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Autore: Alicat_Barbix    03/01/2019    5 recensioni
Trama:
John, forse il migliore agente a servizio dell'MI6, viene inviato sotto copertura ad indagare in uno dei più eminenti Night Club di Londra, per stanare la mente criminale più pericolosa che il mondo abbia mai conosciuto. A questa missione John è pronto, sa che non può fallire, che nelle sue mani vi è il destino di Londra e non solo. O almeno, crede di essere pronto, ma un bizzarro incontro con uno dei dipendenti del locale ha il potere di ribaltare le carte in tavola.
Sherlock, decisamente il miglior prostituto all'interno del Morningstar, vive felicemente la sua vita densa di sesso, avventure e disinibizione. Sherlock ama il suo lavoro, lo trova divertente e sa di essere il migliore e che niente potrebbe mai cambiare la sua vita da condannato all'Inferno che però tanto adora. O almeno, crede che niente possa cambiare la sua vita "perfetta", ma un bizzarro incontro con un ex medico militare così facile eppure difficile da leggere con le sue deduzioni ha il potere di stravolgere la sua intera esistenza.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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BEYOND 
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
You Broke Your Promise
 
Aprì gli occhi in una stanza bigia, dalle pareti mezze scrostate e la luce smorta. Il suo intero corpo vibrava di un’impaziente brama di movimento, ma era come se i suoi muscoli fossero completamente scollegati dalla volontà del suo sistema nervoso. Una stanchezza piombina lo stringeva come una camicia di forza e anche solo il tenere le palpebre sollevate gli costava una fatica immane. Aveva una mascherina schiacciata sul viso e un senso di malessere allo stomaco, una nausea che gli torceva le viscere come dopo aver ripetuto più volte una montagna russa.
“Ehi.”
La voce fu così dolce e così soave che il suo cuore, prima della sua mente, realizzò a chi appartenesse, accelerando appena il battito. Lo vide tra le lunghe ciglia nere che a fatica riusciva a tenere alzate. Lo vide piegarsi su di lui, sorridergli, una mano al viso, le unghie tra i denti. Avvertì la presenza del suo John ancor prima di realizzarla accanto a sé. Si sentì accarezzare i capelli, scostare qualche ciuffo dalla fronte. Chiuse gli occhi sotto quel tocco e cercò di respirare come meglio poteva, ma un dolore al torace lo fece gemere appena.
“Sssh… Va tutto bene. Va tutto bene, non ti sforzare.”
Ma Sherlock voleva sforzarsi, voleva parlare, voleva sapere. Gli occhi di John erano grandi di affetto e preoccupazione, perciò se stava per morire o cose simili doveva saperlo, era un suo diritto. La sua mano si mosse con pesantezza verso la mascherina che gli immetteva quasi a forza l’aria nei polmoni e la sollevò un poco, quanto era sufficiente per parlare. “Sto morendo?”
A quelle parole, poté percepire il fremito che percorse il corpo dell’altro come se fosse appartenuto a lui. “Hai avuto un arresto respiratorio.” iniziò, dunque, a spiegare John, riponendogli delicatamente la mascherina sul viso. “I tuoi polmoni hanno smesso di funzionare per diversi minuti. Quando sono arrivati i medici sono intervenuti tempestivamente con la respirazione artificiale. Il tuo cuore si è fermato per alcuni secondi.” E a questo punto del discorso, la voce del biondo tremolò appena. “Sei morto per undici secondi… Ti tenevo la mano e ho sentito il tuo polso spegnersi…” Tacque, John, e inspirò profondamente, gli occhi chiusi in un disperato tentativo di ricercare in sé un briciolo di forza che gli permettesse di andare avanti, di proseguire. “Hai un carcinoma polmonare.” sputò infine quello, riaprendo gli occhi e puntandoli su di lui, cosa che apprezzò profondamente: chiunque altro, avrebbe cercato di sfuggire al suo sguardo nel rivelargli una notizia del genere, ma John no…
“E dovrebbe essere una novità?” chiese di rimando Sherlock, scostandosi nuovamente la mascherina.
“Non per te, ovviamente.”
“Nemmeno per te.”
Rimasero a guardarsi in silenzio, col sottofondo dei battiti cardiaci segnalati dalla macchina accanto al lettino. C’erano così tante cose che sarebbero dovute trapelare. Tante, tante cose… Ma non c’erano parole per descrivere cosa entrambi provavano in quel momento.
“Hanno provato ad operarti… Ma il tumore si è esteso a tutto il polmone sinistro ed ora sta progressivamente avanzando verso il destro.”
“Quanto mi rimane?”
“C’è tempo.” rispose John stringendo appena gli occhi. “C’è ancora tanto tempo… Però ti dovrai sottoporre ad una chemioterapia.”
“No.”
“Smettila, adesso!” sbottò, infine, il biondo, calciando la sedia accanto al letto su cui, probabilmente, aveva trascorse le ore fino al suo risveglio. “Non è un cazzo di gioco! Si tratta della tua vita! Mi sono arreso sulla questione delle terapie per l’AIDS ma adesso ti prego di smetterla di fare il coglione, perché io non me ne starò qui buono buono a guardarti morire, è chiaro!?”
Sherlock distolse gli occhi, puntandoli sulla piccola finestra velata da una spessa serranda che conferiva un aspetto tetro e fatiscente alla stanza intera. “Sarebbe inutile.” sussurrò nella mascherina, ma John lo udì lo stesso.
“Niente è inutile, a questo punto. Stai morendo, Sherlock, ti restano al massimo quattro mesi… Ti prego, ti scongiuro… Dammi retta, almeno una volta nella tua folle vita.”
E solo allora Sherlock ricordò le parole del vecchio Sergio, la loro conversazione avuta due settimane prima. Sua moglie era stata egoista nel volersi abbandonare alla morte e allontanare l’uomo che per lei aveva deciso di sacrificare il suo futuro, fatto di rimpianti e rimorsi. E lui si era ripromesso che non si sarebbe comportato allo stesso modo con John. Gli doveva così tanto… Avrebbe lottato, ci avrebbe provato, almeno… per John.
“E va bene.” sentenziò sfilandosi ancora la mascherina. “Però a Londra.”
“Certo. Ho già provveduto ad avvisare l’ospedale del trasferimento. Un elicottero ci porterà al Barts appena le tue condizioni lo permetteranno.”
Sherlock si limitò ad annuire e a chiudere gli occhi. Osservò il buio delle sue palpebre, beandosi della mancanza della fastidiosa luce di quel neon che aveva proprio sopra la testa. Poi, però, un fascio luminoso, come quello di un raggio solare, lo inondò. Avvertiva la mano di John stringere la sua, le sue labbra baciargli dolcemente le dita. Sospirò e rafforzò la stretta.
“Ce la faremo.” gli sussurrava John sulla pelle e lui si trovò a sorridere in quell’aggeggio che puzzava di ossigeno e di chissà che altro. “Ce la faremo, Sherlock.”
No che non ce l’avrebbero fatta. Non si può farcela contro un cancro senza praticamente difese immunitarie. E quindi no, era impossibile. Ma Sherlock annuì, accarezzando col pollice il dorso della mano dell’altro.
“Insieme, John.” mormorò nella mascherina, prima che un quieto silenzio spirasse nella stanza.
 
Trascorse una settimana prima del trasferimento. Sette giorni durante i quali John faceva la staffetta tra gli studi medici e la camera di Sherlock. Non assaporava la luce del sole sulla sua pelle da così tanto… e aveva bisogno di una doccia. Aveva decisamente bisogno di una doccia. Percepiva il sudore impregnargli i vestiti e un acre odore prendergli alla gola ogni volta che compiva movimenti ampi. Attorno ai suoi occhi, cerchi violacei che gli conferivano un aspetto quasi spettrale. Mangiava le barrette kinder che prendeva alle macchinette del piano e dormiva a malapena quattro ore ogni notte, svegliandosi per ogni singolo sussulto dell’altro. John aveva smesso di vivere e le sue uniche funzioni si riducevano all’accarezzare e a stringere la mano di quell’uomo che giaceva debole ed emaciato sullo scomodo lettino ospedaliero.
Verso metà Giugno, un elicottero ospedaliero accolse lui e il compagno nel suo ventre metallico e li ricondusse a casa, nella frenetica Londra. La osservò dal ristretto finestrino, la mano allacciata a quella di Sherlock, mentre la sovrastavano in volo.
“Londra?” domandò il moro, forse intuendo il paesaggio che stava ammirando da un suo piccolo fremito, da un aumento del battito cardiaco o da chissà quale altra possibile tecnica di deduzione.
“Sì, ci siamo proprio sopra.”
“Vuoi essere i miei occhi, John?”
E John sorrise, prima di baciargli dolcemente le labbra e iniziare a descrivergli i palazzoni che s’innalzavano come monumenti divini verso il cielo, indicandogli il London Eye e il vicino Big Ben, con il Tower Bridge e Westminster. Il sole di mezzogiorno era alto nel cielo e un caldo afoso li investì mentre venivano caricati giù dall’elicottero.
I giorni che seguirono furono come sospesi. Sherlock era stato chiaro: non aveva intenzione di ricevere alcuna visita o di avvertire nessuno circa la loro presenza lì, ma si era arreso al fatto che Mycroft sapesse e che facesse, dunque, la ronda intorno all’ospedale, come un cane che sorveglia la dimora. Le sedute di chemio erano lunghe, interminabili… John sedeva compostamente accanto alla grande poltrona su cui il corpo di Sherlock sprofondava in quelle ore, il giornale in braccio a leggergli tutti i casi correnti di Scotland Yard.
Al quinto giorno, John, su esortazione di Sherlock, era tornato a casa per riposare alcune ore, cambiarsi d’abito e prendere alcune cose che sarebbero state utili ad entrambi.
“Cos’è quella roba?” chiese il moro indicandogli con un cenno del capo il rasoio elettrico che sfilò dalla borsone che s’era portato da casa.
“Vedo che stai cominciando a rincitrullirti.”
“Non sono rincitrullito, John, so perfettamente cos’è, ma perché l’hai preso?”
“Per farti la barba, geniaccio.” rispose con una scrollata di spalle. “Stai diventando davvero difficile da baciare.”
Sherlock mantenne lo sguardo fisso sul rasoio nero, studiandolo quasi con sospetto. “Passamelo anche sui capelli.”
“Cosa?”
“I capelli. Non voglio vedermi diventare calvo per quello schifo di terapia.”
E così fecero. Quel pomeriggio stesso, John passò con cura la lama del rasoio tra i riccioli morbidi dell’altro, accarezzandoli prima di reciderli come fiori rari che si devono tagliare perché avvelenati. Sherlock teneva gli occhi chiusi, ostentava calma, ma il movimento angosciato del pomo d’Adamo tradiva un’inquietudine profonda. Una volta terminato il lavoro, John si chinò di fronte alla sedia dove aveva fatto sedere il moro e sfregò via i ciuffi corvini rimastigli addosso. Gli occhi di Sherlock si allacciarono ai suoi e un dolce sorriso si formò sulle labbra di quest’ultimo, mentre gli soffiava addosso, ridacchiando teneramente.
John si chinò a raccogliere qualche ricciolo e se li rigirò in mano osservandoli con nostalgia, poi, arricciando le labbra, ne sistemò uno più lungo sul labbro superiore, a mo’ di baffi e Sherlock rise debolmente.
“Come sto con i baffi?”
“Ti invecchiano.”
“Ma sta’ zitto.” rise allora, schiaffeggiandogli lievemente la gamba, prima di immergere nuovamente la mano e tirarla fuori stretta ad una bustina colorata. La aprì e ne estrasse cinque animaletti – un cavallo, una tigre, un leone, una gazzella e un fenicottero.
“Cosa diavolo sarebbero?”
“Animaletti, non vedi? Li ho comprati allo shop al piano terra. Carini, vero? Ah, aspetta.” Di nuovo, prese a frugare nel borsone e stavolta ne emerse con una pallina rosso accecante, bucata da un lato. Se l’assicurò sul naso, poco sopra i baffi che fissò con un pezzo di scotch e, accarezzando il capo ormai calvo dell’altro, vi sistemò in bilico gli animali. “Ho anche la macchina fotografica.” aggiunse tirandola fuori, ridacchiando lievemente alla visione di uno Sherlock corrucciato con in testa degli animali per bambini. “Fammi un’espressione felice.”
E a quel punto, il viso del moro si contorse in una smorfia sciocca, tirando fuori la lingua e restringendo un occhio.
“Un’altra! Adesso di profilo.”
“Ti stai prendendo gioco di me, Watson?” chiese Sherlock con ironia, nonostante la voce stanca.
“Lo faccio solo perché sei bellissimo.”
Non vi era alcuna menzogna in quelle parole. John era davvero affascinato da quella fragile visione che aveva davanti. Il tenue sorriso di Sherlock, i suoi occhi dolcemente socchiusi a causa del fastidio per la luce, e sì, anche gli animaletti che portava in testa. Per accentuare quelle parole, si chinò e gli posò un delicato bacio a fior di labbra, prima di passargli la macchina fotografica per farsi ritrarre a sua volta, ma le braccia di Sherlock erano talmente deboli da faticare persino a sollevare l’apparecchio.
“Okay, okay, come non detto…”
Vi fu una lieve bussata alla porta, nonostante l’avessero lasciata aperta, e sulla soglia comparve la longilinea figura di Mycroft, le labbra strette in quello che sembrava un sorriso malamente represso. John si affrettò a togliersi i baffi e il naso da clown, suscitando l’ilarità di Sherlock che, da parte sua, non sembrava essere minimamente interessato a togliersi gli animaletti dal capo.
“Mycroft.”
“John. Fratellino.” esordì l’uomo esitando, un ombrello nero accanto a lui. “Vedo che le cose vanno… bene.”
“Direi di sì.” rispose lui, lanciando un’occhiata al compagno, seduto dietro di lui, che ridacchiava ancora silenziosamente. “Ehm… Ti inviterei ad accomodarti ma come puoi vedere non abbiamo troppi posti-”
“Ho buone notizie.” lo interruppe il maggiore degli Holmes, guardando più il fratello che l’ex agente. “Ho incrociato il medico giusto mentre venivo qua e mi ha comunicato che le condizioni di Sherlock stanno migliorando. Sembra che sia possibile operarlo fra poco più di una settimana, il tempo di studiare le reazioni del suo organismo alla terapia. Visto tale miglioramento, potrà essere dimesso anche da domani, con l’impegno di tornare due volte a settimana per frequentare le sedute di chemio.”
Sul viso di John esplose una felicità talmente grande da poter risultare finta. Avvertiva come una paralisi facciale – le labbra aperte nel sorriso più grande che aveva mai fatto, gli occhi spalancati sprizzanti gioia, le fossette sulle guance –. Si volse verso Sherlock, una risata cristallina gli fuoriuscì dalle labbra prima di chinarsi su di lui e baciarlo ripetutamente a stampo, mentre quello chiudeva gli occhi e, a sua volta, scoppiava a ridere.
“Domani… Domai, Sherlock, ti porto via. Domani. Domani.” farfugliava sconnessamente percorrendogli tutto il viso con baci fugaci, le mani ad accarezzargli il collo.
“Ho firmato già io tutte le carte.” li informò, ancora, Mycroft, assistendo a quella scena da un angolino della camera. “Che ne dici, John, di andare a Baker Street e avvisare Mrs Hudson dell’imminente ritorno di mio fratello?”
“Io veramente…”
Ma un tocco delicato alla mano lo fece voltare nuovamente verso il compagno che gli sorrideva beato. “Vai.” sussurrò accompagnando alle parole un cenno del capo. “Resterà Mycroft. Torna direttamente domani.”
John sospirò, per niente a suo agio con l’idea di doverlo lasciare di nuovo per più di una mezzora. “Va bene, andrò al 221B. Ma stasera sarò di ritorno in tempo per darti la cena.”
“Che non mangerò.”
Alzò gli occhi al cielo e, passandogli una mano dietro il collo, poggiò la sua fronte contro quella dell’altro. “Il solito bambino.”
Prese il borsone, riempendolo di tutto quello che aveva appena tirato fuori, fatta eccezione per gli animaletti, che Sherlock sembrava apprezzare. Infine, salutò frettolosamente Mycroft e posò un bacio infinitamente lungo e caldo sulle labbra del compagno.
“Aspettami.”
“Sempre.”
E se ne andò.
 
“Perché questa farsa?” chiese flebilmente abbandonandosi contro lo schienale della sedia su cui era accomodato.
“Lo sai perché.”
“C’ho già provato in passato e non ha funzionato.”
“Forse non hai provato abbastanza. Ti rendi conto di quello che combinerai se questa cosa continuerà?”
Un conato di tosse gli troncò la risposta sul nascere e un dolore lancinante al petto lo scosse interamente. La debolezza di quella diavolo di terapia lo stringeva con le sue dita lattiginose, invadendolo dal profondo. “Non se ne andrebbe neanche se glielo chiedessi. E continuerà a farlo anche quando sarò morto.”
“Tutte le vite finiscono, tutti i cuori sono spezzati.” replicò Mycroft tendendogli entrambe le braccia in modo che vi si appoggiasse per rimettersi a letto, ma Sherlock si aiutò con lo schienale della sedia, rischiando di finire per terra se le mani del fratello non l’avessero afferrato in tempo e depositato sul materasso. “E’ sbagliato, Sherlock, e lo sai. Ti sei lasciato coinvolgere nonostante sapessi delle tue condizioni.”
“Era già troppo tardi.” Un dolore al costato gli mozzò il fiato e avvertì il respiro farsi più affaticato, così tese la mano verso la mascherina d’ossigeno e se l’assicurò al viso, prendendo profonde boccate d’aria che inondassero i suoi polmoni malati. Lo amavo già, pensò mentre chiudeva gli occhi. Lo amava già. Lo aveva sempre amato. E si sentiva un cretino per non averlo capito subito e per aver permesso che quell’amore crescesse ogni giorno di più.
“Andrai a casa con una bombola d’ossigeno. Ho pagato caro per farti tornare a Baker Street e vivere in pace finché potrai. Il mio consiglio è che, però, tu tenga da parte John. Soffrireste troppo entrambi.”
Ma a Sherlock non importava. La sua decisione l’aveva già presa da tempo. Quando John aveva accettato di accompagnarlo in quel cammino impervio o forse quando aveva parlato col vecchio Sergio. In ogni caso, aveva deciso. Spostò gli occhi verso la finestra e osservò il cielo di piombo della sua amata Londra. Avrebbe dovuto dire addio a così tante cose…
“Sherlock.” lo ridestò la voce di Mycroft. “So di non essere stato il fratello che avresti meritato… Ma sappi che ti amo profondamente e che farei di tutto per te. Di tutto.”
E lui lo sapeva. Era sempre stato a conoscenza dell’amore di Mycroft e nonostante questo lo aveva sempre attaccato per quegli stupidi strascichi di conflitti che avevano caratterizzato la loro prima infanzia e, in seguito, l’adolescenza.
“Mamma e papà?” chiese con voce roca da sotto la mascherina.
“Non sanno niente.”
“Meglio così. Non voglio che mi vedano… così.”
Vide suo fratello annuire e fissare lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe. Che cosa turbava l’imperturbabile Mycroft? Attese. E infine le parole dell’altro lo raggiunsero: “Non ti dimenticherò mai, fratellino.”
“Non sono ancora morto, Myc.”
Mycroft ridacchiò amaramente e quello che Sherlock scorse nei suoi occhi furono lacrime. Perle luccicanti. Trattenute ma pur sempre presenti. “Meglio dirsi tutto finché ne abbiamo il tempo, no? Per altro credo che questi prossimi giorni sarai piuttosto impegnato a viverli con la persona che ami, o sbaglio?”
Scosse la testa, un sorriso mesto sulle labbra. “John…” masticò osservando le macchie di umidità sul soffitto. “… ti prenderai cura di lui?”
“Naturalmente.”
“E lui si prenderà cura di te.”
“Non ho bisogno che qualcuno mi faccia da balia.”
“Sì, invece.”
Mycroft osservò il fratello chiudere gli occhi e sospirare stancamente. Probabilmente, quello che vi vide non fu altro che un’ombra, il fantasma di un vivo. Sherlock era consapevole del suo aspetto debilitato, del suo pallore, delle crosticine di sangue che gli punteggiavano qua e là il capo. Il fratello si avvicinò e, con le dita, giocherellò con gli animaletti assicurati alla sua nuca con dei pezzetti di scotch. “Che idioti.” sussurrò quello, celando un sorrisetto. “Ora riposa.”
“Che ne è… di Moriarty?”
“E’ morto.” rispose subitamente il maggiore. “Sarcoma di Kaposi. Tre settimane dopo essere stato rinchiuso. Prima di morire ci ha fornito qualche stralcio di informazione sui suoi agganci internazionali. Ha fatto anche il tuo nome.”
Sherlock annuì. Ovviamente Moriarty aveva fatto il suo nome. Lui era stato l’ossessione di quell’uomo per anni. Non si meravigliò del fatto che avesse chiesto di lui, quanto del fatto che fosse morto. Finora l’aveva sempre visto come un essere immortale, come il demone di quel dipinto dietro a cui erano occultate le prove incriminanti. Moriarty era morto. Percepì una curiosa tristezza farsi strada in lui: Moriarty era stato un capitolo importante della sua vita, per quanto negativo, ma non era felice della sua morte, no… Al contrario, sapere che anche lui fosse stato sconfitto azzerava quelle ultime, flebili speranze a cui il suo subconscio si era aggrappato strenuamente.
“Sherlock?”
Guardò il fratello la cui mano, ora, era scivolata a prendere la sua, stringendogliela con forza. Gli sembrò addirittura di scorgere una lacrima al lato dell’occhio destro.
“Ti voglio bene.”
“Lo so. L’ho sempre saputo.”
 
Fu difficile risalire tutti e diciassette i gradini che li separavano dall’appartamento. Mrs Hudson li aiutava come poteva, Mycroft li guardava dalla porta d’ingresso, appoggiato al suo ombrello nero, con occhi tristi. Quando anche l’ultimo scalino fu superato, John si lasciò andare a un sospiro di sollievo, mentre gli scoccò un’occhiata orgogliosa. La dimissione era andata per le lunghe ed era ormai il crepuscolo. Mrs Hudson aveva riordinato tutto con maestria e rapidità, rendendo l’appartamentino confortevole e familiare. Mycroft si decise a salire solo per salutare il fratello e assicurarsi che tutto fosse apposto, mentre Mrs Hudson oppose più resistenza nel lasciarli soli.
Quando la porta si fu richiusa alle spalle della donna, un confortante silenzio invase quelle quattro pareti. Sherlock, le dita strette attorno alla maniglia del carrelletto su cui era adagiata la bombola d’ossigeno, si guardò intorno serenamente, riscoprendo la bellezza di quella casa che aveva a malapena fatto in tempo ad abitare. Si chiese come sarebbe stata un vita condotta lì dentro, magari al fianco di John, con due anelli agli anulari.
Mentre osservava il suo meraviglioso violino riposto con cura nella custodia sul basso tavolino al centro del salotto, pensò che non avrebbe avuto più la forza di suonarlo e un accenno di tristezza bussò alla porta della sua coscienza. Quasi come se avesse intuito il suo stato, John gli circondò le spalle da dietro, strofinandosi contro di lui con amore, facendolo sospirare. Si volse piano, muovendosi con difficoltà con quell’aggeggio da cui dipendeva la sua vita. I suoi occhi incontrarono quelli preoccupati dell’altro. Rimasero fermi così per un po’, finché lui non si sporse, sfiorando delicatamente le labbra del biondo, assaporando il ricordo di quel sapore tanto amato. Poi un secondo bacio leggero, un terzo casto, le braccia di John si abbassarono sulla sua schiena e lo spinsero contro di sé, stringendolo in un abbraccio struggente. Chiuse gli occhi e sospirò mentre il compagno gli baciava la pelle lasciata scoperta sulla spalla dal cotone della maglietta. Percepì le gambe sul punto di cedere, così gli chiese di accompagnarlo a letto.
Si sedette su una sponda e rimase a fissare gli occhi dolci di John che era rimasto immobile di fronte a lui, vicinissimo. Mosse lo sguardo su tutto il volto dell’altro, leggendovi un misto incomprensibile di emozioni. Una volta, quegli occhi lo guardavano con passione e desiderio. E ora? Ora lui era un ammasso di ossicini e pelle cadaverica. Un corpo morto che camminava. Come poteva, John, desiderarlo in quelle condizioni? Per la prima volta, si chiese cosa ne sarebbe stato dell’uomo che amava una volta che lui fosse morto. Avrebbe trovato un’altra persona? L’avrebbe amata come non aveva potuto amare lui? L’avrebbe desiderata tanto quanto aveva desiderato lui? Ci avrebbe fatto l’amore? Si sarebbero sposati e avrebbero formato una famiglia?
Sherlock sarebbe stato solo un frammento nella testa di John. Un ricordo doloroso soffocato in un meandro della sua mente. L’avrebbe dimenticato, John. Avrebbe fatto di tutto per dimenticarlo. Era egoista se pensava che non voleva essere dimenticato? Perché se John l’avesse dimenticato, che cosa sarebbe rimasto di Sherlock Holmes, nel mondo? Nient’altro che la fama per le arti amatorie, il suo soprannome leggendario, la sua relazione con Moriarty… Chi avrebbe pensato a lui a parte Mycroft e, forse, Victor? Victor che l’avrebbe odiato per essere stato tenuto all’oscuro di tutto.
Fu in un istante di disperata incertezza che Sherlock sollevò il tessuto nero della maglietta di John, scoprendogli il ventre, per depositarvi un bacio casto, senza pretese. Poi, mentre le sue mani s’insinuavano sotto la stoffa, accarezzando la pelle abbronzata dal sole italiano, rialzò lo sguardo sull’altro, le labbra schiuse che tremavano nel formulare la fatidica domanda: “Mi scoperesti così? Ora?”
John non sembrò colpito dal quesito. Lo osservò senza battere ciglio per diversi secondi, ma il suo sguardo, lentamente, prese a sciogliersi, rivelando qualcosa di paragonabile alla passione… nonostante di passione non si trattasse completamente. Sherlock ne aveva visto di desiderio nella sua vita al Morningstar… ma mai aveva scorto una cosa del genere. S’interrogò sull’origine di quell’emozione che scavava con sofferenza nel volto dell’altro.
“Io ti scoperei sempre, Sherlock. Sempre.” John si piegò su di lui e lo baciò con estrema lentezza, accarezzandogli le labbra con la lingua. Sherlock aprì con un sospiro la bocca, permettendogli di entrare e possederlo. Si sfilarono la maglietta senza la frenetica e divorante fretta che coglie regolarmente due amanti. John continuò a baciarlo con passionale interesse, dedicando a ogni centimetro della sua pelle d’attenzione, mentre lui esalava tremanti respiri di piacere e paura. Si distesero sul letto, uno sopra l’altro, il biondo che lo osservava con pietoso affetto impigliatosi nel filo della bombola d’ossigeno. Lo aiutò a liberarsi, prima di riprendere a baciarlo con calma, riservandogli amorevoli carezze.
“In un’altra vita… potremo stare insieme.” biasciò all’improvviso Sherlock, inclinando la testa per assecondare i baci sul collo dell’altro. “In un’altra vita… potremo fare l’amore.”
“Non vedo l’ora.” mormorò John in un sorriso prima di distendersi al suo fianco e avvicinarlo a sé, stringendolo contro il proprio petto. “Sherlock?”
“Mm?”
“Non morire.”
Ma a quelle parole, Sherlock non trovò mai il coraggio di rispondere.
 
Percorse il corridoio di corsa, guardandosi intorno con gli occhi folli di paura. La stanza a destra? Vuota. Quella a sinistra? Due vecchiette. La seconda a sinistra? Una ragazza. La terza a destra? Visita medica in corso. Arrivò in fondo, alla fine del reparto, e, finalmente, lo vide: era disteso sul letto d’ospedale, la mascherina a velargli la bocca e la mano di Mrs Hudson a stringere la sua.
“Vi ho trovati.” sospirò di sollievo irrompendo nella cameretta e sorridendo nello scorgere gli occhi di Sherlock illuminarsi un poco alla sua vista. Si chinò istintivamente per baciarlo, ma dovette ovviamente rivalutare i suoi intenti a causa della mascherina. “Scusa, non posso baciarti. Hai quella cosa sulla bocca.”
Sherlock rise debolmente. Mrs Hudson gli aveva raccontato tutto per telefono: stavano cucinando insieme i biscotti al cioccolato, i preferiti di John, prima che Sherlock crollasse al suolo senza emettere il minimo lamento. Nuovo arresto respiratorio. John stava facendo la spesa in quel momento e aveva ricevuto la chiamata solo dopo che Sherlock era stato portato in ospedale. Il traffico aveva fatto il resto. Non c’era stato bisogno di operarlo, si sarebbe rivelato inutile a detta del primario che l’aveva visitato e così si era limitato a somministrargli un antidolorifico per i dolori toracici.
John cercò di velare il proprio nervosismo e la propria preoccupazione, ma Sherlock dovette rendersene conto, perché allungò la mano libera da quella della signora Hudson per stringere la sua. Si sorrisero dolcemente.
“Beh, John, visto che sei arrivato credo che… che me ne andrò a casa a prendergli qualche pigiama pulito per i prossimi giorni.” esordì Mrs Hudson levandosi in piedi e asciugandosi due lacrime che le rigavano le guance. “Vi lascio soli per… Insomma… Io vado.”
Era così straziante scorgere quella vecchietta tanto gentile e cara soffrire in quel modo per un uomo che di certo vedeva un po’ come un figlio. Mrs Hudson lasciò la stanza, ma una volta in corridoio, il suo singhiozzo fu udibile anche a loro.
Sherlock si sfilò la mascherina, nonostante le sue proteste, e chiese di mettergli quella nasale. “Pensano tutti che sia già morto.” sussurrò il moro chiudendo gli occhi. “Anche Mycroft.”
“Lasciali col loro dolore. E’ qualcosa che non si può controllare.”
“E tu, allora?”
A quella domanda, John non rispose non tanto perché timoroso di quello che sarebbe potuto uscire dalle sue labbra, quanto perché non aveva la minima idea di cosa dire. Lui controllava il dolore? Probabilmente aveva semplicemente imparato a conviverci. Lo sentiva ogni secondo lì, a grattargli sullo sterno, a sibilargli nelle orecchie, a lacerargli il cuore. Il dolore c’era e regnava incontrollato, ma John si era arreso al dolore. Si era arreso alla consapevolezza che prima o poi Sherlock sarebbe morto. Si era arreso come Sherlock gli aveva detto di fare quel giorno, in Italia… Aveva accettato tutto quello, si era rassegnato. Ecco come andava avanti.
“John.” La voce affaticata di Sherlock lo distolsero dai suoi pensieri. “Buon compleanno.”
Un sorriso spontaneo gli si affacciò alle labbra. “Come facevi a saperlo?”
“Io so sempre tutto.”
In quel momento, comprese tante cose – i suoi biscotti preferiti, il sorriso che Sherlock gli aveva riservato appena sveglio, il pacchetto rosso fiammante sul comodino bianco accanto al lettino… Gli occhi spenti dell’altro, infatti, corsero alla piccola confezione in un muto invito a prenderla.
Allungò la mano e prese la busta con cura, rigirandosela in mano e scoccando occhiate curiose in direzione dell’altro. Le parole erano come ghiacciate poco sotto l’epiglottide e si ostinavano a rimanere lì, immobili ed inesprimibili. Scartò il regalo con lentezza, senza degnarlo neanche di uno sguardo. Tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi erano gli occhi acquamarina di Sherlock, così distanti, così irraggiungibili.
Quando anche l’ultimo frammento di carta rossa fu scivolato sul pavimento, osservò ciò che stringeva in mano. Era una sottospecie di quadernino rilegato… Anzi no, non un quadernino, decisamente non un quadernino.
“Un album?”
“Aprilo.” sospirò il moro quasi afono.
La prima pagina rivelava l’immagine di una camera d’albergo. La loro camera d’albergo, quella a Manarola, e sul letto che era stato inquadrato era distesa una figura. Era lui che dormiva. Nemmeno s’era reso conto che Sherlock gliel’avesse scattata. Continuò a scorrere gli occhi sulle pagine e sulle fotografie con un’insolita sensazione al petto: in quasi tutte, c’era lui, impegnato in un’attività banale come buttare un biglietto del cinema nel bidone della spazzatura, ordinare da bere al bar dell’hotel, guardare fuori dalla finestra… Sfogliò l’album con lentezza snervante, ripercorrendo ogni singolo istante. Grazie al suo lavoro d’agente, disponeva di una memoria allenata, che gli permetteva di ricordare anche i dettagli più piccoli. Per ogni immagine, ricordava che cosa stesse facendo Sherlock prima di mettere mano a quella macchina fotografica, dove sedeva, con chi parlava, cosa aveva appena detto… Tutto era limpido nella sua memoria. E più andava avanti, più voltare le pagine gli risultava difficile, come se un macigno gli stesse opprimendo la mano. Infine, nell’ultima pagina, non vi era una fotografia, bensì un disegno. Lo studiò con interesse, percorrendo con gli occhi quelle linee precise ed estremamente chiare. Un disegno perfetto.
“Ci credi se ti dico che Mrs Hudson ha tutte le potenzialità per diventare famosa come Van Gogh o Picasso?”
“L’ha fatto lei?”
“Gliel’ho descritta io, ma la mano artistica l’ha messa lei. Il mio era davvero inguardabile.” Ridacchiò, Sherlock, ma un colpo di tosse lo scosse, procurandogli un’espressione sofferente che solo a guardarla procurò in John una scarica di dolore. “E’…” riprese il moro quando la crisi fu passata. “… è l’ultima fotografia che sono riuscito a scattare. L’avevo in mano quando ho perso i sensi sulla spiaggia e… beh, inutile dire che è andata perduta. Ad ogni modo, quella lì è Rosie… quello, ovviamente, sei tu… e quello è Artù.”
Il biondo contemplò il disegno a lungo e si ripeté quelle parole in testa, percependo un dolore sordo all’altezza del petto. L’ultima fotografia di Sherlock. Chissà dove viaggiava, ora… Su quale corrente marina, su quale alito di vento, nelle tasche di quale sconosciuto, nel ventre metallico di quale camion dei rifiuti? L’ultimo capolavoro di Sherlock, perduto.
“Beh… Hai anche lasciato una pagina vuota. Potrei metterci le foto che ti ho fatto io.”
“Ti ricorderebbero troppo di me.”
John strabuzzò gli occhi, confuso. “Perché non dovrei?”
“Vuoi davvero ricordarmi, John?”
Si aprì in un sorriso e distolse lo sguardo, appoggiando l’album di nuovo sul comodino. Cercò le parole adatte, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore. “La prima sera in cui ci siamo conosciuti indossavi una camicia porpora e quando mi hai portato in camera tua, la stanza era in condizioni improponibili. Quando ti ho visto davvero quella notte, tenevi in mano il reggiseno dal colore improponibile di una tua cliente che chiamavi semplicemente la donna in rosa. Sempre quella sera hai dedotto il mio passato militare semplicemente guardandomi, hai cercato di avvicinarmi prendendomi la pistola per giocare a detective e criminale con chissà quale modalità erotica e mi hai invitato a venire a letto con te paragonando la spiacevole serata di Cenerentola con quella che avrei potuto avere io assieme a te. E, ancora, quella medesima sera prima di lasciarci mi hai sbattuto contro il muro, facendomi eccitare non poco, e mi hai detto di chiedere di te la prossima volta che mi sarei presentato al locale.”
Sherlock aveva gli occhi appena ingranditi dallo stupore. “Come fai a ricordare così tanti dettagli?”
Sorrise. “Io ricordo tutto di noi, Sherlock. Ogni singolo istante, ogni brivido, ogni emozione… Non voglio dimenticarti, Sherlock, perché un’esistenza senza di te sarebbe vuota. Ti porterò sempre con me, ovunque andrò…”
Si avvicinò a lui e gli baciò la mano, stringendo gli occhi fattisi brucianti di dolore. Non piangeva da quella notte in hotel… E ora sentiva ogni sua difesa essere sul punto di crollare. Osservò lo sguardo vacuo di Sherlock mentre gli accarezzava il dorso della mano, alternando alle carezze piccoli baci.
“Sherlock-”
“Stavolta, prima che mi rianimassero, prima che tornassi in questo mondo… per un attimo ho semplicemente sentito di non essere più qui. Ed era così facile… mi sentivo così libero e leggero, John.” John si sforzò di sorridere, ma i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime nel guardare il viso pallido dell’altro e udire la sua voce affaticata e flebile, proveniente da un altro regno, un’altra epoca. “Ti va bene sentire queste cose?”
Annuì automaticamente, deglutendo un singhiozzo che minacciava di esplodergli in gola al più presto. Attese che quel senso di desolazione e di lontananza volasse via, come una cappa di polvere che viene portata via da un soffio, ma il sorriso distante che increspava le labbra di Sherlock lo fece scoppiare.
“No.” rispose alla fine in un singulto. “No, non sono ancora pronto a lasciarti andare.”
“Ma noi ci siamo già detti addio. Vero?” mormorò di rimando Sherlock alzando con immane sforzo una mano per asciugare le lacrime che bagnavano il suo volto e lui non si scansò, lasciò che quelle dita afferrassero il dolore e lo facessero scivolare via, lontano. Chiuse gli occhi e, per un attimo, gli parve di star bene, di aver riacquistato il controllo e la calma.
Si alzò dalla sedia e si sistemò sul lettino accanto a lui, prendendogli il viso tra le mani e accostando le loro fronti. “Non te ne andrai da nessuna parte senza me al tuo fianco. Questo è l’accordo.”
Sherlock annuì debolmente, prima di far scivolare la propria fronte contro la sua, lasciando che le loro labbra si incontrassero per quella che avrebbe potuto essere la loro ultima volta.
 
La chiesa era avvolta dalla penombra, a malapena rischiarata dalle candele che malati o cari di malati avevano acceso per ricevere una grazia. Non era mai stato un tipo religioso. Non aveva mai creduto in Dio. Era stato battezzato e aveva fatto la prima comunione come tutti i bambini, ma la fede… quella non l’aveva mai avuta. Rispettava e, da un lato, ammirava la forza di quella gente, la loro strenua ricerca del bene.
Sedeva su una panca discosta dalle altre – non che facesse molta differenza visto che la cappellina era vuota – di fronte ad un crocefisso. Osservò il volto del Cristo sofferente, osservò le sue ferite, osservò i suoi rivoli di sangue, osservò la corona di spine che gli fasciava il capo. Sovrappose a quel viso quello di Sherlock. Del suo Sherlock. Sulla sua pelle portava le cicatrici di così tante sofferenze, di così tante ingiustizie… Dov’era Dio? Se lo chiedevano in tanti, quando scoppiava una guerra, quando morivano bambini innocenti, quando il mondo era devastato dall’odio e dalla miseria… E se lo chiese pure lui, lì, davanti alla croce. Dov’era Dio?
Congiunse le mani come ricordava che le catechiste gli avevano detto di fare per pregare e chiuse gli occhi nel ricercare una maggiore concentrazione, una possibile connessione con un’entità ultraterrena, ma proprio mentre stava per parlare, scoppio a ridere, sprezzante di se stesso. Si era perfino ridotto a cercare sollievo in Dio. Il prossimo passo sarebbe stata la droga, probabilmente. Quella, almeno, era certo che avrebbe funzionato.
Fece per alzarsi e tornare in camera, dove aveva lasciato i due fratelli Holmes parlare, ma qualcosa lo costrinse a rimanere fermo, le mani premute contro la panca, il sedere scivolato verso il bordo, l’immobilità a coglierlo sul gesto di levarsi in piedi… Si riaccomodò, muovendo agitatamente le gambe e i pollici delle mani in un’infinita battaglia che non avrebbe mai visto un vincitore e uno sconfitto.
“Dunque…” disse prima di schiarirsi la gola con della tosse finta. “… Non è esattamente il genere di cose che faccio io, però…”
Non riusciva a parlare. I suoi occhi non trovavano pace su di un punto fisso, così si decise ad ancorarli al volto del Cristo.
“Io lo so cosa vuol dire soffrire. Ho letto i Vangeli, sai? E so perfettamente le poche persone che sono rimaste ai piedi della croce a sostenerti nel tuo lungo viaggio…” Un tremore alla voce lo colse impreparato. “Avevi poche persone… E anche lui ne ha poche… Lui ha me e pochi altri. Lui ha sofferto tanto… così tanto… Lui non merita di morire, capisci? E allora perché me lo vuoi portare via, eh? Perché si prostituiva? Perché peccava? Non eri tu quello che diceva chi è senza peccato scagli la prima pietra? E allora perché Sherlock? Perché lui fra tanti?”
Era l’ennesima volta che si poneva quella domanda, ma udirla pronunciata con la propria rabbia e delusione segnò un confine netto con la sua coscienza. Perché Sherlock fra tanti, ma perché chiunque altro fra tanti? Sempre la solita storia, sempre il solito circolo vizioso. E allora qual era il punto nell’essere lì? In cuor suo lo sapeva. E fu con questa consapevolezza che si spinse a continuare.
“Io sto male… Malissimo. Io sto cercando di convincermi che andrà tutto bene, che alla fine arriverà in un posto migliore, ma non ci riesco! Io sarò qui mentre lui è chissà dove, magari mi starà cercando, chiamando, ma io non ci sarò. E non posso tollerare questa idea… Non voglio lasciarlo solo… Perciò te lo affido. Lo proteggeresti per me? Lo terresti al sicuro?”
E forse erano folli le sue parole. Forse stava semplicemente impazzendo per il dolore. Percepì un’ondata di angoscia impregnargli il cuore e l’anima. Dove lo stavano portando i sentimenti? Stava delirando di fronte a un crocifisso, con lacrime invisibili che gli scorrevano sulle guance e la consapevolezza che presto sarebbe tutto finito. Da un lato, il sollievo. Ed era meschino provare sollievo in vista della morte di Sherlock? Forse. Aveva visto la persona più importante per lui sgretolarsi pezzo… dopo pezzo… E si era sgretolato con essa. Aveva visto gli occhi vivaci di Sherlock spegnersi, il suo incarnato candido assumere toni cadaverici, i suoi capelli corvini, spumosi e soffici, crollare sul pavimento, dove sarebbero stati spazzati da un’inserviente qualunque e buttati nella pattumiera.
“Un miracolo, Dio.” implorò chinando il capo, la testa che sembrava voler entrare nel suo petto per mordere quel cuore sanguinante e sputarlo su quel pavimento sacro, dove un prete febbricitante nella sua fede cieca si sarebbe chinato per raccogliere quell’ammasso informe che un tempo aveva battuto con dolorosa nitidezza, facendone, magari, la reliquia di un santo che invece di preghiere in vita aveva pronunciato velate bestemmie. “Un ultimo miracolo.”
Si fermò, incerto. Tentennò, la sua mente debilitata dalla mancanza di sonno e dallo sgomento elaborò diversi pensieri. Non portarmelo via… Prendi me… Dagli una seconda possibilità… Dammi la forza per superare tutto questo… Accoglilo con te… Custodiscilo finché non sarà giunto il mio turno…
“Un ultimo miracolo.” ripeté in un sospiro. “Dammi la forza di amarlo ora e per sempre.”
Seguì solo il silenzio le sue parole. L’odore delle pareti marmoree olezzava intorno a lui, assieme al baluginio polveroso della luce che filtrava dalle vetrate variopinte. Si diede dello stupido, si disse che aveva solo sprecato il suo tempo, maledisse chiunque vi fosse, se vi era, per averli privati di quella felicità che entrambi ambivano col cuore e con l’anima. Si alzò e, quasi più per sfida, si avvicinò a quelle candele che erano state accese in preghiera e che il sibilo freddo dell’aria all’aprirsi e chiudersi delle porte della chiesa aveva spento. Ne prese una nuova e la sistemò assieme alle altre, la scatola dei fiammiferi in mano. Il cerino era umido e dovette fare diversi tentativi prima che s’accendesse. Ora, una timida fiammella danzava sullo stoppino nero, ipnotizzando il suo sguardo. Forse, dentro di sé mormorò un ultimo ti prego, ma improvvisamente una folata di vento invase l’ambiente e la sua debole speranza si spense assieme a quella candela.
“John.” La voce di Mike Stanford, il medico che si occupava di Sherlock, nonché suo caro amico, inondò la chiesa, riempiendo il silenzio lasciato dall’assenza di quel debolissimo crepitio, appena percettibile. “Mi hanno detto che eri qui. Devi venire subito.”
Gli rivolse un’occhiata stanca e posata, fingendo una calma che in realtà non aveva. “E’ ora?”
Il dottore si limitò ad annuire. John, allora, lanciò uno sfuggente sguardo alla sua candela spenta, quella più discosta dalle altre, quella che avrebbe riconosciuto anche tra un milione di candele uguali perché sulla cera portava il suo cuore liquefatto, che era scivolato via al cospetto della fiamma del dolore. Infine, seguì Mike fuori dall’ambiente. Non seppe cosa o perché indugiò sulla soglia, fermandosi, né perché si volse un’ultima volta, gli occhi puntati sulle candele. Erano tutte spente. Ad eccezione di una. Quella solitaria che se ne stava in disparte a bruciare, la fiamma forte e spavalda. Quella che s’era smorzata poco prima. Se vi fu stupore sul suo viso, John non l’avrebbe mai saputo. Era troppo perso a guardare il volto del Cristo e ad accennare un affaticato sorriso di ringraziamento. Ora ne era certo. Ora era pronto. Perché Sherlock non sarebbe stato solo.
 
Entrò. Già dal corridoio, aveva udito i respiri affannosi dell’altro. Lo guardò steso sul solito lettino, circondato dai soliti oggetti, piegato dalla solita malattia. Ma nonostante questo, era tutto nuovo. Quella camera portava con sé l’odore della morte. Non quello putrido degli obitori, no… Quello della mancanza, dell’abbandono, della separazione.
Sherlock aveva aperto gli occhi non appena aveva varcato la soglia. Erano pietruzze, quelle belle iridi un tempo luminose, accese da una vita che ora gli stava sfuggendo di mano. “John.” E vi fu fatica e sangue nel modo in cui pronunciò il suo nome, John lo riconobbe. Era una voce proveniente già da un altro posto, un posto nuovo, uno in cui Sherlock non avrebbe più sofferto, in cui si sarebbe sentito libero e leggero, com’era accaduto prima che lo rianimassero.
“Ehi, splendore.” gli sussurrò teneramente, avvicinandoglisi. L’altro tradì un sorrisetto a metà tra il compiaciuto e l’ironico, ma la debolezza gli impedì di ribattere a quelle parole così vere che lui aveva pronunciato con così tanta spontaneità.
Fece per sedersi sulla sedia, ma la mano di Sherlock prese la sua e lo tirò fiaccamente verso il lettino. “No… Stenditi accanto a me.”
E lui obbedì. Si sdraiò nello stretto spazio lasciato dal corpo ormai pesante dell’altro, sollevandogli appena la nuca per farglici passare sotto il braccio e racchiuderlo in una dolce stretta. Il loro ultimo abbraccio. Il loro ultimo giorno. Con la mano libera, prese ad accarezzargli la fronte corrugata dallo sforzo di catturare aria da incanalare nei suoi polmoni destinati al macello. Rimasero in silenzio per un po’, finché Sherlock non sospirò un poco.
“Non voglio avere segreti.” sentenziò a fatica. “Perciò… Eccone uno: sono gay. Andare a letto con le donne… mi ha sempre disgustato. Non sono… decisamente il mio campo.”
“Se le donne non sono il tuo campo, allora io direi che invece per me lo sono eccome.”
“Credo che tu debba seriamente consultare un oculista, John... se pensi di aver avuto una relazione con una donna.”
“Una donna di nome Sherlock?”
“Potresti chiamarci una tua futura figlia.”
“Non avrò una figlia o un figlio… Non avrò nessuno.”
Sherlock arricciò appena le labbra, le palpebre chiuse suoi occhi stanchi. “Il tuo segreto, dunque?”
“Le donne sono il mio campo, ma lo sono decisamente anche gli uomini.” confessò con un mezzo risolino.
“Da piccolo il buio mi faceva così tanta paura… che facevo spesso la pipì a letto.”
“Quando avevo sette anni ho tagliato un’intera ciocca di capelli a mia sorella mentre dormiva. Aveva rotto il mio giocattolo preferito.”
“Ho sempre avuto un debole per le torte. Tutto il resto è semplicemente sussistenza… Ma le torte sono la mia passione.”
“All’esame scritto di chimica ho preso trenta e lode copiando dal primo della classe.”
“Ho fatto esplodere un laboratorio durante un esperimento, al college.”
“Il mio primo bacio l’ho dato al mio insegnante di Biologia all’università.”
“Io e Victor siamo stati insieme per tre settimane quando avevamo sedici anni.”
“Sono pronto.”
Sherlock inarcò un sopracciglio a quelle parole e, finalmente, riaprì gli occhi puntandoli sul suo viso, così vicino. “Pronto?”
“A lasciarti andare.”
Un debole sorriso illuminò il volto pallido del moro, conferendogli quasi l’aspetto di una volta – solo un fantasma, però, di ciò ch’era stato. “Che cos’è cambiato?”
Gli sorrise e gli baciò dolcemente la punta del naso, sbuffando un respiro tremante. “Ora so che non finirà mai quello che abbiamo.”
“Oltre la morte?”
“Oltre tutto, Sherlock. Vinceremo sempre perché siamo destinati a vincere sempre. Insieme. Ti seguirei in capo al mondo, ti troverei fra tutte i miliardi di individui che popolano questo pianeta. La morte è solo l’ennesima porta da varcare.” La voce gli tremolò appena, scossa dall’importanza di tutto quello. “Vorrei solo aver avuto più tempo… Solo un po’ più di tempo…”
“John.” La voce di Sherlock gli giunse cristallina nella sua cupezza. La trovò bellissima. La trovò disarmante. Quante volte l’aveva colto in fallo quella voce… “Andrai avanti.” Scosse la testa, ma la mano dell’altro raggiunse la sua, ancora intenta ad accarezzare quella fronte ormai quasi sgombera di ogni preoccupazione terrena. “Sì, invece. Andrai avanti con la tua vita e troverai qualcuno che ti amerà, qualcuno che ti saprà stare accanto come io non ho potuto fare. Vivrai ricordandomi, ma avrai qualcun altro da raggiungere una volta varcata la soglia.”
“Non posso andare avanti, non potrò mai.”
“Ci riuscirai.”
“No, Sherlock, io… Io non posso. Ci sei tu. Ci sei sempre stato solo tu. E non cambierà ora soltanto perché saremo costretti a lasciarci.”
“Verrà qualcun altro, John. Qualcuno che ti renderà felice.”
“Non posso essere felice con qualcuno che non sia tu.”
“Perché?”
“Perché io…” Non si rese conto di una lacrima che era scivolata giù sulla sua guancia. Avvertì solo, in seguito, una striscia umida, sulla pelle, la cicatrice di quell’ultima lacrima che si sarebbe permesso di versare di fronte a Sherlock. “Sherlock, io…” Non riusciva a buttare fuori quelle parole, a schiudere quella stanza ormai già spalancata per metà. La porta che conduceva al suo cuore era aperta, gli occhi di Sherlock avevano potuto infilarsi a esaminare qua e là l’ambiente, ma vi era ancora il catenaccio a serrarla. Doveva trovare la forza di aprire quel lucchetto. E pensò alla sua candela, lì, accesa tra tante altre, a quel silenzio tombale, a quel vuoto, e capì che non gli era rimasto molto. Aveva indugiato troppo a lungo. Aveva frenato ogni suo istinto, ogni suo sentimento, ogni sua paura… E aveva sprecato tempo. Così tanto tempo… Il tempo di cui avrebbe avuto bisogno era volato a sua insaputa mentre lui tentennava e procrastinava il momento della verità. Basta, si disse. La candela bruciava ancora. La preghiera aleggiava fra le spoglie pareti dell’Universo: permettimi di amarlo, ora e per sempre. E amalo anche tu, ora e per sempre. E, finalmente, lo avrebbe fatto. “Perché io ti amo, Sherlock.”
Sherlock rimase a guardarlo, le labbra schiuse in un’espressione sorpresa. Come poteva non averlo capito? Come poteva non aver intuito i suoi sentimenti? E se lui era uno sciocco, Sherlock era di certo un ottuso. Che razza di coppia avevano formato!?
Sospirò, e di nuovo il tremore fu incontrollabile. Il sospiro di un amore le cui ali erano state tarpate ancor prima di poter saggiare il primo volo. Un volo che avrebbe potuto condurli lontano, lontano… sulla cresta di onde spumose e brezze primaverili. Avrebbero, insieme, oltrepassato le Colonne d’Ercole con tutti i confini che l’umanità passata e presente aveva posto… Si sarebbero tenuti per mano e avrebbero osservato dall’alto quel mondo efferato, scoperchiando gentilmente i tetti e contemplando le stranezze che accadevano, le coincidenze bizzarre, i piani elaborati, il meraviglioso concatenarsi degli eventi nell’arco delle generazioni e i risultati quanto mai eccentrici che ne derivavano… * Dov’era quel volo a loro precluso? Sarebbe morto con Sherlock? O le sue ali gli avrebbero concesso di innalzarsi verso il cielo e, chiudendo gli occhi, percepire la presenza del suo amato accanto a sé?
“Oh, John… Te l’avevo detto di non innamorarti di me. Non sei quello che si dice un uomo di paro-
Le parole del moro vennero troncate da un attacco di tosse e mentre quel corpicino sussultava, sussultò anche quello di John. John che avvertì tutto il proprio amore dilagare, inondare i campi, distruggendo i raccolti. La forza di quel sentimento colse impreparato persino lui. Si sollevò di scatto, timoroso di pesare sull’altro, ma quello fu lesto nel riacciuffare la sua mano e ritirarlo accanto a sé, stavolta più vicino, rannicchiato contro il suo petto, la crisi terminata. Allora, John prese a baciargli dolcemente la nuca rasata, chiudendo gli occhi e immaginando di posare le labbra tra i ricci morbidi di un tempo.
“Amore… Amore mio… Mio amore…”
Parole appena sussurrate, a malapena, forse, udite, ma percepiva il corpo del moro rabbrividire ad ogni piccolissimo tocco. Era questo l’amore? Un continuo brivido che ti percorre la schiena quando meno te l’aspetti, nonostante il calore, la sicurezza, la pace, la serenità? Era più simile ad un brivido di freddo o a quello di paura? Cos’era, l’amore? Ma la risposta, giaceva tra le sua braccia, accoccolata contro di lui come un bambino impaurito.
“John?”
“Sì, amore?” rispose con voce caricata di dolcezza, perché ora poteva. Ora poteva permettersi di lasciar fluire quell’amore. Non gli importava di quella morte così incombente: quello che c’era fra loro sarebbe rimasto intonso, per sempre e per sempre ancora.
“Mi racconteresti… la nostra altra vita? Quella in cui potremo stare insieme e… e fare l’amore ed essere felici?”
Di fronte a quella fragile richiesta, sentì il proprio cuore sciogliersi e affogare nell’emozione. La loro altra vita… Quella che Sherlock aveva menzionato la notte in cui lui si era finalmente sfogato, in cui era scoppiato in lacrime, in cui tutto era stato sovvertito… La loro altra vita. Quella giusta. Quella a loro favorevole. Quella eterna. “Abitiamo a Baker Street.” cominciò, dunque, accarezzandogli la guancia. “E siamo felici. Molto felici. Facciamo l’amore almeno quattro volte al giorno, spesso svegliando Mrs Hudson.” A quelle parole, Sherlock ridacchiò pacatamente, strusciando il proprio viso contro il suo petto. “Tu aiuti Scotland Yard quando brancola nel buio, ovvero sempre, e riesci sempre a trovare la verità. Sei bello e intelligente e il mondo ti adora. Io ti seguo nei casi e ti copro le spalle, mi assicuro che tu non finisca ammazzato o che abbia abbastanza energie per correre da una parte all’altra di Londra. Quando la tua fama cresce, apriamo in contemporanea due blog – uno mio, in cui tengo un breve resoconto appena romanzato dei tuoi casi più belli e uno tuo, dove annoti alcuni dei tuoi studi strampalati di cui il mondo sentiva un gran bisogno…”
Sherlock tirò fuori la lingua, in una smorfia infantile, ma infine indirizzò lo sguardo sul soffitto, apparentemente perso tra i suoi pensieri. “Scienza della Deduzione.”
“Cosa?”
“Il mio blog. Si chiamerà Scienza della Deduzione.”
“Infatti tutti i clienti che arrivano, hanno visitato il mio blog anziché il tuo dal nome ridicolo.” ironizzò, guadagnandosi un’occhiata infastidita dall’altro. “Siamo felici – l’ho già detto? E… beh, ci amiamo, così decidiamo di sposarci. E’ una cerimonia intima, per poche persone fidate, bellissima e… indimenticabile. Il giorno dopo ci svegliamo prestissimo e partiamo per la nostra luna di miele.”
“In Italia.” puntualizzò il moro scoccandogli uno sguardo allusivo.
“In Italia mi sembra perfetto. Tra l’altro, hai sempre con te quella dannata macchina fotografica con cui mi tormenti ogni due minuti dicendo che ti annoi.”
“Facciamo sesso?”
“Tanto.” ridacchiò. “Davvero tanto, amore mio, ed è bellissimo… Gli anni passano e nella nostra vita entra qualcuno di importante, di molto importante.”
“Un cane?”
“Tu hai sempre voluto un cane ma Mrs Hudson si è sempre rifiutata di vederne girare uno per casa.”
“Un gatto, allora?”
“Direi di no…”
“E allora chi, John?”
“Un bambino.”
Gli occhi di Sherlock si spalancarono appena e lo fissarono con incredulità per diversi attimi. “Un bambino? Ma io… io non lo so fare il padre.”
“E invece sei il papà migliore del mondo. Siamo andati in un orfanotrofio, giù in Sussex, e abbiamo conosciuto un bambino splendido, di cui tu ti sei immediatamente innamorato. Viene dall’Africa ed è già grande, ha dieci anni e nessuno si è dimostrato interessato ad adottarlo. E’ emarginato, da un lato forse anche debole. E tu te ne innamori pazzamente. Ci vogliono due anni per concludere l’adozione. Due lunghi anni in cui il piccoletto non ha fatto altro che guardarti con occhi pieni di speranza e di amore. Sei stato tu il primo ad essere chiamato papà.”
“Qual è il suo nome?”
“Samir.”
Sherlock pronunciò quel nome un paio di volte, quasi a volerne saggiare il sapore, infine il barlume di un sorriso gl’increspò le labbra. “Mi piace.”
Sorrise di rimando, sollevato. “E’ nostro figlio, Sherlock. Ormai è il nostro bambino, nonostante non sia così bambino… Lo cresciamo con quanto amore possiamo, ma l’adolescenza arriva anche per lui ed è traumatizzante: si trova a dover fare i conti con le sue origini, il suo futuro incerto, la scuola, la pubertà… E’ spaurito, il nostro Samir. Con me si è ormai chiuso quasi del tutto, mentre a te non rivolge che poche sprezzanti parole. A diciotto anni, nel giorno della festa del papà, ci fa trovare il tavolino della colazione imbastito di dolci e un biglietto: vi voglio bene. Non lo rivediamo più. Ha preso le sue cose e se n’è andato. Scotland Yard c’informa che ha preso l’aereo più economico da Stansted fino a Tunisi. E’ ritornato nel suo Paese d’origine. Dopo quattro anni, riceviamo una sua lettera: si è sposato e ha tre figlie meravigliose che un giorno ci farà conoscere, ma quel giorno non arriva mai. Continuiamo ad amarlo attraverso quel pezzo di carta con la sua calligrafia confusa e i suoi errori d’ortografia. Continuiamo ad amarci per il resto della nostra vita, litigando, riappacificandoci, facendo l’amore per poi litigare di nuovo. E’ un amore umano, il nostro. Non ha niente a che vedere con film o libri o altre stronzate. E’ un amore faticoso, più volte pensiamo di mollare tutto. A sessant’anni, però, siamo ancora insieme, in un cottage a Littlewick Green, e ci amiamo ancora. Abbiamo dovuto abbandonare Baker Street perché le mie gambe non reggono più e… cedono. Sono debole, Sherlock. E sto per morire.”
“Io non ti lascerei mai morire.”
“Certe cose non si possono controllare.” ribatté sapendo troppo bene quanto fosse vero ciò che le sue labbra avevano appena proferito. “Comunque, una mattina decidiamo semplicemente di inviare a Samir una busta con tutte le nostre foto preferite, quelle dell’Italia e anche quelle più recenti. Vai tu ad imbucarla nella cassetta delle lettere vicino casa. Poi torni e apri il gas, come per fare un caffè. Ti stendi vicino a me e io ti abbraccio come ti sto abbracciando ora. Ce ne andiamo insieme, felici, con la nostra vita alle spalle.”
Tacque e studiò la reazione nel volto di Sherlock. Era stato così naturale raccontare quella storia. Se l’era figurata, prima d’allora, in testa? Il suo subconscio, di certo, aveva accarezzato certe prospettive più e più volte. Sherlock si strinse ancora di più tra le sue braccia e così riprese a sfiorargli la pelle con le labbra. Un attacco di tosse scosse il corpo dell’altro la cui mano andò a ghermire il fazzoletto di stoffa pulito e a portarselo alla bocca. Dopo breve, del bianco non vi fu che qualche macchia tra il rosso del sangue.
“Sherlock-” La sua voce gli giunse angosciata, densa di dolore represso con difficoltà.
“John… Promettimi che continuerai a vivere anche per me…” sussurrò il moro con tono talmente basso da risultare quasi afono e appena vide una scintilla d’incertezza nei suoi occhi, strinse la propria mano sulla sua. “Promettimelo.”
“Te lo prometto.”
Sherlock sospirò, soddisfatto, e si raggomitolò ancora di più contro di lui, un sorriso beato sulle labbra. “John?”
“Mm?”
“Chi l’ha chiesto?”
“Che cosa, amore?”
“Di sposarci. Chi ha fatto la proposta?”
John si scansò appena, per poterlo guardare in volto. “Tu, ovviamente. Io credevo… che tu non volessi impegnarti così seriamente, per questo non ho mai trovato il coraggio per farlo… E quando ti sei inginocchiato, con l’anello, mi sono sentito morire di felicità.”
“Mi sono inginocchiato? Sul serio?”
“Sì… Plateale in questa vita e anche nell’altra.”
Sherlock sbuffò una mezza risata, prima di tossicchiare appena. Alzò lo sguardo su di lui e i loro sguardi s’incatenarono irreparabilmente. “Te l’ho chiesto io…” ripeté il moro prima di accostare le proprie labbra alle sue, scoccandovi un delicatissimo bacio.
“Sì.”
“E tu hai accettato.”
“Sì.”
“Avresti accettato anche in questa vita – nonostante tutto?”
“I miei sì non sarebbero bastati per equiparare la gioia nel sentirti dire quelle parole…”
Sherlock si concesse, dunque, un nuovo sorriso e gli depositò un nuovo bacio a fior di labbra. “Amore mio…” sospirò poi sul suo viso, gli occhi chiusi, il naso a sfiorare il suo. “Devo chiederti… una cosa.”
“Qualunque cosa, Sherlock.”
“Bene, allora… John Watson, saresti disposto a giurarmi amore e fedeltà eterni, ad accogliere l’infinito amore che provo per te e a donarmi il tuo così prezioso per me ogni giorno della tua vita?”
Spalancò le labbra e rimase immobile a fissarlo con gli occhi sgranati. “Sherlock-”
“Rispondimi, John.”
“Io… Sì, certo che sì.”
Sherlock annuì un paio di volte, prima di inspirare nuovamente. “E saresti disposto ad accogliermi nella tua vita, ad amarmi, a prendermi come tuo sposo… finché morte non ci separi?”
Gli occhi di John si riempirono di lacrime e un groppo indistricabile gli occluse la gola. “Sì.” singhiozzò ancora mentre quelle banali gocce d’acqua, che in esse racchiudevano la loro intera storia, rotolavano giù dai suoi occhi.
“John Watson… Mi vuoi sposare?”
“Sì… sì, sì, sì, sì…” prese a farfugliare accompagnando le parole con piccoli baci su tutto il viso. Rafforzò la stretta e percepì la propria morte imminente. Con Sherlock, era inevitabile, sarebbe morta anche una parte di lui. Una grande parte. Lo voleva sposare lì, su quel lettino d’ospedale ed essere agli occhi di tutti il vedovo Holmes. E invece, la gente l’avrebbe guardato e non avrebbe visto altro che un uomo in frantumi, spezzettato in troppi frammenti per essere ricomposto. Sherlock era il suo cuore e la sua anima, il suo amore. E l’avrebbe sposato anche subito, se solo un prete fosse sbucato da un’altra stanza, di ritorno da una confessione o dalla sacra unzione degli infermi, e avesse percorso quel corridoio, passando per caso di fronte a loro.
“Temo che per l’anello dovrai arrangiarti e… anche per il matrimonio.”
“Ti amo, Sherlock.” lo zittì lui, baciandolo veramente per la prima volta dopo giorni interi di piccoli sfioramenti di labbra. Percepì il caldo della bocca dell’altro, quei giochetti esperti con la lingua, quel calore che s’irradia dappertutto per il corpo, mescolandosi al sangue e percorrendo le vene, le arterie, per poi tornare nuovamente al cuore.
In quel bacio, in quel sigillo di labbra e cuori, Sherlock sorrise sinceramente, nonostante la morte, nonostante il dolore, nonostante quell’altra vita che non avrebbe mai potuto vivere. “Ti amo, John.”
 
Si addormentò fra le sue braccia e John ascoltò i suoi respiri pesanti a causa del catarro e delle difficoltà del sistema polmonare. Si addormentò fra le sue braccia e non si svegliò più. Non udì l’elettrocardiogramma impuntarsi ossessivamente su quella nota tenuta che decretava il suo eterno silenzio. Non scorse il triste sorriso di John mentre continuava ad accarezzarlo, nonostante quelle premure fossero ormai inutili, nonostante il suo corpo non fosse divenuto altro che un involucro vuoto. Non trascorse un’ora intera stretto al corpo quieto dell’uomo che amava e che ora era solo in compagnia della morte. Non sentì il calore di quelle labbra sulle sue, di quel muto addio. Non lo vide alzarsi, rivolgergli un’ultima carezza, un ultimo sguardo e prendere la porta. E non notò neppure il suo cenno d’assenso alla domanda del dottor Stanford – se n’è andato? –. Ciò a cui fu in grado di assistere, da chissà che luogo sperduto nell’Universo, fu al pianto di un ometto rannicchiato su una sedia azzurra della sala d’aspetto del reparto, le gambe raccolte contro il petto e il viso affondato nelle mani. Ciò che udì, furono i singhiozzi di quel medesimo ometto che, solo, soffriva e piangeva una scomparsa.
Sherlock Holmes lasciò il mondo dei vivi per entrare in quello dei morti, ma al dolore del suo amore, del suo John non riuscì a non piangere a sua volta. Se fosse stato anima anziché corpo, non lo sapeva. Sapeva solo che quel giorno le lacrime sue e di John si mescolarono, creando un veleno letale che tintinnava sulle piastrelle della sala d’aspetto di oncologia. Nemmeno Dio, a contatto con quel veleno, sarebbe sopravvissuto. Chiuse gli occhi e fu come diventare parte di ogni infinitesimale fibra del Creato.

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SPAZIO AUTRICI
Ehilà, bellissimi e bellessime (bisogna che vi tiriamo un po' su il morale dopo questo capitolo)... Abbiamo detto tanto in questo capitolo che ormai non sappiamo che dire ora. Insomma, siamo un po' bastarde, eh... Ma tanto. Forse ci saranno alcuni che avranno finito questo capitolo con un fazzoletto - da un lato ci speriamo perché vorrebbe dire che siamo stati brave -, ma fatevi forza! Vi vogliamo bene, davvero, e ci dispiace di avervi distrutto in questo modo, ma doveva essere fatto... Il prossimo capitolo sarà l'ultimo, che pubblicheremo Domenica.

Niente, guys, su col morale <3. Tanti gattini, arcobaleni e zucchero filato a tutti voi!
*kiss*
Alicat_Barbix
   
 
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