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Highway to Hell
"And I will no longer do as I am
told
And I
am no longer afraid to walk alone
Let me go, let me be
I'm
escaping from your grip
You will never own me again"
[The Handler – Muse]
Due
fessure azzurrine nel buio e un circoletto di luce poco più
sotto.
Attorno si intuivano dei riflessi metallici, rilucenti
nell'oscurità.
Tony
aggrottò la fronte con fare un po' seccato: di nuovo
l'armatura?
"Il
mio laboratorio di sogni sta esaurendo l'inventiva."
Si
guardò intorno, realizzando di essere nella solita,
sterminata
stanza nera. Tanto per cambiare era nudo, ma per lo meno aveva tutti
i pezzi al posto giusto, incluso il reattore, a cui diede una pacca
sollevata. Era strano non sentire il peso del braccio meccanico, non
avvertire la rigidezza della gamba e avere un preciso senso della
profondità con entrambi gli occhi. Erano delle sensazioni
alle quali
si era ormai disabituato, e che gli sembravano quasi estranee.
Scrollò
le spalle e si incamminò verso quelle tre luci. Non che ci
fosse
molto altro da fare.
"Dovrò
scrivere una lettera di protesta a Morfeo," sbuffò tra
sé.
Camminò
per un po'. L'armatura era più lontana di quanto gli fosse
sembrato.
Una
corrente d'aria lo sfiorò e rabbrividì,
ritrovandosi con la pelle
d'oca. Ruotò capo e occhi, cercandone inutilmente la fonte.
Ora che
ci faceva caso il suo corpo era stranamente sensibile, al contrario
di quasi tutti i sogni precedenti.
Sotto
le piante dei piedi avvertiva una superficie regolare, piana e
leggermente ruvida.
"Cemento?"
Si
arrestò e portò una mano alla nuca, come sempre
quando rifletteva
su qualcosa, e le sue dita incontrarono delle ciocche lunghe e
ribelli, invece del taglio corto che portava da qualche tempo.
Ritrasse la mano, tirandosi appena le punte dei capelli con fare
perplesso.
Riprese
la marcia e accelerò il passo. L'armatura si avvicinava.
C'era
vento, adesso. Distingueva un mormorio di automobili in sottofondo,
assieme a un sentore di fumo acre, come di gomma bruciata e benzina.
I suoi sensi stavano ricostruendo una scena che gli sembrava
familiare e che accendeva un pizzicore spiacevole nel suo stomaco,
impossibile da focalizzare.
Era
l'Afghanistan? No, si rassicurò subito: lì
c'erano solo il lezzo di
sangue rappreso, il crepitio costante di braci morenti e il sapore di
acqua torbida in bocca, nelle narici, nei polmoni...
Aumentò
ancora il passo, sfociando in una corsetta nervosa e impaziente.
Arrivò
davanti all'armatura col fiato leggermente corto. Solo allora si rese
conto che qualcosa non andava: dovette alzare la testa per guardare
il reattore; le fessure azzurre incombevano minacciose su di lui.
"Da
quando è così grande...?"
Fu
allora che quel pizzicore inquieto si tramutò in un blocco
solido di
terrore, proprio quando Iron Monger si rianimò con un
ruggito
metallico scagliandosi contro di lui.
***
5 Gennaio 2009, Settore 16, Stark Industries
L'atterraggio
sul tetto fu più duro di quanto avesse previsto e
batté la tempia
contro la calotta interna dell'elmo, mentre cercava inutilmente di
frenare la caduta coi propulsori ormai agonizzanti. Il colpo lo
stordì, ma riuscì a liberarsi in tempo del guanto
sinistro, ormai
in cortocircuito e sul punto di ustionargli una mano. Tentò
di
rialzarsi a fatica, rintronato e con la testa leggera, ma la gamba
destra non reagiva come avrebbe dovuto e crollò di nuovo su
un
ginocchio. All'inizio non capì se ciò dipendesse
dall'armatura o
dal suo corpo, poi percepì con chiarezza il metallo che gli
penetrava nella carne, mozzandogli il fiato ad ogni minima
contrazione dei muscoli e delle ossa che si muovevano in modo anomalo
e agghiacciante. Abbassò lo sguardo e una stoccata nauseante
lo
colpì allo stomaco. Mise a fuoco oltre un velo di lacrime il
gambale accartocciato che gli stritolava il polpaccio, ormai una
massa contorta di metallo cremisi e sangue così scuro da
sembrare
nero.
Quando
era successo? Forse quando l'aveva scaraventato contro
quell'autobus...
Provò
a muovere il piede, ma quello non rispose, come fosse sconnesso dal
resto del suo corpo.
«Tony!»
la voce squillante di Pepper risuonò nell'auricolare.
Provò
a parlare, ci provò con tutto se stesso, ma gli
uscì solo un
respiro spezzato.
«Oddio,
sta... sta bene?»
Stavolta
colse una crescente nota di panico nelle sue parole e si
obbligò a
rispondere, deglutendo a stento sangue e saliva:
«Più
o meno. Ho perso potenza e –...» una fitta
lancinante al ginocchio
lo fece interrompere con un sibilo. «Credo... di avere una
gamba
rotta,» annaspò infine, schiudendo l'elmo.
Accolse
con sollievo la ventata d'aria fresca che lo investì sul
volto
madido e fu scosso al contempo da un conato. Adesso avrebbe vomitato,
ne era certo. La sensazione delle ossa scomposte nella gamba gli
stava rivoltando le budella, ma riuscì solo a sputare un po'
di
sangue che gli lasciò la bocca più impastata di
prima. Per un
istante gli parve di percepire la consistenza ruvida della sabbia in
gola, ma s'impedì di focalizzarla, concentrandosi invece
sulla voce
di Pepper:
«I
soccorsi stanno arrivando. Rimanga dov'è, e...»
Un
boato fece tremare il tetto oscurando la sua voce e lui si
voltò di
scatto, verso la colossale armatura che era appena atterrata dinanzi
a lui. Richiuse di scatto la visiera e si appiattì a terra
appena in
tempo per schivare il gancio che stava per disintegrargli la testa.
Si
rialzò sul ginocchio integro e d'istinto fece per lanciare
un raggio
dal guanto, prima di realizzare di aver usato la mano disarmata. Il
secondo pugno lo colpì in pieno volto, cozzando contro la
maschera e
sbalzandolo via di qualche metro. Una scarica di adrenalina residua
gli permise di ignorare il dolore quel tanto che bastava per attivare
i propulsori posteriori e scagliarsi a testa bassa contro Stane, per
ricambiare la cortesia con tutta la forza che gli rimaneva.
Provò un
moto di feroce soddisfazione nel sentire il proprio pugno metallico
impattare col suo casco con un rintocco di gong, strappandogli un
lamento soffocato.
"Questo
è per la gamba, bastardo."
Si
pentì della propria avventatezza quando si trovò
avviluppato nella
sua stretta ferrea, che ora minacciava di frantumargli le vertebre.
Si dibatté debolmente sentendosi un pesce preso all'amo, e
la furia
di poco prima si tramutò in paura quando sentì le
placche
posteriori dell'armatura che iniziavano a cedere con un cigolio.
Avvertì
un'acuta fitta al costato e il suo cervello andò
momentaneamente in
stand-by, impedendogli di processare ciò che sentiva per
reagire di
conseguenza. Il corpo smise di rispondere ai comandi, scivolando in
una gelida paralisi. Gli mancava l'aria: vide rosso, poi bianco,
infine la sua vista si oscurò, animata solo da migliaia di
minuscole
stelle intermittenti man mano che sentiva la pressione aumentare fino
a strizzargli i polmoni. Le fessure azzurrine di Iron Monger
sembravano deriderlo nel buio.
La
sua paura si tramutò in qualcos'altro, un terrore
cieco e
ancestrale
che gli rianimò membra e cervello, in un fiotto prepotente
di calore
che gli scosse la spina dorsale e gli artigliò la nuca.
Riprese a
pensare e le sinapsi si riavviarono come saette concitate che presero
a rimbalzare nel suo cranio. Respirare diventava sempre più
laborioso.
"Gamba
rotta, repulsori fuori uso, missili offline..." elencò
frenetico. "Stai per schiattare, fai
qualcosa!"
«Razzi!»
riuscì ad articolare infine, e l'armatura eseguì,
accecando
momentaneamente Stane con delle piccole esplosioni, poco più
di
qualche petardo, ma abbastanza per fargli allentare la presa e
mandargli in tilt i sensori ottici.
Puntò
la gamba sana contro la massiccia corazza e fece leva, per poi
attivare i propulsori riuscendo infine a rompere quella morsa.
Rovinò
a terra inerte e solo allora si rese conto di aver semplicemente
ritardato l'inevitabile.
Non riusciva a muoversi. Non
riusciva a muoversi.
La sua testa si fece leggera, quasi si fosse separata dal corpo. Fece
leva sugli avambracci e riuscì solo a trascinarsi di un
passo per
poi ricadere a terra, ancora protetto dal denso e basso fumo dei
razzi. I passi di Stane si abbattevano sul tetto, riverberando nelle
sue ossa mentre si agitava alla sua ricerca in quella nebbia per ora
impenetrabile, ma destinata a disperdersi per lasciarlo di nuovo
indifeso.
Abbatté
un pugno a terra, sopraffatto dalla frustrazione e dal dolore, ma si
rifiutò di abbandonarsi lì. Si sollevò
sul
fianco sano e
strisciò sui gomiti dietro a un bocchettone d'areazione, un
precario
riparo che però lo proteggeva alla vista.
"Sono
spacciato," gli rimbombò nella mente, ottenebrata dalla
consapevolezza che, qualunque morte lo attendesse, non sarebbe stata
eroica né indolore.
Il
suo respiro accelerò e iniziò ad iperventilare,
in cerca d'aria, di
una via di fuga, ma sotto di sé c'era solo solido cemento, e
il
cielo velato sopra di lui gli era precluso.
"Non
posso morire così. Ho fatto ancora troppo poco."
Piegò
la gamba devastata e soffocò un grido: poteva ancora
muoverla, anche
se a caro prezzo.
"E
poi che penserà il resto della boy-band? Non sono solo un
'uomo-scatoletta', non posso darla vinta a Capitan Ghiacciolo!"
Fece
leva sulla gamba integra, poggiandosi alla parete metallica per
mantenersi in piedi.
"E
se finisco all'aldilà che racconto a Yinsen? Che sono morto
spiaccicato da una brutta copia della mia stessa armatura? Sai che
ridere."
Chiuse
per un momento gli occhi e fu sul punto di perdere i sensi, a un
passo da un piacevole e allettante oblio che avrebbe annullato tutte
le sensazioni spiacevoli e dolorose che...–
"No!
No, resta sveglio! Là sotto c'è Pepper.
C'è Pepper e non puoi
farle questo, non puoi
farle questo, svegliati!"
Si
morse con forza l'interno della guancia, costringendosi a riaprire di
scatto gli occhi e tornare presente a se stesso, col sapore del
sangue a impregnargli la lingua. Era un genio, era Tony Stark:
avrebbe trovato una soluzione, anche adesso.
Riuscì a
trascinarsi
dietro al gabbiotto d'accesso al tetto, ponendo una difesa
più
solida tra lui e le morse mortali della gigantesca armatura.
Sbirciò
appena oltre l'angolo, mettendo a fuoco il suo nemico che setacciava
l'area, facendo tremare il tetto ancora avvolto da una sottile
nebbiolina. La consapevolezza che là dentro ci fosse Stane
riemerse
prepotente. Aveva appena tentato di ucciderlo senza alcuna
esitazione.
Una
strana morsa gli afferrò il petto, un misto di delusione,
rabbia e
profondo sgomento a cui non seppe dare un nome se non dopo qualche
istante: tradimento. Affondò come una lama proprio nel punto
in cui
si raggruppavano le schegge che minacciavano il suo cuore.
"Cazzo,
papà, ti sei scelto proprio degli amici di merda,"
riuscì a
pensare quasi rassegnato, e gli sembrò che la lama si
torcesse nel
suo petto, allargando una ferita già aperta.
Poi
fu distante da lì, avvolto da una calma assoluta e gelida.
Era
di nuovo nella grotta. Davanti a lui c'era il bastardo dagli occhi di
vipera che lo guardava dimenarsi sull'orlo di un barile implorando
per una boccata d'aria, o accartocciarsi sotto le percosse con la
testa e il volto protetti solo dalle sue stesse, deboli braccia. E
stavolta dietro di lui intravide un'ombra più cupa, quella
di un
burattinaio che tirava le fila di tutto quel macabro teatrino,
guidando da dietro le quinte ogni colpo che si era abbattuto sul suo
corpo e ogni mano che gli aveva strappato i capelli per costringerlo
sott'acqua. Durò
un istante, un attimo di puro gelo che fece poi largo a una marea
bruciante. I suoi occhi si appuntarono su quell'armatura mastodontica
desiderando solo di poterla fondere con lo sguardo, catturando tra
quei flutti roventi la bestia che aveva ordinato di squarciargli il
petto per infiggervi un cuore di metallo.
Quando
parlò la sua voce era trasfigurata, tremante e gutturale
come se
scaturisse da una caverna.
«Potts.
È lì?»
Vedeva
la foto associata al suo contatto sullo schermo rotto, sfigurata
dalle crepe che lo attraversavano, e fu solo aggrappandosi al suo
volto che riuscì a rimanere lucido e a non slanciarsi verso
Obadiah
per cavargli gli occhi, o fracassargli la gabbia toracica come
avevano fatto con lui, o massacrarlo di pugni fino a...
«Tony!»
la voce di Pepper arrivò come un toccasana, interrompendo
quel
flusso di immagini che non avrebbe mai creduto di poter evocare,
pronto a montare di nuovo non appena avesse lasciato il freno al suo
raziocinio traballante.
Doveva
essere terrorizzata, forse più di lui, e forse
più per il tono in
cui l'aveva involontariamente appena chiamata che per tutto il resto.
Pensò alla serata di beneficenza, al contrasto tra l'onda
calda dei
suoi capelli e la stoffa blu cobalto che andava a esaltare la
sfumatura più chiara delle sue iridi. Il velo d'acqua che
sembrava
ovattargli le orecchie si assottigliò, permettendogli di
parlare con
più lucidità:
«Ho
un piano,» ansimò, cercando inutilmente di
mascherare le sue reali
condizioni che trasparivano comunque dalla voce sforzata.
«Dobbiamo
sovraccaricare il reattore,» cominciò, cercando di
continuare a
pensare.
Ci
fu un breve silenzio dall'altro capo e si sentì raggelare,
nonostante Obadiah fosse ancora nel suo campo visivo – e
pericolosamente diretto verso di lui, che si appiattì ancor
di più
contro il muro.
«E
come pensa di fare?» gli arrivò infine, con un
misto di sollievo
nel sentirla rispondere e di angoscia per ciò che prevedeva
il suo
piano.
«Lo
farà lei,» si obbligò a dire,
maledicendosi con tutto se stesso,
ma troppo nel pallone per riuscire a formulare una valida
alternativa.
Iniziava
a sentirsi la testa leggera, e la gamba era un inferno bruciante di
dolore che catalizzava tutta la sua attenzione, stritolandogli il
cervello. Sentì i passi metallici dell'armatura di Stane in
avvicinamento e si trascinò all'altra estremità
del muro,
riprendendo a parlare più piano che poté:
«Vada
alla console centrale e accenda tutti i circuiti,»
esalò,
percependo una vibrazione più forte che scosse la terra
sotto i suoi
piedi. «Quando mi sarò allontanato, prema il
pulsante del bypass
principale. Farà un bel botto,» cercò
di assumere un tono più
leggero nel tentativo di rassicurarla, e fu grato che non potesse
vederlo in quel momento.
«Ok,
sto entrando adesso,» rispose lei, tesa, ma senza esitazioni,
e
riuscì ad immaginare nitidamente la linea sottile e tirata
delle sue
labbra e le sopracciglia appena corrugate per la concentrazione.
Assieme
alla paura cieca che lo afferrò alla gola provò
anche un netto moto
d'orgoglio verso di lei, che scacciò almeno in parte il
tremito che
lo scuoteva da capo a piedi.
«Aspetti
che io sia sceso dal terrazzo,» si raccomandò,
stringendo più volte i
pugni e preparandosi a scattare. «Io le guadagno un po' di
tempo,»
concluse, ricalcando con tardiva consapevolezza l'eco di parole fin
troppo fresche nella sua memoria.
La
mano di Iron Monger sbucò oltre l'angolo, poggiata al muro
poche decine di
centimetri
sopra la sua testa, e l'intonaco sbriciolato picchiettò sul
suo
casco metallico. Inspirò a fondo, incamerando tutta l'aria
che poté
e si concentrò unicamente su quello, scacciando l'impronta
rovente
del dolore dalla propria percezione.
Fece
leva sulla gamba integra e lasciò il riparo del muro,
scagliandosi
contro Stane. Questi ebbe un fugace tentennamento nel vederselo
arrivare addosso senza preavviso e lui ne approfittò per
issarsi
sulle sue spalle, andando ad afferrare a colpo sicuro un fascio di
fibre ottiche tra le placche metalliche, sradicandolo poi con tutte
le sue forze dall'armatura. Stane mosse il capo qua e là,
prevedibilmente accecato, e iniziò a dimenarsi come un
ossesso nel
tentativo di scrollarselo di dosso; prima che Tony potesse mirare al
cavo d'alimentazione degli arti superiori, si sentì
afferrare e
tirare per il casco; fu costretto a sganciarlo dal suo supporto e a
mollare la presa per non venire decapitato, e Stane riuscì
finalmente a disarcionarlo e scagliarlo via come fosse incorporeo,
privandolo di quella difesa.
Impattò a peso morto sulla vetrata sovrastante il reattore,
boccheggiando in cerca d'aria. Il suo tentativo di rimettersi in
piedi fallì: ormai la gamba devastata era completamente
inerte.
Rimase
carponi, con l'impressione di respirare dei chiodi incandescenti.
Sentiva
Obadiah blaterare in sottofondo, preso da un delirio di onnipotenza,
e registrò a malapena il proprio elmo accartocciato che
rimbalzava
accanto a lui sulla vetrata, gettato via con disprezzo dal suo ex-
socio. Il suo sguardo era puntato in basso, verso il puntino
rossiccio che si aggirava rapido nell'azzurro abbagliante,
armeggiando attorno alle centraline di comando del reattore. Si
sentiva prosciugato di ogni energia, e la volontà che si
dibatteva
nel suo petto era appena sufficiente a impedirgli di rannicchiarsi a
terra, chiudere gli occhi e lasciare che ciò che non era
successo
sei mesi prima accadesse ora, ironicamente di nuovo per mano di
qualcosa creato da lui. Sentiva il buio che lambiva i suoi sensi,
allettante e carezzevole, come una buonanotte promessa di un sonno
dolce e lieve.
"È questa, l'ultima sfida del grande Tony Stark?"
Si
forzò a sollevare gli occhi, e incontrò quelli
spenti del suo casco
rosso-oro sfigurato; subito dietro, si ergeva la figura minacciosa e
torreggiante di Stane. Si trovò a digrignare i denti: quella
era la
sua
armatura, la sua
promessa di libertà in una grotta oscura; quei pezzi
metallici erano
stati forgiati dalle sue
mani e da quelle di Yinsen. Portò una mano al proprio
reattore, solo
un pallido riflesso di quello davanti a lui, eppure egualmente
brillante, custode di tutta la fiducia che gli altri vi avevano
riposto.
Si
issò su un ginocchio, contrastando con furia il buio, deciso
a non
abbandonarsi docilmente a quel sonno ingannevole.
Non
cedette di un solo centimetro, piantandosi al suo posto con le forze
che gli rimanevano e sostenendo lo sguardo di Obadiah, ora a viso
scoperto, con un misto di sufficienza e rabbia. Il suo padrino, con
gli occhi accesi da una lucida follia, gli puntò addosso una
delle
mitragliatrici senza alcuna esitazione, e Tony ebbe appena il tempo
di pararsi il volto scoperto con un braccio, usando uno dei flap
anteriori come scudo improvvisato. Socchiuse le palpebre nella
pioggia di scintille, rintronato dal fracasso del metallo contro
metallo, cercando di mantenere l'equilibrio mentre sentiva la vetrata
iniziare a cedere sotto di lui, colpita dai proiettili.
Poi
accaddero troppe cose insieme, e fu come essere sballottato qua e
là
da una mano invisibile, senza riuscire a ricollegare le sue
sensazioni al mondo reale. La voce di Pepper lo raggiunse, appena
udibile oltre la spessa vetrata, ma il suo istinto di attivare i
propulsori per abbandonare il tetto fu stroncato da una fitta
straziante al volto e dalla sensazione di precipitare.
Annaspò nel
vuoto e la trave metallica a cui si avvinghiò gli
mozzò il respiro,
mentre il peso dell'armatura lo trascinava in basso, ad oscillare
inerme sopra il nucleo ribollente del reattore. Scalciò
debolmente
nel vuoto, con la vista oscurata dal sangue e la sensazione di avere
un ferro rovente conficcato nell'occhio, mentre sentiva il resto
della vetrata disintegrarsi sotto i colpi alla cieca di Stane.
I
suoi pensieri sfarfallanti andarono a Pepper e alla pioggia acuminata
che l'aveva appena investita. E se lui fosse morto, Obadiah sarebbe
passato a lei.
«Premi
il bottone!» si sgolò, con la voce deformata dal
dolore.
«Così
morirai!» la sentì protestare, sensatamente,
nonostante il panico
che riconobbe in quelle parole.
Un
missile sparato da Stane esplose a qualche metro da lui; il
contraccolpo gli fece perdere la presa, e riuscì a
recuperarla solo
con la flebile forza che gli rimaneva nelle dita.
«Premilo!»
ripeté, preparandosi ad attivare i propulsori posteriori.
Sentì
la propria mano cedere e seppe che stava per morire, scomparendo
proprio nella creazione di suo padre.
L'improvvisa
scarica di energia lo sbalzò invece in alto, e
riuscì a deviare la
traiettoria il tanto che bastava per non esserne completamente
risucchiato. Atterrò sul telaio del lucernario e rimase
lì, con la
vista offuscata e il respiro spezzato, cercando di muoversi il meno
possibile. L'armatura era leggermente più reattiva e
sentì il
blocco al petto alleviarsi un poco: la scarica doveva aver fornito un
pizzico d'energia al reattore morente. Attraverso il velo di lacrime
e sangue, distinse Stane che veniva investito in pieno dal raggio, le
sue grida perse nella cacofonia di elettricità e lamiere
divelte. Il
cielo si illuminò a giorno, come acceso da un lampo
mostruoso, per
poi spegnersi con un brontolio profondo.
Il
silenzio premette sulle sue orecchie, interrotto solo dallo schianto
dell'enorme armatura che collassava a pochi metri da lui, ponendo
entrambi in precario equilibrio sui resti del telaio della vetrata.
Obadiah, ancora all'interno della corazza, sembrava morto, o forse
solo svenuto.
Tony
concentrò tutte le sue forze nel mantenersi vigile,
contrastando la
sua coscienza sempre più fluttuante, resa labile
dall'emorragia e tormentata dalle fitte
al
volto e alla gamba. Portò la mano nuda a detergersi il
sangue che
gli oscurava la vista, e non trattenne un grido non appena le sue
dita sfiorarono lo squarcio. Non ebbe tempo per soffermarsi a
valutare il danno: le travi metalliche mandarono un lamento
preoccupante e le sentì inclinarsi, facendo scivolare di
qualche
centimetro lui e Stane. Intravide quest'ultimo muoversi debolmente,
incastrato nell'armatura, e sganciare le cinghie di sicurezza che lo
imbracavano all'interno. Il telaio cedette ancora, sollecitato dal
suo dimenarsi, ed entrambi trattennero involontariamente il respiro.
Tony
sentì il nugolo di violente emozioni che l'aveva invaso poco
prima
scemare, e lasciar posto a un senso di disgusto e pena per l'uomo
accanto a lui, intento a districarsi tra i resti contorti del suo
stesso operato. Lo vide protendere una mano nella sua direzione, con
l'altra ancora intrappolata nell'arto metallico di Iron Monger.
Mirava a una trave sporgente poco più in alto di lui per
trarsi in
salvo, e Tony percepì il telaio affossarsi pericolosamente,
sul
punto di spezzarsi di netto e trascinarli entrambi verso morte certa.
Si scansò a fatica, il tanto che bastava per porsi sul
solido
cornicione di cemento, mentre Obadiah tentava inutilmente di
sporgersi ancor di più, riuscendo però solo a
sfiorare la trave con
la punta delle dita.
Era
a portata di mano, realizzò Tony. Gli sarebbe bastato
allungare il
braccio per offrirgli l'appiglio che cercava. Serrò i denti,
pensando alla grotta, pensando a Yinsen, e al reattore incastonato
nel suo petto, e a come quella serpe avesse tradito sia la sua
fiducia che quella di suo padre e avesse tentato di uccidere Pepper.
Fissò
la mano tesa verso di lui, continuando a rimestare incessantemente
quel calderone colmo d'odio. Un singolo fotogramma emerse nella
catena di ricordi convulsi e colmi di sofferenza che si stava
sforzando di evocare, sovrapponendosi al presente: un Obadiah
più
giovane e con solo una spruzzata di grigio nella barba biondiccia,
stretto in uno sgargiante completo anni '70 e con un panama a
coprirgli i capelli folti. Anche allora tendeva una mano verso di
lui, nascondendo solo in parte la sagoma squadrata di un robottino
rosso sgargiante. Suo padre era sullo sfondo, già affrettato
verso
il suo ufficio e a mani vuote, e sentiva quelle gentili di sua madre
posate sulla spalla in un gesto al contempo affettuoso e protettivo.
Per
un istante, rivide quel robottino rosso nella mano protesa di Stane,
e il suo braccio scattò d'istinto in avanti proprio quando
il telaio
cedette ancora con un assordante cigolio.
Stane
si aggrappò a lui, scampando la caduta con un grido
sorpreso. Tony
sentì il suo peso tendere ogni muscolo del proprio braccio,
e si
puntellò contro il bordo con ogni residuo di forza e
volontà che
gli rimaneva. Stane gli rivolse uno sguardo stralunato, nel
quale tentò di riconoscere il proprio padrino, trovando solo
due
fredde lastre inespressive, ma non mollò la presa. Si
accorse solo
allora che Stane non stava tirando per issarsi in alto, ma per
trascinare lui verso il basso.
«Abbiamo
fatto la nostra parte,» proferì, in un tono
agghiacciante che fece
defluire da lui ogni stilla di benevolenza. «Adesso
è il momento di uscire di scena.»
Con
un gesto repentino, allungò l'altra mano ancora avvolta
dall'enorme
guanto metallico e la serrò appena sopra il suo gomito,
trasformando
quella presa in una morsa ferrea dolorosa. Tony non riuscì a
contrastare la sua forza e si sentì sbalzare in avanti,
verso il
vuoto e il magma elettrico del reattore. Riuscì ad
artigliarsi ai
resti del telaio, dove rimase incastrato tra le sue travi divelte,
che funsero da rete di sicurezza. Fu allora che la porzione su cui
poggiava Stane cedette definitivamente: lui precipitò ancora
aggrappato al suo braccio, e Tony lo sentì allungarsi
più di quanto
fosse naturale, mentre ogni singolo tendine e muscolo bruciava e ogni
singolo osso tremava con agonizzante nitidezza, sul punto di
frantumarsi. Si sentì gridare come da molto lontano mentre
tentava
di sganciare alla cieca il rivestimento dell'armatura, inutilmente.
L'ultima
cosa che percepì fu un secco schiocco di legno spezzato e
uno
strappo di stoffa lacerata, poi la disturbante realizzazione che il
suo corpo fosse diventato più leggero del dovuto.
Il
buio arrivò pietoso ad offuscare i suoi sensi.
***
Fu
risvegliato dalla vertigine che lo prendeva allo stomaco, e per un
momento fu convinto di star decollando come al solito con la propria
armatura. L'illusione s'infranse quando si sentì cadere per
quelle
che parvero miglia, finché l'impatto sulla schiena non gli
spezzò
il respiro.
Il mondo era dolore e sangue e metallo.
Socchiuse
l'occhio pesto e tutto ciò che mise a fuoco fu un riflesso
azzurro e
indefinito sopra di lui. Lo riportò al cielo terso in
Afghanistan, e
agli occhi benevoli di Yinsen, e al nucleo vivo del reattore nella
grotta, e alle onde del Pacifico che lo accoglievano a casa.
L'aria
gli sfuggì dalle labbra spaccate in un refolo stentato e
lasciò che
palpebra ricadesse a privarlo di quel colore familiare. Era certo che
l'avrebbe ritrovato al suo risveglio, negli occhi di chi l'aveva
aspettato per tre mesi – o forse per dieci anni – e
lo chiamava,
anche adesso, indicandogli una via d'uscita che non riusciva a
vedere.
Si
abbandonò di nuovo quietamente all'incoscienza,
distaccandosi dal
suo corpo sofferente, ed entrò in un inquietante mondo
sospeso fatto
di specchi, abissi e riflessi estranei.
***
"Dove
sono?"
Acqua,
e delle luci in lontananza. Lo sciabordio delle onde contro la
chiglia di un battello. Altre luci fluttuano tutt'intorno. Il vento
porta con sé un odore salmastro e le note di un organetto.
Una città
galleggia sulla laguna, illuminata dall'ultimo chiarore azzurrino del
crepuscolo estivo.
«Tony?
Si sbrighi, è tardi.»
Si
gira verso di lei e rimane incantato ad ammirarla. Si è
dimenticato
di quel vestito verde smeraldo e di quanto le stia bene. Spesso
dimentica semplicemente quanto sia bella lei.
Le rivolge un sorriso
senza neanche pensarci; gli affiora spontaneo alle labbra, sospinto
da quella bolla leggera che a volte gli invade il petto quando la
guarda.
«Arrivo.
Solo un momento.»
Esita
e rivolge di nuovo lo sguardo alla placida distesa d'acqua. Ha la
sensazione di aver dimenticato qualcosa. Lo cerca speranzoso nelle
luci lontane, ma quelle occhieggiano indifferenti in risposta.
È
in ritardo. Lo sa, lo sente, ma indugia ancora.
«Anthony.»
Una
voce permea l'aria calda. È cupa, profonda e fin troppo
conosciuta,
carica però di una preoccupazione estranea.
"Ignoralo.
Lui ti ha sempre ignorato."
Quando
muove il primo passo, la laguna è già sparita.
È
rimasto il buio, ora punteggiato da mille, fredde luci azzurrine che
sembrano trafiggerlo.
«Anthony!
Che cosa stai facendo?»
Note Dell'Autrice:
Ah, la magia del Natale <3
Non potevo davvero scegliere capitolo più allegro e festivo per questo periodo, in effetti... ma ho compensato altrove con dosi di miele illegale, quindi penso di essere giustificata, su.
Parto col dire che questo capitolo esiste da sei anni. La primissima bozza è stata scritta a quattro mani, poi ho ovviamente colmato i vari buchi emersi con la revisione, ma il succo della questione rimane lo stesso: Stane è uno stronzo <3 E le varie elucubrazioni su di lui verranno approfondite in seguito, ma sono un misto tra i fumetti e il mio headcanon che lo riguarda. La scena in cui Stane si aggrappa al suo braccio è una versione rielaborata di una scena eliminata del film Iron Man, di cui ho ripreso alcune battute.
Sono felicissima di vedere che nuovi lettori si siano avvicinati alla storia, per cui ringrazio tantissimo Flavia_14 e Sissi Malfoy Black che hanno recuperato tutto i capitoli e hanno commentato l'ultimo, facendomi uno stupendo regalo di Natale <3 Grazie anche a _Atlas_, T612, Enigmista96, Emyclarinet e 50ShadesOfLOTS_Always che hanno commentato lo scorso capitolo e/o i precedenti. Non avete idea di quanto mi rendiate felice con ogni parola che mi lasciate <3
Qui chiudo, prima che diventi un manoscritto. Spero vivamente di aggiornare entro il 10 gennaio :)
Buone feste e un caro saluto a tutti voi,
-Light-
P.S. La parte in cui Tony si rialza "contrastando con furia il buio" e quella immediatamente precedente sono rielaborazioni della poesia Do not go gentle into that goodnight di Dylan Thomas, che è una delle mie preferite in assoluto e vi consiglio di leggere se non la conoscete già <3