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Autore: pattydcm    31/12/2018    3 recensioni
Sherlock si risveglia ferito in un luogo sconosciuto. Si rende conto ben presto che colei che lo ha tratto in salvo non è del tutto sana di mente. Dovrà far fronte ai modi bruschi e violenti di lei e tentare di sopravvivere ai suoi sbalzi d'umore e alle sue differenti personalità. Nessuno sa dove si trovi. Può solo sperare che qualcuno si attivi per cercarlo. Chiunque, ma non John Watson. Del dottore, infatti, non vuole saperne più nulla...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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 18 novembre
 
Sherlock guarda la fossa piena di cadaveri. È fermo al limitare di questo cimitero segreto e osserva rapito lo sgusciare dei vermi dai corpi putrescenti. Si accoscia per poterli vedere meglio. Piccoli e grassocci, rosicchiano le carni un tempo vive senza darsi pena né tormento. Senza chiedersi da dove provenga questo cibo che li nutre, chi sia stato, come abbia vissuto, di cosa si sia nutrito a sua volta. Nessuna delle sciocche domande che sono soliti farsi gli esseri umani sul cibo che mangiano.
“E’ questo che siamo” pensa rapito dalla rapidità di movimento delle larve. “Menti intrappolate in un mezzo di trasporto destinato a divenire cibo per insetti necrofagi. Che senso ha tutto questo?” si chiede rimettendosi in piedi.
Volge lo sguardo dinanzi a sé e vede lontana, al di là del bosco nel quale si trova, una tenuta.
Nevica. Percorre un sentierino naturale sentendo in lontananza grida stridule e raccapriccianti.
Giunge dinanzi al cancello della tenuta. Un’auto, un’utilitaria di poche pretese, è ferma lì davanti. Si avvicina cautamente, mentre le grida trasportate dal vento si fanno sempre più forti.
Scorge un corpo riverso sul selciato ad un’equa distanza tra l’auto e il cancello. Sdraiato a pancia in giù in modo scomposto. La testa riversa in una pozza di sangue che ancora si espande.
“Assassinato da poco” deduce. Non si avvicina al corpo. Non può fare nulla per quell’uomo se non dedurre che è stato ucciso da un colpo ravvicinato, esploso da una persona che era appoggiata all’auto. Auto di proprietà del defunto stesso.
Sherlock osserva le impronte nella neve. L’uomo non era da solo con il suo assassino. Ci sono altre impronte, più piccole, alcune piccolissime.
“Un bambino” deduce. Corrono attraversando il cancello, inseguite dalle impronte dell’assassino.
Un grido ancora più acuto dei precedenti fa trasalire il consulente. Lentamente riprende il suo cammino. Oltrepassa il cancello, strisciando nello spazio che è già aperto. Non ha voglia di spostarlo. Non sopporta il suo stridente cigolio.
Segue le impronte fino all’ingresso del caseggiato. La porta è aperta, spalancata. Il tappeto pregiato dell’ampio salone nel quale si ritrova è stato sporcato da impronte di passi concitati. Resterà macchiato per sempre.
Sherlock segue le orme che si diramano tra tavolini rovesciati, sedie spostate senza alcuna grazia. Sul grande divano di tessuto bordeaux il fuggitivo ha concluso la sua corsa. Lo deduce dai cuscini soffici, ammaccati e caduti disordinatamente sul pavimento.
“Ci è inciampata contro. Stava correndo guardandosi le spalle e ci è inciampata contro”.
Altre impronte, quelle piccole del bambino, partono da lì dirigendosi verso le scale.
“Lo ha messo in salvo. Gli ha gridato di scappare, correre più che può e nascondersi” e il bambino ha obbedito. Spaventato. Forse non ha voluto lasciarla, ma lei deve aver insistito. Una donna, certo. Non può che trattarsi di una donna. Sono loro ad essere solite stare con i bambini, no?
La conferma la ottiene da un altro corpo, riverso sul pavimento accanto al maestoso camino di marmo nero. Si ferma a pochi passi dal cadavere e lo osserva attento. Una bella donna dai capelli neri, che dovevano essere acconciati in modo che i boccoli le scendessero sulle spalle pallide. Sono ora scomposti, disordinati, sporchi di sangue. Il volto è stato colpito più volte. Graffiato. Morso con ferocia. Gli abiti strappati.
“Stuprata barbaramente” dice distogliendo lo sguardo dalla parte inferiore del corpo. Dopo la violenza, dopo i pugni, è stata pugnalata più volte con l’attizzatoio. I suoi occhi vitrei sono aperti. Ciechi. Rivolti al soffitto. Sherlock li osserva curioso.
“Arriveranno i vermi anche per te. Arriveranno presto” pensa e un altro grido acuto gli accappona la pelle. Il bambino. I suoi passi corrono verso la cucina. Sherlock si affretta a seguirli.
<< Dove sei, piccolo bastardo? Dove sei?! >>.
Si ferma al suono di quella voce rabbiosa. Si rende conto di stare tremando dalla testa ai piedi, spaventato, come se quell’uomo stesse braccando lui.
“Il bambino. È lui che vuole!” pensa per darsi coraggio e imporre al suo corpo di muoversi. Un altro grido, sicuramente lanciato dal piccolo terrorizzato, lo aiuta a darsi una mossa.
“Non ucciderai anche lui” pensa, mentre entra nella grande cucina. Una piccola porta di legno è stata aperta con forza tale da scardinarla. Pende miseramente da un lato. Un uomo alto, vestito di un cappotto scuro, lungo, dal bavero rialzato, gli da le spalle. Ha il respiro affannato e le mani al volto. Sherlock scorge solo il ciuffo di capelli castano chiaro scompigliato dalla foga della corsa.
Ai suoi piedi scorge il corpo di un bambino di non più di cinque anni.
“E’ svenuto” deduce. “Lo ha scaraventato contro la parete” nota, dal numero di utensili da cucina, pentole e padelle caduti sul pavimento dalle mensole contro le quali il piccolo corpo ha urtato.
L’uomo afferra un grosso coltello. Si avvicina di qualche passo verso il corpo del bambino e alza il braccio armato sopra la testa, pronto a colpirlo.
<< No! >> esclama Sherlock attirando la sua attenzione. L’uomo ride. Una risata terribile. Si volta lentamente, stringendo sempre il coltello in pugno.
<< Finalmente sei arrivato >> gli dice.
“Mycroft!” pensa Sherlock, la gola troppo secca per gridare. Sta per fare un passo indietro, ma si blocca colto da un dubbio. Osserva meglio il volto pallido, in carne, circondato da capelli scompigliati, ma radi sulla fronte. Gli occhi scuri e folli che lo stanno puntando non sono quelli di Mycroft. I denti bianchi e leggermente storti che scorge dal ghigno terribile che gli rivolge non sono quelli di suo fratello.
<< Hai dato ancora modo di far parlare di te e gettare fango su questa famiglia!>> ringhia, muovendosi minaccioso verso di lui. << Avrei dovuto ucciderti allora. Ho commesso un grave errore a pensare fossi già morto. Sei sempre stato testardo, William. Dovevo aspettarmelo avessi la testa piuttosto dura >>.
Sherlock indietreggia spaventato. Il braccio dell’uomo si alza nuovamente e la lama affilata lo punta bramosa di affondare nella sua carne.
<< Ti prego >> riesce appena a sussurrare mentre indietreggia terrorizzato.
<< Per cosa? Per una morte rapida e indolore? >> ride l’uomo. << Non se ne parla nemmeno, ragazzino! >> ribatte serio, il volto divenuto inespressivo e per questo ancora più terrificante. << Sei il disonore di questa famiglia, maledetto bastardo. Un tossico, pederasta privo di qualunque onore. Non sei degno di portare il mio nome! >>.
Sherlock grida cercando di proteggersi dalla lama che presto sentirà affondare nelle sue carni.
 
Apre gli occhi e si ritrova seduto sul letto. Il vento si insinua tra gli infissi producendo quel suono così simile ad un grido.
<< Un incubo? >> si domanda stupito. Era così reale. Così maledettamente reale.
Trema da capo a piedi, madido di sudore. Porta le mani alle spalle cercando conforto in un auto abbraccio che, però, ben poco lo scalda. Abbassa il mento sul petto e lascia che la testa sprofondi tra le spalle, ma la situazione non migliora. Quelle immagini, quelle tremende immagini gli tornano alla mente prepotenti.
<< E’ la morfina. Sta iniziando ad aprire i cassetti segreti del mio Mind Palace >> sussurra tra i singhiozzi.
<< Cos’è il Mind Palace? >>.
Sherlock trasale alla domanda di Mary. Non l’ha sentita salire le scale, non si è reso conto di come fosse ferma alla porta. Lo guardano curiosi, gli occhi vispi della sua versione bambina.
<< Hai gridato. Tante volte >> gli dice avvicinandosi alla sedia posta accanto al letto, sulla quale si abbandona.
<< Ho avuto un incubo, Mary. Mi dispiace >> dice prontamente. L’ultima cosa che vuole e attivare la parte violenta. Non la reggerebbe dopo l’incubo appena avuto. Sarebbe un’insana continuazione nel mondo della realtà e sente che impazzirebbe del tutto se accadesse.
<< Ti dispiace di aver avuto un incubo? >>.
<< Sì, però mi dispiace di più di averti svegliata >> dice cauto.
<< Non stavo dormendo >> gli dice ridacchiando. << Io non dormo mai >> aggiunge tutta sorridente.
<< Perché? >> gli chiede, stupito di questa caratteristica che li accomuna, benchè lui, in verità, più che non dormire mai dorma poco.
<< Non voglio questo >> dice indicandolo.
<< Anche tu se dormi hai incubi? >> le chiede e uno spasmo lo scuote da capo a piedi, ora che la tensione lo sta lasciando e il corpo si raffredda. Mary toglie lo scialle che ha avvolto attorno alle spalle e glielo posa dolcemente attorno alle spalle. Sherlock prova un immenso benessere al tepore di quell’abraccio caldo.
<< Grazie >> sussurra commosso stringendo lo scialle con le mani per sentirlo più saldamente sulla pelle.
<< Raccontami il tuo incubo >>.
<< Non è bello da sentire >> scuote il capo Sherlock che non ci pensa nemmeno di rivivere tutto quanto.
<< Se lo racconti se ne andrà >> lo incoraggia con un sorriso. Sherlock la guarda a lungo. Ha sciolto i capelli, che solitamente tiene legati in una crocchia stretta, e ora le ricadono attorno al viso. Nella penombra della luce della neve che vibra contro la finestra, quel volto grezzo, che si rabbonisce quando è la Mary bambina a muovere il corpo massiccio, assume toni che dovrebbero essere terribili ma che lui ora trova essere ancora più dolci. << Io lo faccio sempre >>.
<< A chi li racconti? >> le chiede stupito, dal momento che non ha mai sentito nessun altra anima viva presente nella casa.
<< Alle mie bambole. Ne ho cinque nella mia cameretta e loro mi ascoltano e fanno andare via l’incubo >>.
Sherlock sorride ripensando al suo teschio. Non gli parlava dei suoi incubi, bensì condivideva con lui le teorie sui casi. Questo lo ha sempre ascoltato senza mai ribattere, aiutandolo notevolmente, deve ammettere, a trovare il bandolo della matassa.
La donna gli prende con dolcezza la mano destra stretta sullo scialle e la tiene tra le sue, così inaspettatamente calde. Annuisce invitandolo ad aprirsi.
<< Ho sognato mio padre >> dice stringendole la mano. << Lui… era un mostro >> si ferma, la gola stretta dal magone. << Ha ucciso mia madre e il suo amante[1] e ci è mancato poco uccidesse anche me >>.
Sherlock porta la mano sinistra alla nuca senza accorgersene. Sente sotto le dita la spessa cicatrice che gli aveva dato il tormento nei primi giorni dopo il risveglio dal breve periodo di coma.
<< Oh >> sussurra Mary. << Eri piccolino? >>.
<< Avevo cinque anni. E’ stato un sogno orribile >> dice in lacrime.
<< Sì >> concorda Mary. Avvicina l’altra mano al volto di Sherlock e leggera asciuga le sue lacrime. << Anche il mio papà era cattivo. E anche i miei fratelli. Pure la mamma, a dire il vero >> aggiunge come se ne rendesse conto solo adesso.
“Sta ragionando senza divenire catatonica” nota Sherlock affascinato da questa cosa nuova e insolita, ma per fortuna priva di pericolo e dolore.
<< Il tuo papà ti chiudeva nello sgabuzzino per punirti? >> gli chiede avvicinando la sedia al letto.
<< No. Mi ci chiudevo io quando non volevo essere trovato. Avevo un nascondiglio segreto in cucina >> le risponde ripensando alla porta in bilico su cardini rotti.
<< Io non sopporto gli spazi piccoli >> sussurra Mary stringendogli dolcemente la mano. << Papà mi ci chiudeva ogni volta che facevo qualcosa che non andava bene. Mi tirava per il braccio e mi chiudeva lì e se piangevo spaventata per il buio e i ragni picchiava la porta dicendo che mi avrebbe ammazzata lui se non avessi smesso immediatamente >>.
Mary sorride. Nonostante la brutalità di quanto gli ha appena detto, sorride. Come fosse una cosa stupida e sciocca quella che faceva suo padre.
<< E a te capitava spesso di fare qualcosa che non andavano bene? >>.
<< Tutti i giorni >> annuisce divertita. << Anche se non capivo cosa non andava >> aggiunge seria portando l’indice al mento. Ci pensa su per qualche istante per poi scuotere il testone, sorridendo divertita. << La tua mamma ti voleva bene? >> gli chiede toccando un altro argomento caldo.
<< Io… non lo so. Credo di sì. A modo suo. Lei… non era molto affettuosa. Le piacevano i miei capelli >> dice abbozzando un sorriso.
<< Ha ragione sono belli >> ride Mary scostandogli piano un ciuffo ormai arido caduto a coprirgli l’occhio sano. << La mia mamma non rideva mai. Urlava sempre e mi picchiava tanto. Papà non mi ha mai picchiata, la mamma, invece, tante volte >> dice imbarazzata.
<< Perché ti picchiava? >> le chiede, stordito dal suo modo sbagliato di raccontare queste cose. Dovrebbe piangere, essere triste o al massimo atona e inespressiva e invece ride, sorride e si imbarazza vergognosa.
“Non ha senso!” grida la sua mente sconvolta.
<< Perché sono distratta e maldestra! >> dice riportando sicuramente ciò che le diceva di continuo sua madre. << Se facevo cadere una tazza per sbaglio volava una sberla. Se stendevo male anche solo un vestito del bucato appena fatto mi prendeva a calci. Se non finivo in tempo le commissioni che mi assegnava e se non erano come lei le voleva erano cinghiate. Io mi impegnavo tanto per fare tutto bene, ma le cinghiate arrivavano lo stesso. Sono proprio una frana >> ride divertita e non è una risata isterica. No. È una risata di vero divertimento.
“Non ha senso!” ripete Sherlock tra sé, sentendo lo stomaco chiudersi sempre più.
<< Tu vuoi bene ai tuoi genitori, Mary? >> le chiede senza neppure sapere perché lo stia facendo.
<< Oh, sì! >> risponde come si aspettava facesse. << Loro sono buoni con me. Avrebbero potuto uccidermi, lo dicevano sempre, e invece non lo hanno mai fatto >> ride allegra. << Tu, invece, al tuo papà non gli vuoi bene, vero? >>.
<< Lo odiavo. L’ho sempre odiato >> ammette.
<< Beh, sì, lui ci ha provato davvero ad ucciderti >> sentenzia con una logica tutta sua, molto bambina. Sherlock ha avuto un padre violento e una madre assente, ma per quanto la sua infanzia non sia stata rose e fiori è lontana anni luce da quella fatta di continue violenze che Mary gli sta raccontando. Un racconto che non è frutto della sua fantasia, ma che sente corrispondere alla realtà che questa donna si è ritrovata a vivere nella desolazione di questo luogo sperduto e isolato dal mondo.
<< Hai fratelli, tu? >> gli chiede.
<< Sì. M…Myke >> dice ricordandosi al pelo della copertura che adotta ancora.
<< Uno solo! >> esclama sorpresa. << Io ne ho cinque >> dice orgogliosa.
<< Cinque fratelli? Sei l’unica femmina? >>.
<< Sì, la più piccola. Freddie mi diceva sempre che sono nata per sbaglio, che mamma non ne poteva più di avere figli e quando ha scoperto di me ha tentato di abortire ma non c’è riuscita. Per questo sono nata scema >>.
<< Oddio >> esclama Sherlock inorridito. << E’ una bruttissima cosa da dire >>.
<< Ma no, lui scherza >> ride divertita. << Ai miei fratelli piace tanto giocare con me >>.
Sherlock vorrebbe dirle di smetterla di parlare della sua famiglia di pazzi sadici, ma Mary sembra aver tolto il tappo e teme che ormai lo consideri come una delle sue bambole, costretta a stare lì ad ascoltarla raccontare i suoi incubi. Solo che quelli non sono sogni frutto di un inconscio tormentato, ma la cruda e crudele realtà.
<< E dove sono ora i tuoi fratelli, Mary >> gli chiede e la donna si zittisce all’improvviso. Sherlock teme di aver fatto un passo falso e che adesso cadrà in trance e ne uscirà la Mary violenta che porrà fine una volta per tutte alle sue sofferenze. Invece, la bambina scuote il capo e fa spallucce.
<< Io non lo so, Edward. Erano qui e poi non c’erano più. Penso siano andati via. Loro erano più grandi e lavoravano. Quando papà è morto non è più venuto nessuno qui a farsi visitare e quando è morta la mamma sono rimasti solo loro e poi… e poi sono rimasta solo io >>.
La prima espressione autentica di tristezza. Un broncio da bambina angosciata. Il labbro inferiore inizia a tremare, ma Mary strizza forte gli occhi e quando li riapre è di nuovo tutta felice.
<< Ora, però, ci sei tu qui con me >> gli dice e nel modo in cui gli stringe le mani, nella dolcezza del suo sguardo, nell’infinita tenerezza che è in grado di suscitare la versione bambina di questa donna, Sherlock si rende conto che non lo lascerà andare. No. Neppure quando la gamba guarirà, sempre ammesso che lo regga ancora in piedi. Neppure quando la tormenta finirà e la neve si scioglierà. Non gli permetterà di lasciarla sola di nuovo.  
 
 
Buon anno a tutti voi!
Che sia un anno di gioia e che vi porti ciò che desiderate
Ci vediamo il 7 gennaio
Patty
 
[1] Citazione da ‘La soluzione sette per cento’ di Nicholas Meyer.
   
 
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