Il
Gioiello del Vaticano
Capitolo
9 - La Papessa
Nei
Tarocchi, la carta della Papessa indica il sapere. La Papessa è
insegnante
spirituale, benevolenza, generosità. La figura contiene suggerimenti
morali ed
esercita un’influenza suggestiva sul pensiero. Rivela funzioni che
conferiscono
prestigio, parla di sacerdozio, di metafisica.
Al negativo, però, indica che le negatività diverranno immoralità.
«La
contessa Riario avanzerà da Sud, attraversando il Val d’Arno», spiegò
il comandante
Quattrone, accompagnando il Magnifico oltre le mura. «Posizioneremo
l’artiglieria su tutti i lati, ma la maggioranza degli uomini arriverà
qui».
«Siamo
in numero inferiore», obiettò Lorenzo, osservando con disappunto le
difese
predisposte.
«Ma
meglio attrezzati», si intromise Leonardo, scendendo velocemente nel
cortile.
«Con
solo dieci spingarde? Ne siete certo?», fu la scettica risposta del
primo
cittadino di Firenze.
«Ne
stiamo predisponendo altre», tentò di rassicurarlo l’artista, con un
che di
umiltà nel suo atteggiamento solitamente spavaldo.
Sapeva
molto bene, così come
tutti gli altri soldati presenti intorno a lui, che Roma stava
lentamente
preparando il suo attacco attraverso tanti piccoli ma scaltri
sotterfugi, ed
incontrarsi sul campo di battaglia non era di certo una scusa per
scambiare due
chiacchiere. Tutte le azioni della Città Santa gridavano guerra, era
solo
questione di tempo.
«Ve
lo assicuro: non ci sarà bisogno di usarle», tentò da Vinci, con
cautela.
Che
fosse ciò che
effettivamente aveva in mente di dire, lui per primo ebbe qualche
dubbio.
Forse, più che una rassicurazione per Lorenzo, voleva essere una
rassicurazione
per sé stesso, una speranza.
Se
chiudeva gli occhi, poteva
ancora rivedere tanti piccoli frammenti di quanto successo al convento
di Sant’Antonio,
alcuni giorni prima. Nonostante cercasse di ripetersi che la colpa di
quanto
successo fosse tutta da imputare al veleno e al contagio, la sua
coscienza non
voleva dargli pace.
Le
aveva detto cose orribili,
l’aveva accusata delle azioni più malvagie e spietate, e quel che era
peggio,
di aver sempre agito senza sensi di colpa.
Forse
in quel preciso
frangente, con la fredda spada del Vaticano puntata alla gola e il
veleno in
circolo nel suo corpo, non lo aveva notato o non gli aveva prestato
sufficiente
attenzione. Ma da quando era guarito continuava a rivederla: il volto
privato
della sua maschera di apatia e indifferenze, gli occhi lucidi e le
lacrime che
premevano per uscire.
Si
riteneva la mente più
geniale d’Europa, eppure non era riuscito a vedere qualcosa di così
ovvio:
c’era molto, molto altro che non sapeva, ben oltre quella reputazione
di
soldatessa fredda e spietata.
Ciò
nonostante, il Magnifico
gli avrebbe tagliato la lingua al solo sentirlo tentare di difenderla,
ragion
per cui l’artista scelse saggiamente di zittirsi e fingersi
accondiscendente.
«E
poi a volte, se tutto ciò che il tuo nemico sa fare è uccidere…»,
iniziò,
zittendo quel Come se fosse vero che
tanto premeva per lasciare le sue labbra. «…un mero inganno può essere
sufficiente», tentò. La maniera più velata possibile per suggerirgli un
altro
modo di trattare.
Il
ghigno di superiorità che
Lorenzo gli lanciò, però, distrusse ogni sua speranza.
«La
contessa è molto più scaltra di quello che credete, da Vinci», sibilò
lui, come
se stesse parlando ad un bambino ingenuo.
Lo
so bene,
avrebbe
voluto rispondere Leonardo, ma di nuovo scelse di mordersi la lingua.
«Il
vostro acume non ci difenderà stavolta. Confido sulla vostra
artiglieria, e vi
assicuro che la useremo», lo zittì definitivamente, prima di superarlo
e
dirigersi verso il suo cavallo.
L’artista
avrebbe dovuto essere
d’accordo con lui: difendere Firenze era la priorità, a qualsiasi
costo, e a
maggior ragione nei confronti di un nemico come il Vaticano.
Ma
allora perché, al solo
pensiero di attaccare e ferire Gemma, sentiva qualcosa in lui
spezzarsi?
Con
un’andatura a cavallo così
elegante da poter essere definita divina, la contessa Riario stava
percorrendo
i verdi campi della campagna toscana, avvicinandosi a Firenze con tutta
la
calma che la guida dell’esercito del Vaticano poteva permettersi.
Il
suo esercito, proprio alle
sue spalle, la seguiva con la stessa lentezza, silenzioso e ligio al
dovere. Buona
parte dei soldati aveva stampato in volto un ghigno di soddisfazione,
all’idea
della facile vittoria che avrebbero conquistato da lì a poco.
Per
quanto quella sera al
banchetto si fosse divertita a stuzzicare Leonardo senza rendere noto
il suo
nome, la contessa non aveva perso di vista l’obiettivo. Lasciata la
festa a
palazzo, aveva incaricato alcuni dei suoi collaboratori di seguire
l’artista
l’indomani, il giorno successivo e quello dopo ancora. Nessuno doveva
perderlo
di vista e, tanto meno, tornare da lei senza informazioni utili.
Per
fortuna, Grunwald aveva
trovato traccia di un accordo tra l’ingegnere e il Magnifico per
incontrarsi all’alba
in una piccola valle lontano da Firenze. Non volendo lasciare nulla al
caso,
Gemma si era armata della sua scorta e si era recata sul luogo
dell’incontro,
in un punto riparato e nascosto ma che le permetteva comunque di tenere
d’occhio la situazione.
Come
se fosse stata baciata
dalla fortuna, aveva assistito a niente meno che la prova delle armi di
Leonardo, e non si era lasciata sfuggire il benché minimo dettaglio.
Tenendo
poi conto delle informazioni sfuggite a Giuliano, al convento, il suo
vantaggio
era notevole.
«Ci
stiamo avvicinando», le comunicò una delle guardie, poco dietro di lei.
Più
che darle informazioni,
l’aveva risvegliata dai suoi stessi pensieri, prima che sfuggissero al
suo
controllo.
«Tenetevi
pronti», rispose la contessa, sollevando la mano destra per comunicare
l’ordine
anche al resto dei suoi collaboratori.
Come
riuscisse ad essere sempre
così elegante ed aggraziata, anche in un movimento tanto semplice,
restava un
mistero per tutti. E in particolare per il suo collaboratore più
fidato, che
aveva avuto modo di assistere a tanta raffinatezza molto più spesso
rispetto a
chiunque altro nell’esercito.
Non
che le altre guardie
avessero mai azzardato un tale avvicinamento, visto che l’ultimo agente
che
aveva tentato di oltrepassare i limiti del consono era finito tra le
voci
bianche del coro del Vaticano.
Da
allora, chiunque lì dentro
con un minimo di istinto di sopravvivenza si limitava, saggiamente, a
pensieri
privati e molto silenziosi. In onore del suo nome, Gemma non era altro
che un
tesoro irraggiungibile. Uno splendido, prezioso e brillante tesoro, ma
irraggiungibile.
Per
chiunque.
«Contessa?»,
la chiamò Grunwald, accelerando leggermente l’andatura del cavallo per
poterla
raggiungere.
«Sì,
capitano?», gli rispose lei, ma senza voltarsi, e il suo sguardo rimase
fisso
sull’orizzonte.
«Qual
è il vostro piano?», domandò lui, con tono freddo e distaccato.
Il
fatto che nemmeno in
quell’occasione la contessa si fosse disturbata a voltare il capo era
per lui
motivo di irritazione, ma allo stesso tempo gli concedeva qualche altro
secondo
per lasciare che il suo sguardo si soffermasse sui tratti del suo viso,
senza
correre il rischio che lei lo notasse.
«Averlo»,
rispose Gemma, bruscamente, e nemmeno si accorse di aver stretto le
briglie del
suo cavallo con più forza.
«Voi
non avete una coscienza, contessa».
Non
voleva ripensarci. Avrebbe fatto
o dato qualsiasi cosa per avere un po’ di tregua da quelle parole che,
per lei,
erano come stilettate nello stomaco.
«Quelle
persone sono morte perché voi… le avete avvelenate».
Era
una buona cosa che lui le
attribuisse una reputazione del genere. Andava tutto a vantaggio della
sua
causa. Sisto le aveva sempre insegnato che un combattente ha già vinto
metà
della battaglia se la sua fama lo precede. Ma anche sapendolo,
quell’amaro in
bocca non voleva proprio saperne di sparire.
«Non
provate nemmeno un minimo di rimorso?»
Dio,
quanto si sbagliava. Non
poteva nemmeno cominciare ad immaginarlo. Ma non lo avrebbe mai
scoperto.
«Mi
sbagliavo».
Che
stesse parlando di lei? Che
fosse sincero? Che fosse solo l’effetto del veleno ancora in circolo,
nonostante le cure?
Quelle
domande la assillavano
da giorni, e l’ultima cosa che poteva permettersi era proprio lasciarsi
distrarre così dal nemico.
«Abbiamo
tutti i nostri demoni», mormorò Gemma sovrappensiero, con lo sguardo
fisso nel
vuoto.
Seguirono
alcuni istanti di
silenzio, in cui le sue parole sopravvissero nell’aria un altro po’.
«…prego,
contessa?», chiese Grunwald, dopo qualche secondo di esitazione per la
sorpresa.
In
tutta risposta, la giovane
donna strattonò con un po’ più di forza le briglie, per indirizzare il
suo
cavallo.
«Nessuno
è invincibile, capitano Grunwald», precisò Gemma, voltandosi finalmente
nella
sua direzione. «Chiunque ha almeno un punto debole, e la prima cosa da
fare è
sfruttarlo».
E
suo malgrado, l’uomo fu solo
capace di pensare che era tornata quella di sempre.
Un
respiro profondo, le mani
chiuse a pugno, e Gemma riprese il controllo di sé stessa. Riuscì
addirittura
ad indossare di nuovo la sua maschera di sicurezza ed arroganza, venata
di
quella malizia che riusciva sempre a conquistare chiunque incrociasse
il suo
sguardo.
Quando
raggiunse il punto
d’incontro, Lorenzo de’ Medici e tutti i suoi collaboratori erano già
presenti.
E tra di loro, anche Leonardo.
«Magnifico»,
mormorò la giovane donna, con un sorriso di pura cortesia.
«Comandante»,
aggiunse, il tono della voce invariato.
Ma
raggiunto da Vinci, abbassò
ulteriormente la voce, e gli riservò uno sguardo ben più penetrante.
«Artista»,
disse, in poco più di un sussurro.
E
nonostante tutto, il
fiorentino avvertì di nuovo quella fitta allo stomaco che solo lei
riusciva a
provocargli. Una sensazione agrodolce, una tentazione a dir poco
irresistibile
ma verso cui, purtroppo, non poteva fare altro che resistere.
«Ingegnere
bellico, in verità», si intromise Lorenzo, tentando di indirizzare uno
sguardo di
quel genere su di lui. E tentando di distrarre tutti dall’espressione
sul volto
dell’artista, ormai prossimo ad uno svenimento.
Sperava
che richiamarlo con un
titolo tanto prestigioso fosse sufficiente a risvegliarlo. Per quanto
capisse
che resistere ad una donna come lei fosse un’ardua impresa, contava sul
fatto
che la sicurezza di Firenze fosse più importante.
Non
ottenendo risposte diverse
dal silenzio, però, tentò un approccio meno discreto, come quello di
tossicchiare con fare vago per destarlo.
Al
terzo tentativo, tuttavia,
la pazienza di Lorenzo si esaurì.
«Da
Vinci!», esclamò, e chiunque avrebbe percepito la tacita minaccia.
Leonardo
compreso che, per l’inaspettato richiamo, sobbalzò; perfino il suo
cavallo
sbuffò, come se riuscisse a provare quella scocciatura.
«C’è
forse qualche problema, artista?», si intromise la contessa, fingendosi
perplessa.
In
tutta onestà, però, stava
assaporando ogni secondo di quel momento, di quella dimostrazione di
quanto
potere riuscisse ad avere su di lui.
E,
in fondo, era una
rassicurazione: quanto successo durante la presunta possessione
demoniaca non
aveva intaccato quello che Leonardo provava per lei. Non
irreparabilmente,
almeno.
«Assolutamente
nessuno», borbottò da Vinci, raddrizzandosi in groppa al suo cavallo.
Se fosse
stato sincero, forse avrebbe ammesso che il problema era la presenza di
tutte
quelle persone, oltre a loro due, ma rimase solo una sua fantasia. «E
per voi,
contessa?», chiese poi, per sviare l’attenzione su di lei.
«Invero,
sì», rispose Gemma, senza alcuna traccia di turbamento nella voce.
Di
certo Leonardo si sarebbe
aspettato tutt’altra risposta, ma ormai stava imparando a non lasciarsi
sorprendere
così facilmente. La contessa Riario, per lui, era una sorpresa
continua: prima imparava
a conviverci, meglio sarebbe stato per la sua sanità mentale.
Prima
di dargli il tempo di
indagare, Gemma accelerò i tempi e proseguì da sola la conversazione.
«Sono
stata incaricata dal Santo Padre in persona di recarmi presso la vostra
città
per una negoziazione, ma a quanto pare…», e lasciò volutamente qualche
secondo
di silenzio, colmato solo dalla sua migliore espressione di
perplessità. «…gli
interlocutori con cui sto intrattenendo questa conversazione non sono
particolarmente propensi a discutere un accordo».
Si
concesse qualche altro
secondo di tempo, un momento per squadrare da capo a piedi i
destinatari della
sua ultima frase.
«O
per meglio dire… non sono particolarmente attenti»,
precisò, sollevando le sopracciglia con aria di rimprovero.
E
suo malgrado, anche il
Magnifico si trovò a condividere quella stessa espressione. Il che fu a
dir
poco una sorpresa: ritrovarsi d’accordo con uno dei peggiori nemici
della città
che tanto amava non era di certo cosa da tutti i giorni.
Ma
gli bastò scoccare un altro
sguardo a Leonardo, e alla sua faccia da cucciolo di cane, per capire
che
sarebbe stato impossibile biasimare Gemma Riario.
«Vi
ascoltiamo molto attentamente, contessa», tentò di nuovo Lorenzo,
l’orgoglio
bruciante che si poteva facilmente percepire in ogni sua parola.
Tuttavia,
alla contessa non
parvero rassicurazioni sufficienti per proseguire la conversazione.
«Artista?»,
lo chiamò di nuovo, con il medesimo tono di molti altri incontri
precedenti, e
ottenendo in risposta pressoché la medesima reazione.
Se
Leonardo avesse potuto
scegliere di ignorare il suo buon senso e di rispondere seguendo solo
l’istinto, non avrebbe esitato a dirle che stava pendendo dalle sue
labbra, ma
per fortuna la sua parte razionale ebbe la meglio.
«Vi
ascolto», rispose, sistemandosi meglio a cavallo.
Di
certo il leggero sorriso di
vittoria che si dipinse sulle labbra di Gemma, all’udire quella
risposta, non fu
d’aiuto a tenere a bada la sua impulsività.
«Molto
bene», mormoro la giovane donna.
Che
quell’ultimo sguardo
rivolto a Leonardo, ad un soffio dall’oltrepassare i limiti del
consono, fosse volto
a sottolineare la sua autorità o volto a concedersi qualche altro
secondo di
contatto visivo, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei.
«Onde
evitare ulteriori spargimenti di sangue, Sua Eminenza ha stilato una
lista di
richieste. Primo: Firenze deve formalmente accogliere nel suo grembo
Francesco
Salviati come arcivescovo di Pisa. Secondo: il banco de’ Medici
condonerà i debiti
alla Santa Sede. E terzo, solleverete alcuni artigiani dai loro
obblighi contrattuali,
in modo che possano impiegare i loro doni al servizio di una più grande
e
gloriosa… nuova cappella».
Avrebbe
potuto continuare a
parlare per delle ore, e con ogni probabilità nessuno sarebbe stato in
grado di
distogliere l’attenzione dalle sue parole, dalla sua voce, dal suo
volto. Nemmeno
le guardie svizzere del suo stesso esercito.
«E
a quali artisti è interessato Sua Santità?», domandò il Magnifico, più
per
proseguire la trattativa che per vero interesse: conosceva già la
risposta.
Tuttavia,
la contessa Riario
mantenne quella farsa in piedi, e cercò in una tasca del suo cappotto
un
piccolo foglio di carta accuratamente ripiegato. Lo accarezzò
lentamente con le
dita fasciate dalla pelle nera, lisciandolo tra le sue mani, e finse di
leggere
quei nomi per la prima volta.
«Un
certo… Pietro Perugino», cominciò, con noncuranza. «Sandro Botticelli»
e il Figurarsi borbottato da Leonardo, come
avrebbe fatto un bambino di cinque anni, non fu più di tanto una
sorpresa. «Oh!»,
esclamò poi la giovane donna, fingendosi sorpresa. «E Leonardo da
Vinci».
Un
estraneo avrebbe anche
potuto giudicare innocente il sorriso
che la contessa rivolse ai suoi avversari, ma perfino il Magnifico
riconobbe
facilmente l’inganno.
«Come
trovate l’offerta, artista?», domandò infine Gemma, sollevando le
sopracciglia
e calcando in particolar modo sul nomignolo.
«Irrealizzabile,
contessa».
«Oh», mormorò la giovane donna,
tornando seria. «Non è la risposta che volevo», aggiunse, e forse per
la prima
volta in tutta quella conversazione si poté percepire un velo di
minaccia nella
sua voce.
«Tuttavia,
temo che sarà l’unica che avrete», proseguì Leonardo.
Se
Zoroastro fosse stato
presente, avrebbe sicuramente avuto da ridire al riguardo.
«È
un vero peccato», rispose lei, con un leggero sospiro. «Si tratta di
un’offerta
molto…», ed esitò qualche secondo, come se stesse cercando la parola
più
adatta. «…allettante».
Attratto
dalla scintilla di
malizia che stava venando la conversazione, Leonardo abbandonò per un
momento il
buon senso e lasciò che le successive parole uscissero dalla sua bocca
senza
filtri.
«Temo
che sarebbe un piacere non condiviso», mormorò, facendo spallucce.
«Chi
può dirlo, artista», rispose la contessa, in un sospiro quasi di
dispiacere.
In
un quello scambio di
provocazioni e ambiguità, nessuno parve notare l’espressione dipinta
sul volto
del Magnifico, ad un passo dal disgusto. Fu egli stesso a riportare
l’attenzione
su argomenti più importanti, con un tossicchiare non poi così discreto.
«E
se non dovessimo capitolare?», domandò Lorenzo, ritornando alle minacce
mosse poco
prima dalla contessa.
Con
quale velocità Gemma fosse
capace di passare dallo scherzo alla serietà, era parte del suo
fascino.
«Ah…
le mie unità occuperebbero Firenze», sentenziò lei, con risolutezza.
«La
mia artiglieria… ridurrebbe i vostri uomini in brandelli», si intromise
Leonardo, che parve aver ritrovato la sua tipica arroganza.
«Le
vostre mitiche spingarde ad organo», lo seguì la contessa. «Certo,
quelle
abbatteranno alcuni dei miei soldati. Ma non tutti», e dal tono con cui
aveva
pronunciato quelle ultime tre parole, i presenti capirono che stava per
arrivare il peggio. «Grazie alla sventatezza di Giuliano so che avete
dieci
macchine da guerra, e osservandone una ho semplicemente dedotto la
ciclicità
del rateo di fuoco».
Al
solo sentire il nome del
Giuliano comparire in quella conversazione, Lorenzo sentì il sangue
ribollirgli
nelle vene per la rabbia.
«Diamine,
Giuliano…», si lasciò sfuggire, a denti stretti.
«Oh,
non perdete troppo tempo ad odiare vostro fratello», gli rispose la
contessa, con
una certa noncuranza. «Sarei stata perfettamente in grado di ricavare
le
medesime informazioni dall’ingegnere», aggiunse, scoccando uno sguardo
al
diretto interessato.
«Comincio
a pensare che la vostra arroganza riesca addirittura a superare la
mia»,
commentò Leonardo, in un guizzo di spavalderia.
«Ho
avuto prova di quanto siano veritiere le mie affermazioni».
E
tanto in fretta quella sfrontatezza
era apparsa, altrettanto in fretta scomparve, spazzata via dall’ultima
affermazione di Gemma. Quel minuscolo accenno di sorriso sulle labbra
dell’artista scomparve, e perfino Lorenzo notò il silenzio che seguì.
«Da
Vinci a corto di parole. Sono sbalordito», borbottò lui, a bassa voce.
«Mi
auguro sia prova delle mie abilità, Magnifico», rispose la giovane
donna, abbozzando
un piccolo cenno di riverenza con il capo, anche se non c’era traccia
dell’umiltà che avrebbe dovuto accompagnare quel gesto.
E
Leonardo poteva affermare con
grande certezza che quella dimostrata dalla contessa era tutta
finzione. Perché
lui non era come gli altri, non si fermava alle prime impressioni, alle
maschere
che lei voleva che gli altri
vedessero.
Sulla
scia di quella
consapevolezza, portò avanti la sua difesa.
«Permettetemi
di obiettare, contessa. Mentre voi studiavate me, io studiavo voi»,
affermò,
con un mezzo sorriso spavaldo. «E ho dedotto molto dalle nostre
conversazioni»,
aggiunse, abbassando appena la voce.
Non
fu affatto spiacevole il
sapore della soddisfazione che poté assaporare, vedendo finalmente una
piccola
crepa nella maschera di Gemma.
«E
che cosa avete dedotto, artista?», domandò lei, con un interesse e una
curiosità
finalmente sinceri.
«Se
ve lo rivelassi, perderei il vantaggio che ho su di voi. E non mi
sembra
proprio il caso, non ora che vi apprestate a dichiarare guerra a
Firenze».
«Seguitemi
a Roma, dunque», propose la contessa, con risolutezza. «Eviteremmo
l’attacco
alla città e potremmo continuare la nostra… conversazione».
Bastò
il modo in cui Gemma
sbatté le sue lunghe e folte ciglia per fargli capire che il suo vero
intento
era colpirlo allo stomaco. E non solo.
«Seguirvi
a Roma? Dove verrei considerato un eretico e messo al rogo? La vostra
offerta è
sempre meno allettante», ribatté il fiorentino.
Il
pensiero di essere bruciato
vivo gli sembrò un’ottima distrazione per tornare con i piedi per
terra.
«Il
papa avrà pietà di un povero artista confuso», lo rassicurò Gemma, con
una nota
quasi dolce nel tono della voce. Tuttavia, l’espressione sul suo volto
mutò
presto in perplessità. «Oh, aspettate…», li fermò, sollevando
delicatamente un
indice in aria per garantirsi il silenzio dei presenti. «Il vostro è
uno dei
nomi sulla lista di artisti richiesti da Sua Santità».
Da
Vinci iniziò a capire dove
quel discorso sarebbe andato a finire, e fece di tutto per non
scoppiare a
ridere. Poteva provare a difendersi quanto voleva, eppure Gemma
riusciva sempre
a rigirare il coltello per puntarlo contro di lui.
«Non
avete alcun motivo di temere l’ira del Santo Padre», concluse la
contessa, con
semplicità. «Non avete ascoltato le condizioni con cui ho aperto le
trattative?», chiese poi, fingendosi dubbiosa. «Qualcosa vi ha
distratto?»
«In
effetti…», borbottò Leonardo, tentando di prendere tempo. «…stavo
facendo dei
calcoli. Per capire con quanti uomini ve ne tornerete a Roma con la
coda tra le
gambe».
Ma
l’unica reazione che ottenne
fu una discreta risata.
Gemma
sollevò delicatamente la
mano destra in aria e schioccò le dita. Alle sue spalle una delle
guardie fischiò
e, nel giro di pochi secondi, un numero tremendamente alto di soldati
uscì dal
bosco ed iniziò ad avvicinarsi.
«Riprendiamo
per un momento le informazioni sulle vostre mitiche spingarde ad
organo», disse
Gemma, congiungendo le mani davanti a sé. «Trentatré canne ciascuna con
un’emissione di trecentotrenta scoppietti in totale. Quindi, signori,
supponiamo che… i due terzi colpiscano l’obiettivo. Ma cosa succederà
mentre i
vostri impavidi miliziani stanno ricaricando?», e lasciò volutamente
qualche
secondo di silenzio, mentre le sue parole alleggiavano nell’aria. «I
miei
restanti quattrocento usciranno allo scoperto. E sì, useranno i vostri
preziosi
fiorentini… per il tiro al bersaglio»
«Affrontate
una città cinta da mura. Vi terremo a distanza almeno per sei mesi», si
difese
il Magnifico.
Ma
la sua voce non era così
ferma e sicura come egli avrebbe voluto.
Quanto
meno lui era riuscito ad
aprire bocca e a dire qualcosa, al contrario di Leonardo. Quel
ragionamento
aveva posto in chiara evidenza i difetti della sua armeria, e la
prospettiva di
una vittoria su Roma era sempre meno nitida, a mano a mano che
immaginava lo
scenario appena descritto da Gemma.
Il
fallimento stava diventano un’ipotesi
sempre più reale, e per Leonardo fu un fendente dritto nello stomaco.
«È
sufficiente una sola persona per aprire le porte dall’interno e voi…
voi siete
davvero convinto che in tutti questi mesi il richiamo del Santo Padre
non verrà
ascoltato da una singola anima a Firenze?»
Nel
gesto di afferrare le
briglie del suo cavallo, la contessa Riario pose fine a quella
conversazione.
«Avete
ventiquattr’ore per ponderare l’offerta di Sua Santità. Felice
giornata».
Angolo
dell’autrice
Buonsalve
a tutt* e tanti
auguri di buon anno!
Come
sono state queste feste?
Quante trasgressioni alla dieta contare? Risposta: nessuna, perché
tutto è
concesso sotto Natale.
Nonostante
io trovi la politica
terribilmente noiosa, spero di aver aggiunto abbastanza pepe da rendere
questo
capitolo di trattive (e minacce) più stuzzicante, e condito con gli
sforzi di
Leonardo per non sbavare spudoratamente proprio di fronte a Gemma,
esercito e
braccio destro compreso.
E
a proposito. Nello scorso
capitolo avevo parlato di “piccoli indizi sul passato di Gemma”.
Tuttavia,
neanche il capitano Grunwald è salvo dalle storyline secondarie. Di
nuovo,
sbizzarritevi nelle teorie perché sono sempre curiosa.
Che
dire, vi saluto e ci
rileggiamo tra due settimane!
Un
bacione
Amy
W. Gildeary