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Autore: The Blue Devil    28/12/2018    5 recensioni
Eccomi qua, ci son cascato pure io, in una noiosissima Candy/Terence con Albert nell'ombra... davvero?
Chi è il misterioso individuo che si aggira nei luoghi tanto cari alla nostra eroina? Qual è la sua missione? La sua VERA missione? Cosa o chi, alla fine di essa, sarà in grado di trattenerlo a Chicago? Quante domande, le risposte stanno all'interno...
Il titolo è un omaggio a tutti i ''se'' con cui si apre la storia.
dal 3° capitolo:
... Non ne ho parlato con lei, ma io sono sempre rimasto in contatto, in maniera discreta, con Terence. E non le ho neanche mai raccontato di averlo cacciato, quando lo trovai ubriaco da queste parti, anni fa. Vi chiedo di vegliare sempre su di lei, con discrezione, poiché la vedo felice, forse troppo, e non vorrei subisse un’altra delusione".
"Perché parlate così?", chiese, dubbiosa, Miss Pony.
"Non so, ho una strana sensazione, come se stesse per accadere qualcosa di molto spiacevole. E lo consiglio anche a voi: state attente e tenete gli occhi aperti".
"Così ci spaventate, Albert", osservò Suor Maria.
"Non era mia intenzione spaventarvi", asserì Albert, "Forse sono io che mi preoccupo per niente; sì, forse è così...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Candice White Andrew (Candy), Terrence Granchester
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sorpresa! Beccatevi questo con i migliori auguri di fine d'anno!
Buona lettura




Capitolo 28
Un terribile segreto

Raymond Legan non voleva lasciare nulla in sospeso, nessuna questione irrisolta, per cui, prima di partire con il figlio, organizzò un incontro a Lakewood al quale presenziarono, oltre a lui stesso, sua moglie, sua figlia Iriza e Harrison McFly. Sua intenzione era quella di dare ai due ragazzi la possibilità di chiarirsi, dato che aveva notato un peggioramento nel comportamento di sua figlia quando questa usciva dalla sua stanza, nella quale passava intere giornate accettando di vedere solo Dorothy. Dai resoconti della servitù, Dorothy in particolare, aveva appreso che sua figlia doveva aver udito qualcosa che non le era piaciuto, il giorno della riunione con William e Bowman. Non gli era stato facile convincerla ma, alla fine, ci era riuscito:
"Dai, vieni a sentire cosa ha da dire il signor McFly" .
"No, papà... non ho voglia di vederlo... non ho voglia di vedere nessuno; qualunque cosa abbia da dire, a me non interessa. Lasciatemi in pace".
"Iriza, questo tuo atteggiamento non mi piace: prima lo ascolti e poi decidi; se fai questo sforzo, ti garantisco che poi ti sentirai meglio".
"E va bene, verrò a sentire cosa ha da dire quel tizio".
Sebbene avesse accettato di "ascoltare", Iriza, nel momento in cui lo vide, attaccò subito Harrison:
"Cosa sei venuto a fare tu, qui? Che vuoi da me?".
Harrison non rinunciò a rispondere con una delle sue battute:
"Veramente è stato tuo padre a chiamarmi...".
"Allora vattene, non ho niente da dirti".
"Infatti sono io che devo dirti qualcosa".
"Altre bugie? Sei un bugiardo, un traditore".
Il ragazzo si fece serio:
"Io non ti ho mentito; se hai sentito qualcosa di strano, l’altro giorno...".
"Non mi hai mentito?", lo interruppe lei, "Non mi hai mai mentito?".
"Non ti ho mai mentito, almeno sulle cose importanti, te lo assicuro; te lo posso anche giurare, se vuoi".
Iriza lo guardò torvamente, prima di proseguire:
"Non farlo, chi giura il falso finisce male: potresti finire all’inferno... non mi hai mai mentito, eh? Nemmeno quando mi hai detto di essere un orfano, conte McFly? O abbiamo capito male? Perché l’hai fatto? Perché mi hai portata in quell’orfanotrofio? Hai pensato che facendo in modo che mi affezionassi a qualche tuo piccolo amico, io poi accettassi Candy? L’hai fatto per lei, vero?".
Harrison si rese conto che Iriza aveva appena ammesso di essersi affezionata a qualche suo piccolo amico.
"Iriza, hai appena ammesso che ti sei affezionata a qualcuno: si tratta forse della piccola Daisy?".
"Non cambiare discorso, di lei non m’importa nulla", rispose, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi, mentre negava di provare affetto per la piccola. E lui lo notò.
"Non ti ho mentito, lo ripeto: non ti ho mai detto di essere un orfano; ti ho solo detto che sono legato a quel posto, perché lì fui abbandonato...".
"È la stessa cosa, non cercare scuse, conte McFly...".
"No, non lo è... e lasciami finire: sì, è vero, ti ho portata in quell’orfanotrofio, ma per verificare ciò che avevo già intuito... se ti sei affezionata a qualcuno io non c’entro l’hai fatto tu, da sola; è stato il tuo cuore. L’ho fatto per te, Candy non c’entra nulla. E poi piantatela tutti di chiamarmi conte: io non lo sono, mio padre lo è; io sono solo Harrison Graham".
"Non ti credo, stai solo cercando di confondermi", farfugliò la ragazza che, in realtà, aveva una gran voglia di credergli, ma...
Harrison era deciso a raccontarle tutto, ma era frenato dalla presenza dei genitori di Iriza: a lui non andava di raccontare la sua storia al primo venuto ed Iriza non era il "primo venuto", mentre i suoi genitori, almeno nella sua mente, sì. Per lui Iriza era una persona distinta da loro.
"Vorrei che ci lasciaste da soli, se non vi dispiace".
In altre circostanze, i Legan non avrebbero acconsentito a lasciarli soli – e infatti la signora Legan accennò a una protesta –, ma Raymond acconsentì, poiché si sentiva ancora in colpa verso Harrison a causa di Neal, e condusse fuori dallo studio la moglie.
"Pensi forse che, restando da sola con te, io cada ai tuoi piedi? Beh, ti sbagli", protestò la ragazza.
"No, penso che, restando solo con te, io possa raccontarti la mia storia: non la racconto facilmente e lo faccio solo con persone che reputo speciali".
Queste parole, e il tono con cui furono pronunciate, fecero trasalire Iriza, che cercò di non scomporsi e di mantenere un atteggiamento altezzoso e scostante.
"Mio padre, il conte di McFly, nato Graham, s’innamorò di una ragazza americana, proprio come suo fratello maggiore, il padre di Terence, avrebbe fatto anni dopo... si vede che è un vizio di famiglia", proseguì Harrison, che pensò che lui stesso stesse continuando questa singolare tradizione.
"Anche perché mia madre era una cantante e ballerina e in quel periodo era in giro per l’Europa con la sua compagnia; era bellissima, anche se non me la ricordo... mi rimane di lei solo un fazzoletto ricamato e una vecchia fotografia sbiadita... mio padre la conobbe a teatro, durante una rappresentazione: era giovane e gli piaceva un certo tipo di spettacolo non adatto ad un conte, come amava ripetergli sempre mio zio. S’innamorarono e lei rimase incinta... ".
Un attento osservatore, avrebbe notato la commozione che l’aveva pervaso e avrebbe capito che Harrison tentava, riuscendoci, di trattenere le lacrime; e avrebbe notato che anche Iriza era rimasta colpita da quel racconto.
"Si volevano sposare, ma il grande duca di Grancester fece quanto era in suo potere per distruggere quella relazione e separarli".
"Quel che mi stai raccontando non ha senso: dovresti odiare Terence, che è figlio del duca, e invece siete molto uniti, se non sbaglio", fu l’appunto di Iriza.
"Non sbagli, e anche se io odiassi mio zio, non odierei Terence, dato che lui non ha colpe; neanche mio zio ne ha, la storia è più complicata".
"Siamo alle solite, prima mi dici una cosa e poi te la rimangi...", protestò la ragazza.
"Ti ho detto che mio zio fece il possibile per separare mio padre da mia madre, ed è vero. Ma lui fu ingannato: c’era un attore, nella compagnia, che voleva mia madre per sé; costui fece credere a mio zio – era rischioso, per la riuscita del suo piano, parlarne con mio padre, era troppo innamorato – che mia madre fosse a caccia di soldi e di una comoda sistemazione; inoltre gli disse che si intratteneva con altri componenti della compagnia. Per convincerlo che fosse tutto vero, gli sottopose delle prove false e pagò un collega per testimoniare il falso. Il farabutto, inoltre, fece credere a mia madre che mio padre si stesse solo divertendo e che, se avesse saputo di me, dato che lei non glielo aveva ancora detto, l’avrebbe fatta abortire; anche in questo caso aveva costruito prove false e convocato testimoni spergiuri; il loro legame, seppur forte, si ruppe, senza che loro potessero più rivedersi. Mio zio le pagò il biglietto per tornare in America, la affidò a persone di sua fiducia, affinché la imbarcassero sulla prima nave in partenza per il Nuovo Continente e a mio padre fece credere che fosse scappata con un attore della compagnia".
"Mi stai dicendo che né tuo padre, né tuo zio, sapevano di te?".
"Esatto".
Seguirono attimi di silenzio. Poi Harrison riprese il racconto:
"Così mio padre si ritrovò con il cuore a pezzi, ma colmo di rabbia, e mia madre si ritrovò in America, sola, con pochi soldi, senza lavoro – aveva anche abbandonato la compagnia per stare con mio padre – e con un bambino in arrivo; capirai anche tu che fosse una situazione che definire disperata sarebbe un eufemismo. Ma lei non si perse d’animo e riuscì a farmi nascere. Col passare del tempo, però, capì che non poteva tenermi e, dopo aver ricamato quel fazzoletto che è ancora in mano tua, mi lasciò all’orfanotrofio che conosci, con l’intento di venirmi a riprendere nel momento in cui si sarebbe sistemata. Ma non andò così... si ammalò e, per garantirmi un futuro, scrisse a mio padre, raccontandogli di me e di come rintracciarmi, dopo aver appreso dell’inganno dall’ammiratore respinto, che, sapendola in gravi condizioni, si era pentito". ".
In quel momento, Iriza gli voltò le spalle, per non mostrargli quanto fosse commossa.
"Quindi tuo padre seppe...".
"No, la lettera fu intercettata dal duca che, capito di essere stato imbrogliato e di avere un nipotino sperso in America, informò mio padre: non fu facile convincerlo, ma, alla fine, lui si precipitò qui in America, ma giunse tardi... mia madre era già morta".
"Mi dispiace...", mormorò Iriza, con voce appena udibile.
"Per mezzo di quel fazzoletto riuscì a recuperarmi. Il resto lo puoi immaginare da sola e puoi capire anche perché io tenga parecchio a quel fazzoletto... ho odiato a lungo mio zio, ma poi ho capito, l’ho perdonato e non ho avuto difficoltà a legare con Terence: non abbiamo mai parlato delle nostre storie e ci siamo ripromessi di non parlarne mai ad estranei".
Iriza trattenne a stento le lacrime, ma mantenne il punto:
"Resta il fatto che mi hai ingannata".
"Questa ha la testa più dura di quanto pensassi... l’orgoglio".
"Non ti ho ingannata, non so cosa tu abbia sentito...".
Quelle parole riportarono alla memoria di Iriza tutto quello che aveva udito in quel famoso mattino: lei voleva credergli, ma non si fidava più di lui... e si era anche convinta che fosse troppo tardi per cambiare.
"No, sono sicura di quello che ho sentito, tu cerchi di confondermi, come facesti quando ci conoscemmo".
Harrison non sapeva più cosa dirle: non aveva previsto questa sua cocciutaggine.
"Scusami, ma da chi l’hai sentito? Da Neal? Da quel campione di tuo fratello? Ma non l’hai capito che razza di furfante che è?".
Iriza trasalì.
"Lui è mio fratello, non potrebbe...".
Improvvisamente si zittì e le parole che aveva appena pronunciato le rimbombarono nella testa:
"Lui è mio  fratello... lui è mio fratello... capisci? È mio fratello e io... io sono come lui...".
Il ragazzo le si avvicinò e la prese per le spalle, ma lei si divincolò e corse via, gridando:
"Lasciami, lasciami stare... basta... io sono come lui... vattene via...".
Quelle grida fecero intervenire Raymond, che era in attesa fuori dallo studio: vedendo la figlia sconvolta, bloccò Harrison che voleva inseguirla.
"Ora basta", disse, "Temo che stiamo peggiorando le cose".
"Lasciatemi andare, voi non capite, lei crede...", lo pregò Harrison.
"No, basta così; forse non è stata una buona idea; è meglio che andiate, ora. Stewart accompagna il conte alla porta".
"State sbagliando e ve lo dimostrerò".
Harrison lasciò la villa e Raymond si chiuse nello studio; servitosi dello scotch, si sprofondò in una poltrona e pensò:
"Che devo fare? Domani devo assolutamente partire... avrei voluto che le cose si sistemassero prima, ma sono costretto a rimandare... maledizione!".
 
Il mattino seguente Raymond e Neal partirono: non ci furono sventolii di fazzoletti bianchi, anche se la signora Legan era stata tentata.
La sera precedente, Dorothy, sconvolta per le condizioni della padroncina, era entrata nella sua stanza senza chiederle il permesso: Iriza aveva pianto a lungo tra le sue braccia, ma poi l’aveva cacciata in malo modo, ammonendola a star lontana dai serpenti, perché "A stargli accanto si finisce per avvelenarsi".
Per il resto, era tornato quasi tutto nella normalità: Candy e Terence trascorrevano tanto tempo insieme, fantasticando sul loro futuro di coppia, Archie era ricomparso e pareva tranquillo, anche se si era rifiutato di parlare con Annie di quel che era accaduto durante il ballo: l’aveva semplicemente rimosso, diceva.
Harrison era più che deciso a "riconquistare" Iriza, anche se avesse dovuto  prenderla a schiaffi.
Ma alcune nubi oscure si stavano addensando all’orizzonte: qualcosa si stava preparando, qualcosa di terribilmente spiacevole...

~•~•~•~•~•~•~•~•~
 
Stear non stava bene: alternava atteggiamenti euforici ad altri cupi e tristi; un giorno era felice di essere vivo e diceva di volersi riprendere la propria vita e il giorno successivo desiderava la morte. In pratica soffriva di depressione; Patty era il solo motivo per cui resisteva, la sola persona che dava ancora un senso alla sua esistenza.
Quella notte, Stear ebbe un sonno molto agitato: i suoi incubi – che si ripresentavano spesso – erano popolati da paurosi dèmoni, che tentavano, con ogni mezzo, di estorcergli una confessione; questi incubi scaturivano dal profondo del suo animo, nel quale era ben celato un terribile segreto. Questo segreto, che Stear non aveva confidato a nessuno, se non al suo capitano, Rolf Baughmann, nonché al cappellano militare del reparto che lo aveva recuperato dall’ospedale da campo nelle Fiandre, riguardava la morte del suo amico francese, Dominique: l’abbattimento del velivolo di quest’ultimo non era stato causato dall’abilità di un aviatore nemico, come tutti avevano creduto, ma da un guasto meccanico. E c’era dell’altro.
Il gruppetto di aviatori Americani, di cui faceva parte Stear, era stato aggregato alla Compagnia francese di cui faceva parte Dominique; all’interno di quella compagnia vi era una disputa tra Americani e Francesi su quali fossero gli aviatori più forti e abili nei duelli aerei. La risposta non era difficile, ma scontata: erano i Francesi, che vantavano più abbattimenti, anche perché gli Americani erano arrivati sul finire del grande conflitto. Forti di quest’ultima circostanza e della convinzione che venissero loro affidati i velivoli più vecchi e malfunzionanti, gli aviatori Americani contestavano questo dato di fatto. I Francesi ribattevano, ricordando loro, che Georges Guynemer* volasse da lungo tempo sempre sullo stesso aereo, dimostrandosi un vero asso, e fosse ineguagliabile.
Stear, che aveva stretto una forte amicizia con Dominique, non era d’accordo con i suoi connazionali, forte anche delle sue conoscenze ingegneristiche: gli SPAD su cui volavano Americani e Francesi erano identici e lui voleva dimostrarlo e porre fine a quell’assurda polemica. Per questo motivo ci fu uno scambio, oltre che di giubbotti in segno di amicizia, di velivoli tra Stear e Dominique, su idea del primo; ma qualcosa sull’aereo dell’Americano, prestato al Francese, non aveva funzionato, causandone, più che l’abbattimento, lo schianto al suolo. Stear, che si era accorto di tutto, notando lo strano comportamento del velivolo, disperato, sentendosi responsabile dell’accaduto, si era lanciato in battaglia e, non essendo in condizioni psicologiche ottimali, era stato abbattuto: a chi aveva assistito alla scena, era parso che l’Americano avesse cercato la morte.
Ogni giorno e ogni notte, anche in sogno, dopo essersi ripreso dall’amnesia che lo aveva colpito, Stear aveva chiesto perdono all’amico – sperando gli apparisse in sogno – per essere stato la sola causa della sua morte, senza ricevere alcuna risposta, alcun segno.
Quella notte, però, egli gli apparve in sogno, spazzando via tutti i terribili dèmoni che lo assillavano.
"Stear, amico mio, tu non sei responsabile in alcun modo della mia morte, smettila di consumarti in inutili sensi di colpa; la Morte aveva deciso di prendere me, quel giorno, e non si è fatta certo ingannare da un giubbotto o da un aereo; se avessi volato sul mio, si sarebbe guastato il mio; era destino e tu non avresti potuto farci niente. Se sei vivo c’è un motivo", furono le parole di Dominique che gli risuonarono nella mente e che lo fecero svegliare di colpo.
Sudato e preoccupato, il ragazzo pensò:
"Dopo tanti tentativi, finalmente mi hai risposto, amico mio; ma perché ora? Dovrei essere sollevato, e invece...".
Stear, durante la guerra, aveva imparato a percepire le situazioni di pericolo, fin quasi a prevederle; ma che pericoli ci potevano essere lì, in America, a casa sua? Eppure una grande inquietudine si era impadronita del suo animo: se Dominique lo aveva "visitato", causando il suo risveglio, quella notte, un motivo ci doveva essere.
Decise di vestirsi e di scendere in giardino, dopo aver dato un’occhiata al modellino, regalatogli da Iriza, che faceva bella mostra di sé sul suo comodino; poi s’incamminò nel bosco: sicuramente l’aria, fredda e pungente, della notte gli avrebbe fatto bene. 
Era ancora immerso nei suoi pensieri e nei suoi interrogativi, quando la sua attenzione fu catturata da bagliori sinistri che si intravedevano in lontananza. Ma la cosa che lo sconvolse di più fu la direzione dalla quale quei bagliori pareva provenissero...




* il già citato Georges Guynemer fu eroe nazionale francese nella "Grande Guerra" e cadde in azione nel 1917.








CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Boh? Francamente io non ho idea di cos’abbia in mente questo diavolo di autore...

The Blue Devil










Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...
   
 
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