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Autore: Bethan__    04/01/2019    1 recensioni
Il gran finale era stato qualcosa di già visto, già sentito, una di quelle conclusioni scontate per la frequenza con cui si verificano ma allo stesso tempo talmente impensabili e disgustose che mai avrebbe pensato sarebbe toccata anche a lei una cosa tanto inconcepibile.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gli unici due aggettivi che riusciva ad associare a Londra nel mese di dicembre erano “gelida” e “insopportabile”. Trovava oltremodo irritante il fatto che una città tanto bella si trasformasse, di punto in bianco, in un gigantesco ma sempre troppo stretto contenitore atto a ospitare un’accozzaglia frenetica e chiassosa di persone sempre impegnate, sempre in ritardo, sempre di corsa e in cerca di qualcosa; una fastidiosa marmaglia resa ancora più ingombrante da cappotti di lana e sciarpe dalle fantasie irregolari. Qualcuno, quando scese dalla metropolitana, le pestò un piede. Per tutta risposta e senza pensarci troppo, sferrò una gomitata non troppo leggera senza nemmeno provare ad accertarsi di aver centrato il colpevole, finendo quindi con il fare imprecare un probabilmente innocente ma alquanto maleducato signore sulla sessantina, che la apostrofò con epiteti assai sconvenienti.

Emma si ritrovò nell’ormai familiare aria fredda e pungente della sera, a ogni respiro le si formava una nuvoletta di vapore davanti alla bocca. Southward era uno dei quartieri più antichi e vivaci della città, durante quel periodo dell’anno era costantemente pieno di turisti che accorrevano per raggiungere altre attrazioni o godersi il borgo illuminato da addobbi, decorazioni e alberi di Natale deliziosamente disposti sui marciapiedi o nelle vetrine; persino quelli che facevano capolino da qualche finestra dalle tende scostate erano motivo di interesse e, se gli spettatori avevano meno di dieci anni, meraviglia.
Il Borough Market era straripante di persone come al solito, Emma avrebbe voluto fare capolino nel negozio di spezie per salutare Saeed e ringraziarlo per quell’eccezionale tè al maraschino che aveva tanto insistito per venderle qualche giorno prima, ma la calca, che, a giudicare dalle molteplici urla e piagnucolii provenienti dall’ingresso contava anche un considerevole numero di bambini chiaramente indispettiti, la convinse a desistere.
Il suo appartamento si trovava in una strada relativamente silenziosa e tranquilla, sebbene poco illuminata. L’esterno si componeva di una facciata assolutamente ordinaria: mattoni tipicamente scuri, finestre bianche dalle tende spesse e una porta laccata di nero che neanche la ghirlanda appesa in seguito all’invadente insistenza del suo migliore amico riusciva a far sembrare meno lugubre. L’interno era ben caldo e quando accese il minuscolo albero di Natale che aveva sistemato accanto al televisore si sentì subito meglio, tanto che tirò un sospiro di sollievo. Le vacanze erano finalmente iniziate. Per due intere settimane niente ufficio, niente riunioni, niente e-mail da controllare, niente nauseanti chiacchiere di circostanza. L’indomani sarebbe stata la vigilia di Natale e l’avrebbe passata con suo padre, come sempre da tredici anni a quella parte. Avrebbero cucinato tutto il giorno per poi godersi la cena alla stessa tavola ben apparecchiata di sempre, poi si sarebbero accomodati sul divano e avrebbero mangiato il tradizionale pudding di frutta e porridge con la luce spenta, per godersi al meglio la visione di La vita è meravigliosa, il classico preferito di suo padre.
Prima che potesse alzarsi dal divano su cui si era lasciata sprofondare come per un riflesso incondizionato e dirigersi in cucina per andare a caccia di qualcosa di commestibile per la cena, squillò il telefono. Non riuscì a impedirsi un lieve fremito, nonché un’improvvisa, quasi meccanica tachicardia. Si concesse di ascoltare quattro squilli prima di sollevare la cornetta, solo per godersi quei pochi secondi di speranzosa incertezza. Lo faceva sempre.
“Pronto?”.
“Sei proprio una gran stronza, lo sai, vero?”.
Lasciò andare il respiro che aveva trattenuto senza neanche accorgersene e si lasciò anche sfuggire un piccolo sorriso, metà sollevato e metà amareggiato.
“Non che te ne importi qualcosa ma stai diventando ripetitivo e, per diretta conseguenza, monotono da fare schifo”, rispose poggiando la testa all’indietro, sullo schienale del divano. Distrattamente, si accorse che sul soffitto c’era una macchiolina verde scuro. James, che solitamente era sempre in vena di battute sarcastiche e saltuariamente taglienti, non sembrava particolarmente divertito.
“Come ti è venuto in mente di defilarti anche da questa festa aziendale? Adesso dovrò aspettare una settimana non solo per darti il mio regalo ma anche e soprattutto per ricevere il mio!”, tuonò dall’altro lato della cornetta, facendole sollevare nuovamente lo sguardo su quella macchia verde.
“Puoi passare da mio padre domani, resta pure a cena se ti va”.
“Domani parto per Monaco, è già la quinta volta che te lo ricordo!”.
Emma sospirò. Improvvisamente si sentì tremendamente in colpa: sapeva essere davvero una pessima amica, ne era perfettamente consapevole, eppure il quel periodo le mancavano le energie per sforzarsi di interessarsi agli altri. Anche solo per interessarsi a se stessa. Lui, che interpretò quel silenzio nel modo giusto come riusciva sempre a fare, addolcì il suo tono di voce.
“Non importa, Ems. L’attesa aumenta il desiderio e quando aprirò il mio regalo mi sembrerà ancora più bello, il che sarà parecchio conveniente visto quello che mi hai rifilato l’anno scorso”.
“Ehi, era un porta biscotti e tu odi tenerli nelle confezioni”.
“Era un porta biscotti a forma di gallina, Ems”.
“Ancora non capisco dove sia il problema”.
Risero entrambi, poi ci fu un breve silenzio. Lei chiuse gli occhi, in attesa dell’inevitabile domanda, ormai sempre meno frequente ma non per questo totalmente assente. Mai totalmente assente.
“Lo hai sentito?”.
No, certo che no, ovviamente no.
Erano passati esattamente due mesi dall’ultima volta che si erano visti, solo tre settimane dall’ultimo contatto che avevano avuto. Emma si schiarì la voce.
“No”, fu la sua risposta secca, arida, come erano diventate le sue giornate.
“Meglio così. Se osa rifarsi vivo prendo un aereo solo per spaccargli la faccia”.
“Fa’ buon viaggio, James. Ti prometto che quest’anno il regalo ti piacerà”.
Lui annuì, arreso e consapevole del fatto che non potesse vederlo.
“Ci vediamo presto, Ems. Sta’ attenta”.

Quella sera la cena fu composta da una pizza al formaggio ordinata all’ultimo minuto e mangiata davanti a un vecchio film di cui le fu impossibile ricordare il titolo. Naturalmente si trattava di una di quelle storie in cui il grande amore trionfa, splendendo nell’inquadratura finale in tutta la sua vittoriosa gloria. Con un’espressione scettica e confortata dalla ben più familiare e realistica pubblicità di spazzolini che aveva tempestivamente interrotto i titoli di coda, mise via il cartone della pizza. Era il momento della giornata che meno sopportava, la sera, quando era completamente sola e non c’era nessuno a tenerle impegnati i pensieri. Era perciò il momento della giornata in cui era impossibile ignorare la cruda realtà, la disarmante e patetica realtà che comprendeva una ventottenne perdutamente, ridicolmente innamorata di un uomo di quindici anni più grande, con il quale aveva condiviso tutta se stessa per nove interi mesi. Era stato un fulmine a ciel sereno, uno di quelli dalle sembianze di un affascinante e carismatico americano che si intendeva di vini, musica e poesie. Un uomo che sapeva ascoltare e che sapeva farsi ascoltare, una persona speciale, sensibile, quasi sicuramente la persona che qualsiasi ragazza ordinaria e desiderosa di costruirsi una famiglia avrebbe voluto sposare. L’intero scenario si era da subito prospettato incantevole ed effettivamente surreale abbastanza da innescare una minuscola voce nel suo cervello, una voce che per nove mesi non l’aveva mai abbandonata ma che aveva imparato a mettere a tacere. Alla fine la voce era tornata e, trionfante, l’aveva tormentata ogni minuto di ogni giorno con la stessa identica espressione: “Te l’avevo detto”.
Il gran finale era stato qualcosa di già visto, già sentito, una di quelle conclusioni scontate per la frequenza con cui si verificano ma allo stesso tempo talmente impensabili e disgustose che mai avrebbe pensato sarebbe toccata anche a lei una cosa tanto inconcepibile. In quei nove mesi, le aveva spiegato tante cose. Da lui aveva imparato la differenza tra un Bordeaux e un Borgogna, nonché il fatto che per distinguere due vini l’importante fosse sempre considerare le varietà di uva e terroir. Aveva imparato perché Fitzgerald fosse stilisticamente superiore a Hemingway, l’attenzione con cui bisognava ascoltare Sinatra, in modo da cogliere le numerose sfumature della sua voce. Si erano detti così tante cose, avevano parlato di una vastità di argomenti tale che le riusciva ancora impossibile capacitarsi del fatto che non le avesse mai detto di loro. Delle sue tre figlie. Della sua seconda moglie. Era però stato convenientemente rapido nel farlo prima di salire sul treno che lo avrebbe portato a Edimburgo, dove si erano trasferiti un anno prima a causa del suo lavoro. Era stato così naturale, nel dirglielo. Come se fosse ovvio. Come se non capirlo fosse stato sintomo di un’eccezionale stupidità. E lei ci si sentì, infatti, eccezionalmente stupida. Soprattutto per la sua disgustosa accondiscendenza, per come le aveva sorriso e aveva scrollato le spalle con noncuranza, assicurandole che niente sarebbe dovuto cambiare. Dopo la rivelazione, non le disse mai più di amarla.

Si alzò dal divano e si affacciò alla finestra con l’idea di aprirla per prendere un po’ d’aria ma non potè risparmiarsi un’espressione di stupore quando si accorse che stava nevicando. La prima neve dell’anno. Gli alberi spogli che costeggiavano la strada si erano già coperti di un sottile strato di bianco. Pensò a quanto fossero scontati gli esseri umani, ogni anno a lasciarsi sorprendere da eventi che si ripetevano ciclicamente. Sapeva che si sarebbe meravigliata nel vedere quegli stessi alberi rinascere e ricoprirsi di foglie profumate la primavera successiva, come sapeva che i colori autunnali l’avrebbero fatta sorridere. Che magra consolazione, quella di sapere che piccole cose insignificanti come quelle avrebbero continuato a renderla felice, fosse anche solo per pochi minuti.
Lo sguardo le cadde su un piccolo foglio strappato che aveva incastrato tra il vetro e l’inglesina. Lo aveva tenuto lì dal giorno in cui glielo aveva passato in quel bar all’angolo di Oxford Street, quando avevano discusso animatamente della validità delle poesie di William Blake. “Tienilo”, le aveva detto dopo averci scarabocchiato su, “Leggilo finchè non cambierai idea”.

In quali abissi o in quali cieli
Accese il fuoco dei tuoi occhi?
Sopra quali ali osa slanciarsi?
E quale mano afferra il fuoco?
Quali spalle, quale arte
Poté torcerti i tendini del cuore?
E quando il tuo cuore ebbe il primo palpito,
Quale tremenda mano? Quale tremendo piede?

Il telefono squillò ancora, lei chiuse gli occhi e attese il tempo di quattro squilli. Come sempre.

  
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