita ad impararne solo qualche verso.
-    Non ti preoccupare, abbiamo ancora una settimana.
A Hinata piacevano moltissimo quelle parole. Già la prima volta che il loro insegnante privato le aveva lette, recitando loro “Sogno di una notte di mezza estate”, ne aveva assaporato ogni suono, gustandone ogni singolo verso.
E anche se faceva fatica ad impararli a memoria, le erano rimasti nel cuore.
-    Neji – disse piano, mentre camminavano verso l’altalena percorrendo il grande prato di fronte alla tenuta – Secondo te esiste? La regina delle fate, intendo.
-    Titania? – chiese lui.
Hinata annuì.
-    Non lo so, può darsi. Anche se i grandi dicono di no, ci sono tante cose che nemmeno loro sanno – ponderò lui. In fondo a otto anni sono talmente tante, le cose che non si conoscono, che una realtà fantastica vale quanto quella reale; e viceversa.
-    Giochiamo? – propose la bambina.
-    Non stavamo andando all’altalena?
-    E se invece giocassimo alla “regina delle fate”?
Neji sembrava poco convinto, ma visto lo sguardo speranzoso della cugina, la accontentò.
Magari, se non l’avesse fatto, la loro storia avrebbe avuto un corso del tutto diverso. O forse no. In fondo, il destino dispone di mille sentieri differenti per farti arrivare dove vuole.


Era inutile chiederselo più di vent’anni dopo.
Eccola lì, seduta sull’altalena, mentre si dondolava piano. Quella vestaglia ricamata sui toni del viola doveva piacerle davvero molto: se la metteva spesso. E i capelli nerissimi, anche se spettinati, le ricadevano morbidi sulle spalle e sulla schiena. Sarebbe rimasto ore a guardarli fluttuare avanti e indietro, ondeggiando leggeri nel movimento dell’altalena. La sua pelle chiara, sotto la luce della luna, aveva assunto una tonalità color burro.
Hinata si fermò, puntando i piedi a terra. Abbracciò con lo sguardo il parco che la circondava: dalle querce brulicanti di vita ai pini maestosi che a Natale facevano sempre la loro splendida figura, decorati per suo espresso desiderio. Più in là, presso le mura della tenuta, stavano le aiuole immense dei giacinti, i narcisi, le ortensie e le rose. Oltre a qualche altra decina di specie di fiori differenti, di cui non riusciva a ricordare il nome. Anche se distingueva alla perfezione ogni singola fragranza.
Cercava spesso di individuare i folletti e le fate declamati da Shakespeare- Puck e tutti gli altri- e a volte un guizzo fulmineo tra le foglie o un sussulto repentino dei fili d’erba le facevano quasi pensare di averli individuati. Ma erano sempre troppo veloci per lei.
-    Neji – disse piano, com’era sua abitudine, con quella voce dolce come lo scroscio della pioggia sulle foglie – Vuoi giocare anche stasera?
Giocare.
-    Non ne hai voglia? – chiese lui.
Lei scosse la testa.
-    Oh, no. Se lo vuoi tu, sta bene anche a me.



Dondola dondola, il vento la spinge
cattura le stelle per i suoi desideri
un’ombra furtiva si stacca dal muro
nel gioco di bimba si perde una donna


Ordinava espressamente all’intera servitù di starsene lontana dal parco, di notte, pena il licenziamento in tronco.
Gli ansiti sotto di lui si facevano più frequenti, il respiro più affannoso. Leccò ancora, ancora  e ancora quella pelle che sapeva di latte, come nei neonati.
Li cercava ogni volta, quei gemiti: sapeva che piaceva anche a lei, perché a parte la prima volta non si era mai ritratta dall’accettare il gioco. Anche se non aveva ancora capito le regole, e quindi lasciava fare a lui. Neji era sempre stato più grande e più intelligente: di questo gioco, in qualche modo partito da lei, era lui a tenere le fila.
Ed era un gioco fantastico, che ogni volta le faceva perdere lentamente conoscenza finché si ritrovava ad osservare le stelle, schiacciata dal peso del corpo del cugino, che le teneva caldo.
Sentì la bocca di Neji posarsi di nuovo sulla sua, e aprì docilmente le labbra, lasciando che lui spingesse dentro la lingua. Sentì le carni infiammarsi, un’altra volta, mentre il calore andava propagandosi fino a raggiungere un punto ben preciso del corpo. Proprio quello contro cui lui stava spingendo.
Ansimava anche lui, e poi urlava. Non era sicura se urlasse per il dolore o meno, ma non si era mai lamentato. Nemmeno una volta. Anzi, dopo continuava a baciarla e a tenerla fra le sue braccia, sussurrandole che lei era la sua Titania e non avrebbe più dovuto temere nulla. E che era colpa sua, solo colpa sua.
Hinata non capiva di cosa Neji seguitasse ad incolparsi, così ogni volta lo abbracciava forte, come quando erano bambini, e in fondo le piaceva sentire quel corpo caldo stretto al suo, mentre la rugiada iniziava a bagnare l’erba e il vento freddo della notte le faceva rabbrividire la schiena.
 

Era una delle corone più belle che avesse mai visto. Forse nemmeno gli elfi più esperti avrebbero saputo farne una uguale.
Vi erano intrecciati foglie di quercia e fili d’erba, pezzi di corteccia e petali di rose e narcisi. Oltre alle foglie di varie piante di cui non conoscevano il nome, ma che avevano un profumo intenso e quindi erano state scelte per andare ad adornare la corona di Titania, regina delle fate.
L’aveva ammesso anche lui, quando Hinata aveva posato quella corona floreale sui capelli corvini. Malgrado avesse solo otto anni e lei fosse sua cugina, malgrado le femmine non gli interessassero e dovesse pensare solo a studiare e a fare il bravo bambino.
Era bella. Bellissima. Forse nemmeno la vera Titania avrebbe retto il confronto.
E quando lei gli aveva timidamente chiesto se avesse voglia di fare la parte di Oberon, non aveva saputo dire di no. Anche se quei giochi in realtà non gli piacevano, e avrebbe voluto andare da suo padre che gli stava insegnando le regole degli scacchi.
Pensava che sarebbe stato Oberon solo per mezz’ora. E non per tutta la vita.



Un grido al mattino in mezzo alla strada
un uomo di pezza invoca il suo sarto,
con voce smarrita per sempre ripete:
“Io non volevo svegliarla così…”


-    Adesso il gioco è finito? – chiese speranzosa, il corpo nudo scosso dai brividi.
-    No, non ancora – disse Neji. Però prese la vestaglia e gliela mise addosso, con delicatezza, continuando a baciarla su quelle protuberanze che le erano cresciute sul petto e che a lui sembravano piacere così tanto, mentre a lei davano più che altro fastidio.
Però non poteva negare di provare delle sensazioni sconvolgenti, mentre gliele accarezzava con la bocca, e di sentirsi rimescolare dentro.
Neji, continuando a stringerle i fianchi sotto il tessuto morbido della vestaglia, non poteva fare a meno di pensare a quanto fosse bella. La gente era solita dire che l’apice della bellezza di una donna- se possedeva tale dono- fosse intorno ai venticinque anni.
Lei, a trenta compiuti, era più fulgida della luna.
E la vedeva lui, soltanto lui.
La baciò un’altra volta, tenendole il mento fra le dita. Poi, con le labbra ancora vicinissime alle sue, sussurrò: - È tanto tempo che non facciamo una corona. Una corona degna della regina Titania.
Lei trattenne il respiro, sorpresa, e Neji represse l’istinto di baciarla di nuovo.
-    La facciamo insieme? Vuoi?
Hinata assentì, stupita e felice, e insieme iniziarono a cercare i materiali più adatti. Di nuovo foglie, steli d’erba e petali di fiore… Neji stesso andò a cercare di persona delle foglie particolari, mentre lei intrecciava con maestria ciò che avevano raccolto. L’abilità di quelle dita diafane non era mai venuta meno.
Quando la corona fu terminata, Hinata se la rigirò tra le mani, quasi in soggezione. Quei fiori bianchi e quelle foglie argentate che risplendevano sotto la luna avevano un che di magico.
-    Neji – lui alzò il capo – Non è che se la indosso mi ritroverò nel regno delle fate, senza poter più tornare indietro?
-    Ti dispiacerebbe?
-    Mi dispiacerebbe non vederti più – ammise candidamente lei, mordendosi il labbro.
Lui respirò a fondo, prendendole la corona dalle mani.
-    Ecco – disse, posandogliela sul capo.
Hinata sorrise, mentre il silenzio della notte si impadroniva di quella scena. Era lei, Titania, la regina delle fate. Senza ombra di dubbio.
Una creatura talmente bella da non essere di questo mondo.
Neji allungò una mano, e tolse dalla corona due foglie che aveva raccolto lui stesso.
-    Lo sai – disse – che la regina era solita assaggiare questi cibi sotto la luce lunare, in notti di giugno come questa?
-    Le foglie degli alberi?
Lui annuì.
-    Queste sono foglie… - la guardò in volto, serio – … di oleandro bianco. Il profumo dell’albero e dei suoi fiori era fra i più graditi ai sovrani degli elfi, e solo loro potevano mangiarne.
Hinata lo ascoltava, bevendo rapita ogni sua parola.
-    Se vuoi essere davvero come Titania, dovresti assaggiarne una anche tu.
Erano entrambi seduti sull’erba, incuranti dei vestiti umidi di rugiada. Neji si protese verso di lei e la baciò languidamente, a lungo.
Hinata pensava che stesse per riprendere il “gioco”, anche se non l’avevano mai fatto due volte nella stessa notte, e fece per lasciarsi andare sotto il suo peso, ma lui la trattenne per la vita.
Sostituendo alla sua bocca la foglia d’oleandro, gliela infilò tra le labbra, spingendogliela sulla lingua.
      -     Masticala – le sussurrò all’orecchio.
Lei fece come le aveva detto, mangiando quella foglia che era anche il cibo della regina delle fate. Quando l’ebbe mandata giù, Neji le infilò in bocca anche l’altra, indugiando appena sulle sue labbra.

Ma non lasciò andare la vita di Hinata, pronto a tenerla fra le braccia quando tutto intorno a lei si fece buio.
-    Neji… - mormorò, mentre le si chiudevano gli occhi. Lui sentì che il respiro rallentava e il battito cardiaco si faceva irregolare, fino a spegnersi del tutto.
Pensò con sollievo che due foglie erano più che sufficienti. La potenza del veleno era stata tale da evitarle diarree, coliche e vomito. Era scivolata nell’incoscienza, e poi nella morte.
-    “Ora, mia Titania, dormi, mia dolce regina” (*) – sussurrò a quel volto divenuto ormai di cera.


Colpa sua. Era stata tutta colpa sua.
Nessuno gliel’aveva mai detto, ma lui sapeva che era così.
Quando il viso di Hinata si era fatto cianotico e tutto il suo corpicino, così esile e fragile, aveva iniziato a tremare, accasciandosi al suolo, per alcuni istanti lui non si era nemmeno mosso.
Poi i suoi ricordi si facevano confusi: erano accorsi tutti; il giardiniere, i suoi zii, suo padre. Cercavano di tenerle la lingua, perché le convulsioni non la soffocassero.
Per terra stava la corona, ormai disfatta.
Più tardi il dottore aveva decretato che si era trattato di avvelenamento. Aveva insistito per vedere la corona vegetale e le aveva individuate subito.
“Foglie di oleandro bianco” aveva detto “L’intera pianta è velenosa. Può provocare diarree e coliche, vomito, rallentamento della frequenza respiratoria, irregolarità cardiaca, perdita di conoscenza e morte. L’ingestione di una sola foglia può uccidere un adulto”.
Hinata doveva aver portato le mani alla bocca per qualche motivo, e il veleno aveva fatto effetto. Oltretutto il suo corpo era appena guarito da una brutta polmonite, e un colpo come quello aveva immediatamente provocato le convulsioni.
Però era ancora viva.
Ma la domanda era: ci sarebbero state conseguenze?
Il medico disse che non lo sapeva: nei bambini le convulsioni erano pericolose, perché si rischiava che il cervello rimanesse senza ossigeno troppo a lungo e…
E.
Quando si era svegliata, Hinata non era più stata come prima.


Una bambina nel corpo di una donna, ecco cos’era diventata. Immersa nel suo mondo di sogni, elfi e fate.
Una donna che camminava nella notte, a piedi scalzi fra le piante dell’immenso parco della tenuta Hyuuga, e che credeva che fare l’amore fosse un gioco.
Forse aveva ragione.
Forse avrebbe dovuto lasciarla nel suo sogno.
Ma aveva deciso di volerla svegliare, in qualche modo, portandola via da un mondo in cui chiunque vorrebbe poter vivere.
Forse aveva sbagliato.
Ma ormai era troppo tardi.
Neji era lì, seduto sull’erba bagnata, mentre la luce della luna illuminava i contorni delle chiome degli alberi e lui teneva fra le braccia un corpo ormai freddo e rigido.
Se provava a pensare a quanto fosse stato caldo e morbido fino a poco prima, gli sembrava quasi di aver avuto davanti due persone diverse.
La stese sul prato umido, composta e coi capelli sparsi attorno al capo. Entro il mattino la rugiada sulla sua pelle l’avrebbe fatta sembrare quasi di vetro.
Neji si alzò e, sotto la luce di quella stessa luna che l’aveva vista viva fino a una manciata di minuti prima, si incamminò verso la casa.


“Io non volevo svegliarla così”







(*) Verso tratto da “Sogno di una notte di mezza estate” e “girato”. L’originale è: “Ora, mia Titania, svegliati, mia dolce regina”.



Non riesco ancora a crederci. Prima al contest "Al parco per caso" indetto da Amrlide!! Davvero, non me lo aspettavo, specialmente perché non ho utilizzato l’immagine, rinunciando così ai punti bonus.
Mentirei se non dicessi di essere molto soddisfatta di questa storia. Innanzitutto perché sono tornata alle nejihina, coppia che adoro (anche se non è l’unica, sono molto aperta ai vari pairing con Hinata) e che ritengo debba essere trattata in modi particolari.
Poi sono contenta di aver utilizzato una canzone della mia infanzia che mi piace moltissimo, e che spero di avervi fatto conoscere. Volevo rendere quel senso di oggi e di ieri, di età adulta e infanzia mescolate assieme che secondo me è tipico della coppia Neji/Hinata. Fissazioni mie, abbiate pazienza.
Spero che sia chiaro il ruolo del parco. È il luogo in cui si svolge la storia, sia nel passato che nel presente, ma è anche il posto in cui prende vita il “mondo” fantastico di Hinata (se ricordate “Sogno di una notte di mezza estate” era ambientato in un bosco). Ed è il parco stesso- o almeno una sua pianta- ad ucciderla.


Ringrazio Amrlide per l’estrema puntualità, e anche per il “Premio Shock” che ha giudicato la mia storia quella con il finale più spiazzante.

Faccio i complimenti alle mie compagne di podio, Gaara92, Saeko no Danna e Iaia, e a tutti gli altri partecipanti!
   
 
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