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Autore: Alicat_Barbix    30/12/2018    2 recensioni
Trama:
John, forse il migliore agente a servizio dell'MI6, viene inviato sotto copertura ad indagare in uno dei più eminenti Night Club di Londra, per stanare la mente criminale più pericolosa che il mondo abbia mai conosciuto. A questa missione John è pronto, sa che non può fallire, che nelle sue mani vi è il destino di Londra e non solo. O almeno, crede di essere pronto, ma un bizzarro incontro con uno dei dipendenti del locale ha il potere di ribaltare le carte in tavola.
Sherlock, decisamente il miglior prostituto all'interno del Morningstar, vive felicemente la sua vita densa di sesso, avventure e disinibizione. Sherlock ama il suo lavoro, lo trova divertente e sa di essere il migliore e che niente potrebbe mai cambiare la sua vita da condannato all'Inferno che però tanto adora. O almeno, crede che niente possa cambiare la sua vita "perfetta", ma un bizzarro incontro con un ex medico militare così facile eppure difficile da leggere con le sue deduzioni ha il potere di stravolgere la sua intera esistenza.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
Free Me
 
John contemplava rapito le onde spumose infrangersi contro gli scogli, affacciato sul terrazzo della loro camera d’hotel. Una brezza gentile gli solleticava i capelli, mentre i raggi del sole gli accarezzavano tiepidi il viso. L’Italia era un po’ come se l’aspettava, in fondo. Sull’aereo per Genova si erano ritrovati seduti accanto a una coppia di italiani che, con il loro inglese stentato, li avevano allietati – o tediati, come diceva Sherlock – con le loro chiacchiere e le loro risate grasse. Avevano di certo rallegrato l’atmosfera pesante che gravava su di loro.
“Voi inglesi, con la vostra solita moralità” aveva detto la donna “pensate sempre che la vita vi sia ostile. Guardate Shakespeare, che fine che ha fatto fare a quei due poveri ragazzi!”
Giulietta e Romeo. Personaggi iconici del sapere comune. Chi è che non conosceva gli sfortunati amanti? Eppure, su Giulietta e Romeo era stata creata un’intera cultura, con film, riadattamenti teatrali, musical… Per due ragazzini che, probabilmente, arrivati a trent’anni avrebbero divorziato se fosse stato possibile. E tutte le persone vere che lottavano strenuamente per la loro felicità e il loro amore? Di quelle nessuno aveva notizia. C’erano i serial killer, i terroristi, le catastrofi naturali come protagonisti del tempo.
“Non potrebbe semplicemente essere che, in alcuni – forse molti, anche tutti – casi la vita sia ostile?” aveva ribattuto acidamente Sherlock, mettendo a tacere una volta per tutte la donna.
La vita era ostile. Almeno per loro. Non capiva per quale scherzo della natura fosse toccato proprio a loro. Perché loro? Ma perché chiunque altro? Perché l’essere umano era destinato a soffrire per forza? I predicatori annunciavano il regno dei cieli, dell’eternità, quando la terra che i loro piedi calcavano andava a puttane e centinaia di vite marciavano verso il macello. Sarebbe stato meglio non nascere per niente.
“Non ti cambi?”
La voce di Sherlock lo fece voltare. Neanche l’aveva sentito arrivare. Era andato chissà dove a fare chissà cosa lasciandolo lì completamente in balia del velo di tristezza che ormai dalla rivelazione dell’altro portava in sé, nonostante stesse cercando di non darglielo a vedere. Voleva che Sherlock fosse felice. Voleva che fosse felice con lui. E pareva avergli fatto bene il cambio d’aria: in aeroporto a Genova si era da subito mostrato spensierato e adorabilmente irritante con le sue frecciatine saccenti che Dio solo sapeva quanto gli erano mancate. Sembrava essere tornato lo Sherlock che aveva conosciuto, quel prostituto sicuro di sé, arrogante e maledettamente sexy che gli aveva fatto vomitare la sbornia nel cesso del locale. Ed era dannatamente bello sentirlo ridere nuovamente davvero, incrociare i suoi occhi limpidi, baciargli le labbra per zittire un suo commentino acido. Lontano da lui, però, ecco che tutto prendeva consistenza. Ecco che la malattia, la sofferenza, la mancanza, la verità bussavano alla sua porta, porgendogli il conto come degli strozzini. Peccato che non avessero alcun debito da saldare. Sherlock aveva commesso degli errori, d’accordo, ma perché proprio lui? Perché non quell’arpia di Mary? Perché non quel bulldog di Moran? Perché il suo Sherlock? Il suo dolce, innocente Sherlock…
“Perché? Andiamo da qualche parte?” gli chiese sinceramente stupito – aveva creduto che quella sera se la sarebbero presa con comoda dopo il viaggio e… beh, il resto.
Sherlock sospirò e, avvicinatosi all’ampio letto matrimoniale, afferrò uno dei cuscini quadrati lì adagiati per mera bellezza, lanciandoglielo addosso, in piena faccia. “Dio santo, John, hai intenzione di muovere il culo o pensi di rimanere lì imbambolato a farmi il terzo grado per tutta la notte?”
“Mi hai appena lanciato un cuscino?”
“Sì e devo ammettere che ho davvero una fantastica mira. Tutto grazie alla prima legge di-”
Ma distratto com’era nel suo sproloquio, Sherlock non vide arrivare il guanciale che John gli aveva appena tirato addosso, né tantomeno si accorse di essere stato assalito sempre da lui con uno dei cuscinoni. “John! Ma che diavolo!” sbottò il moro cercando di difendersi a braccia nude dai suoi attacchi. “John! Metti giù il cuscino!”
Ma lui era completamente perso nel suo divertimento sfrenato, dimentico di ogni altra cosa. Gli sembrava di morire di felicità per quel suo stupido comportamento infantile, ma in fondo, era sempre stato pazzo e avrebbe continuato ad esserlo al fianco di Sherlock Holmes.
“JOHN!” continuava ad urlare l’altro, ma lui sapeva perfettamente che la sua era una semplice facciata e che presto… “E va bene, l’hai voluto tu!” esclamò infine il moro, scattando in direzione del letto e lanciandocisi sopra, le mani che afferrarono il secondo cuscinone, ma non fu abbastanza rapido da rialzarsi, perché lui gli era già sopra, ridendo come un ragazzino e scatenando la risata di Sherlock. Si sentiva incredibilmente forte, in quel momento, a dominare nientemeno che Sherlock Holmes.
“Chi è che era il grande Sherlock Holmes? Quello che ha posseduto molti ma che non si è fatto possedere da nessuno?”
Sul viso di Sherlock, un accenno di malizioso divertimento. Accadde in un attimo: vide il moro scivolargli sotto le gambe e, senza che neanche potesse rendersene conto, si ritrovò disteso sul materasso, i pugni bloccati dalle mani di uno Sherlock col fiato corto e appena un poco di catarro.
“Io.” sibilò vittorioso l’altro. “Nessuno, a letto, può sconfiggere lo straordinario Angelo caduto.”
Anche John aveva il fiato corto e i suoi occhi studiavano il bel viso rinato del suo compagno. Era incredibile come si potesse essere felici nonostante tutto… Il pensiero gli attraversò la mente con crudeltà, cogliendolo impreparato. Per un attimo, aveva quasi pensato di concludere così la serata, a rotolarsi nel letto, i loro corpi intrecciati assieme, ma quel lampo improvviso che aveva squarciato la cappa di placida serenità che aveva ottenebrato ogni altra riflessione, lo riportò alla cruda realtà.
Sherlock si chinò su di lui, catturandogli le labbra appena serrate dalla preoccupazione con le sue. John non sapeva se avesse capito tutto e stesse cercando di illuderlo, di illudere entrambi, o se semplicemente, trascinato dall’euforia, avesse provato il desiderio di baciarlo. E il bello era che… che a John non interessava se avesse contratto a sua volta l’AIDS. Desiderava Sherlock, lo desiderava ardentemente, e voleva dargli la stabilità che meritava.
Quando si staccarono, si persero per alcuni istanti nei reciproci sguardi, un accenno di sorriso a fior di labbra. “Se non andiamo ora, dubito che avresti modo di rialzarti tanto presto.” gli comunicò Sherlock, scoccandogli un altro rapido bacio, stavolta a stampo, alludendo quasi ad un possibile rapporto carnale completo, quando aveva messo in chiaro che non avrebbe mai osato neanche pensarci. Ma era il gioco di Sherlock, ormai, quello. La sua personale recita. Il suo palcoscenico. Stava recitando la parte del trentaduenne libero da ogni sorta di inibizione, dedito solo alla leggerezza e al divertimento. E John era l’attore inesperto che si lasciava trascinare da quell’improvvisazione a cui non riusciva a stare dietro, al cospetto di un pubblico che, a volte, si chiedeva addirittura quale fosse la sua utilità accanto ad un uomo magnifico come quello che lo stava intrappolando tra il suo corpo e il materasso del comodo letto della suite dell’albergo.
“Sarebbe davvero sconveniente per le cameriere che poi dovrebbero pulire.” rispose infatti con un ghigno. Forse era stupido ignorare la realtà, fingere solo per logorarsi la notte, rigirandosi nel letto, le lacrime agli occhi, ma se era ciò di cui Sherlock aveva bisogno, allora lui l’avrebbe assecondato.
Sherlock, infatti, ridacchiò, compiaciuto, e si chinò nuovamente su di lui, baciandolo una, due, dieci volte per tutto il viso, infine si scansò completamente, uscendo dalla stanza e intimandogli di muoversi a cambiarsi.
Dopo un paio di minuti, John scese nella reception dove Sherlock, affiancato da un uomo moro, dalla barba castana deturpata da alcuni ciuffi argentei e l’aria di uno che la sa lunga, lo stava attendendo.
“Beh? Che si fa?”
“Gita in barca.”
“Gita in barca!? Alle dieci di sera?!” fece ancora, ingigantendo gli occhi. “Ma…”
“Dio, non penserai che sia pericoloso!”
“Pericoloso no, però sarebbe più prudente rimandare a domattina, no?”
Ma lo sguardo di Sherlock non ammetteva repliche, e così, fu costretto alla resa. Si avviarono al molo dove era attraccata qualche piccola barca di privati o di pescatori amatoriali, guidati dalla figura austera dell’uomo che aveva trovato a fianco del compagno. Salirono sulla barca con la scritta The Devil Within dipinta sulla fiancata bianca in caratteri neri. Rabbrividì istintivamente nel leggere quel nome così assurdo per un’imbarcazione, ma tacque ogni sua perplessità e prese posto a prua, appoggiato al parapetto che abbracciava rassicurante tutto il natante, seguendo le istruzioni di Sherlock che si assentò momentaneamente per conferire col capitano.
I suoi occhi si persero nell’immensità del cielo e delle stelle. Per un attimo, gli sembrò d’essere tornato bambino, e si ritrovò di fronte alla tomba del nonno, gli occhi gonfi di lacrime e le braccia di sua madre a circondargli il corpicino singhiozzante.
“Va tutto bene, John.” gli diceva la sua voce calda e rassicurante. “Il nonno adesso sta bene. E’ volato via, in un posto migliore.”
“Dove, mamma?”
“In cielo.”
“E perché non può venire da me?”
“Perché è tanto, tanto lontano e il nonno farebbe troppa fatica per venire. Però noi possiamo vederlo lo stesso. Stanotte, guarda il cielo e scoprirai che s’è accesa una nuova stella. Quella stella è il nonno, John. E ci guarderà sempre.”
“Anche quando te ne andrai tu ti vedrò come una stella?”
“Sì, John. Tutte le stelle che vedi sono le persone che non ci sono più ma che ci osservano sempre, perché ci vogliono bene.”
“E ogni volta che se ne va una persona nasce una stella?”
“Esatto, John.”
La medesima notte, si era affacciato alla finestra della sua piccola camera e aveva alzato gli occhi verso il firmamento scuro. C’erano poche stelle in quel cielo e – siccome gli piaceva quando la mamma gli parlava spesso d’astronomia – sapeva che era a causa dell’intensità delle luci cittadine. Si era chiesto se la stella del nonno si sarebbe presentata, ma soprattutto, si era chiesto come avrebbe fatto a riconoscerla. Con i suoi occhietti curiosi aveva cercato ed eccola lassù, baluginante, ma chiara: una piccola stella che sembrava sorridergli, proprio di fronte alla sua cameretta. Ed era lui, era certo che fosse lui.
“Non pensi che sia un po’ prematuro cercarmi lassù mentre sono ancora quaggiù?”
La voce di Sherlock lo fece sussultare, ma il suo iniziale stupore venne sostituito da una sensazione di vuoto scatenata da quelle parole. Come faceva, Sherlock, a parlare così della sua stessa vita? Come faceva a parlare così della loro vita? Non era abbastanza fingere di aver interiorizzato quella bomba e di aver anche accettato di buon regola la scelta di Sherlock? Si volse lentamente, la fronte aggrottata, le sopracciglia vicine. Non sapeva che espressione gli dipingesse il viso, ma dall’ombra che s’impossessò di quello dell’altro, capì che doveva essere il riflesso di ciò che sentiva dentro, senza maschere né finzioni.
“Oh.” fece semplicemente il moro avvicinandoglisi. “John… Perdonami, sono un cretino…”
John gli prese le mani e si fece cingere la vita, appoggiandogli la nuca sulla spalla, gli occhi fissi in cielo. “Conosci la stella Nihara?*”
“No.”
“La vedi quella lì? Quella stella piccolissima vicino alla stella Dubhe?”
“Non ho idea di quale sia la stella Dubhe.”
“Dio, Sherlock, ma hai fatto astronomia? La costellazione dell’Orsa Maggiore.”
“Se l’ho fatta, l’avrò rimossa per la sua inutilità.”
John sospirò, celando un mezzo sorriso, e col dito cercò di indicare il più precisamente possibile la stella che aveva nominato, puntando il dito verso l’astro più a nord della costellazione.
“Oh, sì, quella. E tu dici quella piccoletta là di fianco?”
Annuì e strinse appena di più la presa sulle mani dell’altro. “Quand’ero piccolo, mia madre per non affrontare il discorso morte e quindi Paradiso, mi raccontava di come ognuno, ad un certo punto, se ne va da questa vita e diventa una stella. Quando mio nonno è morto, mi ha detto di cercare la sua stella in cielo e io mi sono praticamente fissato con quella piccoletta – come l’hai chiamata tu –
Da ragazzo, ovviamente, ho preso coscienza che erano solo delle piccole bugie dette per non traumatizzare un bambino. Però… però, poi, ogni volta che guardavo il cielo, guardavo sempre quella stella. Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che si chiama Nihara.” Tacque per qualche istante, gli occhi allacciati a quell’astro che da tanto tempo soleva osservare, ricordando suo nonno. “Ora in quella stella vi sono tutti coloro che ho perso: mio nonno, mia nonna, i miei genitori, il mio carlino…”
Sorrisero entrambi a quell’ultimo nome, ma poi ritornarono quieti e forse, un poco pesanti nell’essere consapevoli di quel discorso che entrambi per quelle poche ore avevano cercato di evitare.
“Anche io diventerò una stella?”
Dovette trattenersi con tutto se stesso per non lasciarsi andare allo sconforto e alla tristezza. “Se sarai una stella, Sherlock?” gli chiese con un sopracciglio inarcato, voltandosi appena verso di lui, gli occhi velati. “Tu sarai la mia stella, Sherlock. La più luminosa tra tutte e avrai… una stella tutta per te. La stella polare.”
“Addirittura?”
“Sì, così ogni volta che alzerò gli occhi, sarà come averti accanto a me.” La voce gli si incrinò appena e dovette prendere un profondo respiro per non scoppiare davanti a lui. “Sarai il mio nord. Il mio punto fermo… Dio, come suona stucchevole.”
Sherlock ridacchiò, mentre gli baciava teneramente i capelli. “Non merito di avere una stella tutta per me, né di essere proprio la stella polare.”
Si volse quel tanto che gli bastava per incrociare il suo sguardo con quello dell’altro, i nasi che si sfioravano. “Tu ti meriti tutto.” Di nuovo, le sue parole sfumarono, sfiorando il singhiozzo. “Ti meritavi di più.” sussurrò infine, prima di baciarlo con trasporto, due lacrime che minacciavano di uscirgli nel momento in cui serrò gli occhi per assaporare quella bocca che adorava. Sherlock lo sollevò appena da terra, baciandolo con maggiore enfasi, intrecciando le loro mani insieme.
Quando si staccarono, rimasero abbracciati per attimi interminabili, mentre una consapevolezza amara e dolorosa si faceva spazio in lui, deteriorando quel briciolo di autocontrollo che gli era rimasto. Rafforzò la stretta fino a renderla quasi soffocante, timoroso che Sherlock potesse vedere le lacrime che gli stavano rigando le gote. D’improvviso, un botto alle sue spalle lo fece sussultare e voltare. Nel cielo scuro, una trapunta colorata di fuochi d’artificio. Lo spettacolo lo fece rabbrividire di piacere: quei pigmenti, quelle luci, quegli scrosci… Era tutto talmente bello. Infine, tra botti festosi che s’alternavano in cielo con arroganza, quasi, e competizione, svettarono delle luci nitide e stupefacenti. Formavano una parola: John.
Gli occhi di Sherlock erano divertiti nel vederlo muovere il capo da lui al nome in cielo. Ridacchiò appena, prima di prendergli le mani e baciargliele, gli occhi chiusi, le labbra che sembravano sugellare quasi una promessa.
“E’ il mio modo di dirti grazie, John, perché ancora una volta sei riuscito a ribaltare ogni mio piano.” Depositò qualche altro rapido bacio, risalendo sui polsi e poi sull’avambraccio. “So che sarà difficile, soprattutto per te, che ci faremo del male, che soffriremo l’uno per l’altro, però grazie. Nessuno avrebbe mai fatto una cosa così per me. E perdonami, perché se solo non avessi commesso tutte quelle cazzate… chissà, magari la nostra vita insieme sarebbe stata diversa. Perdonami, John. Perdonami per farti ques-”
Ma John gli tappò la bocca con una mano, sussurrandogli di stare zitto, di non osare fiatare perché altrimenti l’avrebbe buttato in mare. Sherlock rimase a guardarlo con occhi grandi di tristezza, mentre lui continuava a mordersi il labbro per non piangere, infine riprese a baciarlo. Non voleva più parlarne. Voleva riprendere il loro teatrino. Voleva anche lui recitare una parte importante, quella dell’attore professionista, sicuro di sé, avviato alla celebrità. Voleva essere in grado di spalleggiare Sherlock e di condurre assieme a lui le redini di quel grande e macabro spettacolo che era la loro vita. L’occhio di bue era puntato su di loro. E loro, sotto quel riflettore, si baciavano come due sposi novelli e non come due sfortunati amanti.
 
Le urla gli straziavano le orecchie. C’era il pianto di una donna in lontananza e gli strepiti di un bambino. E poi spari, granate, esplosioni, polvere, sangue. Se ne stava accucciato dietro il relitto di una vecchia automobile, il fucile tra le braccia, il petto animato da un violento battito cardiaco. Si preparò, rivolse addirittura una mezza preghiera a Dio, poi si levò da dietro il suo nascondiglio, la canna dell’arma puntata contro chissà quale minaccia… Eccetto che, non ve n’era nessuna. Il campo di battaglia era vuoto. Kabul era una città fantasma. Niente più cadaveri o soldati intorno. Solo silenzio e fantasmi. Si guardò intorno confuso, gettò il fucile pesante, si spogliò persino del giubbotto antiproiettile. Aveva caldo e una sensazione di soffocamento gli ostruiva le vie respiratorie. Sentiva il retrogusto amarognolo del sangue in bocca e le mani impregnate della medesima sostanza. Dov’era? Chi era? Cosa faceva lì? Abbassò gli occhi su di sé e si ritrovò completamente ricoperto di sangue vermiglio – la maglietta bianca, i pantaloni verde militare, gli scarponi… E puzzava, puzzava di morte e di dolore, di lacrime e di rimpianti. Cercò su di sé la ferita, pensò di morire dissanguato, ma non provava alcun tipo di fastidio, nemmeno minimo. Il suo corpo era integro, fermo nella sua statuaria e rigorosa posizione. All’improvviso, una goccia gli tintinnò in fronte, scendendogli poi tra gli occhi e sulle labbra. Si portò una mano al viso, intingendo due polpastrelli nel liquido rossastro e lo guardò smarrito. Lo sentì sulla lingua, e quasi gli parve di ricordare un sapore familiare. Alzò gli occhi verso il cielo, un cielo che si era improvvisamente fatto nero. Sgomento, cercò un riferimento, un punto, un qualsiasi cosa che lo aiutasse a ritrovare la strada – la strada per dove? nemmeno lo sapeva. o ricordava? – ma persino il cielo taceva di fronte alla sua perdizione. La stella polare. Dov’era quella cazzo di stella polare? Corse. Scavalcò carcasse di moto e carri armati, superò edifici sbrandellati dalle bombe. Di nuovo, una goccia di sangue gli cadde in fronte e gli si infilò nella maglietta, scendendogli sul petto, assorbita poi dal tessuto. Avvertì un lieve bruciore in quella zona, così si fermò, sfilandosi anche la maglietta. Si studiò, cercò nuovamente una ferita, ma non c’era alcuna traccia.
“Che diavolo sta succedendo?” si chiese col cuore che gli martellava in gola.
Un nuovo ticchettio alla fronte lo fece sussultare. Stavolta seguì il percorso di quella goccia vermiglia, dal suo viso al suo petto e, con sorpresa, la vide cambiare direzione all’ultimo momento, scivolando a sinistra anziché a destra. Una volta arrivata in prossimità del cuore, venne incorporata nel suo petto, lì dove il muscolo principale di ogni organismo batteva.
Fu solo allora che levò nuovamente gli occhi al cielo e, sospeso nell’aria, scorse il corpo di un agnello. Un agnellino nero completamente abbandonato alle spire del vento che lo sollevava da terra, gli occhi chiusi e uno squarcio che gli si apriva nel ventre. Fissò quel macabro spettacolo con gli occhi sbarrati. Così indifeso, così spaurito, così debole e infine, così morto. Perché si doveva morire? Cazzo. La morte era una puttana. Anzi, no, la vita era una puttana. Quell’agnello non meritava di morire così presto. Perché si moriva sempre troppo presto? Meritava tutto. Meritava di più. Chissà quale infame lupo lo aveva ingannato, allontanandolo dalla madre per poi azzannarlo, o chissà quale cacciatore gli aveva sparato un colpo contro solo per rivenderlo e guadagnare con la sua povera vita spezzata… Dov’era il pastore, in quel momento? Dov’era? Perché non l’aveva protetto? Avrebbe dovuto fare tutto quello che era in suo potere per difenderlo dal male, dalla morte, dal dolore… E invece, eccolo lì, morto.
Improvvisamente, una serie di colpi di tosse si diffuse nell’aria e l’agnello sparì improvvisamente. Altro sangue gli piovve dal cielo, rapprendendosi tra i suoi capelli, entrandogli nelle narici e in bocca, soffocandolo, mentre una risata scuoteva cielo e terra, sovrastando persino quella tosse secca che frastornava l’udito.
E’ più mio di quanto pensi. Di quanto lui pensi. Siamo legati dallo stesso destino… Di certo è più mio che tuo… Io non me ne andrò mai da lui… Mi sono spinto troppo dentro e avrà per sempre una traccia di me in lui… Un giorno ti sveglierai e Sherlock non sarà più con te. Alla fine, lo perderai perché non sei stato abbastanza forte da proteggerlo… Sherlock soffrirà. Sarai tu a farlo soffrire… Sherlock non sarà mai al sicuro con te. Solo io potevo proteggerlo, e adesso che sarò rinchiuso in gattabuia, tutto quello che potrò fare è guardarlo mentre si lascia distruggere da te… Tu credi che il pericolo che minaccia Sherlock sia io, ma non hai idea di quanto ti sbagli, Johnny. Il pericolo non sono io.
John urlò, le mani pressate disperatamente sulle orecchie. Di chi era quella voce… Sherlock. Dio, Sherlock… Sherlock…
“SHERLOCK!” gridò infine con quanto fiato aveva in bocca.
Aprì gli occhi in cui ancora erano impresse le immagini di quel tremendo incubo. Tremava e si sentiva ancora addosso il sangue, nelle orecchie quelle parole maligne, sussurrate forse da Satana in persona. Il materasso era scosso da violenti colpi e solo quando si volse alla sua destra, madido di sudore e ansante, si rese conto dello stato in cui Sherlock verteva: tossiva, aveva una mano serrata attorno alla gola, gli occhi rossi, si contorceva nel suo lato di letto.
Scattò in ginocchio improvvisamente terrorizzato e incapace di fare qualunque cosa. Di riflesso, gli prese le spalle e lo costrinse a sedere sul bordo del letto, mentre si lanciava di fronte a lui, per guardarlo e… cazzo, fare cosa? Provò a richiamare le sue conoscenze mediche, ma sembrava aver dimenticato tutto, come se fosse in un blocco preesame universitario.
“Sssh… Sssh… Va tutto bene.” cominciò a sussurrare mentre Sherlock annaspava, in cerca di aria. “Ehi… Ehi, guardami, guardami… Respira, guarda me e respira come faccio io.”
Iniziò a respirare con lui, un lento ed estenuante processo, poi spalancò la portafinestra e, caricandoselo sulla schiena, lo trascinò sul balcone, per respirare.
“Chiamo un’ambulanza.” fece poi, sul punto di scattare dentro a prendere il telefono, ma il moro gli afferrò prontamente il polso e lo tirò indietro, gli occhi rossi che lacrimavano, ma lo sguardo fermo e il respiro più presente.
“E’… è okay… Non chiamare nessuno…”
Per quanto ancora volevano giocare a quel gioco? Per quanto ancora, John, sarebbe stato in grado di assecondare quel folle piano che aveva come termine la distruzione completa dell’uomo più importante della sua vita?
Eppure lo fece. Si inginocchiò su di lui e gli obbedì, come un fedele cane che obbedisce ad un vecchio padrone. Il suo biscottino consistette in una dolce carezza al viso. Chiuse gli occhi e si concentrò su quella mano che percorreva lentamente la sua guancia.
“Così ti distruggi.”
“Esagerato…” borbottò di rimando l’altro, scuotendo la testa e tirandolo verso di sé, in un abbraccio caldo e confortante. “Sarà stata l’aria condizionata dell’aereo… O forse ho preso freddo stasera.”
“Una dispnea? Per dell’aria condizionata? Sherlock-”
“Suvvia, John! Mi stai trattando come se fossi un moribondo. Sto bene, guardami!”
John si staccò e gli puntò addosso uno sguardo carico di rabbia, le immagini del sogno che venivano sfogliate come pagine di un libro dalla sua mente. “Cazzo, Sherlock, così ti ammazzi!” sbottò afferrando il tessuto della maglietta del moro. “Una dispnea non è normale, non nelle tue condizioni!”
Sherlock assorbì silenziosamente le sue parole e lo fissò senza proferire verbo per un po’, infine, gli scostò una ciocca di capelli biondi dagli occhi, un sorriso spontaneo sulle labbra. “Hai avuto un incubo?”
“Sherlock-”
“D’accordo: sto morendo, e allora? Mi sembra di avertelo già detto per la questione droghe: lo stress rovina tutti i giorni della tua vita, la morte solo uno. Tu hai avuto un brutto sogno, io una piccola fame d’aria, la tua serenità è compromessa dai… recenti eventi, io ormai me ne sono fatto una ragione… John, parlami, sfogati, dimmi quello che pensi davvero, insultami, ma fidati di me e non trattarmi come un povero pazzo che cerca un filo d’erba in mezzo al deserto. Sto provando davvero ad essere felice e so che è folle dirlo, ma non posso essere felice se non sei felice anche tu.”
Sì, era decisamente folle, perché John non sarebbe mai potuto essere felice, anzi, non sarebbe mai più potuto essere felice. Non dopo Sherlock, non dopo i suoi baci, non dopo la sua eccentricità, non dopo aver conosciuto il Paradiso solo per sprofondare nell’Inferno, come Lucifero. Ma lui doveva fingere. Per Sherlock. Solo per lui.
“Sherlock… io mi sto abituando, davvero, è solo che… quando ti ho visto in quelle condizioni…”
“John, che stavi sognando? Prima della crisi ti ho sentito mugolare qualcosa e rivoltarti come un assatanato, ti prego, dimmi che c’è.”
Sospirò, stropicciandosi stancamente le palpebre. “Ho sognato l’Afghanistan. Sai, a volte quelle scene tornano… Non devi preoccuparti, ce li ho spesso questi incubi.”
Sherlock continuò a scrutarlo con sospetto. “Stai mentendo.”
Scosse la testa, con quanta più rilassatezza riuscì a trovare. “Non sto mentendo, sei tu che sei paranoico.” Gli baciò lentamente l’angolo destro dalla bocca, poi il mento, e infine poggiò le labbra sulle sue. “Come va il respiro?”
“Se muoio per asfissia da bacio appassionato è colpa tua.”
“Non è un bacio appassionato! A malapena ti tocco!”
Sherlock sorrise furbescamente e si accomodò tra le sue gambe, le mani serrate sui suoi fianchi. John percepì il proprio controllo venir meno – purtroppo era sempre più facile desiderare quella meraviglia di fronte a lui e il non poterlo avere non faceva che aumentare la sua bramosia.
“Sherlcok-”
“Stia zitto, dottor Rose.” lo ammonì il moro con un sorriso malizioso mentre si piegava su di lui per baciarlo prima lentamente, percorrendo ogni centimetro della sua bocca, e poi con più foga, spostandosi poi al collo e poi ancora al petto, fino ad arrivare al basso ventre, punto in cui si lasciò scappare un gemito.
“Sherl-”
“Non farò niente che non vuoi. Io ho… controllato, sono pulito: non ho nessuna ferita in bocca o altre… stronzate varie. Però sappi che mi fermerò se è quello che vuoi…”
John scoppiò a ridere, mentre Sherlock riprendeva a baciarlo, staccatosi dalla sua pancia. “Se è quello che voglio? Dio, se lo voglio… Per favore…”
Non era stata la rassicurazione a farlo decidere. Anzi, ormai quasi non gli importava più di se stesso. Viveva solo per lui, per Sherlock Holmes. Avrebbe perfino preso quel cazzo di AIDS se solo Sherlock non fosse stato troppo puro e buono per trattenersi dal cedere alla passione che a causa delle circostanze stavano cercando di reprimere.
All’improvviso, Sherlock si staccò da lui e arrancò all’indietro, sbattendo contro la ringhiera del balcone. John, in un momento di folle paura, pensò ad una nuova dispnea, ma invece il moro era perfettamente in grado di respirare, nonostante l’accennato fiatone per i baci, però i suoi occhi tradivano una paura folle che mai aveva scorto in quegli occhi.
“Sherl-”
“Che cazzo ho pensato di fare…” sussurrò passandosi le mani affusolate sul viso. “John, io… perdonami, perdonami…”
“Sherlock-”
Cercò di fermarlo, ma l’altro era già scattato in piedi ed era corso dentro, iterando frasi incomprensibili, allora lo seguì e proprio mentre stava per uscire, riuscì ad afferrarlo e a bloccarlo.
“Sherlock, Cristo Santo, mi spieghi che c’è?”
“C’è che non posso più illuderti di stare con una persona sana che può offrirti tutto di sé. Io… io sono una mina vagante, John. Potrei esplodere da un momento all’altro e non voglio trascinarti con me.”
“Sherlock-”
Ma Sherlock lo zittì con un bacio traboccante di accesa passione che si risolse, però, presto. Troppo presto. Lo tenne vicino a sé, gli occhi tristi, le labbra a baciargli i ricci corvini. Stava accadendo tutto così velocemente… Poco prima si stavano baciando con foga e ora stavano lì, abbracciati, memori del presente e del futuro.
“Non posso legarti a me così.”
“Smettila.”
“Non voglio che tu stia con me per pietà.”
“Io non sto con te per pietà, sto con te perché lo voglio.”
Il moro distolse lo sguardo, le labbra crucciate. “E allora sei un pazzo.”
John gli prese le mani e le strinse forte, con sicurezza e devozione. “Solo un pazzo potrebbe sopportarti.”
Entrambi sorrisero, anche se era appena un’ombra quella che attraversava le loro bocche lievemente arrossate. Volevano fingere ma non ce la facevano. Era come un fottutissimo ciclo: passava una fase e si illudevano che era acqua passata, che l’avrebbero dimenticata e non l’avrebbero più attraversata, ma puntualmente si ripresentava, lì, arcigna... Ed erano nuovamente a quella fase.
“Torniamo a letto a farci un po’ di coccole?” propose con tono quasi da bambino lui, accennando un’espressione angelica, ma poi il calore affluito all’altezza dell’inguine lo fece ricredere. “Anzi, scusa… Facciamo che tu torni a letto e io vado un attimo a farmi una doccia fredda, eh?”
Sherlock ridacchiò appena e forse con le labbra articolò addirittura un mi spiace, ma mentre faceva scorrere l’acqua che gli lambiva il corpo, John si chiese perché avrebbe mai dovuto dispiacersi: era una cazzo di persona con una cazzo di malattia che voleva vivere il cazzo di tempo che gli rimaneva. Era sbagliato? Eppure, Sherlock si preoccupava per lui. Sherlock era un agnellino indifeso, e lui… lui pastore, lui amico, lui compagno, lui amante… lui era impotente e lo stava distruggendo.
 
Quella macchina fotografica era semplicemente meravigliosa. Non si era mai dilettato in hobby talmente stupidi come la fotografia – a parte qualche rara occasione di video porno che qualche suo cliente gli aveva chiesto di girare –, eppure gingillare con quell’arnese era davvero meraviglioso. La brezza salmastra gli solleticava il viso gradevolmente. Puntò l’obbiettivo sul sole rosso sangue che s’affacciava pigramente da dietro il mare. Dio, che spettacolo… Fotografò e dopo pochi secondi la macchinetta rigettò la foto nera. La sventolò un po’ e attese, finché sulla carta non comparve il meraviglioso sole vermiglio che faceva capolino da dietro le onde.
“Sherlock!”
Si voltò con un sorriso strafottente ad osservare il compagno che se ne stava a braccia conserte, piantonato in mezzo alla spiaggia privata dell’hotel, un’espressione truce sul viso.
“Qualche problema?”
“Oh, no, assolutamente! Come ti vengono certe idee?”
Il rumore dello scatto della macchinetta seguì quelle parole. “Spettacolare! Assolutamente naturale.” osservò soddisfatto studiando il risultato della fotografia.
“Sherlock.”
“Cosa? Sei venuto benissimo, guarda!”
“Gradirei un briciolo della tua attenzione visto che sono cinque giorni che stai dietro a quel gingillo.”
“Gingillo? Questo è un pezzo unico che mi ha venduto un vecchietto al mercato di Manarola.”
John sbuffò, scuotendo la testa. “E’ una polaroid come tante altre.”
“Una polaroid degli anni Settanta? Osi davvero definirla una come tante altre?”
Il biondo gli si avvicinò senza sciogliere le braccia allacciate al petto, e occhieggiò da sopra la sua spalla la fotografia che gli era stata appena scattata. “E’ orribile.”
“Colpa del soggetto.”
A quel punto, non poté fare nulla per evitarsi un pugno precisamente sferrato alla spalla, che lo fece barcollare vistosamente. Tendeva spesso a dimenticare il passato militare del compagno, ma nonostante tutto scoppiò a ridere di fronte alla permalosità dell’altro. “Scherzavo, dai. Qui in Italia, comunque, c’è un modo di dire che è davvero singolare, qualcosa del tipo… sei bello come il sole: non ti si può guardare.
“Hai davvero voglia di tornare in hotel a pezzettini stasera?” sospirò John alzando gli occhi al cielo. “E comunque mi spieghi perché ci tieni tanto a fare queste benedette foto? Sono giorni che ne fai a centinaia e sperperi i soldi per comprare carta fotografica e le raccogli in una misteriosa cartellina che tieni gelosamente nascosta tra le tue camicie e no, non ho frugato di proposito fra le tue cose, stavo cercando un mio costume da bagno.”
Si accostò all’altro, un sorrisetto malizioso sulle labbra e, con premura, gli appoggiò le mani all’altezza del ventre, accarezzandolo amorevolmente. “Voglio che il bambino abbia qualche ricordo del suo papà visto che non avrò modo di vederlo.”
John, allora, gli diede un altro pugno, stavolta più forte, in pieno petto, sbuffando. “Sei proprio un coglione.” Ma entrambi scoppiarono a ridere, e per un po’ non si udì nient’altro che il suono della loro lieve serenità sottratta al dolore. “No, sul serio” riprese il biondo tornando serio. “Non capisco da dove nasca, adesso, tutta questa voglia di immortalare qualunque cosa.”
Non c’era una ragione precisa, si disse Sherlock. O forse, erano anche troppe. La scure della morte che si stava gradualmente abbassando sulla sua testa gli aveva, forse da un lato, aperto gli occhi, e così era stato in grado di rendersi conto della bellezza di quello che lo circondava. Un tempo, trovava idiota la contemplazione della natura, del cielo, delle stelle, del mondo intero… Ora, invece, ovunque volgesse lo sguardo scovava una piccola meraviglia rara, forse addirittura unica, come quella vecchia macchina fotografica che trattava come un vaso di cristallo. Come John. John era il fulcro di tutte le cose belle di cui i suoi occhi si facevano testimoni. John l’aveva reso l’uomo che non avrebbe mai pensato di essere. Si svegliava, nel cuore della notte, a volte affannato, con gravi difficoltà a respirare, e lui c’era, sempre, lo portava sul balcone e assieme osservavano le stelle e, con le stelle, le persone che erano scomparse. Presto, anche lui sarebbe divenuto un astro e la sua unica consolazione era che almeno sarebbe stato in grado di vegliare su John.
Lo strinse senza rispondergli, strofinandosi contro di lui, un calore genuino si diramò per tutto il suo corpo. Sorrise quando le braccia di John lo premettero con più decisione contro di sé e, con le dita, cercò di accarezzare l’anima di quel piccolo militare in congedo che gli aveva dato tanto. Quando si staccò, riacquistando la distanza, gli mancò il fiato: il sole, sul punto di eclissarsi completamente, illuminò a tradimento il volto soave di John, conferendogli un aspetto angelico, eroico, bellissimo. Il passo successivo fu scattare la fotografia e aspettare. Sulla carta fotografica, una lama di luce rossastra saettava sul compagno, illuminandogli gli occhi indaco e l’ombra di un amaro sorriso, quello che – lo aveva capito – lo coglieva quando pensava alla loro situazione e al loro futuro.
La sventolò fieramente di fronte al viso dell’altro, il petto gonfio d’orgoglio per quel piccolo capolavoro: era davvero la foto più bella che avesse mai scattato e non era per il suo occhio clinico o il paesaggio mozzafiato, ma per quella veridicità nell’espressione di John.
“Questa, John, la porterò con me quando varcherò le soglie dell’Inferno!” esclamò con voce trionfante. “E vedrai se non mi spediranno dritto in Paradiso, tra gli angeli!”
John non sembrava aver colto il senso di quella declamazione: tutto ciò che il suo viso tradiva era un fastidio piccato, solito quando lui parlava senza peli sulla lingua riguardo il suo – non troppo remoto – Fato. “Sherlock.”
“Dio, John, ma che hai, oggi?” sbuffò alla fine, sconcertato dal malumore del suo compagno. “Ho solo voglia di fare qualche foto, che c’è di male? Per di più, dovrò pur trovarne una da mettere sulla tomba, no? Quelle dei miei sono semplicemente-”
Le parole gli morirono in bocca alla vista di un John Watson che, sconvolto, gli diede le spalle, allontanandosi da lui a passo spedito. Lo chiamò, prima con tono interrogativo, poi una seconda volta, ora più preoccupato, infine gli corse dietro, afferrandogli il polso e costringendolo a guardarlo.
“John, che cazzo succede?”
Gli occhi del biondo erano un campo minato di emozioni contrastanti su cui lui, insicuro, camminava, nella speranza di non saltare in aria per un piede messo male. “Che cazzo succede? Succede che non ce la faccio più a sentirti parlare della tua morte come se non ti riguardasse o non riguardasse me! Se hai intenzione di fingere che vada tutto bene, allora d’accordo, ti assecondo, ma non tollero che spari puttanate su quello che ci sta succedendo, okay? Sono stanco della tua fottuta volubilità e non me ne frega un cazzo se sei malato e stai per morire, perché io ci sono qui per te, ma non puoi chiedermi di fare finta di essermi rassegnato, perché non mi sono rassegnato, Sherlock, e mai lo farò!”
Assorbì quella dichiarazione praticamente sputatagli addosso senza battere ciglio, le dita saldamente strette attorno al polso dell’altro. Ora era rabbia ciò che predominava in quelle iridi indaco. E lui, alla fine, si lasciò andare ad un sorriso quasi sollevato.
“Finalmente.”
“Finalmente cosa?”
“Finalmente sei scoppiato.”
“Cosa…”
“Credi che mi diverta a farti soffrire? A scherzare sul tuo dolore? Non lo sto facendo perché sono un insensibile figlio di puttana, John, lo sto facendo per te.”
“Per me?” fece il biondo sbigottito.
“Sì, per te, perché le cose stanno così, John: presto morirò e non c’è niente che possiamo fare per cambiarlo, ma tu devi accettarlo, devi rassegnarti, ma non potrai mai farlo finché non ti sarai liberato di questo peso. Una volta per tutte, John, guardami negli occhi e scolpiscitelo bene in testa: io morirò.”
E un terzo pugno colpì il suo corpo, stavolta dritto in faccia, in pieno zigomo. Avvertì le nocche di John dure e fredde sulla sua pelle. Retrocedette, completamente spiazzato da quella reazione ma forse, da un lato, rincuorato. Era l’unico modo per permettere a John di buttare via tutto quel dolore che si stava tenendo dentro e che, se avesse continuato a soffocare, sarebbe esploso. E Sherlock non poteva permettere che accadesse quando lui non sarebbe più stato lì.
“Come ti fa sentire? Ti fa sentire meglio? Più libero? Guardami, cazzo! Sono quello che ti ha causato ogni sofferenza! Sono il bastardo che ti voleva scopare già dal primo giorno e che se solo tu non avessi avuto la tua moralità e la tua fermezza ti avrebbe legato alla sua stessa fine!”
“Basta!” ruggì di rimando John puntandogli un dito contro. “Chiudi la bocca o ti giuro, Sherlock, giuro su Dio che non risponderò più delle mie azioni.”
“Non fermarti, allora.” esclamò aprendo le braccia e offrendogli il suo intero corpo. “Colpiscimi forte, una, due, cento volte! Finché non capirai che ne hai date abbastanza! Avanti, picchiami!”
Ma un orrore urlante illuminò gli occhi del compagno che, istintivamente, si ritrasse, portandosi il dorso della mano alle labbra e osservandolo con sofferenza. “Fottiti, Sherlock Holmes!”
Lo guardò scappare lontano e stavolta non lo fermò. Rimase a lungo su quella spiaggia, mentre il sole terminava il suo declino, lasciando posto alla sorella luna, e si ritrovò seduto sulla sabbia, scosso dalla tosse e da un lancinante dolore al petto senza nemmeno rendersene conto. Provava caldo e percepiva un’arsura insostenibile graffiargli la gola. Sui granelli dorati, caddero alcune gocce di sangue vermiglio. Ormai, quegli attacchi di emoftoe e di emottisi erano praticamente regolari. Lo coglievano sempre più spesso, in particolare la notte, e aveva imparato a gestirli, sebbene con un’iniziale consistente difficoltà. E soprattutto, al suo fianco c’era sempre stato John. C’era stata la sua forza, il suo coraggio, la sua fermezza, la sua dolcezza, la sua voce, le sue carezze.
Rantolò, rialzandosi a fatica e pulendosi le labbra sporche di sangue col dorso della mano.
“Ehi, giovanotto!” esclamò una voce dietro di lui. “Si sente bene?”
I suoi occhi intercettarono la figura di un vecchietto, in mezzo alla spiaggia, a qualche metro da lui. Provò a parlare, ma il sapore acre del sangue lo colse nuovamente e dovette sputare una seconda volta, osservando poi il veleno che gli scorreva nelle vene posarsi sulla sabbia. Subito, s’inginocchiò e con le mani prese a rimestare la sabbia, cercando di fare affondare i granelli ormai compromessi.
“Giovanotto? Ma cosa sta fac-”
“Si fermi e stia lontano!” gli urlò in italiano, sentendolo vicino, troppo vicino e protendendo verso di lui il palmo della mano per rimarcare il suo comando. “Questa roba è veleno, stia indietro!”
“Ma-”
“Ho detto: stia indietro!”
“Giovanotto, ma lei… lei sta piangendo.”
La voce calda e al contempo flebile dello sconosciuto lo schiaffeggiò con la sua cruda verità. Si portò una mano al viso e sfiorò le sue stesse lacrime, sbigottito. Che cosa ci facevano quelle lacrime sulle sue guance? Erano sue? Erano degli angeli in cielo che lo compativano? Erano di John? Ma quando un singhiozzo a malapena strozzato gli scosse le viscere, si rese conto del dolore vibrante che gli stava scavando all’altezza del petto. Si portò una mano al cuore, le palpebre serrate e la mascella digrignata nell’inutile sforzo di contenere un pianto disperato.
“Non è giusto… Non è giusto… Lui non lo merita…” prese a farfugliare sconnessamente mentre si rannicchiava come un cucciolo indifeso ed impaurito sulla sabbia, i capelli che si impiastravano di quei granelli dispettosi e gli occhi che osservavano da dietro il velo di lacrime la quiete del mare di sera. Il vecchio si chinò su di lui e con fare paterno prese ad accarezzargli i ricci, sussurrandogli gentilmente chissà cosa nella sua lingua. E Sherlock, irrazionalmente, si sentì a casa.
 
Contemplarono, vicini, il mare che si apriva di fronte a loro, le labbra attaccate a due bottiglie di birra. Scrutavano quel paesaggio irrealmente calmo, ossimorico con ciò che lui, in quel momento, provava. Dopo un non definito lasso di tempo, si era ricomposto e aveva cercato di rassicurare quel gentile sconosciuto che tanto gli ricordava Angelo, ma alla fine si era lasciato trascinare al primo bar per prendere da bere e sedersi placidamente in spiaggia.
Ora che analizzava ogni cosa a mente fredda, si spiegava la ragione di quelle lacrime: erano lacrime di frustrazione per la lontananza che, inevitabilmente, divideva lui e John. Avevano fatto entrambi di tutto, ma c’era una voragine a separarli, un immenso muro di Berlino eretto da due popoli che si odiavano reciprocamente, e loro erano solo due pedine messe a caso in quella mappa di desolazione e amarezza. Ora capiva le parole di Moriarty: John lo stava distruggendo. Stava distruggendo quel precario equilibrio che era riuscito a conquistare. Lo stava facendo con l’intento di stargli accanto. Ma la verità era che accanto a John niente sarebbe stato stabile, non così, non in quel momento.
“Allora, giovanotto.” lo richiamò il vecchio, in tono affabile e paterno. “Hai voglia di aprirti un po’ col vecchio Sergio?”
Si portò la bottiglia alle labbra e assaporò un paio di sorsi di birra, cercando forse il coraggio, forse la forza, non sapeva dirlo. “Non c’è molto da dire.” confessò in tutta franchezza.
“Quando si dice così, la verità è che è tutto un grande casino.”
Un grande casino, eh? Sì, lo era eccome. Anzi, dire grande casino era un eufemismo. La morte non era un grande casino, la morte era una frattura netta con tutto ciò che si era creato in passato con sudore e fatica. La morte era una lama che ti pugnalava alle spalle e ti faceva soffocare nel tuo stesso sangue. Quello era la morte. Non un grande casino.
“Sto per morire.” sibilò alla fine, passandosi una mano in volto.
“L’avevo immaginato.”
“Ho l’AIDS.”
“Ora capisco perché hai avuto quella reazione, prima. Posso chiederti perché stavi piangendo?”
Bevve un altro sorso di birra, gli occhi socchiusi nei quali sfilava l’immagine della rabbia scolpita fra le righe d’espressione del compagno. Si chiese quanto dovesse soffrire. Lui, almeno, sarebbe morto e basta. John avrebbe dovuto ricostruire la sua vita pezzo dopo pezzo. Per questo, non poteva fare altro che sperare che il loro rapporto non fosse davvero così forte o essenziale, né per sé né per lui.
“Non ho paura di morire.” disse semplicemente. “Ma ho paura della sofferenza di quelli che mi stanno intorno.”
“C’è una persona in particolare?”
“Dev’esserci per forza?”
“Solitamente c’è, soprattutto se c’è di mezzo un pianto del genere.”
Sherlock si trovò a sospirare: quel vecchietto era più arguto di quanto avesse creduto. “Si chiama John.” esordì dunque. “Ci siamo incontrati nel bordello in cui lavoravo, a Londra. Lui era l’agente incaricato di catturare il mio capo. Fin dal primo momento, ho sentito che era diverso, in qualche modo: non mi guardava come uno da scoparsi, ma come un essere umano con carne, ossa ma anche sentimenti. Quando scoprii di avere l’AIDS era troppo tardi per allontanarlo. Provai a… tenerlo a distanza, a trattarlo come un semplice amico, ma alla fine cedetti. Una volta fuori dal bordello, ho continuato a vivere nella speranza che prima o poi avrei avuto la forza di mettere un punto alla nostra storia, ma alla fine…” Dovette prendere un profondo respiro per pronunciare quelle parole. “Alla fine sono stato costretto a dirglielo e la cosa buffa era che… credevo che una volta per tutte si sarebbe staccato e avrebbe ripreso in mano le redini della sua vita lontano da me. E invece, eccoci qui, in una stupida vacanza sul continente a fingere che vada tutto bene quando in realtà non va bene proprio per niente… Pensavo che trascorrere quello che mi rimane da vivere con lui mi avrebbe aiutato ad essere felice, ma la verità è che non riesco più a vederlo soffrire. Sono un egoista: io morirò e a quel punto sarà tutto finito, però lui… lui continuerà a vivere e io non posso fare altro che sperare che il nostro rapporto per lui non sia così forte.”
“Lo ami.” osservò a bruciapelo il vecchio e Sherlock si trovò a sorridere.
“Non credo di sapere esattamente che cosa sia l’amore, però… John è di certo l’unica persona che potrei mai amare.”
“E anche lui ti ama.”
Scosse repentinamente la testa, con sgomento, quasi. “Oh, no. Non è possibile. Quando ancora lavoravo in quel bordello gli ho fatto promettere che non si sarebbe innamorato di me.”
Sergio scoppiò a ridere della grassa, con la testa a ciondoloni. “Credi davvero che sia così facile, giovanotto?”
“No, ma non ho nient’altro a cui aggrapparmi… E comunque, John non mi ama, no… Non può amarmi. Nessuno si innamora di uno come me. A maggior ragione quelli come lui.”
“E com’è lui?”
“Buono.” iniziò con gli occhi che brillavano un poco di più. “Giusto, sincero, generoso, puro… Io sono la sua completa antitesi. Non potrei mai meritarmi il suo amore.”
Tu meriti tutto… Meritavi di più…
Scacciò quelle parole e tornò ad osservare la linea dell’orizzonte su cui cielo e mare si univano indissolubilmente. La birra era ormai finita e anche la sua forza di parlare. Tutto ciò che desiderava era che John stesse bene.
“Avevo una moglie.” esordì improvvisamente il vecchio. “Si chiamava Bianca. Ci sposammo quando avevamo appena vent’anni. Lei era di buona famiglia, abituata agli agi che suo padre poteva permetterle, mentre io ero un giovane sognatore squattrinato, ma il nostro amore era forte, più forte del volere di suo padre, più forte della diversità sociale, più forte di tutto… Scappammo insieme e ci rifugiammo proprio qui, in una squallida catapecchia che scegliemmo come la casa nostra e dei nostri figli.” Un sorriso amaro sfilò sulle labbra screpolate dell’uomo. “Bianca voleva così tanto dei bambini, anche se entrambi sapevamo che avremmo faticato tanto per mantenerli. Ebbe tre aborti spontanei. Ogni piccolo embrione che le abitava il grembo moriva dopo le prime settimane. Divenne un fantasma, la mia Bianca. Solo mesi e mesi più tardi scoprimmo il cancro che le stava divorando il collo dell’utero. Incurabile. La vidi avvizzire come un fiore delicato trapiantato in un deserto. Mi chiese più volte di andarmene e di lasciarla morire da sola. Diceva che non avrebbe mai potuto sopportare che la ricordassi in quel modo. Così lo feci. Me ne andai di notte dall’ospedale e scappai come un codardo. Non so perché lo feci: io l’amavo più di me stesso. Capii solo dopo che scoprii che era morta col sorriso sulle labbra che l’avevo fatto per lei. Io l’amavo a tal punto da negarmi di tenerle la mano al momento della sua morte, capisci? E’ stata egoista a chiedermi una cosa del genere e io sono stato sciocco ad assecondarla. Non c’è giorno, giovanotto, non c’è un solo, maledetto giorno in cui io non rimpianga l’esserle stato lontano nel momento in cui ha spirato. Ho vissuto cinquant’anni nel dolore e nell’odio nei confronti miei ma anche suoi. Lei credeva che fosse la cosa migliore anche per me, che magari sarei stato in grado di tornare a vivere dopo un po’… ma ti assicuro che non è stata più vita la mia dal momento in cui l’ho lasciata in quella camera d’ospedale.”
Un gabbiano sferzò l’aria, il bianco piumaggio delle ali arruffato dal vento. Si tese verso la luna, l’uccello, e lanciò un urlo stridulo. Dopo poco, venne raggiunto da un secondo esemplare, più piccolo, e insieme planarono sul mare oscuro della notte, così vicini che avrebbero potuto scontrarsi e cadere in acqua al minimo spostamento, ma si fidavano l’uno dell’altro o magari erano semplicemente troppo stupidi per far caso a quel dettaglio.
“So che pensi che la tua decisione sia la scelta migliore per entrambi… ma ti assicuro che il tuo John non potrà mai perdonarsi di esserti stato lontano e… potrebbe diventare come me, alla fine: un vecchio rimbambito chiuso in se stesso e rancoroso verso il mondo intero.” Sherlock guardò gli occhi scuri di Sergio, trovandoci così tanto delle ombre che annebbiavano quelli di John. “Tu lo ami?” chiese di nuovo il vecchio.
“Sì.”
“Allora lascia che sia lui a decidere senza condizionarlo. E non avere paura di amarlo con tutto te stesso ora, perché quest’occasione non dura per sempre, e lo sai. E’ andata prima che tu te ne renda conto, prima che te ne renda conto. Non fare lo stesso errore della mia Bianca e non costringere John a fare lo stesso errore che ho fatto io.”
Sherlock tacque per diversi istanti, gli occhi sgranati. Non voleva che John vivesse il resto della sua vita nel rimpianto e nel rimorso, né tantomeno nell’odio per se stesso… Quella Bianca… sì, era stata decisamente egoista, la sua morte così facile… Aveva persino sorriso, qualcosa di così raro al momento della dipartita. Non sapeva di star condannando l’uomo che amava ad un eterno dolore e ad un’esistenza di tenebre e ricordi.
Come avevano potuto pensare, entrambi, una cosa del genere? Credevano di fare del bene e invece era solo una scusa perché fossero loro a star bene, a morire felici. Non avevano considerato i diritti di Sergio e di John di star loro accanto. Erano stati egoisti. Ma mentre Bianca, ormai, era morta… lui era ancora in tempo per tornare sui suoi passi.
La voglia di vedere John si scatenò in lui con un’irruenza ingestibile, come un prurito che non si riesce a sedere. Il cuore gli pompava febbrilmente in petto e tutto ciò di cui aveva bisogno era rivedere i suoi occhi, il suo sorriso. Si alzò in piedi e rivolse uno sguardo mesto a Sergio. Non vi fu bisogno di parole fra loro. Si salutarono in silenzio, i loro addii aleggiarono muti.
“Grazie.” sussurrò solo Sherlock e il vecchio annuì con un mezzo sorriso.
Corse, Sherlock. Verso l’hotel. Verso John. Verso il suo amore.
 
John venne destato dal suo sonno nel cuore della notte da un delicato tocco al piede. Sbatté ripetutamente le palpebre confuso, mentre digrignava la bocca in un sonoro sbadiglio. Accucciato ai piedi del letto, scorse la figura di Sherlock, le cui labbra stavano depositando piccoli baci sul suo piede.
“Sherlock…” mugugnò strofinandosi le palpebre, assonnato. “Che diavolo succede?”
“Scusa.” rispose l’altro risalendo con le labbra alla caviglia. “Scusa, scusa, scusa…” continuò baciandogli lo stinco, ginocchio, la coscia.
Lo osservò mentre quello montava sul letto, portandosi sopra di lui, e gli prendeva le mani, baciando le dita, leccandole, mordicchiandole appena. E sebbene tutto questo avrebbe dovuto eccitarlo, John non avvertiva altro che la confusione nella sua testa: ricordava il loro litigio, la sua rabbia, il suo desiderio di andarsene il più lontano possibile da Sherlock Holmes. Tornato in albergo, aveva persino accarezzato l’idea di fare i bagagli e tornarsene a Londra, lontano da quell’uomo. Invece era rimasto. Era rimasto e l’aveva aspettato sveglio finché il sonno non aveva preso possesso di lui. E ora, eccoli lì, in una sorta di abbraccio stentato, con Sherlock che lo sovrastava col suo fisico asciutto e si dedicava alle sue mani che portavano ancora i calli dei fucili che aveva imbracciato in Afghanistan.
“Sherlock.” ripeté chiudendo per un attimo gli occhi. “Sherlock, che stai facendo?”
Il moro si mise a sedere sul suo bacino e gli prese il viso tra le mani, senza smettere di depositargli languidi baci su ogni centimetro di pelle. “E’ il mio modo per dirti che mi dispiace.”
“Ti dispiace di cosa?” sussurrò cercando di contenere i tremiti che gli scuotevano le viscere e l’istinto di afferrarlo e baciarlo con irruenza.
“Di essere stato egoista. Ma ti prometto che da ora in avanti sarò tuo, solo tuo, e ti sosterrò qualsiasi decisione prenderai. Non avrò più l’arroganza di sapere cosa è meglio o non è meglio per te. Perciò, John Watson, ti chiedo di fidarti ancora una volta di me, se puoi.”
Se poteva? Non sarebbe stato altrimenti neanche se avesse voluto. John si era spinto troppo oltre in quel pericoloso gioco col fuoco. Sherlock era il fuoco. Sherlock lo ammaliava. Si sentiva un bambino che osservava le lingue di fuoco di un falò per la prima volta, il viso colpito, le labbra dischiuse, gli occhi curiosi.
Il calore del corpo di Sherlock lo cullava come se fosse stato ancora nel ventre materno, al riparo da ogni pericolo. Con dolore, pensò che prima o poi quello stesso corpo sarebbe divenuto gelido al pari di una lastra di pietra. Non voleva che quel tepore si esaurisse. Non voleva che quella fiamma si estinguesse. Non voleva che Sherlock morisse.
Fu una pugnalata in pieno petto. Se l’era detto tante volte – perché deve morire? non è giusto che muoia, perché lui? perché chiunque altro? meritava di più… Ma ora, una nuova consapevolezza, che c’era sempre stata, ma che però aveva sempre soffocato con timore, esplose in lui: non voleva che Sherlock morisse. Non voleva perderlo. Non voleva lasciarlo andare.
Il dolore per quel pensiero lo spinse a stringere il corpo dell’altro in un abbraccio disperato e a catturargli le labbra in un bacio famelico. Lo voleva. Lo voleva col cuore, con la mente, col corpo, con l’anima… Lo fece stendere sul materasso e prese a baciargli e leccargli il collo, mentre gli ansiti dell’altro si facevano più forti. Immagina quei sospiri di piacere affaticati, quei capelli in cui le dita stanno affondando madidi di sudore, schiacciati su un cuscino rigido, quelle labbra che hai ripreso a baciare violacee e quel cuore che percepisci battere forsennatamente al ritmo del tuo tacere. E vedi il bianco. Bianco ovunque. Più bianco del soffitto e delle pareti della tua casa. Lo spogliò della maglietta con un ringhio basso e gli prese tra i denti il capezzolo freddo e ruvido, scatenando un nuovo gemito di piacere da parte del moro. E’ una flebo quella accanto al letto? Cos’è – Docetaxael? Fotemustina? Mitomicina? Continuò a baciargli il petto glabro, poi il ventre, finché le sue dita, non corsero alla toppa dei pantaloni, trepidanti da abbassare la zip.
“John-” gemette l’altro, probabilmente intendendo bloccarlo, ma lui lo ignorò e con uno strattone gli sfilò i pantaloni dalle magre snelle. C’è odore di chiuso nella stanza. Il lettino odora di detersivo misto a medicinali. Il pavimento è ricoperto di riccioli corvini.  Fece per spogliarsi a sua volta, mentre con le labbra sfiorava i boxer scuri del moro, ma le dita di Sherlock si serrarono attorno ai suoi polsi e lo tirarono in un abbraccio stretto, quasi soffocante, protettivo. “John-”
“Lasciami.” masticò, il viso premuto contro il suo petto.
“John, per piacere.”
Un’infermiera entra nella cameretta, cambia la flebo, annota i parametri. Sul viso ha un’espressione grave. Esce dalla stanza scuotendo la testa e dopo poco entra un uomo col camice che ti chiede di uscire. Ti rifiuti, urli, abbracci quel corpo abbandonato sul lettino.
“Ho detto: lasciami andare, cazzo.”
“Sai che non possiamo.”
Ti trascinano via di peso, scorgi gli occhi mezzi velati del paziente disteso, vedi la paura, lo smarrimento, il dolore e tutto ciò che puoi fare è urlare il suo nome mentre vi separano. Anche fuori dalla camera, avverti l’elettrocardiogramma dilatare i battiti e allora, di nuovo, prendi a gridare, in mezzo al corridoio, tempestando la porta di pugni. Poi lo squillo dell’apparecchio e il successivo silenzio.
“John-”
“LASCIAMI!” urlò dimenandosi, scalciando e puntando le mani sul materasso, ai lati del corpo dell’altro, ma la stretta di Sherlock era sicura, ferma, ineluttabile, e mentre si dimenava, gli occhi cominciarono a lacrimargli. “Sherlock…” sussurrò con voce strozzata. “Sherlock…” ripeté mentre si scioglieva tra quelle braccia, acquietandosi, e cercando di contenere il pianto che dal cuore stava risalendo in superficie per esplodere.
“John.” rispose la voce baritonale del moro, intento ad accarezzargli i capelli. “Sono qui. Sono ancora qui.” prese a ripetergli il compagno baciandogli il capo. “Non sei solo.”
“Morirai.” singhiozzò allora lui, strusciandosi contro il suo petto come un bambino che cerca il conforto del seno materno. “Morirai e io non potrò fare niente…”
“Hai già fatto tanto.”
“Avrei dovuto cedere.” sputò a quel punto. “Avrei dovuto fare l’amore con te quando ancora me lo permettevi. Almeno avrei avuto la certezza che ti avrei seguito anche oltre la morte.”
“John-”
“Fai l’amore con me, Sherlock Holmes.” prese a supplicarlo battendo leggermente la fronte contro quel petto magro. “Ti prego, Sherlock… Liberami. Liberami.”
L’abbraccio di Sherlock si fece più dolce, le sue carezze più lunghe, i suoi baci più amorevoli. “Non chiedermi ciò che non potrò mai darti.”
“Sherlock… Non te ne andare.”
“Non me ne vado. Sto qui con te.”
“Resta, ti prego.”
“Per sempre.”
Fu sciocco, forse, sorridere di sollievo per quelle parole, eppure lo fece e sembrò calmarsi un poco. Era stupido, decisamente stupido anche lontanamente crederci, ma conosceva Sherlock e sapeva che avrebbe mantenuto quella promessa. Sherlock ci sarebbe stato per sempre. Dopo e oltre ogni cosa.
Si addormentarono così, l’uno fra le braccia dell’altro, in un letto che profumava d’amore e in una notte piena di stelle luminose che li osservavano benevole e pietose.
 
Lo osservò rincorrere quel magnifico esemplare di pastore maremmano che gli aveva rubato il borsello. Rideva. Una risata cristallina e liberatoria. Sorrise a quella visione. Lo vide entrare in mare e inciampare, crollando in acqua completamente vestito, scatenando il divertimento della piccola Rosie, la figlia di una coppia di inglesi che avevano conosciuto quella mattina in spiaggia. La bambina l’aveva subito preso in simpatia e anche il suo cane, a quanto pareva.
Sherlock mise mano alla macchina fotografica e attraverso l’obbiettivo vide la ragazzina correre incontro a quel John completamente infradiciato e sovrastato dal cagnone bianco. Osservò il compagno accogliere Rosie fra le sue braccia e levarla verso l’alto, un sorriso angelico a increspargli le labbra. Premette il pulsante per lo scatto.
Contemplò l’immagine con un’ombra di tristezza a velargli lo sguardo prima sereno. Com’era bello, il suo John. Pensava di essersi ormai abituato, rassegnato alla prospettiva di lasciarlo. Avrebbe voluto soltanto fermare il tempo a quel dolce pomeriggio di metà giugno e poter rivivere ogni attimo di quel mese che avevano trascorso in quella graziosa cittadina italica.
“Rosie!” chiamò la voce della signora Theresa, la madre della bambina. “E’ ora di prepararsi per la cena!”
“Arrivo! Vieni, Artù?” esclamò, dunque, Rosie, rivolgendo prima a John e poi a lui un frettoloso saluto con la manina rosea e paffuta. “Ciao, John! Ciao, Sherlock! Ci vediamo domani!”
Entrambi guardarono le due inglesi allontanarsi mano nella mano, verso l’hotel, seguite dal fedele Artù. Il tramonto tingeva il cielo di un caldo carminio che si rifletteva stupendamente sull’acqua cristallina. Una volta che le due figure furono scomparse alla loro vista, John si volse verso di lui, i capelli pesanti d’acqua, un sorriso pacifico in viso che Sherlock ricambiò con uno sguardo traboccante d’amore. Era così bello ammettere di amare John. Avrebbe voluto sapere se anche John l’amava. Avrebbe voluto togliersi almeno questo dubbio prima di morire.
Rimasero fermi a guardarsi di lontano, persi nei loro pensieri. Il desiderio di dirglielo, di confessare i suoi sentimenti si affacciò a tradimento nella sua testa. Poteva? Poteva davvero dirglielo? Sarebbe stato meschino da parte sua. No, meglio tacere e fingere, come avevano sempre fatto.
John aprì le braccia, sorridendogli apertamente e incoraggiandolo a correre in quella fortezza che era diventato il suo abbraccio. Abbassò lo sguardo, commosso e amareggiato al tempo stesso. John Watson… Cosa aveva mai fatto per meritarsi John Watson? Dio, quanto lo amava. Lo amava, lo amava, lo amava… Se lo ripeté come un mantra mentre mise avanti il primo piede per iniziare la sua corsa disperata per cercare il contatto con l’altro.
Accadde in un attimo. Si ritrovò a terra, gli occhi rivolti al cielo, le grida di John tutto intorno. Non fece in tempo a capire cosa stava succedendo che il nero aveva già avvolto ogni cosa. L’unica cosa che colse furono le sue dita dalle quali sfuggiva la fotografia che ritraeva la precaria felicità del suo amore.

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SPAZIO AUTRICI
Ciao, ragazzi! Eccoci qua, alla fine... Bel capitolo eterogeneo, con tanti fatti, alcuni belli, altri un po' meno... 

Dunque, che cos'abbiamo... John e Sherlock sono in Italia, nelle Cinque Terre, se non l'aveste capito, e stanno cercando di fingere, per quanto possibile, che vada tutto bene... Ma entrambi sono combattuti, entrambi hanno i loro demoni da fronteggiare. Sherlock sarà capace di fronteggiare i suoi grazie a Sergio, una sorta di specchio di John, quindi è un po' come se Sherlock fosse aiutato da John stesso, diciamo dalla sua versione più anziana. John, invece, viene tirato fuori dal baratro da Sherlock stesso... Un circolo vizioso di distruzione, amore e salvataggi, non trovate?

La fine del capitolo è piuttosto chiara, immagino. Siamo agli sgoccioli - e non mi riferisco solo alla ff... Giovedì prossimo, un bel capitoletto, ragazzi. Ci raccomandiamo di venir preparati con montagne di ciccolato per avere qualcosa su cui ripiegare. XD

Credo che abbiamo detto tutto. Appuntamento a Giovedì prossimo con il penultimo capitolo! Non mancate, vi aspettiamo numerosi!

*kiss*
Alicat_Barbix
   
 
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