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Autore: Vella    28/12/2018    1 recensioni
La massa si nutre dei nostri fantasmi, alberga dentro la nostra mente e ci impedisce, platonicamente, di rompere le catene.
Quando la norma si scaglia contro il diverso, sarà sempre essa, la maggioranza, a schiacciare il libero arbitrio, la libera scelta.
Greta è una giovane adolescente alle prese con quelle che sono le problematiche comuni di generazioni sempre più assopite e sole. Frequenta una ragazza, Alice. E tutti ne sono felici perché è una cosa comune. Ma cosa accadrebbe se un giorno decidesse di fare coming out e di iniziare ad amare un ragazzo?
“Capovolto” è un progetto sperimentale che ha come unico obiettivo quello di smuoverci e di abbandonare la scelta del gregge, ribaltando i nostri tradizionali punti di vista.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Bondage | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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La verità abita dentro l’uomo-
Sant’Agostino
 
II.
14 febbraio 20**
«Alessio, tu lo sapevi?» un’altra domanda. Solo domande. Mio fratello, lo vidi, abbassò lo sguardo senza fiatare, si strinse nelle spalle nella sua titubanza, caratterizzante. Tommaso invece, d’altro canto, bevve un sorso d’acqua. Forse era vino. Anche lui evitava di guardare negli occhi mamma. Mia madre.
No, cosa ne sapevano loro? Io non ne avevo parlato. Non ne avevo proferito parola. Impaurita, indifesa. Ero stata brava nell’insabbiare la verità che mi portavo dentro, sulla pelle mia. Neanche Lorenzo –oh, lui…- avrebbe spiattellato a qualcuno quello che sentiva. In fondo, sentivamo uguale. Il nostro cuore si era riunito quella notte di metà autunno, qualche tempo prima, tra il caldo saporito della casa e la frescura del cielo scuro.
No, lui non aveva detto niente a mio fratello, al suo ragazzo, alla mia famiglia. Voleva che fossi io a fare una tale scelta, così importante e, nel nostro immaginario, liberatoria.
«RISPONDIMI!» imperativa, tremenda, la voce della donna squarciò quel silenzio che tenevo stretto caramente al petto.
Fulminea, lanciai un’occhiata ai due ragazzi. Mi ero ripromessa di star calma ma era una promessa vana, difficile da rispettare.
«La gente parla, a scuola, nei bagni…»
«Oh, Alè, sono solo voci di corridoio, smettila» fu glaciale l’interruzione di Tommaso alle parole del suo ragazzo.
Era scuro in viso, abbastanza contrariato. Risi. “Voci di corridoio”. Le mie emozioni erano delle semplici voci, che sarebbero state meglio se lasciate morire con lentezza nei cessi.
«Beh, è stato un piacere confermarle queste voci». Mormorai.
«Cosa dicono?» riprese lei, la donna che mi aveva partorito in clinica, stringendo la mano della mia seconda madre. Loro che conoscevano così bene il significato dell’amore ma che avevano finito per odiarsi e farsi del male, senza il minimo senso.
«Sì, dai, cosa dicono, Tommaso? Dillo cosa dicono.  Perché non parli? Dillo quanto sia perversa e inconcepibile amare una persona del sesso opposto. DILLO!» uno scatto improvviso. Urlai con tutto il fiato in gola fino a sentirmela bruciare. Sbattuta, alterata, mi alzai, rovesciai il bicchiere, spaventai Alessio che sobbalzò, spaventai il gatto che scappò.
Avevo le lacrime proprio sulla punta delle palpebre e non sapevo bene perché i miei nervi avevano già così precocemente ceduto. Non sapevo spiegare cosa provavo realmente, ero anestetizzata.
Sono innamorata di un ragazzo”.
Fu una condanna.
Ne avevamo parlato molteplici volte io e Lorenzo, in auto, nei parchi, tra un caffè ed una risata, nei nostri nascondigli. A cosa era servito? Non c’era la sua forza, la sicurezza di quei momenti si era disintegrata sotto quella giuria, incapace di attraversare quei pregiudizi scottanti, talmente radicalizzati.
Pronunciare quella frase a tavola, tutto ad un tratto, aveva avuto lo stesso sentore di quando si innesca una bomba ad orologeria.
Tic tac.
Bum.
«Perché te la prendi con lui? Non è colpa sua!» Alessio, mio fratello, lo difese. Colpa. Colpa. Era tutta una questione di colpe se decidevi di non lasciarti plasmare come gli altri avrebbero preferito; da quando il mondo aveva memoria propria, gli uomini erano caduti in un baratro profondo, naturale, di continue dispute, rotture eterne, stupidi fraintendimenti e la colpa era divenuto un elemento immancabile, persistente.
La donna e l’uomo insieme erano stati peccaminosi, la storia ce lo aveva insegnato, come anche la nuova religione, chiaramente. Non possiamo riunire il peccato originale, dobbiamo essere ligi alla nostra natura, trovare un equilibrio.
«Non capisco di che colpa tu stia parlando», mi tremavano le mani e forse anche il viso s’era tinto di un rosso concreto, rabbioso.  
«Odio questo vostro modo di fare, lo odio. Questa mentalità così orientata all’omettere, al nascondere, alla repressione. Siete cocciuti, tutti. Perché una persona non può esprimere quello che prova? Preferireste che mi fossi autodistrutta, tacendo. È meglio evitare. Meno sofferenze per voi, più sogni tranquilli».
Peccato che furono parole al vento, sperse in un mare di ipocrisia. Lei non mi stava più guardando, il suo viso si era spento tutt’un tratto; aveva degli occhi vacui, incerti, non mi riconosceva più come figlia, ovvero parte di sé. C’era dell’orrore nella sua espressione, e fu allora che capii quanto la scelta di fare coming out mi fosse costata: l’amore di una madre.
«Sei ingiusta, Greta» mi disse.
Così la società era rimasta fedele alla norma, così la natura sociale aveva vinto ancora una volta sull’individuo. Devastandolo.
-
15 dicembre
 
I nostri vestiti erano sparsi sulla moquette elegantemente, strato dopo strato. Il fiato di Alice lo sentivo sul collo, caldo e prepotente. Percepii la secchezza delle sue labbra strofinate sulla spalla sinistra. Avevo gli occhi aperti, fermi, fissi lungo la parete dipinta da lei, i reggiseni l’uno di fianco all’altro parevano stare a braccetto. Li guardavo interessata, pensante. Fu un pomeriggio unico, di amarezza in gola che percepimmo entrambe. La sua mano si chiuse delicatamente attorno al mio seno, ed io l’abbracciai appena. Mi baciò, ma le mie labbra non erano abbastanza aperte da permetterle di darmi un languido calore. Allora tentò, a malapena me ne accorsi, di entrare per qualche centimetro dentro di me. Con più brutalità del solito, le dita dell’altra mano ricercarono un umido amore. Non trovarono nulla. Chiusi le cosce, mi girai di fianco, la lasciai un attimo confusa.
I colori rosso e bianco di quel suo reggiseno mi destavano da ogni tipo di azione. Ero concentrata su quella fantasia inappropriata.
In realtà, ero persa.
Catturò i miei glutei, scese con la bocca fino ad accarezzarmi da dietro, la salivosa lingua mi donò un brivido insensato di spossatezza.
Allora mi ripresi appena, ritornai da lei, forse accennai un sorriso di circostanza, vuoto di elettrica eccitazione e le salii sopra. Il letto ci risucchiò nelle coperte, le assaggiai i lombi con delicatezza, mordendo, captando un gemito suo, di piacere. E poi mi rifermai. Mi buttai pesantemente al suo fianco ed il cuscino attutì la caduta spericolata.
«Cosa hai?» fu un sussurro a malapena udito.
«Sono stanca».
«È da un po’ di tempo che sei stanca», fu la sua risposta.
Mi misi seduta, chiusi ancor più forte le gambe e me le strinsi al petto a mo’ di riccio.
«Che vuoi dire?»
Quel giorno Alice sbuffò, si allontanò velocemente da me, rivestendosi, senza darmi tempo di seguire le scie del suo corpo, riformarlo nella mia mente, goderne privatamente anche. Mi impedì qualunque languido momento post-intimità ed io sapevo perché: in verità, non c’era stata nessuna intimità.
Il nostro corpo sa esprimere ciò che sentiamo meglio di qualunque altra cosa, è un linguaggio che impariamo a conoscere col tempo e allora cerchiamo di zittirlo perché capirlo troppo non ci piace; ne stavo sperimentando il potere distruttivo e non facevo nulla per rimediare, non mi riprendevo dal mio torpore. Un torpore che mi impediva di essere spontanea, aperta, giocosa a letto, che non mi lasciava via di scampo.
Rivestendosi, il suo messaggio era stato chiaro: non voleva essere presa in giro da me, non voleva mettersi a nudo senza che l’altra parte l’accogliesse; e non era solo una condizione fisica, spogliarsi significava andare oltre la materialità stessa. Stare svestito, toccare un corpo non tuo, permettere che sia guardato, accarezzato, ammirato… si accettava che le barriere del proprio io venissero abbattute, nasceva allora uno stato di fiducia totale.
Questo io lo sapevo.
«Lascia stare», concluse. «Allora? Cosa hai fatto di tanto stancante?» vi era una punta ferita del suo orgoglio che trapelava, sgorgava come sangue da un taglietto in un posto sbagliato e la pelle faticava a reagire, ad essere cucita.
«Dai, non arrabbiarti, ho avuto davvero una giornata pesante, tra un paio di giorni c’è una prova di greco e mi sento persa solo al pensiero di tutti gli autori che devo recuperare. La giornata mi pare troppo breve e non mi sento nel pieno delle mie energie, eppure sono qui da te oggi».
Non rispose. Erano una marea di cazzate sputate con malagrazia, intrise di squallido vittimismo.
«Oh, grazie per il piacere, Greta!» All’in piedi, la felpa che si arrotolava sotto le ginocchia, i capelli un po’ spettinati, un respiro irregolare e degli occhi che fuggivano alla verità che, di soppiatto, si era presentata davanti.
«Non è oggi, o ieri, o l’altro ieri. Non stiamo parlando di un problema che persiste da una settimana, e allora Alice ha deciso di fare i capricci, giusto perché ne ha voglia». Si prese una pausa. Le braccia incrociate sul petto, le mie. «Non siamo mai andate troppo oltre, ho sempre rispettato il tuo essere sfuggente, anche un po’…, lasciamelo dire, pudico, ma nell’ultimo mese non noto un moto d’incertezza, sei solo disinteressata a tal punto che la mia presenza con o senza vestiti non fa proprio nessuna differenza».
Erano parole dure, non riuscivo a biasimarla. La verità era che la stavo ferendo. Stava cercando di difendersi certo, ma c’era anche una grande voglia di capire.
«Sei ingiusta, Alice, e cattiva. Disinteressata io? A noi due? Sei la persona per la quale darei la vita, sei la persona che mi comprende di più. Stare con te è un dono del nostro dio e tu… mi dici questo?»
«Smettila di dire stronzate. Non te ne rendi conto in realtà, Greta. Non te ne accorgi minimamente di quanto tu sia…»
«Dillo. Cosa?» occhi negli occhi, più vicine di prima. Un po’ incazzate entrambe.
«Fredda». Frigida. «O se ti piace di più come termine: riluttante».
Mi fece arrabbiare tanto quel pomeriggio Alice; quel suo modo schietto e tagliente mi infastidì così tanto che non volli sentire ragioni. Mi rivestii, blateravo frasi del tipo “dopo tutto quello che facciamo l’una per l’altra”, “ma assumiti le tue responsabilità di coppia e non trattarmi come l’unica merda”, “quante volte ti sei presa gioco della mia inesperienza?”. Erano frasi senza un senso sentito, lo ammettevo, avevo rifiutato la mia fidanzata. Al rifiuto, non esiste un rimedio immediato. L’amaro resta in bocca. Cercavo di arrampicarmi, di essere brutale, di attaccare per non essere attaccata.
Esagerammo, volevamo aver ragione, non facevamo passi indietro. A distanza di qualche tempo, comprendevo che ero io a non voler cedere, ero io che non volevo dargliela vinta.
«L’amore è amore, Greta. Non sei disposta neanche ad aprirti un po’ di più con me. A goderne del nostro sentimento. Ti basta una misera effusione, e poi metti il broncio, come stai facendo adesso se oso dirti qualcosa che non entra nei tuoi schemi standardizzati.»
Ero seduta sul davanzale di quella stanza colorata. I suoi padri non c’erano, usciti per qualche commissione. Solo io e lei. Talmente che mi sentivo soffocare da quel luogo così intimo e ricco di sfumature pastelli, intriso di disegni e della sua corporea passione, che mi rifugiai nel panna delle nuvole. Non accettavo di ritornare a guardarla. Lei e l’essenza sulle pareti.
Mi buttò addosso una pagina di giornale ingiallita, forse un’edizione di qualche giorno prima, anche un po’ stropicciata. La presi a volo, non capivo. I miei riflessi impedirono di farmi male fuori ma non dentro. Fu davvero cattiva.
«Guarda le persone cosa rischiano per amore, guarda cosa sono disposte a rinunciare o persino soffrire pur di esprimere quello che provano, che desiderano, amano. E tu invece non sai essere sincera con me. Mi rifiuti. Mi allontani ad ogni tocco. Quand’è che inizierai ad essere meno egoista, Greta?». Aveva toccato il fondo.
Di quella pagina, lessi solo il titolo: “Ragazzo pestato dalla famiglia perché etero”.
Non approfondii ma neanche lo dimenticai.
«Egoista sei tu, e melodrammatica anche. Paragoni i nostri problemi a scelte di persone che neanche conosci. Non funziona così. Ero solo stanca». Digrignai i denti, presi le mie cose, me ne andai senza vedere che volto aveva. Se stava piangendo, se era soddisfatta o colpevole.
Facemmo pace, sì, qualche ora dopo. Mi chiamò con voce rauca, assonnata. Aspettavo trepidante quella telefonata.
Lo ammetto.
Entrambe ci scusammo, riempimmo il vuoto che si andava a creare tra i nostri corpi, come tra le nostre menti, con un semplice “ho esagerato, scusa”.  
E poi? Poi m’invitò ad una festa organizzata da qualcuno della classe di Marco.
Anche di Lorenzo.
«Ci andiamo?» «Sì, perché no.»
Non era stato il destino, o il volere di qualcuno che non si conosce.
Erano state le nostre scelte a spingerci verso quell’alta mareggiata.

Commento autore: non sono completamente soddisfatta di questo secondo capitolo, credo che la storia sarà soggetta a numerose revisioni ma... ho deciso che ciò non deve impedirmi di pubblicarne una prima stesura. Spero che possa avervi suscitato qualcosa di gradevole, o più correttamente, di vero. ^_^
   
 
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