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Autore: Alicat_Barbix    23/12/2018    1 recensioni
Trama:
John, forse il migliore agente a servizio dell'MI6, viene inviato sotto copertura ad indagare in uno dei più eminenti Night Club di Londra, per stanare la mente criminale più pericolosa che il mondo abbia mai conosciuto. A questa missione John è pronto, sa che non può fallire, che nelle sue mani vi è il destino di Londra e non solo. O almeno, crede di essere pronto, ma un bizzarro incontro con uno dei dipendenti del locale ha il potere di ribaltare le carte in tavola.
Sherlock, decisamente il miglior prostituto all'interno del Morningstar, vive felicemente la sua vita densa di sesso, avventure e disinibizione. Sherlock ama il suo lavoro, lo trova divertente e sa di essere il migliore e che niente potrebbe mai cambiare la sua vita da condannato all'Inferno che però tanto adora. O almeno, crede che niente possa cambiare la sua vita "perfetta", ma un bizzarro incontro con un ex medico militare così facile eppure difficile da leggere con le sue deduzioni ha il potere di stravolgere la sua intera esistenza.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
I'm The Only One
Who Can Keep Him Safe
 
Furono forse gli istanti più duri della sua intera esistenza. Peggio dell’Afghanistan? Peggio dell’Afghanistan, dove un piede appoggiato in un punto sbagliato ti faceva saltare in aria, dove pallottole vaganti potevano trapassarti il cranio, dove rischiavi di inciampare sui corpi dei tuoi compagni e amici, dove eri costretto a raccogliere i cadaveri di padri di famiglia e giovani figli sapendo il dolore che avrebbe trafitto i cari in patria. Peggio delle missioni per l’MI6? Peggio delle missioni per l’MI6, dove c’era il costante pericolo di venire catturato e torturato, dove la pastiglietta di cianuro ti avrebbe salvato la vita togliendotela, dove uno scontro a fuoco poteva risultarti fatale.
Fu peggio. Ogni cosa sarebbe stata più sopportabile, John lo sapeva. Lo sapeva mentre vuotava il sacco e si riempiva la bocca di quella verità che aveva taciuto forse per troppo tempo. Cercava risposte negli occhi di Sherlock, una reazione, un qualsiasi cosa, ma non trovava che imperturbabilità. Sherlock era rimasto a fissarlo in silenzio per tutto il racconto, non tradendo alcuna emozione né nelle pieghe del viso, né negli occhi, e John si sentiva morire di fronte a quel silenzio. Quando tacque, capì che non solo aveva appena compromesso la riuscita della missione, ma che stava rischiando di perdere tutto ciò di buono che gli era capitato in quel posto.
Tacque e Sherlock tacque con lui. Tacque e Sherlock continuò a tacere. Tacque e quel silenzio in risposta fu quanto di più terribile potesse immaginare.
“Sherlock.” mormorò con lo sguardo basso e colpevole. “Ti prego, di’ qualcosa.”
Ma Sherlock sembrava perso in lontananza, spogliato di ogni briciolo di coscienza, paralizzato in una verità che, probabilmente, ancora gli stava vorticando intorno vertiginosamente. Infine, i suoi occhi chiari si accesero di amara delusione. “Mi hai mentito.” biascicò come in trance. “Mi hai mentito anche tu.”
“L’ho fatto perché dovevo, Sherlock, non perché volevo.” si giustificò lui, udendo, però, le sue stesse parole così deboli e insignificanti.
“Mi hai mentito anche tu. Alla fine, sei come tutti gli altri… Ti sei avvicinato per uno scopo, nonostante non fosse quello di farti scopare, ti sei avvicinato per arrivare al mio capo…”
“No, Sherlock, io-”
“Lo stesso capo che io ti ho confidato essere uno stronzo bastardo ossessionato da me con manie di protagonismo e sadismo, lo stesso capo che mi tiene stretto nel suo pugno, lo stesso capo che mi picchia e mi fa violenze come e quando meglio crede.” continuò il moro, come se non l’avesse sentito.
John gli prese una mano, ma l’altro fu rapido a schiaffeggiarla via, gli occhi ridotti a due fessure giudicatorie. “Sherlock…” sospirò allora, rassegnandosi a quella lontananza tanto fisica quando interiore. “E’ successo il contrario, Sherlock. Quando ho visto quello che eri in grado di fare con il tuo spirito di osservazione, ho avuto paura che potessi dedurre ogni cosa di me e della missione e mi sono ripromesso che avrei dovuto girarti alla larga. E così ho fatto per diversi giorni, finché non ho avvertito il desiderio pressante di rivedere quell’uomo strano che tutti chiamavano col nome di Angelo caduto. E poi non ho più avuto il controllo di niente, cazzo! Sei entrato nella mia vita mascherandoti come un lieve alito di vento e – una volta dentro – sei diventato un tornado ineluttabile ed era ormai troppo tardi per chiudere le finestre! Sherlock… Non c’è niente di falso tra di noi, tutto quello che ho detto e fatto è stato perché ci credevo ed è vero.”
“Devo dire che le spie di Mycroft stanno migliorando in quanto a recitazione.” ringhiò cupamente l’altro, serrando i pugni. “Sono stato così stupido…” sospirò poi, quasi rivolgendosi a se stesso. “Avrei dovuto capirlo, dannazione. Il tuo modo di guardarti attorno, il tuo cercare di farmi parlare del capo… la tua casa – davvero un po’ troppo vistosa per un medico militare in congedo… Oh.” Tacque per diversi istanti, Sherlock Holmes, l’ombra di una tragica sconfitta si delineava informe sul suo viso d’alabastro, un dubbio gli baluginava nelle iridi cristalline. “John Watson. Ti chiami così, vero?”
John annuì con espressione grave, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Sentiva che la situazione gli stava sfuggendo di mano, perché ovviamente era sempre così quando si trattava di Sherlock. “Ascolta… capisco se ora mi odi e non mi voglia più vedere, davvero. Però, Sherlock, ti prego, permettimi di salvare questo posto, di salvare te.”
“Me? Credi che non sia abbastanza forte da proteggermi da solo? Dovrei venderti la mia vita?” Una risata incredula lasciò le labbra del moro. “Come puoi anche solo chiedermi una cosa del genere? Tu e mio fratello volete portarmi via la mia casa, la mia vita, fuori di qui io non sono nessuno. E soprattutto, non avrò nessuno. Non più.”
Quelle ultime parole furono come il grande martello del gong che viene abbattuto con poderosa decisione sul grande piatto. La vibrazione lo pervase dal profondo, scuotendogli le viscere e le ossa. Non più. John non era così sconsiderato e sciocco da illudersi di salvare quello che erano riusciti a creare con tanta fatica, ma non poté negare di averci quasi sperato, per un attimo solo, piccino piccino. Non era pronto a lasciarsi indietro quell’uomo meraviglioso che era diventato una costante della sua vita. Ma se avesse dovuto farlo, sarebbe stato meglio saperlo al sicuro da chiunque ci fosse dietro all’organizzazione, e chissà, magari alla fine avrebbe trovato qualcuno per cui valesse la pena lasciarsi andare anche ai sentimenti come con lui non aveva voluto fare.
Promettimi che non ti innamorerai di me.
Gli suonava così disperata, ora, quella richiesta. E se era difficile in quelle condizioni, come sarebbe stato se fossero stati legati da qualcosa di più profondo di una semplice attrazione fisica ed intellettuale? Cosa sarebbe successo se fossero stati legati dall’amore? L’avrebbero superata? O avrebbero finito col soffrire maggiormente?
“Sherlock, non ci rimane molto tempo. Due giorni fa ho parlato con Mycroft e i suoi informatori sostengono che qualsiasi cosa stia architettando la cellula terroristica associata al capo di questo posto è imminente. Troppe vite dipendono dalla riuscita della mia missione.”
“Quindi mi hai raccontato tutto questo solo perché il conto alla rovescia è prossimo allo zero.”
“No, certo che no! L’ho fatto perché non potevo continuare a mentirti! Non mi aspetto che tu mi consegni il tuo capo, ma se sai qualcosa, qualsiasi cosa che potrebbe aiutare il Governo-”
Sherlock non gli permise di continuare. Con una presa quasi rabbiosa gli afferrò il viso e lo tirò verso di sé con disperazione. John non poté che sussultare a contatto con le sue labbra, gli occhi sgranati per la sorpresa e la lingua dell’altro che, senza troppe cerimonie, gli si ficcava in bocca a contatto con la sua. Fu un bacio strano, di certo non bello. Un bacio triste, uno di quelli che si scambiano due amanti prima di dirsi addio. Era un addio? Era davvero il loro ultimo bacio? Era così che avrebbe ricordato Sherlock Holmes e il loro rapporto? Con quell’ultimo, disperato bacio?
Quando si separarono, gli occhi di Sherlock saettarono al vialetto del giardino che si srotolava sotto di loro. John, seguendo il suo sguardo, trattenne il respiro: lì, appollaiato su di una panchina, gli occhi fissi su di loro, sedeva Sebastian Moran. Il suo cuore prese a battergli furiosamente, mentre mille dubbi e mille domande gli affollavano la testa. Non poteva aver sentito. Era troppo lontano. Però John stava gradualmente alzando la voce, colto dalla frustrazione di essere sul punto di perdere per sempre Sherlock. Della missione, ormai, poco gli importava. I suoi occhi si spostarono su Sherlock. Lo aveva protetto? Aveva protetto il suo segreto?
Come se avesse percepito il suo sguardo su di sé, Sherlock si volse verso di lui, un’amarezza sconfinata a tempestargli negli occhi. “Vattene.” sibilò con voce impotente. “Vattene e non tornare mai più. Non scomodarti nemmeno a provarci: informerò Jackson e gli altri buttafuori che da oggi Andy Rose è bandito dal Morningstar. Tornatene da Mycroft, raccontagli quello che ti pare, inviate qualcun altro, ma io non voglio più rivederti.”
Aveva pronunciato quelle ultime parole con rabbia. John percepiva un profondo malessere attorcigliarsi dentro di lui, un grumo di cancerogeno dolore che gli squassava le interiora. Era finita. Ogni cosa. Era un addio. Era un mai più. Ma forse, forse era meglio così. Meglio staccarsi da Sherlock. C’era qualcosa di oscuro nell’essere così vicino a quell’uomo. Un sesto senso che scampanellava con insistenza in lui, un messaggio subliminale che non riusciva a cogliere.
“Perdonami.” fu tutto quello che riuscì a dire prima di voltarsi e affrettarsi verso i cancelli d’uscita dell’Inferno.
 
“Dobbiamo tirarlo fuori di lì!” sbraitò sbattendo un pugno sul tavolo e rischiando di far traboccare lo scotch ancora intoccato del suo bicchiere. Occhiate critiche dei più alti esponenti del Governo e dell’MI6 vennero puntate con biasimo su di lui, alcune annoiate altre accusatorie. Come potevano starsene tutti così tranquilli e indifferenti? Come potevano? John, quasi, tremava. La notte prima, dal Morningstar, si era subito recato al Diogenes Club e, com’era da aspettarsi, Mycroft era ancora lì a fare Dio-solo-sa-che-cosa. Non si era alterato, Mycroft. Né aveva lasciato trasparire l’agitazione con cui però, in seguito, contattò lady Smallwood, un’importante membro del Parlamento, nonché anche lei invischiata nei lavoretti dell’MI6. Il consiglio d’emergenza, come l’aveva definito Holmes, si era radunato in tutta fretta quella stessa notte e John aveva insistito per partecipare.
“Non biasimo le tue azioni, John” gli aveva detto Mycroft. “ma sappi che gli altri membri non la penseranno allo stesso modo e che non ci penseranno due volte a metterti in ridicolo o a giudicarti.”
Ma poco gliene importava, ormai. Gli sembrava di aver perso tutto e l’unica cosa che gli stava a cuore era tirare Sherlock fuori da quel posto. Il consiglio era parso restio alle proposte avanzate da Mycroft per attuare un protocollo d’emergenza che consentisse, se non altro, di tirare fuori i dipendenti del locale, anche se avrebbe significato farsi scappare il capo dell’organizzazione.
“Sappiamo di tuo fratello, Mycroft, ma non possiamo anteporre affetti di carattere personale alla vita dei nostri cittadini.” aveva osservato Sir Edwin, un alto funzionario dell’intelligence britannica.
“Perché, Sherlock non è uno dei vostri cittadini?” aveva quindi replicato con acidità John.
“Agente Watson, dato che è stato lei a creare questa situazione d’emergenza si risparmi almeno di intervenire a sproposito” lo aveva, però, zittito quello.
“Sherlock è in pericolo! Quel pazzo che stiamo cercando è un sadico il cui divertimento risiede nel farlo soffrire e nel sottometterlo! Non possiamo lasciarlo lì dentro!”
“Vedo che la sua abilità in missione è tanta quanto la sua sprovvedutezza nell’esaminare i casi da esterno.”
“Non me ne starò qui ad aspettare che quel maniaco gli faccia ancora del male!”
“E’ la logica a parlare, agente, o è il cuore?”
“Sono io a parlare perché ho visto quello che c’è là dentro.”
Sir Edwin aveva dunque sospirato, esasperato. “Non comprometteremo di nuovo la missione per Sherlock Holmes, mi dispiace, e anche nel più drastico degli eventi sarebbe una vita contro centinaia, forse migliaia.”
“Dobbiamo tirarlo fuori di lì!”
Era stato allora che John Watson era esploso. Scrutava i volti dei presenti, vi cercava un minimo di comprensione, di umanità, ma non vi era che biasimo e indifferenza. Solo Mycroft, seduto in silenzio accanto a lady Smallwood, pareva mostrare una traccia di compassione nei suoi confronti. John era lacerato dall’impotenza, dal sapere Sherlock solo, senza più Victor né lui a guardargli le spalle, in balia di un pazzo.
“Agente Watson, le condizioni per cui lei è stato ammesso a questa riunione prevedevano il suo stare in silenzio e parlare solo se interpellato.” intervenne con fermezza lady Smallwood. “Perciò può continuare ad assistere in silenzio o se vuole quella è la porta.”
John rimase immobile, appoggiato al grande tavolo attorno a cui sedevano donne e uomini di potere, così distanti da lui. “Fatemi tornare là.” sussurrò poi. “Trovatemi una nuova identità, un modo per camuffarmi. Lo porterò via io. Sembrerà la fuga di un uomo stanco di quel lavoro e di quel luogo.”
“A quanto ci dice, Sherlock Holmes è fondamentale per il nostro uomo. Se dovesse sparire, farebbe delle ricerche e crede davvero che con tutti i suoi contatti non scoprirebbe che è stato portato via dall’MI6?”
John contrasse la mascella fino a farla scricchiolare. Provava l’impulso di rovesciare quella tavolata e urlare tutta la sua disperazione al mondo intero. “Lasciate che lo salvi.”
“No.” sentenziò perentoria la voce di Mycroft i cui occhi vennero presto allacciati da quelli sgranati dell’agente. “Non possiamo correre il rischio. L’unico modo per salvarlo, John, è acciuffare quel criminale.”
“Bene, allora ditemi quello che devo fare e ve lo consegnerò domani stesso.”
Un mormorio di disappunto percorse la sala delle riunioni, mentre gli astanti si scambiavano sguardi d’intesa. Mycroft sospirò profondamente. “Mi dispiace, John, ma a seguito dei recenti avvenimenti non possiamo permetterti di continuare. Ti sollevo dal tuo incarico e ti dichiaro in congedo finché non saremo noi a richiedere i tuoi servigi.”
Un sorrisetto ironico illuminò sinistramente il volto di John. “Stai scherzando, vero? Dimmi che stai scherzando.” Ma il viso di Mycroft era una lastra di marmo. Fece correre nuovamente lo sguardo tra i visi compiaciuti dei presenti, mentre dentro cresceva la consapevolezza che era stato dichiarato non idoneo a salvare Sherlock, il suo Sherlock. “Bene. Voi pensate a salvare la vostra patria e la vostra regina, che io penso a salvare Sherlock. Ah, e non scomodatevi per il mio congedo. Mi licenzio.”
E detto questo schizzò fuori con il suo rigoroso passo militare, furioso e rovente a causa dell’umiliante sconfitta appena subita. Percorse a caso i corridoi del Parlamento, si perse, tornò indietro sui suoi passi, respirava male, gli faceva male la testa… Non seppe dire come fosse crollato a terra, i pugni serrati che pestavano il lussuoso pavimento.
Mi hai mentito anche tu… Alla fine, sei come tutti gli altri… Sono stato così stupido… Dovrei venderti la mia vita?... Fuori di qui non sono nessuno… E soprattutto, non avrò nessuno… Non più… Vattene e non tornare mai più… Io non voglio più rivederti…
E mentre la sua mente veniva scossa da tali pensieri, cercò la forza di rialzarsi, di rimettersi in sesto per elaborare un nuovo piano per salvare Sherlock. Lo aveva perso, e questo non poteva cambiarlo, ma lo avrebbe portato via da quel covo di vipere, anche contro il suo volere.
 
Si svegliò nel tardo pomeriggio, dopo poche ore di tormentato sonno per recuperare l’intera nottata trascorsa prima con Mycroft e poi con quegli avvoltoi del Governo. Provava una ripugnanza mista ad astio verso quella gente. Non li sopportava, non li aveva mai sopportati, ma quella mattina avevano davvero superato ogni limite. Ora, se ne stava chino sulla planimetria del locale che aveva creato lui stesso con quanti più dettagli era riuscito a ricordare. Si sarebbe intrufolato di nascosto, questo gli pareva ovvio – magari dal giardino. I puntini rossi segnati in certe zone corrispondevano alle telecamere piazzate dal capo del Morningstar ed evitarle non sarebbe stato facile, anche perché non poteva essere sicuro che non ce ne fossero altre, magari nascoste in qualche angolo imboscato. Sarebbe entrato dalla scala del personale, e avrebbe disattivato la telecamera oscurandola con lo spray che aveva usato in più occasioni, ma a quel punto, sarebbe stato dato l’allarme, perciò la velocità avrebbe rappresentato tutto. La stanza di Sherlock era vicina a quell’ingresso e ci avrebbe impiegato pochi secondi a raggiungerla. Poi, la parte difficile. Convincere Sherlock a seguirlo. Per questo avrebbe portato con sé la pistola. Forse era meschino, ma non avrebbe esitato un solo istante a puntargliela contro pur di salvarlo. Detto questo si sarebbe fatto dire dove trovare il suo capo e sarebbe andato a stanarlo senza pensarci due volte, gli avrebbe puntato la pistola sull’uccello e l’avrebbe osservato sbiancare per il terrore. Gli avrebbe sputato addosso, gli avrebbe vomitato contro il suo odio per aver osato sfiorare Sherlock, lo avrebbe trascinato personalmente da Mycroft e gli altri spocchiosi del Governo, e avrebbe richiesto di essere lui a strappargli dalle labbra le informazioni.
Avrebbe agito quella notte, quando l’affluenza di clienti gli avrebbe consentito maggiore distrazione da parte del personale tutto. Avrebbe salvato Sherlock. Ad ogni costo.
Alle undici e mezza scese, avvolto dai suoi abiti scuri che generalmente utilizzava per il lavoro attivo sul campo. La sua cintura era pesante di oggetti, la pistola carica di colpi, il suo spirito scevro di una determinazione che forse mai aveva avuto prima di una missione. Non appena aprì la porta di casa, però, scorse una macchina nera lucente parcheggiata di fronte al cancelletto d’ingresso. Un brivido gli percorse la schiena, ma ostentò freddezza e prese a camminare sveltamente verso la fermata dell’autobus, gli occhi che cercavano febbrilmente un taxi su cui montare. L’auto, com’era da manuale, venne accesa e i fanali lo accecarono. C’erano due spiegazioni: la prima era che fossero dei tirapiedi qualunque del capo del Morningstar, la seconda – quella che obbiettivamente temeva maggiormente – era che fossero gli uomini di Mycroft piantati lì per impedirgli di fare una sciocchezza. Sciocchezza che lui non avrebbe esitato a compiere. Prese a correre, imboccando un vicoletto scuro e fetido, dove però una macchina non sarebbe riuscita a passare, e si affrettò verso la strada che si snodava dietro la sua casa. Quella zona non era esattamente l’ideale per mimetizzarsi fra la folla. In giro, a quell’ora, erano in pochi mentre una macchina nera sarebbe stata facilmente confondibile. Doveva evitare quanto possibile di capitare lungo vie troppo trafficate, altrimenti sarebbe stato localizzato in un attimo. Ringhiò di frustrazione mentre correva sul lungo marciapiede limitrofo della strada principale del quartiere: avrebbe perso troppo tempo. Doveva trovare un taxi alla svelta, e sfrecciare al Morningstar. O ci sarebbero stati uomini anche lì? Conoscendo la perizia di Mycroft dubitava che il grande piano di controllo si riducesse ad una sola macchina stanziata di fronte casa sua. Girò su se stesso, gli occhi che vagavano tra i fari delle auto in cerca della scritta arancione sul tettuccio…
Nella foga, andò a sbattere contro qualcuno e mentre si stava girando per scusarsi, nonostante la fretta e la trepidazione, si sentì afferrato, una mano premuta sulla sua bocca. Con un’abile testata riuscì a liberarsi facilmente di quella presa, ma appena l’individuo che aveva cercato di bloccarlo toccò con la schiena la parete di una casa, massaggiandosi il naso sanguinante, un secondo tizio gli fu addosso, stavolta con una pezzetta di sicuro imbevuta di cloroformio. John si abbassò, sostenendosi con le braccia, e assestò un preciso calcio alla rotula dell’uomo che con un gemito straziante si accasciò a terra, le mani a coprire l’osso del ginocchio spostato.
Con una gomitata allo sterno riuscì a respingere nuovamente l’uomo dal naso rotto e a schizzare via, perdendosi in un altro vicolo. Com’era da aspettarsi, quella macchina scura non era l’unica a sorvegliare i suoi movimenti. Con la coda dell’occhio, notò una donna far scivolare la mano nella borsetta di raso.
“Mi scusi, miss.” biascicò afferrandole il polso e tirandola verso di sé, rivelando la mano munita di pistola. “Farà un po’ male.” continuò con tono leggermente cavalleresco prima di torcerle un braccio e scatenare un grido strozzato. Non a caso era il miglior agente dell’MI6.
Sbucò nuovamente sulla strada principale, deciso ad entrare a forza in una macchina, incurante dei civili e delle loro vite così insignificanti, in quel momento. Ma ecco che una seconda macchina nera, di un modello diverso da quella di fronte a casa sua, si accostò a lui, il finestrino abbassato. John fu rapido. Estrasse la pistola e la puntò contro il viso dell’uomo che si sporse verso di lui, ma poi il dito, sul grilletto, esitò. Spalancò gli occhi, mentre l’arma gli cadeva di mano. Di fronte a lui, seduto sul sedile posteriore, accanto a Mycroft Holmes, sedeva Sherlock, negli occhi una luce divertita.
“Buonasera.” esordì il moro senza scomporsi. “Bella sorpresa, eh?”
“S-Sherlock?” biascicò John confusamente e nemmeno si rese conto di due uomini che gli ghermirono brutalmente le braccia, assicurandogliele dietro la schiena.
“Può bastare, idioti. Non vedete che ci sono io, ora?” intervenne Mycroft con voce tanto annoiata quanto sprezzante, che ottenne subito il risultato desiderato: i due lo liberarono immediatamente, ma lui neanche ci fece caso, troppo impegnato a spostare lo sguardo da un Holmes all’altro.
“Che cosa significa?”
“Significa che James Moriarty, il proprietario del Morningstar e la più abile mente criminale che il mondo abbia mai conosciuto, è stato arrestato.” rispose il maggiore con tono apatico. “Tutto questo, grazie alle prove forniteci da mio fratello, il quale ha saggiamente deciso, alla fine, di collaborare con la giustizia. I miei uomini stanno giusto perquisendo ogni centimetro del locale, in cerca di altre eventuali informazioni utili, ma il materiale che Sherlock ci ha gentilmente consegnato è sufficiente a condannare Moriarty alla galera per un totale di ottantaquattro anni.”
“I-io… Dov’è adesso?”
“Lo stanno interrogando. Stavamo giusto venendoti a prendere, ma ci abbiamo messo un po’ a trovarti mentre scappavi mettendo KO tutti i miei agenti.”
John ancora stentava a credere a quello che vedeva. Sherlock era lì. Sherlock era vivo. Sherlock stava bene. Sherlock era salvo. Respirò nuovamente, il cuore infinitamente leggero, la testa ormai sgombera da ogni preoccupazione. L’autista era sceso dalla macchina e ora gli indicava solennemente la portiera anteriore sinistra spalancata, invitandolo a salire, ma lui non riusciva a distogliere gli occhi da Sherlock.
“Stai bene.” sospirò alla fine, un gemito di sollievo, quasi.
Ma l’altro non rispose e si limitò a richiudere il finestrino, celandosi dietro il vetro scuro.
Salì nella macchina, che ripartì non appena ebbe chiuso lo sportello, diretta verso l’uomo che più odiava al mondo, nonostante non lo conoscesse nemmeno. Il percorso per raggiungere la prigione di Pentonville fu denso di un silenzio corposo e imbarazzante. L’autista guidava tranquillamente, gli occhiali da vista inforcati sul naso aquilino, Mycroft era concentrato sul suo cellulare, assorbito completamente da qualunque cosa stesse leggendo. Rimanevano dunque, John, che non riusciva ad evitare ai suoi occhi di correre verso lo specchietto retrovisore, e Sherlock, il cui sguardo, puntualmente, veniva colto in flagrante da quello dell’altro, riflesso sul vetro.
Arrivarono dopo una buona mezz’ora di strada. John scese quasi al volo, tanta era la rabbia che gli si stava accumulando granello dopo granello, e seguì Mycroft che, con passò elegante come al solito, lo guidò attraverso i corridoi della famosa prigione londinese. Sherlock se ne stava diversi passi dietro di loro, con tutta probabilità non aveva chissà quale voglia di rivedere il suo carceriere. E John accelerò anche per questo, perché non poteva concepire l’idea di uno Sherlock ancora spaventato, ancora bloccato nel passato. Sarebbe stato proprio lui a chiudere quella porta e a gettare via la chiave. Sherlock sarebbe stato al sicuro per sempre, dopo quel giorno.
Giunsero di fronte ad una porta sorvegliata da due guardie dei reparti speciali che appena videro Mycroft si fecero da parte dopo aver lasciato la via aperta. Dietro quella pesante anta di ferro, si apriva una saletta scura, dov’erano raccolti sir Edwin e lady Smallwood, affacciati su un ampio finestrone, uno di quelli che conosceva bene, uno dei tanti che aveva visto nel corso dei suoi servigi all’MI6. E fu proprio verso quel finestrone che si affrettò, superando il maggiore degli Holmes, ormai libero da ogni rapporto di deferenza nei suoi confronti, visto che si era licenziato di fronte al Governo intero.
In una squallida celletta con solo una sedia di plastica azzurra, sedeva, con le mani e i piedi immobilizzati, un ometto dal viso leggermente tumefatto, con lo sguardo fermamente rivolto davanti a sé, su di loro – anche se non poteva vederli – nonostante un uomo gli stesse urlando contro domande e sferrando pugni alla conseguente mancanza di risposte.
“E’ lui?”
Certo che era lui. Ma voleva sentirselo dire. Voleva avere il permesso di dare sfoga a quelle settimane trascorse alla sua caccia. Voleva che fosse lo stesso Sherlock a dirgli di entrare e fargli giustizia, ma sapeva che l’altro non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. E da un lato, era giusto. Sherlock era migliore di quella canaglia che sedeva con sguardo vacuo in quella cella, era migliore persino di lui. Lui si era stancato di essere migliore del mondo. Voleva fregarsene, per un attimo soltanto, della sua moralità, entrare là dentro, e riempirlo di botte fino a vederlo agonizzare a terra, rantolare nel suo stesso sangue.
“Sì, l’abbiamo catturato proprio mentre usciva dal locale, grazie ad una telefonata di Sherlock.” rispose Mycroft affiancandoglisi. Per qualche secondo, ogni presente in quella stanza tacque, lasciando che il silenzio venisse riempito soltanto dalle grida dell’agente addetto ad interrogare quello che Holmes aveva prima chiamato Moriarty. “Vuoi entrare, John?”
John non rispose, ma si limitò a volgersi in direzione di Sherlock, il quale lo stava fissando con intensità. Cristo, perché doveva essere semplice cosa difficile capire quello che passava nella mente di quell’uomo? Lo stava pregando di vendicarlo o gli stava chiedendo di non entrare?
“Sì e voglio completa libertà.” sibilò alla fine, mentre sul volto di Sherlock si accendeva un’espressione che gli parve delusa. Era davvero così sbagliato volerla far pagare a quello che lo aveva fatto soffrire per anni?
“D’accordo. Hai cinque minuti.”
L’agente nella cella, richiamato dal maggiore degli Holmes, uscì detergendosi la fronte con la manica bianca della camicia, il viso stravolto, quasi fosse stato lui a subire le percosse. John inspirò a fondo ed entrò. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, gli occhi del prigioniero si puntarono su di lui e, finalmente, sul suo volto vi fu ben altro che insofferenza. Un ghigno feroce gli illuminò l’intera faccia, e la lingua andò ad inumidirgli animalescamente le labbra.
“Bene, finalmente ci conosciamo, Andy Rose. Dubito che sia il tuo vero nome, ma dubito anche che abbia intenzione di dirmelo.”
“Dubiti male, Moriarty. Voglio che ricordi il mio nome e cognome ogni notte che penserai a quanto sangue avrai sputato qua dentro.” rispose con voce piatta, atona. “John Watson.”
“John Watson.” ripeté il detenuto arricciando con soddisfazione le labbra. “Ti piace, Sherly? O preferivi Andy?” disse poi alzando la voce e causando in John un’esplosione di rabbia che lo portò ad avvicinarglisi e a tappargli brutalmente la bocca artigliandogli le guance.
“Rivolgiti ancora a lui e sta’ pur certo che non avrai tempo di pensare il suo nome che ti ritroverai affogato nel tuo stesso sangue.”
“Quanto può essere diverso un alias dalla persona vera. Il dottor Rose sembrava così dolce, persino quando ha finto di essere ossessionato dal mio Sherlock.” sputò fuori Moriarty, nonostante la presa salda esercitata dalle sue grinfie.
“Lui non è tuo.”
“E’ più mio di quanto pensi. Di quanto lui pensi. Siamo legati dallo stesso destino.”
“Sta’ zitto.”
“Di certo è più mio che tuo.”
“Lui non è proprietà di nessuno.” ringhiò aumentando ancora di più la stretta sulla carne di quell’essere. “E ora che tu sarai sbattuto dietro le sbarre… lui sarà libero di prendere in mano la sua vita.”
Una risata sguaiata lo costrinse ad allentare la presa e a farlo scostare, inorridito da colui che gli stava davanti. “Io non me ne andrò mai da lui. Sarò sempre dentro di lui. Mi sono spinto troppo dentro e avrà per sempre una traccia di me in lui. Sarà marchiato come una vacca, come un albero su cui un cane ha pisciato sopra, e tu non potrai-”
John non si rese neanche conto del pugno che partì. Percepì solo il dolore alle nocche e il calore del sangue rappreso sul dorso della mano. La potenza del colpo era stata tale che la sedia si era ribaltata, e con essa Moriarty, che ora era a terra, scosso dalle risa, con la faccia impregnata di sangue.
“Meraviglioso! Ora capisco perché ti piace tanto, Sherlock!”
“Ti ho detto che non lo devi nominare.” ruggì allora abbassandosi su di lui e premendogli il palmo della mano sul naso rotto, cercando di scatenargli quanto più dolore fosse in grado di scatenare. “Ormai, Moriarty, la tua era è giunta al termine. Sherlock non soffrirà più per mano tua…”
“Forse per mano mia no, ma non puoi proteggerlo da tutto.”
“Sì, invece.”
“Oh, Johnny, sei solo uno stolto se pensi questo. E sai perché? Perché un giorno ti sveglierai e Sherlock non sarà più con te. Alla fine, lo perderai perché non sei stato abbastanza forte da proteggerlo.”
Le parole di Moriarty erano fasulle, eppure John non provò l’istinto di colpirlo, quanto di allontanarsi da quella stanza. Invece, le sue gambe erano ancorate a terra, incapaci di muoversi.
“Tempo scaduto.” decretò la voce di sir Edwin in seguito al cigolio dei cardini della porta.
“Soffrirai, Johnny. Soffrirai come un cane.” continuò però Moriarty, mentre tutto quello che lui riusciva a fare era starsene lì, impotente, ad ascoltare quell’irreale vaticino. “Sherlock soffrirà. Sarai tu a farlo soffrire.”
“Watson.”
“Sherlock non sarà mai al sicuro con te. Solo io potevo proteggerlo, e adesso che sarò rinchiuso in gattabuia, tutto quello che potrò fare è guardarlo mentre si lascia distruggere da te.”
“Che stai dicendo…”
“Watson! Ho detto: tempo scaduto!”
“Tu credi che il pericolo che minaccia Sherlock sia io, ma non hai idea di quanto ti sbagli, Johnny. Il pericolo non sono io.”
Delle braccia robuste gli afferrarono le braccia e lo tirarono indietro, lontano da Moriarty.
“Ricordati che non sei nessuno, John Watson. Non lo sarai mai. E assisterai alla distruzione di Sherlock pezzo dopo pezzo. Ascolta le mie parole: Sherlock Holmes è una bomba a orologeria. Il conto alla rovescia è vicino alla fine, più vicino di quanto pensi! BOOM! BOOM!”
La porta venne chiusa con un tonfo, mentre il suo corpo praticamente inerme veniva tirato via con la forza, verso il corridoio da cui erano venuti. John si ritrovò seduto a terra senza neanche capire come c’era finito. Di fronte a lui, inginocchiato alla sua altezza, Sherlock lo fissava con aria turbata. Da quanto erano lì? Istintivamente, la sua mano corse ai ricci dell’altro, affondando tra quei capelli setosi, quasi a volersi accertarsi che non fosse un’illusoria visione.
“Sherlock…”
Sherlock, in risposta, gli poggiò una mano sulla sua, e si guardarono in silenzio per diversi istanti. E ancora, John si chiedeva se l’aveva perso, quell’uomo meraviglioso che gli stava di fronte. Le parole di Moriarty l’avevano turbato così tanto che come uno sciocco era crollato a terra, in un attimo di giramento di testa. Aveva parlato di Sherlock come di un oggetto di sua proprietà, di un animale da bestiame che non era in vendita, di un diamante il cui inestimabile valore poteva essere preservato da lui e da lui soltanto. Solo a ripensare a quell’essere avvertiva la rabbia montare nuovamente.
“John.” John spostò gli occhi da Sherlock a Mycroft, comparso improvvisamente alle spalle di quest’ultimo. “Volevo ringraziarti a nome di tutta l’assemblea. E’ stato solo grazie a te che Sherlock ha deciso di compiere questo avventato passo. E sappi che non ti ho ancora depennato dall’elenco dei miei agenti migliori.”
Avrebbe voluto dirgli che non gliene fregava niente dei suoi ringraziamenti né della sua velata offerta di riprendere il servizio, ma si limitò ad un secco cenno del capo e a rialzarsi in piedi, appoggiandosi alla parete.
“Devo occuparmi di alcune questioni, ancora, ma voi due potete pure andare. Troverete una macchina ad aspettarvi.”
Si avviò con passo incerto lungo il corridoio, pregando che i passi di Sherlock calcassero le sue stesse immaginarie impronte. Voleva compiere il resto della sua strada assieme a lui. A fianco a lui. Lasciare insieme impronte sulla sabbia della loro vita e arrivare alla fine del deserto insieme, per poi voltarsi e ricordare tutti i passi impressi in quel giallo dorato baciato dal sole. Trattenne il respiro finché non udì le falcate indecise di Sherlock seguirlo, lasciarsi condurre. Non si fermò né rallentò per aspettarlo, non finché non furono di fronte alla macchina. Allora e solo allora, John prese coraggio per guardarlo e ammirarlo lì, fermo di fronte al cancello, come un bambino intimorito rimane attaccato alle gambe della propria madre.
“Andiamo da qualche parte?” chiese timidamente, l’intestino che pareva attorcigliarsi su se stesso dall’ansia.
“Insieme… No, meglio di no…”
“Sherlock…”
“Cosa?”
“Ecco, io… Dovremmo parlare?”
“Di che cosa?”
“Di quello che succederà a questo punto.”
Sherlock sospirò e compì un piccolo passo verso di lui, le mani ficcate nel Belstaff e il bavero alzato per ripararsi dall’aria marzolina. “Stando a quanto dice Mycroft, una vecchia amica di famiglia, una sorta di governante per me e mio fratello, affitta un appartamentino grazioso in centro, in un quartiere piuttosto lussuoso, a un prezzo di favore. E… beh, credo che potrei provare a trasferirmi lì…”
“Pensi che riprenderai in mano l’idea del consulente investigativo?”
Un sorriso ironicamente triste comparve sulle labbra di Sherlock screpolate dal freddo. “Non penso proprio, no. Credo che Scotland Yard non riuscirebbe più a fare a meno di me poi… Meglio non viziarli.”
“Capisco…”
Tacquero entrambi per diversi secondi, l’aria della sera che li avvolgeva materna con il suo abbraccio. Nubi dispettose macchiavano il firmamento, coprendo il blu notte, assomiglianti al gas di scarico delle automobili.
“Posso chiederti come hai fatto ad incastrare Moriarty?” Il moro mantenne tenacemente lo sguardo puntato sulle punte dei mocassini. “Sherlock?”
“Conosci i miei metodi.” rispose semplicemente l’altro.
“Che cosa vorrebbe dire?” lo incalzò dunque, avvertendo rabbia fluirgli nelle vene, ignorando quella vocina nella sua testa che gli sussurrava malevolmente che sapeva benissimo come Sherlock aveva fatto.
“Seducendolo. Mi sono autoinvitato in camera sua e mi sono limitato a sedurlo… Sulla parete orale mi ero precedentemente spalmato una droga di mia invenzione che addormenta chiunque la assimili completamente per un lasso di tempo piuttosto ampio. Così, ho dovuto aspettare che mi ripulisse ben benino la bocca con la sua lingua e che la droga facesse effetto. Il resto è stata la parte più semplice. Aveva una stanza segreta nascosta da un quadro… molto caratteristico, per lui. Conoscendolo, non ho avuto dubbi che le sue mani di protagonismo lo avrebbero spinto ad affidarsi a quel dipinto. Ho raccolto ogni cosa, contattato Victor e gli ho chiesto di portare tutto a Mycroft mentre io avrei tenuto d’occhio Moriarty. Non appena si è reso conto di quello che avevo fatto… beh, Moriarty non l’ha apprezzato e così mi ha… sì, insomma, mi ha legato al letto e… Puoi intuire che cosa una feccia come lui sia in grado di fare. Fortunatamente, avevo già previsto tutto e avevo posizionato il mio telefono sotto le lenzuola, facilmente raggiungibile anche con le mani legate. La schermata era già pronta per telefonare Mycroft. Ho avvertito lui che ha avvertito a sua volta i suoi uomini e… eccoci qui.”
John alzò gli occhi al cielo, incredulo che Sherlock si fosse davvero gettato in qualcosa di così folle. “Se solo mi avessi aspettato, cazzo… Non avresti dovuto… non avresti dovuto…”
“Era qualcosa che dovevo fare io.” mormorò con tono scuro il moro, gli occhi ancora a terra. “Per andare avanti con la mia vita.”
“E io?” chiese senza preavviso John. “Io ne faccio parte della tua vita?”
L’altro parve sinceramente sorpreso. “Beh, io… Non so…”
“Sparirai dalla mia vita come ne sei entrato?”
“Tecnicamente, sei tu che sei entrato nella mia.”
“Sherlock, io… non voglio che finisca.” Si avvicinò, pregando con tutto se stesso che non si scansasse e, con suo sollievo, quello rimase fermo e statuario, avvolto nel suo Belstaff scuro. “Questo è… importante. E non intendo solo il fatto che tu mi piaccia da impazzire, ma io credo di non poter continuare senza di te.”
“Tu non hai bisogno di me.” ribatté il moro distogliendo lo sguardo, ma John gli prese il mento tra due dita e lo costrinse a guardarlo nuovamente negli occhi.
“Ti sbagli.” sussurrò semplicemente. “Permettimi di far parte della tua vita, Sherlock Holmes. So che ti ho mentito-”
“Non è più per questo.” lo interruppe Sherlock scuotendo la testa. “Anche se inizialmente mi ha fatto davvero, davvero incazzare e mi ha fatto sentire come se tu mi avessi ingannato riguardo tutto, mi hai permesso di liberarmi delle catene di Moriarty e di liberare tanti altri miei compagni… mentre altri pagheranno assieme al loro capo.”
“E allora che cos’è che ti frena?”
Il moro si mangiucchiò nervosamente il labbro inferiore. “Andy… John.” Si soffermò particolarmente su quel nome che John si era trovato costretto a celargli per diverse settimane e lui si sentì sciogliere. Non pensava che un nome così banale come il suo potesse suonare così dannatamente bene pronunciato da quell’uomo. Si trovò a sorridere e Sherlock, di sicuro, se n’era accorto, perché la parvenza di un sorriso sfilò anche sulle sue di labbra. “John, mi sono prostituto per otto anni e, non fosse stato per Moriarty, avrei anche trovato questa vita più che soddisfacente e appagante. Ora… ora devo ripartire da capo: trovarmi una casa, fare qualcosa con la mia laurea in chimica, capire qual è il mio scopo… E so che la vita, lunga o breve che sia, va avanti, però mi sembra di essere intrappolato in un limbo da cui non uscirò mai…”
“E allora permettimi di aiutarti.”
“Non è una cosa in cui puoi aiutarmi. Su questo, Jim ha ragione: non puoi proteggermi da tutto.”
Quella manifestazione d’intimità con il suo vecchio capo, come il chiamarlo per nome, gli provocò un profondo moto di gelosia, unito alle sue parole. Lui non poteva proteggerlo da tutto, però Moriarty poteva? Che razza di follia!
“Perché lui poteva, invece.” sbottò infatti incrociando le braccia al petto.
“John…”
“Non riesco a capire, Sherlock. D’accordo, lo ammetto, sarei presuntuoso se pensassi che potrei difenderti da tutto, però… lascia che ti stia accanto. Dammi una possibilità, Sherlock.”
Gli occhi di Sherlock si colmarono di dolcezza e la mano gli prese la sua, portandosela alle labbra. John chiuse gli occhi e gli si fece ancora più vicino, in modo che i loro corpi si toccassero. Dio, quanto gli era mancata quella sensazione, sebbene fossero passati appena due giorni.
“E’ quello che vuoi? Starmi accanto?”
“Più di qualunque cosa al mondo.”
“E se andrà male?
“E se andrà male, ci comporteremo di conseguenza. Ma non pensiamo alle cose brutte. Cerchiamo prima di capire da dove iniziare, che dici?”
Sherlock ridacchiò. “Facciamo un periodo di prova?”
“Perché no?”
“Della durata di quanto, se posso chiedere?”
“Che te ne pare con… tutta la vita?”
John osservò il volto dell’altro accostarsi al suo, poi chiuse gli occhi e tutto ciò che percepì fu il calore della bocca del moro a contatto con la sua. In quel bacio, sorrise, colmo di gioia. Dicono che gioia e felicità non sono la stessa cosa. Dicono che la felicità è un qualcosa di effimero, legato a particolari momenti della vita, e che la gioia, invece, sia una condizione costante nella vita di ciascun individuo. Beh, grazie a Sherlock Holmes, John Watson la sua gioia l’aveva appena trovata, perché, cazzo, si sentiva fottutamente bene e libero e leggero, e quello era solo l’inizio.
“Abbiamo tutta la vita davanti.” sussurrò sulle labbra dell’altro prima di continuare a baciarlo con maggiore passione, cingendogli la vita in un abbraccio desiderato e nostalgico, gioioso.
 
 SPAZIO AUTRICI
Bene bene bene... A quanto pare le cose si sono avviate. Sherlock è fuori dal Morningstar o almeno, momentaneamente... Sarà davvero finita qui la sua storia all'interno del bordello? O con Moriarty? John ha rivelato la sua identità e così facendo, nonostante le turbolenze iniziali, è riuscito a permettere che Sherlock si salvasse e che il loro rapporto potesse finalmente giungere ad una svolta... Ma sarà finita qui? (Non so se vi ricordate che la long fic è composta di dieci capitoli + un epilogo... quindi non è decisamente finita qui). Ma per adesso, spazio ai nostri piccoli protagonisti e alla loro relazione - o quasi...

Anyway, questa settimana - come promesso - pubblicheremo due volte: giovedì e domenica così come la settimana prossima, in modo che finiremo definitivamente questa long fic. *si asciugano una lacrimuccia*

Grazie mille a tutti voi che ci seguite, we love you all, e niente, appuntamento a Giovedì 27 - sperando che ci ricorderemo...

AH QUASI DIMENTICAVAMO. BUON NATALE A TUTTI! <3

*kiss*
Alicat_Barbix
   
 
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