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Autore: Amy W Gildeary    02/01/2019    2 recensioni
Il conte Girolamo Riario una volta disse: «Quando si deve trasmettere un messaggio, preferisco servirmi di mezzi che gli altri non userebbero».
Una donna, ad esempio.
E se papa Sisto IV non avesse avuto un figlio, ma una figlia?
E se il bellicoso Santo Padre avesse deciso di sfruttarla come arma per i suoi subdoli piani, approfittando dell'effetto sorpresa?
Cosa sarebbe successo se avesse avuto lei il compito di attaccare Firenze e di ottenere i servigi del geniale artista Leonardo da Vinci?
-
«Sapete chi sono?», domandò la giovane donna, chinando di poco la testa di lato; la voce morbida e vellutata, senza alcuna traccia di turbamento. «Sono Gemma Riario. Contessa di Imola, guida della Santa Romana Chiesa e nipote di Sua Santità, papa Sisto IV».
[...]
«Sì, lo so», commentò la contessa, con un sospiro annoiato. «Rimangono tutti sempre molto sorpresi di vedere una donna», continuò, con una naturalezza e una tranquillità a dir poco disarmanti, ben poco appropriati al contesto. «Volevano un figlio maschio. Lo avrebbero chiamato Girolamo. Ma poi sono arrivata io».
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Zoroastro
Note: What if? | Avvertimenti: Gender Bender
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Il Gioiello del Vaticano

Capitolo 9 - La Papessa

 

 

 

Nei Tarocchi, la carta della Papessa indica il sapere. La Papessa è insegnante spirituale, benevolenza, generosità. La figura contiene suggerimenti morali ed esercita un’influenza suggestiva sul pensiero. Rivela funzioni che conferiscono prestigio, parla di sacerdozio, di metafisica.
Al negativo, però, indica che le negatività diverranno immoralità.

 

 

 

            «La contessa Riario avanzerà da Sud, attraversando il Val d’Arno», spiegò il comandante Quattrone, accompagnando il Magnifico oltre le mura. «Posizioneremo l’artiglieria su tutti i lati, ma la maggioranza degli uomini arriverà qui».

            «Siamo in numero inferiore», obiettò Lorenzo, osservando con disappunto le difese predisposte.

            «Ma meglio attrezzati», si intromise Leonardo, scendendo velocemente nel cortile.

            «Con solo dieci spingarde? Ne siete certo?», fu la scettica risposta del primo cittadino di Firenze.

            «Ne stiamo predisponendo altre», tentò di rassicurarlo l’artista, con un che di umiltà nel suo atteggiamento solitamente spavaldo.

Sapeva molto bene, così come tutti gli altri soldati presenti intorno a lui, che Roma stava lentamente preparando il suo attacco attraverso tanti piccoli ma scaltri sotterfugi, ed incontrarsi sul campo di battaglia non era di certo una scusa per scambiare due chiacchiere. Tutte le azioni della Città Santa gridavano guerra, era solo questione di tempo.

            «Ve lo assicuro: non ci sarà bisogno di usarle», tentò da Vinci, con cautela.

Che fosse ciò che effettivamente aveva in mente di dire, lui per primo ebbe qualche dubbio. Forse, più che una rassicurazione per Lorenzo, voleva essere una rassicurazione per sé stesso, una speranza.

Se chiudeva gli occhi, poteva ancora rivedere tanti piccoli frammenti di quanto successo al convento di Sant’Antonio, alcuni giorni prima. Nonostante cercasse di ripetersi che la colpa di quanto successo fosse tutta da imputare al veleno e al contagio, la sua coscienza non voleva dargli pace.

Le aveva detto cose orribili, l’aveva accusata delle azioni più malvagie e spietate, e quel che era peggio, di aver sempre agito senza sensi di colpa.

Forse in quel preciso frangente, con la fredda spada del Vaticano puntata alla gola e il veleno in circolo nel suo corpo, non lo aveva notato o non gli aveva prestato sufficiente attenzione. Ma da quando era guarito continuava a rivederla: il volto privato della sua maschera di apatia e indifferenze, gli occhi lucidi e le lacrime che premevano per uscire.

Si riteneva la mente più geniale d’Europa, eppure non era riuscito a vedere qualcosa di così ovvio: c’era molto, molto altro che non sapeva, ben oltre quella reputazione di soldatessa fredda e spietata.

Ciò nonostante, il Magnifico gli avrebbe tagliato la lingua al solo sentirlo tentare di difenderla, ragion per cui l’artista scelse saggiamente di zittirsi e fingersi accondiscendente.

            «E poi a volte, se tutto ciò che il tuo nemico sa fare è uccidere…», iniziò, zittendo quel Come se fosse vero che tanto premeva per lasciare le sue labbra. «…un mero inganno può essere sufficiente», tentò. La maniera più velata possibile per suggerirgli un altro modo di trattare.

Il ghigno di superiorità che Lorenzo gli lanciò, però, distrusse ogni sua speranza.

            «La contessa è molto più scaltra di quello che credete, da Vinci», sibilò lui, come se stesse parlando ad un bambino ingenuo.

Lo so bene, avrebbe voluto rispondere Leonardo, ma di nuovo scelse di mordersi la lingua.

            «Il vostro acume non ci difenderà stavolta. Confido sulla vostra artiglieria, e vi assicuro che la useremo», lo zittì definitivamente, prima di superarlo e dirigersi verso il suo cavallo.

L’artista avrebbe dovuto essere d’accordo con lui: difendere Firenze era la priorità, a qualsiasi costo, e a maggior ragione nei confronti di un nemico come il Vaticano.

Ma allora perché, al solo pensiero di attaccare e ferire Gemma, sentiva qualcosa in lui spezzarsi?   

 

Con un’andatura a cavallo così elegante da poter essere definita divina, la contessa Riario stava percorrendo i verdi campi della campagna toscana, avvicinandosi a Firenze con tutta la calma che la guida dell’esercito del Vaticano poteva permettersi.

Il suo esercito, proprio alle sue spalle, la seguiva con la stessa lentezza, silenzioso e ligio al dovere. Buona parte dei soldati aveva stampato in volto un ghigno di soddisfazione, all’idea della facile vittoria che avrebbero conquistato da lì a poco.

Per quanto quella sera al banchetto si fosse divertita a stuzzicare Leonardo senza rendere noto il suo nome, la contessa non aveva perso di vista l’obiettivo. Lasciata la festa a palazzo, aveva incaricato alcuni dei suoi collaboratori di seguire l’artista l’indomani, il giorno successivo e quello dopo ancora. Nessuno doveva perderlo di vista e, tanto meno, tornare da lei senza informazioni utili.

Per fortuna, Grunwald aveva trovato traccia di un accordo tra l’ingegnere e il Magnifico per incontrarsi all’alba in una piccola valle lontano da Firenze. Non volendo lasciare nulla al caso, Gemma si era armata della sua scorta e si era recata sul luogo dell’incontro, in un punto riparato e nascosto ma che le permetteva comunque di tenere d’occhio la situazione.

Come se fosse stata baciata dalla fortuna, aveva assistito a niente meno che la prova delle armi di Leonardo, e non si era lasciata sfuggire il benché minimo dettaglio. Tenendo poi conto delle informazioni sfuggite a Giuliano, al convento, il suo vantaggio era notevole.

            «Ci stiamo avvicinando», le comunicò una delle guardie, poco dietro di lei.

Più che darle informazioni, l’aveva risvegliata dai suoi stessi pensieri, prima che sfuggissero al suo controllo.

            «Tenetevi pronti», rispose la contessa, sollevando la mano destra per comunicare l’ordine anche al resto dei suoi collaboratori.

Come riuscisse ad essere sempre così elegante ed aggraziata, anche in un movimento tanto semplice, restava un mistero per tutti. E in particolare per il suo collaboratore più fidato, che aveva avuto modo di assistere a tanta raffinatezza molto più spesso rispetto a chiunque altro nell’esercito.

Non che le altre guardie avessero mai azzardato un tale avvicinamento, visto che l’ultimo agente che aveva tentato di oltrepassare i limiti del consono era finito tra le voci bianche del coro del Vaticano.

Da allora, chiunque lì dentro con un minimo di istinto di sopravvivenza si limitava, saggiamente, a pensieri privati e molto silenziosi. In onore del suo nome, Gemma non era altro che un tesoro irraggiungibile. Uno splendido, prezioso e brillante tesoro, ma irraggiungibile.

Per chiunque.

            «Contessa?», la chiamò Grunwald, accelerando leggermente l’andatura del cavallo per poterla raggiungere.

            «Sì, capitano?», gli rispose lei, ma senza voltarsi, e il suo sguardo rimase fisso sull’orizzonte.

            «Qual è il vostro piano?», domandò lui, con tono freddo e distaccato.

Il fatto che nemmeno in quell’occasione la contessa si fosse disturbata a voltare il capo era per lui motivo di irritazione, ma allo stesso tempo gli concedeva qualche altro secondo per lasciare che il suo sguardo si soffermasse sui tratti del suo viso, senza correre il rischio che lei lo notasse.

            «Averlo», rispose Gemma, bruscamente, e nemmeno si accorse di aver stretto le briglie del suo cavallo con più forza.

            «Voi non avete una coscienza, contessa».

Non voleva ripensarci. Avrebbe fatto o dato qualsiasi cosa per avere un po’ di tregua da quelle parole che, per lei, erano come stilettate nello stomaco.

            «Quelle persone sono morte perché voi… le avete avvelenate».

Era una buona cosa che lui le attribuisse una reputazione del genere. Andava tutto a vantaggio della sua causa. Sisto le aveva sempre insegnato che un combattente ha già vinto metà della battaglia se la sua fama lo precede. Ma anche sapendolo, quell’amaro in bocca non voleva proprio saperne di sparire.

            «Non provate nemmeno un minimo di rimorso?»

Dio, quanto si sbagliava. Non poteva nemmeno cominciare ad immaginarlo. Ma non lo avrebbe mai scoperto.

            «Mi sbagliavo».

Che stesse parlando di lei? Che fosse sincero? Che fosse solo l’effetto del veleno ancora in circolo, nonostante le cure?

Quelle domande la assillavano da giorni, e l’ultima cosa che poteva permettersi era proprio lasciarsi distrarre così dal nemico.

            «Abbiamo tutti i nostri demoni», mormorò Gemma sovrappensiero, con lo sguardo fisso nel vuoto.

Seguirono alcuni istanti di silenzio, in cui le sue parole sopravvissero nell’aria un altro po’.  

            «…prego, contessa?», chiese Grunwald, dopo qualche secondo di esitazione per la sorpresa.

In tutta risposta, la giovane donna strattonò con un po’ più di forza le briglie, per indirizzare il suo cavallo.

            «Nessuno è invincibile, capitano Grunwald», precisò Gemma, voltandosi finalmente nella sua direzione. «Chiunque ha almeno un punto debole, e la prima cosa da fare è sfruttarlo».

E suo malgrado, l’uomo fu solo capace di pensare che era tornata quella di sempre.

 

Un respiro profondo, le mani chiuse a pugno, e Gemma riprese il controllo di sé stessa. Riuscì addirittura ad indossare di nuovo la sua maschera di sicurezza ed arroganza, venata di quella malizia che riusciva sempre a conquistare chiunque incrociasse il suo sguardo.

Quando raggiunse il punto d’incontro, Lorenzo de’ Medici e tutti i suoi collaboratori erano già presenti. E tra di loro, anche Leonardo.

            «Magnifico», mormorò la giovane donna, con un sorriso di pura cortesia. «Comandante», aggiunse, il tono della voce invariato.

Ma raggiunto da Vinci, abbassò ulteriormente la voce, e gli riservò uno sguardo ben più penetrante.

            «Artista», disse, in poco più di un sussurro.

E nonostante tutto, il fiorentino avvertì di nuovo quella fitta allo stomaco che solo lei riusciva a provocargli. Una sensazione agrodolce, una tentazione a dir poco irresistibile ma verso cui, purtroppo, non poteva fare altro che resistere.

            «Ingegnere bellico, in verità», si intromise Lorenzo, tentando di indirizzare uno sguardo di quel genere su di lui. E tentando di distrarre tutti dall’espressione sul volto dell’artista, ormai prossimo ad uno svenimento.

Sperava che richiamarlo con un titolo tanto prestigioso fosse sufficiente a risvegliarlo. Per quanto capisse che resistere ad una donna come lei fosse un’ardua impresa, contava sul fatto che la sicurezza di Firenze fosse più importante.

Non ottenendo risposte diverse dal silenzio, però, tentò un approccio meno discreto, come quello di tossicchiare con fare vago per destarlo.

Al terzo tentativo, tuttavia, la pazienza di Lorenzo si esaurì.

            «Da Vinci!», esclamò, e chiunque avrebbe percepito la tacita minaccia. Leonardo compreso che, per l’inaspettato richiamo, sobbalzò; perfino il suo cavallo sbuffò, come se riuscisse a provare quella scocciatura.

            «C’è forse qualche problema, artista?», si intromise la contessa, fingendosi perplessa.

In tutta onestà, però, stava assaporando ogni secondo di quel momento, di quella dimostrazione di quanto potere riuscisse ad avere su di lui.

E, in fondo, era una rassicurazione: quanto successo durante la presunta possessione demoniaca non aveva intaccato quello che Leonardo provava per lei. Non irreparabilmente, almeno.

            «Assolutamente nessuno», borbottò da Vinci, raddrizzandosi in groppa al suo cavallo. Se fosse stato sincero, forse avrebbe ammesso che il problema era la presenza di tutte quelle persone, oltre a loro due, ma rimase solo una sua fantasia. «E per voi, contessa?», chiese poi, per sviare l’attenzione su di lei.

            «Invero, sì», rispose Gemma, senza alcuna traccia di turbamento nella voce.

Di certo Leonardo si sarebbe aspettato tutt’altra risposta, ma ormai stava imparando a non lasciarsi sorprendere così facilmente. La contessa Riario, per lui, era una sorpresa continua: prima imparava a conviverci, meglio sarebbe stato per la sua sanità mentale.

Prima di dargli il tempo di indagare, Gemma accelerò i tempi e proseguì da sola la conversazione.

            «Sono stata incaricata dal Santo Padre in persona di recarmi presso la vostra città per una negoziazione, ma a quanto pare…», e lasciò volutamente qualche secondo di silenzio, colmato solo dalla sua migliore espressione di perplessità. «…gli interlocutori con cui sto intrattenendo questa conversazione non sono particolarmente propensi a discutere un accordo».

Si concesse qualche altro secondo di tempo, un momento per squadrare da capo a piedi i destinatari della sua ultima frase.

            «O per meglio dire… non sono particolarmente attenti», precisò, sollevando le sopracciglia con aria di rimprovero.

E suo malgrado, anche il Magnifico si trovò a condividere quella stessa espressione. Il che fu a dir poco una sorpresa: ritrovarsi d’accordo con uno dei peggiori nemici della città che tanto amava non era di certo cosa da tutti i giorni.

Ma gli bastò scoccare un altro sguardo a Leonardo, e alla sua faccia da cucciolo di cane, per capire che sarebbe stato impossibile biasimare Gemma Riario.  

            «Vi ascoltiamo molto attentamente, contessa», tentò di nuovo Lorenzo, l’orgoglio bruciante che si poteva facilmente percepire in ogni sua parola.

Tuttavia, alla contessa non parvero rassicurazioni sufficienti per proseguire la conversazione.

            «Artista?», lo chiamò di nuovo, con il medesimo tono di molti altri incontri precedenti, e ottenendo in risposta pressoché la medesima reazione.

Se Leonardo avesse potuto scegliere di ignorare il suo buon senso e di rispondere seguendo solo l’istinto, non avrebbe esitato a dirle che stava pendendo dalle sue labbra, ma per fortuna la sua parte razionale ebbe la meglio.

            «Vi ascolto», rispose, sistemandosi meglio a cavallo.

Di certo il leggero sorriso di vittoria che si dipinse sulle labbra di Gemma, all’udire quella risposta, non fu d’aiuto a tenere a bada la sua impulsività.

            «Molto bene», mormoro la giovane donna.

Che quell’ultimo sguardo rivolto a Leonardo, ad un soffio dall’oltrepassare i limiti del consono, fosse volto a sottolineare la sua autorità o volto a concedersi qualche altro secondo di contatto visivo, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei.

            «Onde evitare ulteriori spargimenti di sangue, Sua Eminenza ha stilato una lista di richieste. Primo: Firenze deve formalmente accogliere nel suo grembo Francesco Salviati come arcivescovo di Pisa. Secondo: il banco de’ Medici condonerà i debiti alla Santa Sede. E terzo, solleverete alcuni artigiani dai loro obblighi contrattuali, in modo che possano impiegare i loro doni al servizio di una più grande e gloriosa… nuova cappella».

Avrebbe potuto continuare a parlare per delle ore, e con ogni probabilità nessuno sarebbe stato in grado di distogliere l’attenzione dalle sue parole, dalla sua voce, dal suo volto. Nemmeno le guardie svizzere del suo stesso esercito.

            «E a quali artisti è interessato Sua Santità?», domandò il Magnifico, più per proseguire la trattativa che per vero interesse: conosceva già la risposta.

Tuttavia, la contessa Riario mantenne quella farsa in piedi, e cercò in una tasca del suo cappotto un piccolo foglio di carta accuratamente ripiegato. Lo accarezzò lentamente con le dita fasciate dalla pelle nera, lisciandolo tra le sue mani, e finse di leggere quei nomi per la prima volta.

            «Un certo… Pietro Perugino», cominciò, con noncuranza. «Sandro Botticelli» e il Figurarsi borbottato da Leonardo, come avrebbe fatto un bambino di cinque anni, non fu più di tanto una sorpresa. «Oh!», esclamò poi la giovane donna, fingendosi sorpresa. «E Leonardo da Vinci».

Un estraneo avrebbe anche potuto giudicare innocente il sorriso che la contessa rivolse ai suoi avversari, ma perfino il Magnifico riconobbe facilmente l’inganno.

            «Come trovate l’offerta, artista?», domandò infine Gemma, sollevando le sopracciglia e calcando in particolar modo sul nomignolo.

            «Irrealizzabile, contessa».  

            «Oh», mormorò la giovane donna, tornando seria. «Non è la risposta che volevo», aggiunse, e forse per la prima volta in tutta quella conversazione si poté percepire un velo di minaccia nella sua voce.

            «Tuttavia, temo che sarà l’unica che avrete», proseguì Leonardo.

Se Zoroastro fosse stato presente, avrebbe sicuramente avuto da ridire al riguardo.

            «È un vero peccato», rispose lei, con un leggero sospiro. «Si tratta di un’offerta molto…», ed esitò qualche secondo, come se stesse cercando la parola più adatta. «…allettante».

Attratto dalla scintilla di malizia che stava venando la conversazione, Leonardo abbandonò per un momento il buon senso e lasciò che le successive parole uscissero dalla sua bocca senza filtri.

            «Temo che sarebbe un piacere non condiviso», mormorò, facendo spallucce.

            «Chi può dirlo, artista», rispose la contessa, in un sospiro quasi di dispiacere.

In un quello scambio di provocazioni e ambiguità, nessuno parve notare l’espressione dipinta sul volto del Magnifico, ad un passo dal disgusto. Fu egli stesso a riportare l’attenzione su argomenti più importanti, con un tossicchiare non poi così discreto.

            «E se non dovessimo capitolare?», domandò Lorenzo, ritornando alle minacce mosse poco prima dalla contessa.

Con quale velocità Gemma fosse capace di passare dallo scherzo alla serietà, era parte del suo fascino.

            «Ah… le mie unità occuperebbero Firenze», sentenziò lei, con risolutezza.

            «La mia artiglieria… ridurrebbe i vostri uomini in brandelli», si intromise Leonardo, che parve aver ritrovato la sua tipica arroganza.

            «Le vostre mitiche spingarde ad organo», lo seguì la contessa. «Certo, quelle abbatteranno alcuni dei miei soldati. Ma non tutti», e dal tono con cui aveva pronunciato quelle ultime tre parole, i presenti capirono che stava per arrivare il peggio. «Grazie alla sventatezza di Giuliano so che avete dieci macchine da guerra, e osservandone una ho semplicemente dedotto la ciclicità del rateo di fuoco».

Al solo sentire il nome del Giuliano comparire in quella conversazione, Lorenzo sentì il sangue ribollirgli nelle vene per la rabbia.

            «Diamine, Giuliano…», si lasciò sfuggire, a denti stretti.

            «Oh, non perdete troppo tempo ad odiare vostro fratello», gli rispose la contessa, con una certa noncuranza. «Sarei stata perfettamente in grado di ricavare le medesime informazioni dall’ingegnere», aggiunse, scoccando uno sguardo al diretto interessato.

            «Comincio a pensare che la vostra arroganza riesca addirittura a superare la mia», commentò Leonardo, in un guizzo di spavalderia.

            «Ho avuto prova di quanto siano veritiere le mie affermazioni».

E tanto in fretta quella sfrontatezza era apparsa, altrettanto in fretta scomparve, spazzata via dall’ultima affermazione di Gemma. Quel minuscolo accenno di sorriso sulle labbra dell’artista scomparve, e perfino Lorenzo notò il silenzio che seguì.

            «Da Vinci a corto di parole. Sono sbalordito», borbottò lui, a bassa voce.

            «Mi auguro sia prova delle mie abilità, Magnifico», rispose la giovane donna, abbozzando un piccolo cenno di riverenza con il capo, anche se non c’era traccia dell’umiltà che avrebbe dovuto accompagnare quel gesto.

E Leonardo poteva affermare con grande certezza che quella dimostrata dalla contessa era tutta finzione. Perché lui non era come gli altri, non si fermava alle prime impressioni, alle maschere che lei voleva che gli altri vedessero.

Sulla scia di quella consapevolezza, portò avanti la sua difesa.

            «Permettetemi di obiettare, contessa. Mentre voi studiavate me, io studiavo voi», affermò, con un mezzo sorriso spavaldo. «E ho dedotto molto dalle nostre conversazioni», aggiunse, abbassando appena la voce.

Non fu affatto spiacevole il sapore della soddisfazione che poté assaporare, vedendo finalmente una piccola crepa nella maschera di Gemma.

            «E che cosa avete dedotto, artista?», domandò lei, con un interesse e una curiosità finalmente sinceri.

            «Se ve lo rivelassi, perderei il vantaggio che ho su di voi. E non mi sembra proprio il caso, non ora che vi apprestate a dichiarare guerra a Firenze».

            «Seguitemi a Roma, dunque», propose la contessa, con risolutezza. «Eviteremmo l’attacco alla città e potremmo continuare la nostra… conversazione».

Bastò il modo in cui Gemma sbatté le sue lunghe e folte ciglia per fargli capire che il suo vero intento era colpirlo allo stomaco. E non solo.

            «Seguirvi a Roma? Dove verrei considerato un eretico e messo al rogo? La vostra offerta è sempre meno allettante», ribatté il fiorentino.

Il pensiero di essere bruciato vivo gli sembrò un’ottima distrazione per tornare con i piedi per terra.

            «Il papa avrà pietà di un povero artista confuso», lo rassicurò Gemma, con una nota quasi dolce nel tono della voce. Tuttavia, l’espressione sul suo volto mutò presto in perplessità. «Oh, aspettate…», li fermò, sollevando delicatamente un indice in aria per garantirsi il silenzio dei presenti. «Il vostro è uno dei nomi sulla lista di artisti richiesti da Sua Santità».  

Da Vinci iniziò a capire dove quel discorso sarebbe andato a finire, e fece di tutto per non scoppiare a ridere. Poteva provare a difendersi quanto voleva, eppure Gemma riusciva sempre a rigirare il coltello per puntarlo contro di lui.

            «Non avete alcun motivo di temere l’ira del Santo Padre», concluse la contessa, con semplicità. «Non avete ascoltato le condizioni con cui ho aperto le trattative?», chiese poi, fingendosi dubbiosa. «Qualcosa vi ha distratto?»

            «In effetti…», borbottò Leonardo, tentando di prendere tempo. «…stavo facendo dei calcoli. Per capire con quanti uomini ve ne tornerete a Roma con la coda tra le gambe».

Ma l’unica reazione che ottenne fu una discreta risata.

Gemma sollevò delicatamente la mano destra in aria e schioccò le dita. Alle sue spalle una delle guardie fischiò e, nel giro di pochi secondi, un numero tremendamente alto di soldati uscì dal bosco ed iniziò ad avvicinarsi.

            «Riprendiamo per un momento le informazioni sulle vostre mitiche spingarde ad organo», disse Gemma, congiungendo le mani davanti a sé. «Trentatré canne ciascuna con un’emissione di trecentotrenta scoppietti in totale. Quindi, signori, supponiamo che… i due terzi colpiscano l’obiettivo. Ma cosa succederà mentre i vostri impavidi miliziani stanno ricaricando?», e lasciò volutamente qualche secondo di silenzio, mentre le sue parole alleggiavano nell’aria. «I miei restanti quattrocento usciranno allo scoperto. E sì, useranno i vostri preziosi fiorentini… per il tiro al bersaglio»

            «Affrontate una città cinta da mura. Vi terremo a distanza almeno per sei mesi», si difese il Magnifico.

Ma la sua voce non era così ferma e sicura come egli avrebbe voluto.

Quanto meno lui era riuscito ad aprire bocca e a dire qualcosa, al contrario di Leonardo. Quel ragionamento aveva posto in chiara evidenza i difetti della sua armeria, e la prospettiva di una vittoria su Roma era sempre meno nitida, a mano a mano che immaginava lo scenario appena descritto da Gemma.

Il fallimento stava diventano un’ipotesi sempre più reale, e per Leonardo fu un fendente dritto nello stomaco.

            «È sufficiente una sola persona per aprire le porte dall’interno e voi… voi siete davvero convinto che in tutti questi mesi il richiamo del Santo Padre non verrà ascoltato da una singola anima a Firenze?»

Nel gesto di afferrare le briglie del suo cavallo, la contessa Riario pose fine a quella conversazione.

            «Avete ventiquattr’ore per ponderare l’offerta di Sua Santità. Felice giornata».

 

 

 

Angolo dell’autrice

Buonsalve a tutt* e tanti auguri di buon anno!

Come sono state queste feste? Quante trasgressioni alla dieta contare? Risposta: nessuna, perché tutto è concesso sotto Natale.

Nonostante io trovi la politica terribilmente noiosa, spero di aver aggiunto abbastanza pepe da rendere questo capitolo di trattive (e minacce) più stuzzicante, e condito con gli sforzi di Leonardo per non sbavare spudoratamente proprio di fronte a Gemma, esercito e braccio destro compreso.

E a proposito. Nello scorso capitolo avevo parlato di “piccoli indizi sul passato di Gemma”. Tuttavia, neanche il capitano Grunwald è salvo dalle storyline secondarie. Di nuovo, sbizzarritevi nelle teorie perché sono sempre curiosa.

Che dire, vi saluto e ci rileggiamo tra due settimane!

Un bacione

Amy W. Gildeary

   
 
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