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Autore: Sognatrice_2000    15/12/2018    1 recensioni
Storia sospesa
AU-Tutti umani-
Hope Marshall, diciannove anni, adolescente dal carattere ribelle, cresciuta senza padre,
rifugge costantemente qualsiasi tipo di emozione, evitando di impegnarsi in relazioni troppo serie per timore di essere nuovamente abbandonata.
Prima del diploma parte per Parigi, la città natale di suo padre, convinta che lì potrà trovare le risposte che cerca.
Klaus Mikaelson è un pittore che dipinge i volti dei passanti lungo le rive della Senna, ha il doppio dei suoi anni e gli occhi più azzurri che abbia mai visto, così azzurri da fare invidia al cielo d’estate, dietro cui si cela un’anima oscura e tormentata, segnata dagli spettri di un passato che lo ha spezzato dentro.
Hope ha paura dell’amore.
Klaus si ritiene incapace di amare.
Quando le loro strade si incrociano, è inevitabile: si incontrano, si scontrano, si attraggono e si respingono, trascinati in un vortice di sentimenti che metterà in crisi tutte le loro convinzioni.
Finché la scoperta di una sconvolgente verità metterà tragicamente fine al loro rapporto.
“Cosa succede quando la persona che ami di più al mondo è l’unica di cui non avresti mai dovuto innamorarti?”
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Camille, Caroline Forbes, Hayley, Hope Mikaelson, Klaus
Note: AU | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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“Allora, fammi capire bene la situazione.” Caroline picchiettò nervosamente le unghie sul volante, gettandomi un’occhiata in tralice dallo specchietto retrovisore. “Mi hai chiamata in piena notte e mi hai buttata giù dal letto per farti accompagnare all’aeroporto, e da lì prenderai il primo volo per Parigi senza dire niente a tua madre per cercare una persona di cui non conosci né il nome né l’aspetto e che potrebbe benissimo essersi trasferita in… tipo qualsiasi altra parte del pianeta. Devo proprio ammetterlo, Hope, è l’idea più brillante che tu abbia mai avuto.”

Il suo tono sarcastico mi provocò un moto di stizza. “Piantala di sfottermi. Se sei così contraria perché mi stai accompagnando?”

“Perchè sono la tua migliore amica, sono l’unica che conosci che ha la macchina…” Caroline fece una breve pausa, il suo sguardo divenne improvvisamente lucido. “E anche se questa è una pazzia, ti capisco. So cosa si prova a non avere un padre.” La voce di Caroline vacillò per un momento e tirò sul col naso, e non potei fare a meno di sentirmi un po’ in colpa.

Suo padre era morto in un incidente stradale due anni fa, eppure Caroline non riusciva ancora a trattenere le lacrime quando lo nominava.

Forse era passato troppo poco tempo, o forse non ne sarebbe passato mai abbastanza.

Ma nemmeno lei poteva davvero capire. 

Suo padre non aveva scelto di abbandonarla come aveva fatto il mio: lei aveva potuto conoscerlo, lui c’era ai suoi compleanni, lui era lì quando lei ne aveva bisogno, quando si sentiva triste e vuota e sola contro un mondo ostile e indifferente al suo dolore- era esistito un tempo in cui lui c’era stato, e io non avrei mai potuto dire lo stesso.

“Grazie.” Sussurrai, così piano che non ero certa che Caroline lo avesse sentito. La gentilezza non era mai stata un aspetto predominante del mio carattere, era qualcosa a cui non ero abituata. “Mi dispiace di averti coinvolta.”

“Tranquilla, tanto non avevo di meglio da fare a parte dormire fino alle sette, quando dovrei essere in piedi per fare colazione prima di andare a scuola…” La voce di Caroline era rilassata, si capiva che stava scherzando, ma non potei fare a meno di continuare a sentirmi in colpa. “A proposito…” Caroline si voltò improvvisamente verso di me, facendo ondeggiare i lunghi boccoli biondi intorno al viso. “Come farai con la scuola?”

“Cazzo, la scuola!” Mi passai le mani tra i capelli emettendo un sospiro frustrato. “Non ci ho ancora pensato.”

“Manca soltanto un mese alla fine dell’anno. Quanto tempo pensi di fermarti a Parigi?”

“Non lo so, Caroline. Finchè non l’avrò trovato, suppongo.”

“E hai intenzione di perdere l’anno per questo?” La voce di Caroline si alzò improvvisamente di un’ottava. “Non sono affari miei, lo so.” Aggiunse dopo qualche secondo in tono più morbido. “Voglio solo che tu faccia la scelte migliori per te, visto che sarai tu a pagarne le conseguenze.”

“Smettila, adesso sembri mia madre.” Malgrado cercassi di sembrare dura, mi sentivo un po’ commossa. 

Caroline si preoccupava davvero per me, e in fondo aveva ragione, le sue argomentazioni erano molto più logiche delle mie, ma in quel momento la scuola era l’ultimo dei miei pensieri.

Avevo atteso per anni questo momento, non potevo tirarmi indietro adesso.

Dovevo partire a tutti i costi, niente mi avrebbe fatto cambiare idea.

“Ormai ho deciso, Caroline.” Il mio tono era tranquillo, ma non ammetteva repliche. “Ho aspettato troppo per arrivare fin qui, non posso più tornare indietro.”

Era evidente che Caroline non era d’accordo, ma fu abbastanza intelligente da evitare di provare a dissuadermi.

Il resto del viaggio lo percorremmo in silenzio.

Stai facendo la cosa giusta, Hope. Continuai a ripetermi queste parole nella mente per tutto il tragitto, cercando di calmare il battito impazzito del mio cuore.

Una volta arrivate nel parcheggio dell’aeroporto Louis Armstrong, Caroline afferrò il mio borsone e scosse la testa con un sorriso affettuoso. “Ricordami di comprarti una valigia nuova per il tuo prossimo compleanno.” 

Era una frase così da Caroline che non potei fare a meno di scoppiare a ridere. “Care, sei incredibile.”

“Lo so tesoro, non devi ricordarmelo. Andiamo, la Francia ti aspetta!”

 

 

 

 

 

 

**

 

 

 

“No, non credo che mi abbia capito! Glielo ripeto, la nonna di questa ragazza…” Caroline mi indicò con un gesto teatrale della mano. “… è molto malata, e lei deve raggiungerla prima che sia troppo tardi. Annulli la prenotazione di qualcuno se necessario, ma lei deve assolutamente partire per Parigi prima che sia giorno.”

La donna dietro il bancone le rivolse un sorriso tirato, picchiettando febbrilmente le unghie curate sulla tastiera del computer. “Mi dispiace signorina, il primo posto è disponibile è tra tre giorni.”

“Sta scherzando?! Tra tre giorni sua nonna potrebbe essere morta e sepolta!”

“Care, piantala.” Le afferrai il braccio tirandola verso di me, sentendomi sprofondare dall’imbarazzo nel notare gli sguardi curiosi delle persone rivolti verso di noi. Abbassai la voce in modo che potesse sentirmi soltanto lei. 

“È inutile insistere, se non c’è posto quella donna non può farci niente. E poi la storia della nonna in fin di vita non è una gran trovata.”

“Beh, inventati qualcosa tu allora!” Esclamò Caroline inviperita, lanciando un’occhiataccia alla donna davanti al computer, che le sorrise un po’ imbarazzata, chiaramente a disagio. “O non salirai mai su quell’aereo.”

“Posso cederti il mio biglietto, se vuoi.”

La voce di una donna dall’accento inconfondibilmente francese alle nostre spalle ci fece sobbalzare entrambe.

Mi girai di scatto, scontrandomi con due grandi occhi verdi che mi fissavano in attesa di una risposta. 

“Avrei dovuto cambiare comunque la mia prenotazione, devo fermarmi ancora qualche giorno a New Orleans per… questioni familiari.” Il suo sguardo si rabbuiò per un istante, il sorriso le si incrinò un poco. Qualunque cosa la trattenesse in città, immaginai che non ne fosse entusiasta. “Visto che tua nonna sta male sarei felice di aiutarti, e poi sarebbe un peccato sprecare il biglietto.”

La sconosciuta davanti a me sorrise, portandosi una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio. Era così bella che rimasi per un attimo senza parole.

“Grazie, ma non è il caso…” Iniziai, ma Caroline fu più veloce, accorrendo al mio fianco in un batter d’occhio con un sorriso smagliante.

“La mia amica intende dire che è un gesto molto generoso e normalmente non approfitterebbe di una persona così gentile, ma dato che è un’emergenza accetta molto volentieri.” Mi diede una gomitata non troppo gentile nel fianco. “Vero, Hope?” Mi guardò minacciosa, imponendomi tacitamente di fingere di essere d’accordo con lei.

“Ma Caroline…”

“Non c’è problema, davvero.” La donna mi rivolse un altro sorriso, porgendomi il biglietto. “Mi fa piacere aiutarti, spero davvero che tua nonna stia meglio. Avanti, prendilo.” Mi incitò, notando la mia esitazione.

Tentennai ancora per qualche secondo, l’ultimo scrupolo morale della mia coscienza che continuava a ripetermi di non approfittare dell’ingenuità di quella donna, ma alla fine allungai le dita e afferrai il biglietto che mi porgeva. 

Se non avessi preso il biglietto avrei dovuto aspettare tre giorni, e mia madre avrebbe avuto tutto il tempo di fermarmi e di rinchiudermi in casa a vita.

Sarei stata davvero stupida a lasciarmi sfuggire un’occasione come questa.

“Grazie mille.” Strinsi il biglietto tra le dita come se fosse un tesoro incredibilmente prezioso. In un certo senso lo era, perché era l’unica cosa che mi avrebbe permesso di raggiungere mio padre.

“Non c’è di che. Auguri per tua nonna!” La sconosciuta mi sorrise ancora come se non le costasse nessuno sforzo. Doveva essere abituata a farlo, oppure era una grande attrice, perché il sorriso sul suo viso sembrava sincero, genuino.

Non era un sorriso di circostanza, era un sorriso vero.

Avrei voluto possedere anch’io la capacità di sorridere in quel modo, come se non avessi fatto altro per tutta la vita.

La ringraziai ancora, osservandola allontanarsi battendo i tacchi sulle piastrelle del pavimento e poi scomparire in mezzo alla calca tipica degli aeroporti.

“Hope! Hope! Pianeta Terra chiama Hope Marshall!” Caroline mi sventolò una mano davanti al viso per richiamare la mia attenzione. “Mi stai ascoltando o no?” La sua doveva essere una domanda retorica, perché non mi lasciò neanche il tempo di rispondere. “Ti stavo dicendo che dovresti affrettarti se non vuoi perdere l’aereo, una voce all’altoparlante ha appena comunicato che l’imbarco inizierà tra quindici minuti.”

“Oh… sì, certo, hai ragione.” Mi morsi il labbro inferiore come facevo ogni volta che ero a disagio, dondolandomi nervosamente da un piede all’altro. Non sapevo bene cosa fare o cosa dire.

Era già stato difficile lasciare mia madre e la mia città, ma lasciare Caroline era come perdere una parte di me.

Caroline era mia amica fin da quando avevo cinque anni e giocavo tutta sola nel parco sotto casa.

Lei si era seduta sull’erba accanto a me, nel suo sfavillante vestitino rosa con le scarpe coordinate e la treccia bionda che le ricadeva su una spalla, e mi aveva allungato la sua bambola con un sorriso.

Odiavo giocare con le bambole, ma accettai ugualmente perché era la prima bambina che mi aveva sorriso da quando avevo iniziato a frequentare quel parco.  

Caroline era l’amica con cui potevo parlare di tutto, perché sapevo che mi avrebbe ascoltata senza giudicarmi; Caroline era l’amica che mi impediva di prendermi troppo sul serio, che mi imponeva di non cedere alla tristezza; mi trascinava a fare shopping quando volevo solo starmene chiusa nella mia camera con le cuffie nelle orecchie e i miei amati pennelli, e anche se detestavo lo shopping come poche cose al mondo, mi aiutava a svagarmi, a ricordarmi che c’era un mondo intero oltre la mia stanza e la mia vita incasinata.

Anche se eravamo diverse come il giorno e la notte, nonostante spesso non  capissi certi aspetti del suo carattere e probabilmente nemmeno lei capisse me, c’eravamo sempre l’una per l’altra.

In ogni momento importante della mia vita Caroline era presente.

Caroline era la mia costante.

Senza di lei, senza il suo ottimismo e il suo sostegno e la sua presenza leggera ma così importante, avevo paura che non ce l’avrei fatta.

Davanti alla mia migliore amica, con gli occhi lucidi e il borsone in spalla, in partenza per una città straniera senza sapere cosa avrei trovato, scoprii che non ero così forte come credevo.

Le mie difese crollarono del tutto quando Caroline fece un passo verso di me e mi abbracciò strettamente, bagnandomi il colletto del maglione con le sue lacrime.

Serrai le palpebre per non piangere, ricambiando con forza l’abbraccio.

Inspirai profondamente il suo profumo così familiare, un misto di Chanel n° 5 e biscotti alla cannella, e sorrisi.

“Mandami tante cartoline.” Caroline si staccò da me, passandosi una mano sul viso nel tentativo di ricomporsi. “Coraggio, Parigi non è poi così male.

La torre Eiffel è stupenda, e potrai mangiare croissant caldi a colazione… e poi i ragazzi francesi sono incredibilmente carini.”

Mi uscì una risata simile ad un singhiozzo strozzato davanti a quel fiume di parole.

Era tipico di Caroline scherzare in quel modo quando si emozionava troppo.

In quel momento le ero grata più che mai per avermi salutata come se stessi partendo per una semplice gita turistica.

Era meglio così; non volevo che anche l’arrivederci alla mia migliore amica sembrasse un addio definitivo.

“Mi mancherai tanto.” Sussurrai, stringendola ancora una volta.

“Anche tu.”

Mi staccai e mi passai una mano sul viso cercando di sorridere. Non dovevo essere triste. Era giusto partire, era quello che desideravo più di ogni altra cosa al mondo.

Allora perché faceva così male? Perché sembrava tutto così sbagliato, così insopportabilmente doloroso? Perché avevo la sensazione di attraversare un confine proibito, oltre il quale non sarei più tornata indietro? 

Forse era soltanto un po’ di panico. Quando desideri qualcosa per tanto tempo e finalmente la ottieni, è sempre spaventoso.

È come scontrarsi con i propri sogni e venirne inghiottiti.

“Devo andare.” Dissi infine, tentando di mascherare il tremito della mia voce.

Caroline annuì e sciolse l’abbraccio. 

“Raccontami tutto, voglio sapere ogni cosa che farai laggiù.”

“Contaci.”

Ci guardammo negli occhi per un lungo istante.

Avrei voluto dirle tante cose, avrei voluto ringraziarla per tutto quello che aveva fatto per me, ma sentivo le parole incastrate sul fondo della gola.

In qualche modo, sentivo che non l’avrei più rivista.

Alla fine rimasi in silenzio e la salutai con un cenno del capo e un debole sorriso, prima di darle le spalle e iniziare ad incamminarmi lungo il corridoio.

Lei gridò un saluto alle mie spalle, ma non lo ricambiai.

Mi imposi di non voltarmi, mi imposi di non cedere, di trattenere le lacrime e continuare a camminare.

 

 

Non guardarti indietro, Hope.

Non pensare a quello che stai lasciando.

Ricordati perché lo fai.

 

 

Presi un respiro profondo e mi fermai in mezzo al corridoio, sentendomi come se qualcuno stesse cercando di rubare l’aria dai miei polmoni.

Strinsi i pugni con una tale violenza da far sbiancare le nocche, conficcandomi con forza le unghie nei palmi delle mani.

Il dolore fisico era l’unica cosa che poteva distrarmi da quel miscuglio di emozioni contrastanti che sentivo agitarsi nel mio petto.

Una voce dentro di me mi urlava di restare, perché se fossi partita niente sarebbe più stato come prima; un’altra mi urlava di andare, perché anche la peggiore delle delusioni era meglio dell’incertezza perenne.

Quale dovevo ascoltare?

Alle mie spalle c’era Caroline, il mio passato, le mie certezze, il mio porto sicuro.

Davanti a me c’era l’ignoto, un precipizio profondo in cui mi stavo buttando senza riflettere, senza avere la minima idea di quello che stavo facendo.

E se mio padre si fosse trasferito in un’altra città, o peggio ancora, in un altro Stato?

E se non fosse stato felice di vedermi? E se si fosse risposato e avesse una famiglia, quale diritto avrei avuto di sconvolgere la sua vita?

Come avrei fatto a trovarlo, senza sapere neanche il suo nome?

Tante, troppe domande mi affollavano la mente.

All’improvviso mi sentii incredibilmente stupida.

Partire così, senza nemmeno un appiglio.

Caroline aveva ragione, era una pazzia.

Non potevo farlo.

Ero pronta a tornare indietro, quando li vidi.

Una bambina che non doveva avere più di cinque anni era seduta al tavolino di un bar, accanto ad un uomo che doveva essere suo padre.

Si lamentava ad alta voce che non voleva mangiare, allora lui si mise ad armeggiare con il suo piatto e dopo pochi secondi aveva disposto i suoi biscotti a formare un cuore.

La bambina tenne il broncio per un altro paio di secondi, poi ammirò estasiata il suo capolavoro e cominciò a mangiare di gusto, mentre il papà la osservava intenerito, con uno sguardo pieno d’amore che solo un padre poteva avere.

Dopo aver visto quella scena non avevo più dubbi.

Volevo anch’io che qualcuno mi guardasse così. Volevo avere anch’io momenti come quello.

Sorrisi e ripresi a camminare.

Non è difficile andare avanti.

Un passo dopo l’altro e il gioco è fatto.

 
  
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