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Autore: Izumi V    02/01/2019    5 recensioni
Storia scritta per l'evento "Merry Christmas!" del gruppo fb "Johnlock is the way... and Freebatch of course!"
Un altro possibile inizio, un altro possibile svolgimento... e il cupido Mike Stamford ci mette lo zampino senza vergogna!
*Estratto:
Aveva qualcosa di infantile, e allo stesso tempo estremamente serio: quell’aria che possono avere solo i bambini quando sono davvero concentrati su qualcosa che li affascina.
Un sorriso sincero e luminoso si dipinse sul volto di John. Non riusciva a smettere di guardarlo. Si avvicinò a lui di qualche passo.
“Sherlock?”
“È bellissima, vero?”
“Già,” rispose John. Ma non guardava la neve.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Storia scritta per l’evento “Merry Christmas!” del gruppo fb “Johnlock is the way… and Freebacth of course!
 
Con un po’ di ritardo, Buon Natale e Felice Anno nuovo a tutti!
Sperando che questa storia possa piacervi, o anche solo dirvi qualcosa, vi auguro buona lettura
 
 
Titolo: Forgiveness
Parole da usare: Amsterdam Pseudonimo Alibi Volare Piastrine Manette (usate 4/6)
Rating: giallo
 
 
 
Forgiveness
Capitolo 1
 
 
 
12 Ottobre
Mattina
 
Il primo sole del mattino filtrava tra le imposte sottili. Alcuni raggi birichini giocavano sul volto del giovane uomo, addormentatosi la notte prima in una posizione scomposta e decisamente poco comoda. Risvegliato dal calore inatteso, strizzò a lungo gli occhi contornati da ciglia biondissime, prima di portare la mano sinistra sul viso, a mo’ di schermo. Così andava decisamente meglio.
Ma ormai era sveglio, e non ci sarebbe stato verso di riaddormentarsi. Già era tanto che gli fossero state concesse più di tre ore di sonno continuato.
Provò a sollevare anche la mano destra, nel tentativo di stiracchiarsi, e solo allora si rese conto di aver perso totalmente sensibilità al braccio. Una sorta di corpo estraneo per caso attaccato alla sua spalla. Un pesante volume di chirurgia giaceva aperto proprio in corrispondenza del suo avanbraccio, piegato in un’angolazione insolita.
La metà vuota del letto matrimoniale era interamente ricoperta di fascicoli e fogli, qua e là una penna o un evidenziatore.
Si era di nuovo addormentato tra i libri. Gli capitava spesso, negli ultimi tempi. Il suo amico Mike si era assunto il compito di coinvolgerlo nelle proprie attività universitarie, e non perdeva occasione per invitarlo a tenere interventi e conferenze. Una rottura infinita.
Adesso gli toccava preparare una lezione sulla chirurgia d’emergenza applicata in ambito militare. Qualcosa che lo toccava molto da vicino, insomma.
John Watson si tirò su a sedere a fatica, col braccio sinistro si portò il destro in grembo, cominciando a massaggiarlo per far riprendere la circolazione. Sbuffò contrariato. Ore? Le sei e dieci.
Aveva tempo per una corsetta e i soliti esercizi. Si cambiò al volo e in un attimo era fuori casa.
Dopo i primi cinque minuti di jogging correva già a ritmo sostenuto.
Era un’abitudine rimastagli dal periodo militare. Lo svegliava e al contempo lo aiutava a rilassarsi, a riprendersi dalla nottata di solito tormentata dagli incubi o, al contrario, dall’insonnia. John arricciò il naso: in momenti come quello si sentiva un concentrato di contraddizioni.
 
“Buongiorno John! Sempre attivo, eh?” lo salutò il vicino Arthur Pinner, sporgendosi dal proprio porticato e sventolando entusiasta una mano.
Per un secondo, ebbe l’idea di ignorarlo completamente. Ma il buon senso gli fece optare per una sana via di mezzo. Abbozzò un sorriso e alzò appena una mano, senza portarla più in alto della propria spalla. Gli sembrava più che sufficiente, e a quanto pareva anche a Arthur, il quale rientrò in casa tutto soddisfatto.
Cosa aveva da essere contento a quell’ora del mattino lo sapeva solo lui. John grugnì contrariato, accelerando inconsapevolmente l’andatura. Non la capiva, quella gente sempre contenta. Si sentiva obbligata a essere così? Fingeva? Perché ciascuno si sentiva in dovere di sorridere, quando non aveva minimamente voglia di farlo?
Sentì la mano sinistra perdere il controllo per qualche breve attimo. Aprì e chiuse più volte il pugno, per fermare il tremore.
Accelerò ancora.
 
Rientrò in casa completamente spompato, ma più sereno. Certo che le reazioni chimiche del corpo umano erano qualcosa di straordinario. L’attività fisica intensa portava il corpo a liberare alte dosi di serotonina e dopamina: dopo una corsa, era realmente più contento. Questo gli ricordava ogni volta perché avesse mantenuto quell’abitudine anche dopo essere tornato dalla guerra.
Entrò in doccia. L’acqua fredda impattò contro il suo corpo accaldato. Sottili aghi ghiacciati si infrangevano sulla sua pelle, disperdendo il calore accumulato.
Gli piaceva il contrasto. Quando tornava dalla corsa, doccia fredda. Se rientrava a casa la sera, dopo una camminata a piedi nel gelo del tardo autunno o dell’inverno inoltrato, doccia calda.
Si massaggiò piano la spalla, favorendo il movimento circolare dell’articolazione che ogni tanto doleva. Nel compiere questo gesto, sfiorò più volte la cicatrice ruvida.
Odiava quel marchio, indelebile segno del proprio fallimento. Era a causa di quella maledetta pallottola che aveva dovuto abbandonare il campo di battaglia, tornando alla professione di medico che lo attendeva a Londra.
A quella villa in periferia troppo grande, ora che era solo.
A quella vita monotona, troppo piatta.
A quell’esistenza di finzione, di muri, di incomunicabilità. 
 
Alle sette e quarantacinque, John attendeva sulla sedia girevole l’inizio della giornata lavorativa.
Il proprio studio privato era stato allestito in un’ala non utilizzata della casa. Era stata Mary, sua moglie, a convincerlo: lavorare lì gli avrebbe evitato gli stress del pronto soccorso, in cui aveva lavorato qualche tempo appena tornato dall’Afghanistan. Si era lasciato convincere: lei dava sempre l’idea di saperla lunga su molte cose.
Ma ora Mary non c’era più, e John si chiedeva spesso che senso avesse continuare. Quella villa era troppo grande in ogni caso, quel lavoro non lo soddisfaceva. Avrebbe voluto trasferirsi, magari vicino al centro. Più vitalità, più energia in circolo. Ma non avrebbe saputo dove creare un nuovo studio, e quel lavoro gli serviva.
Un circolo vizioso che lo teneva imprigionato.
Le sette e cinquantacinque. Ancora cinque minuti di calma. Cominciò ad accendere il computer e controllare la tabella degli appuntamenti della giornata. All’una doveva essere in università per incontrare Mike: prima di allora, un’agenda piena oltremodo. Sospirò.
Sarebbe stata una lunga mattinata.
 
***
 
“Bene, per oggi è tutto!” annunciò il professore di chimica Mike Stamford a una folla di studenti di chimica del terzo anno. La sua voce calma, ma decisa, risuonò nell’aula a gradoni piena.
“Buon week end…E ricordatevi che lunedì ci troviamo direttamente al laboratorio del secondo piano!” Tentò di sovrastare il fruscio di fogli e quaderni che venivano riposti disordinatamente nelle rispettive cartelle. Si chiese quanti studenti avrebbe effettivamente trovato in laboratorio l’indomani. Scosse la testa divertito: in effetti, tutto questo Watson lo avrebbe odiato.
Ma non era certo un buon motivo per darsi per vinto con lui.
Mike sapeva essere risoluto, quando voleva.
Diede un’occhiata veloce all’orologio: l’una precisa! Doveva affrettarsi in cortile, prima che l’amico se ne andasse preso dall’impazienza.
Attraversò la soglia dell’aula perso nelle proprie riflessioni: doveva assolutamente convincerlo ad accettare la sua proposta.
Era così preso da non accorgersi della figura longilinea ferma a due centimetri dalla porta, tanto che ci sbatté letteralmente contro, lasciando cadere nella sorpresa tutti i suoi fogli. In fondo, restava sempre un pasticcione.
“Holmes!”
“Buongiorno, Professore.” Rispose lui con calma, la voce grave appena udibile. “Ma che combina?” chiese, osservandolo scettico dall’alto, mentre Stamford si affannava a raccogliere il materiale.
Doveva sbrigarsi!
“Cosa fai tu, piuttosto? Lì piantato sulla porta…”
“Ma mi ha detto lei di aspettarlo all’uscita dall’aula.”
“Sì, non credevo mi prendessi così alla lettera, ecco.”
“Questo è un problema suo, doveva essere più chiaro.”
“Holmes…” sospirò Mike. Ormai non riusciva nemmeno più ad arrabbiarsi con lui per le sue risposte talvolta poco garbate. Ci aveva messo un po’ a capirlo, ma non lo faceva con cattiveria. Semplicemente, non ne era conscio. Tutto ciò che gli passava per la testa doveva buttarlo fuori.
Ma lo ammirava anche, per questo. Era una mente brillante, come non ne vedeva da… no, forse non ne aveva mai incontrate di simili in vita sua.
Si rialzò di nuovo in possesso di tutte le sue cose. Aggiustandosi gli occhiali sul naso, si rivolse a lui con tono bonario: “Quindi cosa volevi dirmi?”
“Vorrei discutere con lei di alcuni risultati ottenuti nelle ultime analisi che ho effettuato in laboratorio.”
“Hai provato a combinare la seconda coppia di elementi?”
“Esattamente. I risultati sono eccellenti. Adesso le spiego…” – ma Stamford lo interruppe, gettando di nuovo uno sguardo all’orologio.
“Senti, possiamo fare dopo la pausa pranzo? Ora devo proprio scappare,” disse, cominciando a camminare verso l’uscita. Il ragazzo lo seguì.
“Da quando in qua ha da fare per pranzo?” domandò lui, privo di alcun filtro.
“Da quando devo vedere un amico, Holmes. Questioni accademiche.”
“Il suo amico è John Watson?”
La domanda arrivò a bruciapelo. Mike non ebbe la prontezza di negare, non aiutato dal fatto che per l’ennesima volta fosse riuscito a dedurre una cosa del genere apparentemente dal nulla.
Il professore si limitò a ridacchiare suo malgrado. Sollevò un dito di ammonimento verso lo studente e disse “Tu resti qui, ci vediamo dopo.”
Il ragazzo si immobilizzò nel punto preciso in cui Stamford lo aveva salutato. Infilò le mani in tasca, contrariato. L’aveva sentito nominare spesso, questo John Watson. Più che dal suo professore, da molti studenti di medicina che avevano assistito ai suoi saltuari interventi durante i corsi. A quanto pareva le sue lezioni erano imperdibili. Persino i distratti cronici stavano attenti in aula quando c’era lui.
Ma a Holmes non era mai capitato di incrociarlo. In quanto dottorando di chimica, non centrava nulla con loro. In più, conduceva la sua vita universitaria con ritmi totalmente diversi.
La sua curiosità era decisamente stuzzicata.
Seguì il suo professore con lo sguardo, finché non vide la figura che lo aspettava a qualche metro di distanza. Erano abbastanza vicini perché il ragazzo potesse distinguerne i tratti.
Non era particolarmente alto, ma aveva un fisico asciutto, che denotava un’attività fisica abituale. Il portamento suggeriva quello di un soldato: possibile che fosse un militare? Questo avrebbe potuto spiegare l’interesse suscitato dai suoi interventi in università. Il taglio corto di capelli – biondo miele, registrò – sembrava confermarlo. Un luccichio fugace alla mano sinistra gli suggerì la presenza di un anello, probabilmente una fede nuziale. Non sembrava il tipo da anelli indossati solo per abbellimento.
Inconsapevolmente, Holmes avanzò di qualche passo, come a volerli raggiungere. Li guardò allontanarsi lungo il viale. Dava l’impressione di essere un tipo riservato, e gli abiti semplici che indossava parevano scelti per passare inosservato. Dedusse, infine, che non aveva molta voglia di vedere Stamford: ma forse non aveva molta voglia di vedere nessuno in generale.
Oh, era tutto molto interessante. Doveva saperne di più, conoscerlo se possibile. Ma non in università, non come tutti gli altri.
Un’idea si formulò presto nel suo cervello sempre al lavoro. Prese il telefono e cominciò a digitare a ritmo serrato sulla qwerty. Si aprì la pagina delle notizie di cronaca. Ne cercava una in particolare.
Eccola. Una serie di furti effettuati in un quartiere poco distante dall’università. Holmes fece scorrere il testo sorridendo: aveva un piano.
 
***
 
Watson si lasciò guidare da Stamford in un pub poco lontano dal viale principale.
Non fecero in tempo a sedersi che lui cercò di arrivare subito al nocciolo della questione.
“Dunque, cosa volevi chiedermi? Al telefono eri in fibrillazione.”
“Oh, lo sono! Ho una proposta fantastica per te.”
“Sì, eh? Non sarà la solita, spero.”
“Anche fosse…”
“Mike, per l’ennesima volta no.”
“Perché no?”
“Perché no? Sul serio, Mike? Perché non voglio trovarmi sommerso da una folla di studenti agitati e disattenti? Perché non voglio ritrovarmi ogni sera a preparare lezioni per il giorno dopo? Perché non voglio passare il resto della mia vita affogato nei libri?”
E a quel punto gli scoccò un’occhiata tra l’ironico e il tremendamente serio.
“Andiamo, dai. E poi non piacerei a nessuno come professore.”
“Ma se ci sono un sacco di studenti che ti adorano! …molto di più di me, questo è sicuro,” aggiunse, consapevole. A volte Stamford era disarmante: non parlava mai per autocommiserazione.
John lo fissò per un attimo con un sorriso accennato, gli angoli della bocca appena sollevati. Non era quello lo scopo di Mike, ma a lui venne voglia di smentirlo.
“Sai benissimo che non è vero. Tu piaci agli studenti, le tue lezioni riempiono le aule. Sei un bravo professore.” Disse con semplicità, per poi aggiungere: “Ma per rispondere alla tua affermazione, gli studenti mi adorano proprio perché non sono il loro professore.”
E a quel punto l’altro scoppiò a ridere.
“Sei incredibile, John.”
“Sì, lo so.”
A quell’ultima battuta, Mike tacque, leggermente basito. Gli aveva ricordato qualcun altro di sua conoscenza.
Inconsapevolmente, gli ingranaggi del suo cervello cominciarono a macinare in sottofondo.
E questo pensiero collaterale non fece che ricordargli il motivo reale di quell’incontro.
“Ah! Quasi dimenticavo!”
“La tua super proposta?”
“Quella.” Sorrise lui, con gli occhi che brillavano dietro le lenti sottili.
“Sta volta non voglio una lezione mirata agli studenti del secondo anno, John. Voglio fare una lezione aperta!” esclamò, tutto contento.
“Come, scusa?”
“Sì, una lezione aperta! Non solo agli studenti del secondo anno, o a quelli del terzo, o che ne so io… ma a tutti. Dottorandi e ricercatori compresi.”
“Ma questo cambia tutto!” protestò allora il biondo. “Il livello richiesto è totalmente differente.”
“Appunto.”
“I ragazzi più giovani potrebbero non capire niente.”
“Andrà bene anche così,” continuò imperterrito Stamford.
A quel punto, Watson si fece sospettoso. Assottigliò lo sguardo.
“Cosa mi nascondi, Mike?”
Lui si schermò con un’altra risata. “Cosa vuoi che ti nasconda? Mi piace l’idea di una lezione di un certo livello. E mi piace fare qualcosa di bello per il luogo in cui lavoro. Purtroppo è capitato che tu ne sia la chiave di volta.”
“Grazie tante,” sospirò lui, sprofondando col viso nel palmo della mano.
“Dai dai, andrà benone!”
“Ma come fai a esserne così sicuro? Parliamo dell’Imperial College, non di un’università qualunque!”
“Non ti ci mettere anche tu con questa storia del ‘buon nome’ dell’università…”
“Io non mi ci metto, a me non frega un cazzo della nomea dell’istituto. Ma dovrai ammettere anche tu che non è strano sentirsi della pressione addosso.”
“Sarà. Tu in ogni caso non devi preoccuparti. Sono certo che andrà alla grande!”
“Ammiro il tuo ottimismo, sul serio. Quando hai detto che sarà?”
“Sedici giorni da oggi. Hai tutto il tempo del mondo.”
 
***
 
Quella sera, Watson riuscì a chiudere lo studio un po’ prima del solito. Il pomeriggio, fortunatamente, si era rivelato tranquillo. Pochi pazienti e nulla di troppo complicato.
Era dovuto letteralmente correre via dal pub, rendendosi conto che il tempo era passato senza che se ne accorgesse. E ciò non capitava spesso.
Mike si era messo a raccontargli dei suoi dottorandi. Ne seguiva tre, e sembravano tutti estremamente abili.
Si era soffermato su uno in particolare, un tale Holmes che stava conseguendo il suo secondo dottorato. Stamford ne era entusiasta, probabilmente sarebbe andato avanti anche un’altra ora intera, se lui non lo avesse bloccato.
Che tipo.
Tuttavia, aveva suscitato il suo interesse, nonché il suo scetticismo. A quanto diceva l’amico, questo ragazzo aveva capacità fuori dal comune. Probabilmente un ritratto eccessivo.
Scrollò le spalle, arrendendosi al fatto che avrebbe dovuto attendere più di due settimane, prima di trovarselo di fronte.
Alla propria lezione aperta.
“Che rottura,” sbuffò, controllando di aver chiuso la porta d’ingresso e gettando le chiavi nel piattino sul mobiletto di fianco all’entrata.
Si fermò. In un gesto ormai abitudinario, si sfilò la fede e la poggiò anch’essa sul ripiano di legno scuro.
Lo faceva tutti i giorni. La sfilava entrando in casa, la rimetteva per uscire.
Ogni singolo giorno da quell’incidente.
Sospirò e andò in cucina. Prese un bicchiere e la bottiglia di whisky. Si guardò intorno, per un attimo smarrito: avrebbe potuto sparire nel nulla, nessuno se ne sarebbe accorto.
Avrebbe voluto sparire, certe volte.
Il liquido chiaro scivolò lentamente nel bicchiere.
 
 
 
 
15 Ottobre
Sera
 
“Holmes, ti ho già detto mille volte che di queste cose devi parlare col Professor Davidson,” sospirò Mike Stamford per l’ennesima volta nel giro di un’ora.
Si era attardato più del dovuto con il suo dottorando, tanto che ormai l’università risultava deserta. Ancora un po’ e li avrebbero chiusi dentro. Quel giorno – non riusciva bene a comprendere perché – lo studente non voleva lasciarlo andare. Se non lo avesse conosciuto, avrebbe detto che voleva trattenerlo lì di proposito.
Ma era un’idea alquanto bizzarra e poco probabile.
“Professore, lo sa benissimo che Davidson non capisce nulla di queste cose.” Proferì l’altro, come al solito incurante dell’effetto delle sue parole.
“Holmes!” e a quel punto Mike si guardò intorno guardingo, come temendo che Davidson potesse spuntare fuori dai muri. “Bada a come parli. Non sono un tuo amico, non accetto che parli in questo modo dei miei colleghi.” Lo ammonì con decisione.
“D’accordo.” Sbuffò Holmes, riponendo i propri fogli dentro la cartella. “Mi arrendo.”
“Incredibile!”
Il ragazzo lo sbirciò, in parte divertito. Era un personaggio particolare, il Prof. Stamford. Aveva un’aria buona, educata, quasi remissiva. Eppure quando serviva sapeva il fatto suo, ed era in grado di farsi rispettare. Capiva i suoi studenti, e questo a loro piaceva.
Holmes non lo trovava particolarmente geniale, ma ne rispettava la sapienza. Per questo aveva insistito per farsi affiancare da lui durante il dottorato, sebbene il suo tutor dovesse essere proprio quel Davidson, teoricamente più esperto nell’argomento da lui scelto. A quest’ultimo non era sembrato vero di potersi liberare della presenza petulante dello studente, per i suoi gusti troppo sveglio.
Aveva volentieri ceduto la responsabilità a Mike.
E lui, in effetti, non se ne era lamentato. Già questo era per Holmes motivo di stupore: Stamford era forse l’unico insegnante a sopportarlo davvero. In più, aveva la strana sensazione che capisse più di quanto non desse a vedere.
Per qualche minuto attraversarono il corridoio in silenzio.
Fu Mike a romperlo.
“Mi raccomando, Holmes. Il 28 ti voglio in università a tutti i costi.”
“Ah sì? Come mai?” chiese l’altro, ostentando ignoranza.
“Resti tra noi, ma ho in serbo una bella conferenza per tutti voi, studenti e dottorandi.” Gli rivelò, non riuscendo a trattenere l’entusiasmo. Osservò la sua reazione.
Un lampo attraversò gli occhi chiarissimi del ragazzo.
Fu questione di un attimo, ma lo colse.
Stamford sorrise soddisfatto, facendo finta di nulla.
“Come vuole. Vedrò di degnarvi della mia presenza.”
“Bravo, risposta corretta.”
Holmes lo fissò in tralice per qualche secondo, assottigliando gli occhi.
Aprì la bocca come a dire qualcosa.
Rinunciò.
Continuarono a camminare in silenzio.
 
Quasi fuori dal perimetro del campus, Mike fece per girare nella solita direzione di Exhibition Road, verso il parcheggio riservato ai docenti. Talvolta capitava che lasciassero l’università insieme, e lui usava dargli un passaggio fino alla stazione metro di Knightsbridge. Ma l’altro lo bloccò.
“Ha sentito, Professore, di quella serie di furti in zona?”
“Mmh, sì, ho letto qualcosa. Perché?”
“Credo di sapere chi sia il colpevole.”
“Sei serio, Holmes? Come puoi averlo scoperto? L’hai detto alla polizia?”
“Ovvio che non l’ho detto alla polizia, dove sarebbe il divertimento?”
“Ah, certo. Tutto allenamento per il tuo futuro lavoro… cos’era, il detective?” e ridacchiò.
Holmes lo fulminò: “Non è solo ‘detective’. E non c’è nulla da ridere.” Ma continuò: “Presto, mi segua.”
Mike lo guardò attonito. Era serio? Eppure si lasciò convincere senza troppe proteste.
“Dove stiamo andando?”
“Queen’s Gate. Poi da lì giriamo in Gore Street.”
Raggiunsero presto il grosso viale che sfociava nel parco di Kensington. Proseguirono per circa duecento metri, quasi correndo, per imboccare Queen’s Gate Terrace passando davanti all’Ambasciata Tailandese, poi Holmes gli fece cenno di svoltare a sinistra.
“No, aspetti!” Gli intimò in un bisbiglio, tirandolo a sé per una manica. Si accucciarono dietro una macchina.
Il ragazzo sollevò un lungo dito affusolato verso un punto imprecisato dall’altra parte della strada.
“Lo vede?”
“E quello sarebbe il ladro seriale?” Chiese Mike, indicando anch’egli un uomo sui quarant’anni, capelli e barba folta scuri, fisico esile. Stava riponendo qualcosa nel bagagliaio della sua auto, guardandosi ogni tanto intorno.
Holmes si accarezzò il mento, riflettendo: “Sì, è lui. Oggi quel gruppo di decerebrati era a fare festa a casa di Percy Trevelyan, in Gloucester Road.”
Poi, smettendo per un attimo di parlare fra sé e sé, si voltò verso il professore: “Lo ha riconosciuto, vero?”
Gli rispose uno sguardo smarrito e confuso.
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Quello è il nuovo assunto al bar universitario. La barba è palesemente finta, ma il fisico, le mani, il naso, l’altezza…oh no, quelli sono inconfondibili. Capisce, adesso?”
Ma non gli diede tempo di replicare. Si alzò in piedi e si diresse a grandi falcate verso il presunto criminale.
Stamford ci mise qualche secondo a reagire. “Holmes! Holmes dove vai?!”
“Vado ad assicurare un delinquente alla giustizia. Lei chiami la polizia… ora!”
L’uomo dall’altra parte della strada colse quei movimenti, vide il ragazzo venire verso di lui. Non reagì platealmente, cercando di mantenere la facciata, ma si sbrigò a infilarsi in macchina. L’ansia cominciò a salirgli, non riusciva a infilare le chiavi. Prima che potesse avviare il motore, Holmes incombeva sul suo finestrino.
Un sorriso diabolico stampato sul bel viso.
Stamford chiuse la chiamata, la polizia sarebbe giunta a momenti. Non fece in tempo a metter giù, che udì un rumore acuto e stridente provenire dall’auto poco lontano.
Un fracasso di vetri infranti.
“Holmes!” Gridò, terrorizzato da quello che sarebbe potuto accadere al ragazzo. Scenari orribili si presentarono alla sua mente. Li raggiunse a tempo record.
Solo per trovare frammenti di vetro ovunque e il farabutto svenuto sul sedile del conducente.
Holmes gli restituì uno sguardo perfettamente tranquillo, le sopracciglia si sollevarono come a chiedergli cosa avesse da scaldarsi tanto.
“Tu… sei pazzo.”
Un ghigno divertito la sua unica risposta.
 
La volante arrivò sul luogo poco tempo dopo.
Appena ferma, si catapultò fuori l’ispettore Gregory Lestrade.
“Ancora tu!” esclamò con voce graffiante, tra l’esasperato e lo stupito.
Holmes si limitò ad agitare la mano sinistra con un candido “Hello!”, per poi riportarla dietro alla schiena. Si afferrò il polso e così rimase, attendendo le solite domande.
“Quando la smetterai di cacciarti nei guai non sarà mai troppo tardi,” disse scuotendo la testa, per poi aggiungere: “Sei sicuro sia lui il colpevole, vero?”
“Certo che ne sono sicuro. Ho mai sbagliato, forse?”
“Purtroppo no. Ma stapperò lo spumante, quando succederà!”
“Allora quello spumante non verrà mai aperto.”
“Stai attento, Sherlock Holmes, o le manette le metto pure a te. Intanto… preferisci adesso o domattina in centrale?”
“Domattina.” Rispose prontamente lui, annuendo appena.
“Non sei ferito, vero?”
“Perché dovrei?”
“Forse perché gli hai rotto il finestrino? O hai usato gli ultrasuoni?”
“Una bella gomitata, caro James.”
“Greg.”
“Quello che ho detto.”
Mike li osservò come a una partita di tennis, ogni secondo che passava più sconcertato di prima. Sembrava per loro una pratica abituale.
Sapeva che il suo studente aveva deciso di intraprendere quell’assurda carriera, ma non si immaginava certo a un tale livello. Darsi del tu perfino con l’Ispettore!
Fu proprio il ragazzo a riscuoterlo.
“Andiamo, Professore? Vorrei andare a dormire.”
“C-certo. Dobbiamo tornare indietro, però, dove ho lasciato la mia auto.”
“Ottimo. Allora a domani, Ispettore!”
In tutta risposta, quest’ultimo sventolò la mano come a intimargli di togliersi dai piedi.
“Simpaticone.”
 
Una volta in auto, Stamford riattaccò con la sua tiritera.
“Ripeto, tu sei matto.”
“Sì, beh… non è certo la prima volta che me lo dicono. E in modi molto meno gentili.”
“Potevi farti male!”
“Ecco, riguardo a quello…” non finì la frase. Ma sollevò la mano destra, fino a quel momento nascosta in tasca, in modo che Mike potesse vederla.
Era coperta di sangue.
Il professore inchiodò con uno stridore di freni.
“Ma cosa diavolo hai fatto?!” urlò.
Holmes sembrò realmente stupito dalla reazione a suo parere esagerata.
“Evidentemente non ho rotto il finestrino col gomito, ma con la mano.”
“E meno male che ti ritengo una persona brillante.”
“Sono stato preso dal panico,” mormorò, guardando da un’altra parte.
Fu a quel punto che Stamford sollevò un sopracciglio, perplesso. “Tu? Preso dal panico?”
Ma non indagò oltre.
“Devo portarti in ospedale,” disse riaccendendo il motore.
No!” lo bloccò l’altro, posandogli la mano sana sul braccio. “Non voglio l’ospedale. Non mi fido. E poi i tempi d’attesa… decisamente no.”
“Ma stai scherzando?”
“Io non scherzo mai. In ospedale non ci vado, punto.”
Mike si passò una mano sul viso, in parte sudato. Che stanchezza, quel giorno non finiva più. Poi una lampadina si accese sulla sua testa.
“Ok. So dove portarti. E ringraziami perché do adito alle tue stranezze.”
“Le sono profondamente grato, Professore.” Replicò Holmes.
Sorrise.
Sapeva esattamente dove stavano andando.
 
***
 
John Watson gettò un’occhiata distratta all’orologio appeso alla parete del salotto: era da poco passata la mezzanotte.
E di sonno manco l’ombra.
Si voltò nuovamente verso il televisore, su cui scorrevano le immagini di un vecchio film in bianco e nero: uno dei più famosi di sempre, in realtà. Non gli piaceva particolarmente Casablanca – non più di altri film, per lo meno – eppure quella dannata tv continuava a trasmetterlo a ripetizione, soprattutto alle ore tarde della notte.
Abbassò gli occhi sul tavolino davanti al divano. Lo schermo di un computer lo fissava inquisitorio, la pagina del documento aperto intonsa, se non per una riga dedicata al titolo.
Niente, oh. Non gli veniva in mente assolutamente nulla.
Fu assalito da un’improvvisa voglia di scaraventare quel maledetto aggeggio fuori dalla finestra. Si figurò persino un tiro al piattello, in cui il piattello era proprio il suo computer.
E di conseguenza pensò alla propria pistola, chiusa in un cassetto del comodino nella camera da letto. Una rampa di scale lo separava da essa.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase seduto sul divano, in una posa rigida, all’erta senza sapere bene per cosa. Forse stava solo in guardia da se stesso.
Ad un tratto sentì bussare alla porta.
Un tocco delicato, quasi esitante.
Watson corrugò la fronte: decisamente un malintenzionato avrebbe utilizzato un metodo meno gentile. Ma chi poteva essere a quell’ora?
Giusto per conferma, passando davanti alla cucina per raggiungere la porta d’ingresso, buttò un occhio sul forno, su cui brillavano le cifre digitali dell’orologio incorporato:
01:29
Doveva essersi sballato l’orario. Annotò mentalmente di controllare il giorno seguente.
Sbirciò di fretta dallo spioncino: Mike Stamford?!
Ebbe l’istinto di rispondere: “Non sono in casa.” Ma come sempre decise di mordersi la lingua.
Almeno con lui poteva non farsi problemi ad aprirgli la porta in pigiama. Per carità, nulla di sconveniente. Indossava semplicemente una t-shirt bianca e un paio di pantaloni larghi di felpa grigia. Più che a dormire, sembrava pronto ad andare a correre.
Rammentò che forse una volta ci era andato davvero, a correre vestito così.
Ridacchiò da solo spalancando la porta: “Mike, che diavolo ci fai qui a quest’ora?”
“John! Perdonami, davvero. Una questione urgente.”
“Sarebbe?” rispose l’altro, guardandolo confuso. Gli occhi che andavano a destra e a sinistra, cercando indizi. Solo allora Stamford si accorse che il ragazzo, che fino a un minuto prima lo affiancava lungo il vialetto, ora era sparito.
“Ehm… Aspetta. Ma dov’è finito?” cominciò a borbottare, guardandosi intorno. “Ah, eccolo. Puoi degnarti di venire qui, per piacere?”
John udì solamente una voce profonda, baritonale, emergere dal buio che circondava la casa: “Davo un’occhiata in giro.”
“Certo, ma non mi sembra il momento appropriato. John, questo è…”
Non fece in tempo a terminare la frase, che il giovane dottorando lo superò, portandosi direttamente davanti a Watson, che attendeva basito sulla soglia.
“Sherlock Holmes, piacere.”
John lo fissò per qualche istante, senza dire una parola. Il momento si impresse definitivamente nella sua memoria, insieme all’aspetto fuori dal comune, quasi esotico, della figura appena comparsa.
“John Watson, piacere…” mormorò, senza rendersene davvero conto.
Ci pensò l’altro a toglierlo d’impaccio, evitando che si creasse un silenzio imbarazzante.
“Le stringerei volentieri la mano ma… sa com’è!” esclamò, mostrando la mano ferita.
Solo allora il medico si riscosse.
“Gesù, ma che è successo?” e il suo sguardo rimbalzò dal ragazzo a Stamford.
“Storia lunga,” tagliò corto lui, “ci puoi aiutare? Intanto ti racconto.”
“Entrate. Andiamo nello studio, ho tutto lì.”
 
Li condusse senza indugio nel proprio studio medico, facilmente raggiungibile sia dall’esterno che dall’interno della casa. Voltandosi un paio di volte per controllare che lo stessero seguendo, ebbe modo di notare come Sherlock fosse nel mentre impegnato a registrare tutto ciò che passava sotto il suo sguardo di ghiaccio. Le iridi vibravano a una velocità pazzesca, mai vista in vita sua.
Quindi quello era il famoso Sherlock Holmes, il dottorando di cui Mike gli parlava con tanto entusiasmo.
Si era immaginato la tipica versione del secchione per eccellenza.
Sicuramente non così.
Era alto, molto più di alto di lui – non che ci volesse molto, in effetti – con una chioma scura carica di ricci arruffati, un viso affilato e… quegli occhi.
“Eccoci. Prego, entrate.”
Borbottò Watson, aprendo la porta dello studio. Accese la lampada secondaria, dalla luce più calda e tenue, e una lampada più piccola, quella in corrispondenza della grossa lente d’ingrandimento.
“Holmes…”
“Mi chiami Sherlock.”
“O-ok,” acconsentì l’altro, senza sollevare gli occhi. Stava preparando qualche strumento e il ripiano per lavorare, si schiarì la voce. “Sherlock, avvicinati. Mostrami la mano. No, scusa, prima meglio se ti togli la giacca.”
Mike lo aiutò a sfilarla: “Accidenti, si è sporcata tutta la tasca.”
“Poco male, è la scusa buona per usare finalmente il cappotto nuovo,” rispose lo studente, stringendosi nelle spalle. Poi si voltò verso il medico, porgendo la destra.
Stamford, intanto, si eclissò in un angolo.
John lo afferrò per il polso sottile con mano ferma, valutando l’entità della ferita.
In realtà, era parecchio agitato. Quel ragazzo lo agitava. C’era qualcosa in lui che non riusciva a spiegarsi.
Ma non poteva metter da parte così la propria professionalità. Si impose distacco. Automaticamente, irrigidì la posa. Divenne il medico militare che aveva imparato ad essere sul campo di battaglia.
A Sherlock non sfuggì nulla di quel cambiamento repentino. Lo osservava curioso, il suo interesse decisamente stimolato.
Lasciò che l’altro prendesse il controllo della situazione, cosa che raramente permetteva che accadesse. Percepì la presa al proprio polso decisa, ma gentile. Le dita calde contro la propria pelle.
John gli sciacquò la mano sotto un getto d’acqua tiepida e la disinfettò ripulendo la ferita. Aveva il tocco burbero tipico dell’uomo affidabile.
Sherlock si rilassò d’istinto, rendendosi conto solo in quel momento del dolore alla mano e di quanta adrenalina avesse in circolo.
“Una sola ferita un po’ più profonda, il resto son tagli prettamente superficiali. Devo rimuovere un frammento di vetro e probabilmente serviranno un paio di punti,” commentò il medico, avvolgendo la mano in un panno di spugna. Tamponò con delicatezza giusto il necessario per lavorare meglio.
“Vieni, siediti qui.”
Sherlock ubbidiva senza fiatare. Non riusciva a togliere gli occhi di dosso da quella figura insolita.
Mike, nel suo angolino, si godeva la scena in silenzio.
“Ti farà male. Se ti serve stringi quest–“
“Non si preoccupi, va bene così.”
“Se sei sicuro.”
I minuti passarono in silenzio, mentre John rimuoveva il vetro rimasto incastrato nella ferita e ricuciva quest’ultima. Ogni tanto sbirciava le reazioni del ragazzo: prima perché temeva potesse svenire da un momento all’altro, poi perché trovava incredibile la sua resistenza al dolore.
Gli venne da sorridere.
Forse il ritratto di Stamford non era così esagerato.
Alla quarta occhiata, trovò il proprio sguardo riflesso in quello del ragazzo. Si fissarono intensamente per quella che fu solo una frazione di secondo.
Oh.
John riabbassò gli occhi sulla mano elegante, di cui notò le vene sporgenti, le dita lunghe e sottili.
Accidenti, smettila!”.
Si schiarì la gola. “Allora, Mike, mi dici cos’è successo?” chiese, iniziando a chiudere la sutura.
“Molto in sintesi, il nostro ragazzo qui ha deciso che nella vita vuole fare il detective e quindi va in giro ad arrestare la gente per conto della polizia.”
“Come scusa?”
“Professore, per l’ennesima volta. Io non voglio “fare il detective”. Diventerò un consulente investigativo, c’è un’enorme differenza!”
“Consulente investigativo… mai sentito.”
“Certo che no, J… dottor Watson,” si corresse subito Sherlock.
“No, tranquillo. John va bene.”
Il ragazzo sorrise sghembo, prima di proseguire: “Non ne ha mai sentito parlare perché l’ho inventato io.”
John lo guardò sollevando entrambe le sopracciglia. “Wow. In bocca al lupo allora.”
“Grazie.” Annuì l’altro. Cercò di nascondere la sorpresa, ma la sua espressione piacevolmente stupita non passò inosservata a Stamford.
“Quindi arresti la gente picchiandola con dei vetri rotti?”
All’uscita dell’amico, Mike emise uno sbuffo divertito. Sherlock lo fulminò.
“Ovviamente no, ma dovevo fermare un ladro prima che partisse con la macchina… rompere il vetro e metterlo ko mi è sembrata la soluzione migliore.”
“Tu non pensi mai alle conseguenze di quello che fai o dici, vero?” osservò John, divertito.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. “Non mi aiuta.”
“Immaginavo,” mormorò, procedendo a fasciare la mano, per assicurare meglio la medicazione.
“Ecco fatto! Sei libero. Uno dei pazienti migliori che abbia mai avuto, non un lamento… Volete una tazza di tè, prima di andare?”
Sherlock si voltò verso Stamford, come a chiedere il permesso.
“Holmes, si è fatto davvero tardi. Se devo anche riaccompagnarti a casa…” e lasciò la frase in sospeso, controllando l’orologio.
“Può fermarsi a dormire qui.”
Alla proposta di Watson, gli altri due si voltarono in sincronia.
“Potete fermarvi entrambi,” continuò lui, mettendosi a braccia conserte e poggiandosi col bacino sul lettino dei pazienti. “Ho abbastanza letti per tutti.”
“È la volta che mia moglie mi caccia di casa, se non torno a dormire… ma…”
“Io accetto volentieri, grazie.”
“Ok.” Rispose semplicemente John, fingendo noncuranza.
Ma guarda che casino. Bell’idea, John. Complimenti.”
 
Mike Stamford salutò i due e uscì sul vialetto. Una volta in macchina, diede un sospiro.
Quella giornata era durata veramente troppo, non vedeva l’ora di tornare a casa e infilarsi sotto le coperte. Tuttavia, stanchezza a parte, era soddisfatto: era stata una giornata decisamente proficua.
Gettò uno sguardo divertito sulle luci accese nella cucina del dottor Watson. Per un breve secondo, si chiese se il suo agire non avesse acceso la miccia di una bomba troppo pericolosa.
Poi ripensò allo sguardo di John, che non vedeva così vivo da tempo, e all’espressione inequivocabile di Sherlock: no, aveva fatto proprio bene.



To be continued
  
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