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Autore: Koa__    21/12/2018    11 recensioni
La sera della vigilia di Natale, Sherlock di malavoglia rientra a casa. È arrabbiato perché tutti sembrano preferire le feste al lavoro e si rifiuta di farsi coinvolgere dall’atmosfera natalizia. A Baker Street intanto, John e Rosie si stanno preparando per andare a cena da Mycroft e Lestrade, i quali hanno organizzato una festa per quella stessa sera. Ma Sherlock si rifiuta di seguirlo, ritenendo il Natale un stupidaggine e per questo i due litigano. Rimasto solo, Sherlock riceverà la visita del fantasma di Mary Morstan, la quale è tornata per annunciare la venuta di tre spiriti che lo porteranno a vedere i Natali passati, il Natale presente e i Natali futuri.
[Ispirato al: "Canto di Natale" di Charles Dickens]
‘Storia partecipante al ‘Mille e una fiaba contest’ indetto da Emanuela.Emy79 ”
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il primo dei tre spiriti
 
 
 

 
Era una strana figura, un che tra il bambino ed il vecchio.
Per un'arcana lontananza pareva ridotto alle proporzioni infantili.
Aveva canuti i capelli, fluenti sul collo e giù per le spalle;
ma non una ruga sul viso anzi il rigoglio più fresco.

Portava una tunica candidissima stretta alla vita da una cintura lucente.
In mano teneva un ramoscello di verde agrifoglio;
e, per uno strano contrasto a cotesto emblema invernale,
avea la tunica tutta adorna di fiori d'estate. 
 
 

 
 
Mentre saliva le scale, Sherlock non fece troppa fatica a capire che qualcuno occupava il soggiorno. Non fu necessario sollevare lo sguardo, il gran chiarore che inondava l’appartamento si sarebbe percepito persino a occhi chiusi. E fu proprio quello a spingerlo a convincersi che si trattava per davvero dello spirito che gli era stato annunciato. Non che la visita di Mary gli avesse fatto venire dei dubbi, al contrario era tutto molto ovvio (per quanto assurdo). Non appena ebbe raggiunto il corridoio si fermò però a pochi passi dalla porta. Era come se temesse soltanto l’idea di fare anche soltanto un metro in più, preferendo il guardarsi attorno in un tentativo di capire cosa stesse succedendo. Camino e lampade continuavano a essere spenti, così come l’abete decorato e i lampioni. Eppure ogni cosa brillava di una luce accecante. Non impiegò molto a dedurre che la causa proveniva dal centro del soggiorno, occupato ora da una figura alta e slanciata. Forse avrebbe dovuto dire qualcosa o perlomeno smettere di fissarlo, ma la verità era che non aveva idea di come affrontare la situazione: era tutto talmente fuori dall’ordinario d’aver sorpreso persino lui. Sherlock era abituato alle stranezze, ma i casi che gli venivano sottoposti, per quanto bizzarri, nascondevano sempre l’opera di un essere umano. Ladri, assassini, calamità naturali e delle volte persino animali i quali, volontariamente o meno, mettevano in atto una serie fatti che lo portavano poi a interessarsi del caso. Delle volte il divertimento stava anche nel far comprendere all’idiota di turno che la magia non esisteva, che era soltanto la ragione a vincere e che anche il fatto più inspiegabile nasconde le insidie di una mente umana o di un fatto fortuito. In simili occasioni, Sherlock amava lanciarsi in accorati monologhi sull’inutilità del folclore e del misticismo, ed era proprio John a starlo a sentire. Lui a ribattere, rimproverandolo di vedere le cose in maniera troppo razionale. Ma quella era una faccenda di fantasmi, niente di ciò a cui stava assistendo aveva radici nella scienza e non riusciva a concepirlo, né ad accettarlo. Sherlock era uno scienziato, un pensatore, un uomo che aveva fatto della logica l’origine dei ragionamenti che faceva. Come poteva sperare di capirci qualcosa? Ma soprattutto cos’avrebbe dovuto fare per uscire da quella situazione? Mary non gli aveva dato alcun indizio su questo.
 

Stravolto da quelle domande, la sua mente prese a vagare aggrappandosi a un ricordo. In apparenza niente di quanto stava pensando aveva un senso, ma era l’unica spiegazione che era riuscito a trovare. Chiuse gli occhi e vide un se stesso di non molto tempo prima, che s’arrendeva di fronte all’evidenza d’essere innamorato. Proprio lui che era cresciuto convincendosi che diventare una macchina senza sentimenti fosse la cosa migliore, era stato costretto ad ammettere di provarne. Quanto stava vivendo non era poi tanto diverso, la magia era irrazionale proprio come l’amore. Forse avevano una matrice in comune, magari la loro credenza era nutrita dalle stesse meccaniche. In entrambi i casi il motore era la fede, il credere ciecamente in qualcosa che non si sa spiegare ma che si pensa possa esserci. E poi anche fiducia e devozione. Sì, la magia era devozione proprio come lo era il suo amore per John Watson. Era veramente così? Non lo sapeva e il suo problema era che niente di tutto quello aveva una natura scientifica, non era una formula chimica o matematica, ma soltanto follia. Proprio per questo, a un certo punto, smise di porsi ulteriori domande. Non era il momento più adatto per riflettere visto che lo spirito che lo fissava. In un pensiero molto poco razionale, Sherlock Holmes dovette ammettere di essere terribilmente spaventato. Dopotutto, pareva umano anche lui.
 

Quando la luce svanì, le stanze ripiombarono nel buio, permettendogli di scrutare la figura che aveva davanti. Il fantasma aveva sembianze a lui conosciute. Si trattava di suo fratello Mycroft e gli somigliava tanto che, per un istante, aveva avuto paura che fosse morto realmente e nessuno gliel’avesse osato dire. Si ricredette e gli fu sufficiente il dare una rapida occhiata allo spirito. Ne aveva sì assunto le fattezze e parlava certamente con la stessa voce, ma era chiaro che fosse una persona del tutto diversa. Lo rivedeva nel taglio del viso, nella postura e nell’abito indossato, ma allo stesso tempo, di Mycroft, non vedeva proprio nulla. C’era un’espressione diversa nascosta tra le pieghe del suo volto, una di un tipo che suo fratello non era solito assumere nemmeno nelle più rare occasioni.
«Io sono lo spirito del Natale passato» enunciò e aveva un qualcosa di solenne nell’atteggiamento. In quello forse, almeno un pochino, suo fratello glielo ricordò. La differenza sostanziale stava nello sguardo, Mycroft non era mai realmente indifferente o distaccato a ciò che lo circondava. Era abile a nascondersi, ma di sicuro non era una persona fredda. Oltretutto, aveva tutta una sua maniera di guardarlo, una che era in grado di farlo sentire al pari di un bambino di cinque anni che l’aveva appena combinata grossa. Niente di tutto questo apparteneva all’essere con il quale stava già parlando.
«Passato da quanto?»
«Del tuo passato, e ora avvicinati e vieni con me» gli disse lo spirito. Aveva agito di forza e, senza indugiare, se l’era tirato dietro verso la finestra che s’aprì come d’incanto. Voleva uscire da lì? Beh, doveva essersi dimenticato che non aveva le ali. Per essere un qualcuno che avrebbe dovuto aiutarlo in chissà che cosa, non sembrava molto sveglio.
«Ma io sono un mortale, se esco dalla finestra mi sfracellerò al suolo.»
«Lascia che io ti tocchi qui.» Dopo che ebbe detto questo gli si fece vicino, appoggiandogli una mano sul petto. «Ora riuscirai a volare» sussurrò e, qualche istante più tardi, un calore intenso prendeva possesso delle sue membra. La sensazione era insolita, tanto potente che sembrava volergli far esplodere il cuore. Preso dal panico, Sherlock inspirò a pieni polmoni incamerando più ossigeno possibile. L’aria frizzava nelle vene e il cuore batteva svelto, respirare era diventato faticoso e oltretutto c’era anche quel vento, carico di neve, che non fece altro se non peggiorare la situazione facendolo rabbrividire. Fu soltanto dopo che ebbe ripreso coscienza di sé, che percepì una leggerezza mai provata prima prendere possesso del suo corpo. Fu questa a permettergli di librarsi nell’aria, a far sembrare la sua anima ben più lieve di quanto in realtà non fosse. Mai si era sentito tanto in pace con se stesso e sarebbe rimasto così per sempre se non che, da un istante all’altro, la sensazione di benessere scomparve. Lo spirito l’aveva afferrato per un braccio ed era scattato fuori dalla finestra. Lo stava facendo davvero, si disse mentre spiava la Londra sottostante: stava volando.
«Che c’è? Hai paura, Sherlock Holmes? Credevo ti piacesse osservare il mondo dall’alto.» Ma lui non si azzardò a dir nulla, limitandosi a stringere con più forza il braccio a cui s’era aggrappato. Neppure si preoccupò di riflettere sul fatto che gli spiriti avrebbero dovuto essere incorporei, tentò solamente di scacciare la paura che provava. Che fosse semplice più a dirsi che a farsi, questa era davvero tutta un’altra faccenda.
 

A un certo punto di quello strano viaggio, senza sapere dove stessero andando, Sherlock si ritrovò a guardare di sotto. E mentre sorvolava il Tamigi, osservandone lo scorrere lento, si rese conto di quanto la sua città riuscisse a essere magnifica da qualsiasi angolazione la si guardasse. Oh, amava Londra. In effetti la conosceva, e adorava, in qualsiasi punto. Ma quella era la prima volta che ne ammirava i tetti sporcati di neve e che notava aspetti a cui solitamente non faceva caso, come le luci dorate che illuminavano le strade, i cantori agli angoli delle vie che intonavano cori natalizi e poi le campane che suonavano per la messa della sera. Vedeva le persone e gli sembravano felici, il che era ridicolo perché lui detestava la gente e le loro chiacchiere vuote. E poi si era detto convinto di odiare il Natale, e non aveva di sicuro cambiato idea. Possibile che fosse il volo a mutare la prospettiva delle cose oppure era la magia che, pian piano, iniziava a entrargli dentro? Non riuscì a trovare realmente una risposta, perché poco dopo il viaggio finì e lui si ritrovò faccia a terra nella neve.


«Dove mi hai portato?» chiese, ma lo spirito non gli rispose e si limitò a indicargli una grande casa che sorgeva poco avanti a loro. Soltanto in quel frangente e dopo che ebbe sollevato lo sguardo, la riconobbe: era Musgrave, in tutta la sua bellezza. Non c’era mai più stato, nemmeno dopo che i ricordi si erano fatti consistenti. Mycroft lo aveva anche invitato ad andarci una volta o due, secondo lui avrebbe fatto bene a entrambi, ma Sherlock si era semplicemente rifiutato. Detestava il solo sentire pronunciare quel nome e invece adesso era proprio lì, nel luogo che avrebbe voluto poter cancellare dalla faccia della terra e che non riusciva a non trovare meraviglioso. La villa aveva un’ampia facciata, un vialetto e persino lo steccato. C’era una ghirlanda di pungitopo appesa alla porta, una di un tipo simile a quella che stava agganciata al portone del 221b di Baker Street. Fuori, accanto all’uscio, una catasta di legna faceva bella mostra di sé mentre lucine colorate erano state sistemate di modo da poter illuminare i contorni delle finestre. La neve stava ovunque attorno a loro, persino sul tetto dal quale di tanto in tanto cadeva in un franare lieve. Qualcuno doveva essersi divertito a giocare, dedusse notando un paio di fortini ai due lati opposti del giardino. A catturare la sua attenzione fu però un pupazzo di neve, era alto quasi quanto lui, aveva un aspetto minaccioso e tanto che sembrava esser stato sistemato lì per far da guardia al cancelletto. Sherlock non lo credeva spaventoso, al contrario lo trovava semplicemente magnifico. Portava un cappellone rattoppato sopra la testa, aveva un ghigno storto e c’era una benda al posto dell’occhio sinistro. A dargli l’aspetto di un vero pirata era però la sciabola, una di plastica orrenda ma che su di lui faceva un gran effetto. Un pupazzo di neve pirata, pensò stirando un sorriso. Geniale.
«Puoi avvicinarti» lo invitò lo spirito con fare pacato. Aveva sicuramente fatto caso al suo indugiare molto più del necessario e con altrettanta certezza doveva aver intuito i suoi timori. Sherlock quasi aveva paura a muovere un solo muscolo, credeva che tutto quanto potesse svanire da un momento all’altro e ricercava nell’immobilità l’illusione che ogni cosa potesse stare così com’era. Perché se c’era stato un attimo in cui aveva detestato l’idea di trovarsi lì, adesso invece non vedeva l’ora di guardare oltre quei vetri.
«Sono i tuoi ricordi e tu sei qui esattamente per questo.» Incoraggiato dalle sue parole, mosse quindi dei passi in avanti, prima con lentezza e poi con maggior rapidità. Una certa fretta s’impossessò di lui nell’attimo stesso in cui vide la propria chioma riccioluta spuntare tra le altre teste. Era lui da bambino, proprio lui. Esattamente lui. L’atmosfera che lo circondava era invitante e proprio per questo si ritrovò a esserne sorpreso, non ricordava un clima tanto piacevole a casa dei suoi genitori. Il camino era acceso, la tavola era apparecchiata, c’era agrifoglio e vischio ovunque e poi ancora un enorme albero di Natale e, sotto di esso, tanti regali uno sopra l’altro. Vide i suoi genitori sorridere come non ricordava avessero mai fatto, erano intenti a chiacchierare con mamma e papà Trevor, seduti accanto a loro. Facendo vagare lo sguardo scorse invece i suoi nonni assieme allo zio Rudy. Da un altro lato, invece, non molto lontani, Victor ed Eurus parlottavano tra loro fitto fitto. Nel guardarli giocare insieme, apparentemente spensierati, un dolore acuto gli trapassò il petto. Un brivido corse giù lungo la schiena, facendogli avere un mancamento. Gli occhi presero a bruciare al punto che non riusciva più a tenerli aperti. Averli a poca distanza fu doloroso. La realtà era che ancora faticava a scendere a patti col fatto che quell’orrore fosse accaduto per davvero. Guardava Victor e non poteva non pensare al teschio di bambino trovato da John in quel pozzo; lo vedeva e non riusciva a impedire agli occhi di pizzicare. Era uno stupido e lasciarsi andare in quel modo non sarebbe servito a niente, di certo non lo avrebbe riportato in vita.
«Perché? Perché mi fai questo, spirito?»
«Io non sto facendo nulla, ti mostro ciò che è stato.»
«Non è reale, non è reale» ripeté, afflosciandosi a terra e crollando tra la neve soffice. Il suo tentativo di convincersi finì però per portare a galla tutti quei pensieri che aveva tentato di cancellare. Perché non riusciva a portare quel peso da solo, non più. Con John ne aveva parlato, ma mai approfonditamente. Non gli aveva permesso di capire quanto grande fosse il suo dolore e adesso si sentiva uno stupido e un egoista, perché non stava pensando a nient’altri che a se stesso. Lo guardò un’altra volta, ma immediatamente distolse il volto. Voleva scordasi della triste fine del piccolo Victor Trevor e della sua instabile sorella, e voleva farlo per sempre.
«Non nasconderti dal tuo passato, Sherlock Holmes» disse lo spirito con fare saggio «non sei venuto per tua sorella e nemmeno per il tuo amico Barbarossa, ma per quel bambino che adesso suona il violino in piedi sopra a un tavolo. Ma forse quello che sta per succedere ti aiuterà.» Non capì subito che cosa volesse dire, se ne rese conto soltanto qualche istante più tardi. Nella casa stava succedendo qualcosa o, meglio, qualcuno che prima mancava all’appello era arrivato. Mycroft, dedusse premendo il naso contro le finestre. Era l’unica persona a non essere presente e tanto che sulle prime non gli aveva nemmeno dato troppa importanza. All’epoca suo fratello doveva avere circa quattordici anni, il che significava che era stato via per la scuola. Un fatto come un altro insomma. [1] Per quale motivo, invece, il suo arrivo gli parve la cosa più importante del mondo?
 

«Mickey.» Ad aver gridato era stato lui, il piccolo Sherlock Holmes. Lo aveva fatto con una voce sottile e acuta, tipica dei bambini di quell’età. Era stupefacente e non tanto perché poteva vedersi materialmente, ma perché c’erano aspetti della sua infanzia che aveva del tutto rimosso. Fisicamente era così come ricordava che fosse, alto per un bambino di sette anni, molto vivace, magro e con tanti capelli ricci. Eppure c’era un qualcosa di differente, soprattutto nei modi di fare. Era felice, davvero felice. C’era gioia ovunque, in lui. Nello sguardo, nel sorriso, nella maniera eccitata che aveva di raccontare le cose, ma anche in quella più semplice e naturale d’abbracciare un fratello. Per quanto ci si sforzasse, non ricordava d’aver mai stretto Mycroft in quel modo, non con un trasporto tanto sincero. E ancora più stupefacente era proprio suo fratello. Gli somigliava, ma soltanto vagamente. Ma le differenze non stavano tanto nel fisico grassoccio che deformava in parte i suoi lineamenti, risiedeva più che altro nelle espressioni. Quel Mycroft era meno torvo, meno ingrigito e di certo non turbato dalla preoccupazione. Nemmeno lui doveva aver avuto una vita facile, pensò in un lampo e sorprendendosi quasi se ne fosse reso conto soltanto allora.
«Temevo di fare tardi, la neve ha bloccato tutta la regione. Ho percorso gli ultimi metri a piedi, sono sicuro d’aver perso almeno cinque chili.»
«Oh, sarà così» disse il piccolo se stesso con convinzione «ma ora devi assolutamente sentirmi suonare, lo devi proprio. Ho imparato un’altra sonata. Il maestro ha detto che sono sorprendente, ha usato proprio queste parole: “Holmes, lei è sorprendentemente bravo” ha detto. E lo sai che ho letto un libro intero? Erano mille pagine. Parlava di navi, noioso. Ma c’erano tante parole che non conoscevo. E lo sai che il papà di Victor gli ha comprato una tartaruga? È davvero brutta, ma è interessante vedere quello che fa. Ieri siamo stati tutto il pomeriggio a fissarla. Ha inghiottito una foglia di lattuga per intero, pazzesco. E ho chiesto alla mamma se me ne prendeva una anche a me, ma ha detto di no e allora ho chiesto un cane, ma papà ha l’allergia. Uffa. E lo sai che ho chiesto a Babbo Natale un microscopio? Credi che me lo porterà? Credi che lo farà, eh, Mycroft? Io spero di sì, quest’anno ho fatto il bravo e non vedo proprio perché non dovrei averne uno. Mr Taylor dice che sono troppo piccolo per fare esperimenti, ma io dico che è lui ad avere un cervello invisibile a occhio nudo.»
 

Era davvero lui quel bambino? Perché tutto il tempo in cui era rimasto a guadarlo, non fece altro che chiederselo. Se non fosse stato per i capelli ricci probabilmente avrebbe detto di no, che doveva trattarsi di un altro. Il sentirsi tanto libero di mostrare quello che provava e l’essere così poco preoccupato dell’effetto che avrebbe potuto avere sugli altri, erano comportamenti che avevano smesso d’appartenergli. Lo Sherlock del futuro, quello degli anni a venire (quello che era tutt’oggi), si sentiva costantemente in dovere d’eliminare i sentimenti, di cancellare le emozioni e soffocarle al punto da non far capire a nessuno d’essere sensibile. Mycroft sosteneva che era la sua memoria di Eurus, lui invece ribatteva con forza che era nato così e che così era sempre stato. Ma adesso non ne era più tanto sicuro. Soltanto poche ore prima avrebbe risposto a chiunque glielo avesse domandato, che non aveva mai provato felicità per il Natale, per l’amicizia o l’affetto dei suoi cari. Eppure eccolo lì, a sette anni o poco più. Tutto preso a parlare di Babbo Natale e delle renne, che erano tanto intelligenti da riuscire persino a parlare. Sette anni e abbracciava suo fratello con slancio. Sette anni e usava parole come: uffa. Era un bambino normale in tutto e per tutto, forse molto vivace e parecchio intelligente, ma normale. E no, non riusciva a smettere di guardarsi, né di credere a quanto stava vedendo. Fu allora che successe e proprio mentre vedeva quel piccolo se stesso intonare una sonata facile di Mozart. Una lacrima. Una soltanto, scesa senza una ragione apparente e con mille motivi per farlo. Pianse in silenzio e lo fece per Victor che sarebbe morto di lì a sei mesi e per una sorella che a stento ricordava d’avere, e pianse anche per il segreto di Mycroft e il dolore che i suoi genitori avevano provato, ma soprattutto pianse per quel se stesso che da allora in avanti sarebbe radicalmente cambiato.


«Lo vedi?» disse lo spirito, ma no lui non lo guardava. Non voleva più farlo. Aveva chiuso gli occhi e li teneva testardamente serrati. «Non sei sempre stato così, un tempo sapevi amare e sapevi godere dell’amore che ricevevi. Quello che ti è successo è stata una tragedia, ma le scelte che hai fatto sono state tue e di nessun altro. Non biasimare i tuoi fratelli, incolpa soltanto te stesso.» A quel punto lo scenario mutò, Musgrave era sparita e con lei erano scomparsi anche i regali e le grida festose. Non era più seduto sulla neve fresca, ma in un vicolo buio. Lì, appoggiato a un cassonetto dei rifiuti, riconobbe se stesso a nemmeno vent’anni. Il braccio scoperto e un ago in vena, in volto un aspetto trasandato e malsano.
«Buon Natale, Mr Holmes!» esclamò quello Sherlock con finta allegria. L’istinto gli disse di farsi avanti e aiutarlo, ma oltre a sapere che non sarebbe servito a niente fu lo spirito che, di nuovo, lo portò via. Da un altro Sherlock. Uno che se ne stava in piedi davanti alla finestra del soggiorno, là nel 221b di Baker Street. Uno che teneva un violino stretto tra le dita di una mano e che si mordeva le labbra. Uno che si rigirava un pacchettino nella tasca dei pantaloni da ore, e che non aveva avuto ancora il coraggio di tirar fuori. Ricordava quella notte, avevano dato una festicciola a casa. Erano venuti anche Molly e Lestrade e lui voleva cogliere l’occasione per dare il proprio regalo a John, uno stupendo e costosissimo orologio che aveva finito col non dargli, perché spaventato dall’idea che potesse non piacergli. Ora capiva che cosa lo spirito gli stava dicendo.
«Hai sempre scelto la solitudine anche quando avevi attorno a te persone che ti volevano bene e farlo non ti ha provocato altro che dolore. Ciononostante, per te c’è ancora una speranza, Sherlock Holmes. Le persone che segretamente ami e che sarebbero pronte a fare altrettanto se tu glielo permettessi, non aspettano altri che te.» Poi, tutto scomparve e lui si ritrovò a Baker Street di nuovo. Solo e al buio.
 
 
 

Continua
 
 
 
 
[1]Due parole su questo: tengo per buona la versione secondo la quale tra i due fratelli ci sono sette anni di differenza. Pertanto se Sherlock ne ha sette, Mycroft dovrebbe averne circa quattordici, a quell’età i ragazzi dovrebbero frequentare la “Secondary Education” che sono un po’ come le nostre scuole medie, ma considerando la sua intelligenza ho creduto potesse già andare al college.

Note: Mi rendo conto che, considerati gli scarsi risultati del primo, aggiornare adesso sia un po' triste. Ma mi sono prefissata di pubblicare tutti e cinque i capitoli tra i giorni prima di Natale, Natale stesso e (al massimo) un paio di giorni dopo. Il che sinigifica che pubblicherò ogni due giorni. Intanto ringrazio IlaryNoble83 che ha recensito il primo capitolo.
Koa
   
 
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