Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Jordan Hemingway    05/01/2019    3 recensioni
La storia che ho riportato su questi fogli di diario potrà sembrarvi la narrazione di un pazzo, una favola al pari di quelle con cui le nostre balie amavano spaventarci nelle lunghe sere d’inverno trascorse davanti al fuoco.
Eppure, nonostante io cerchi di ridare un ordine a questi eventi, mi accorgo che è impossibile per me riportare gli avvenimenti degli scorsi mesi in Italia e in Francia a un qualsiasi tipo di ragionamento logico. La nostra scienza è venuta meno al suo compito e quel che mi rimane è solo oscurità e nebbia.

Storia partecipante al contest "I Doni della Medicina" indetto da Dollarbaby su EFP Forum
Prima classificata al Victorian Age Contest indetto da Hyggelic su EFP Forum
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo Terzo
 
9 novembre 1855
 
La narrazione di Leone mi affascina.
C’è qualcosa di indescrivibile nell’espressione che assume quando inizia a ricordare gli avvenimenti del suo passato che, ormai ne sono certo, sono la causa diretta del suo incarceramento. Un uomo come lui, un medico brillante, non avrebbe motivo di trovarsi in una cella.
Arrivato stamane alle Debite venni accolto dal Valle con uno dei suoi sorrisi felini. “Anche oggi qui, dottore.”
“Ovvio.” Non mi piacque il suo tono. “Come prevede il giuramento di Ippocrate.”
“Potete giurare su chi vi pare, dottore, basta che vi accertiate alla svelta che il Ruzzante non sia contagioso.”
Come il giorno precedente Ruzzante era seduto sulla branda: la sua convalescenza sembrava procedere bene. Scambiati alcuni convenevoli lo pregai di continuare il racconto.
 

“Quel che avevo visto nella foresta mi aveva turbato: tornato a Lières la ragione ebbe presto il sopravvento sulla mia immaginazione e cercai una spiegazione logica. Tuttavia nessuno dei paesani sembrava intenzionato a darmela.

- Avete visto la fata della nebbia, m’sieur, eccome se l’avete vista. - Philippe era corso dritto da Adèline, la quale si era precipitata a casa mia con sale e ulivo benedetti che ora stava spargendo in ogni angolo.
- Siete fortunati a essere vivi, che Iddio ci protegga sempre, quella lì avrebbe potuto mangiarvi il cuore, ecco che cosa fa quella, aspetta che qualche bravo ragazzo entri nella foresta e tah, lo afferra e lo uccide. -
- La maledizione del paese, questo avete visto. - Brontolava il sindaco mentre si avviava verso casa dopo una fredda giornata di aratura. - Dovreste lasciar correre e pensare al vostro lavoro. -
- La fata della nebbia è pericolosa, m’sieur, state lontano dalla foresta se non volete che torni a prendervi. -

Dappertutto venivo dissuaso a compiere ulteriori indagini sulla creatura che mi era apparsa. Eppure rifiutavo la fantasia soprannaturale a cui tutti quei contadini sembravano così propensi a credere.
La mia insistenza fu ricompensata qualche giorno dopo, quando il parroco venne a trovarmi.

- La superstizione qui è cosa antica, - iniziò, - Molto più antica della Chiesa: so per certo che alcuni qui festeggiano feste pagane della primavera in segreto. Purtroppo a volte il limite tra verità e menzogna viene superato. -
- Trovo bizzarro che proprio voi, un uomo di religione, abbiate difficoltà ad accettare presente soprannaturali – commentai ironico.
Si accigliò. - Io credo nell’unica verità di Nostro Signore, per il quale non esistono fantasmi o fate o simili abomini. Fate attenzione a come parlate. -
Chinai la testa, gesto che lui prese come segno di scuse ma che era solo un modo per svicolarmi da una discussione che avrebbe preso una brutta piega.
- Qualche anno fa passammo un brutto periodo: piogge continue e nulla da mangiare se non le riserve di mais che avevamo messo da parte per la semina successiva. I contadini più poveri campavano a stento: tra di loro c’era una donna, Anne, la figlia di un coltivatore di mais i cui campi erano stati inondati e rovinati. Si era ridotta a vivere in una casupola all’estremo limite del paese e a mendicare qualche pugno di mais per mangiare. -
- Che accade a questa donna? -
- Un giorno ci accorgemmo che aveva smesso di venire in piazza a mendicare: alcuni ragazzini allora si recarono alla capanna per vedere se era morta e in quel caso probabilmente rubarle quel poco che le era rimasto. Tornarono indietro terrorizzati, parlando di una creatura che li aveva aggrediti e che urlava quando i raggi del sole la toccavano: uno dei ragazzi non ce l’aveva fatta a fuggire, la creatura l’aveva preso e spinto nella capanna. Radunammo gli uomini più coraggiosi e corremmo a vedere: trovammo il corpo del ragazzo orribilmente sfigurato, come se un lupo o un orso lo avessero attaccato per sfamarsi. Non trovammo nessun segno di Anne: la povera donna doveva essere stata divorata da quella bestia immonda ma quegli uomini superstiziosi affermarono che doveva essere stata lei a uccidere il ragazzo. Da quel giorno di dieci anni fa gira la leggenda della fata delle nebbie, perché la creatura detesta il sole e uccide solo di notte o durante giornate particolarmente nebbiose. Una belva di sicuro c’è in questi boschi, perché chi si addentra troppo nel folto non fa più ritorno: mi dispiace per la memoria della povera Anne. -

Il parroco sospirò: sembrava veramente turbato da quel che mi aveva raccontato. Tuttavia qualcosa nella sua voce mi faceva sospettare che mi avesse celato qualcosa. Per quel giorno mi limitai a ringraziarlo: avrei avuto tempo e modo di verificare la sua storia, perché avevo finalmente elaborato una teoria.

Vi ricordate che avevo nominato i miei studi sulla pellagra, dottor Clemente? Dunque avrete immaginato che il racconto del parroco avesse avuto grande significato per me: la riluttanza ad uscire alla luce del sole a causa della pelle danneggiata e il delirio sono entrambi sintomi di pellagra. Immaginate se una donna, povera e abbandonata da tutti, una reietta, contraesse una forma grave della malattia e la tenesse nascosta o non vi facesse caso: forse il delirio sarebbe così forte da indurla ad attaccare coloro che incautamente provassero a farla uscire alla luce del sole oppure, chi può dirlo, non avrebbe più remore nel cercare di spegnere la fame con ogni mezzo.
E se quella belva fosse stata una donna ammalata e ostracizzata da tutti?
L’ipotesi mi affascinava.

Eppure c’erano delle incongruenze: la donna che mi era apparsa nei boschi era bianca e bella, una vera fata, mentre i pellagrosi sono coperti di dermatiti e piaghe ributtanti. Oltre a questo, secondo il parroco l’episodio si era svolto dieci anni prima e trovavo difficile credere che una donna sola avesse potuto sopravvivere in una foresta ostile.

Decisi comunque di agire: avrei catturato la creatura. In questo modo avrei scoperto se era umana o meno e avrei aiutato gli abitanti di Lières-au-Bois a liberarsi di una minaccia per le loro vite e per quelle del loro bestiame, alla peggio.
Sapevo che nessuno mi avrebbe aiutato, spaventati com’erano, per cui decisi di arrangiarmi: obbligai Philippe a venire con me ai limiti della foresta per scavare una buca profonda. Il ragazzo avrebbe preferito camminare sui carboni ardenti ma gli assicurai che saremmo rimasti accanto al fiume e che avrebbe potuto correre via appena terminato il lavoro.
Una volta creata la trappola dovevo preparare un’esca adeguata.

Avevo notato nei miei studi che alcuni malati sviluppavano un forte desiderio per l’alimento che provocava loro la malattia: mi procurai una buona quantità di mais, sia in semi che cotto in pani morbidi e profumati e aspettai che le nebbie si alzassero per posizionarli sopra la buca debitamente coperta da frasche.
- Dite che verrà? - La curiosità di Philippe aveva avuto la meglio sulla paura superstiziosa e si era unito a me nell’attesa. Eravamo nascosti tra le canne accanto al ruscello: io tenevo tra le mani una corda che, se tirata, avrebbe fatto cadere l’impalcatura di legno e fronde e mi avrebbe permesso di catturare la fata delle nebbie. Fino a quel momento però solo lepri e altri animali selvatici si erano avvicinati per mangiare, costringendomi a intervenire con lanci di sassi per evitare che divorassero tutto.

- M’sieur, la nebbia è sempre più forte e qui ci sono solo conigli: torniamo a casa. - Dopo l’ennesima lepre Philippe stava perdendo interesse.
- Se vuoi tornare fai pure, ragazzo, io rimango. -
- Ma la fata vi divorerà e… -
Un rumore improvviso ci fece girare verso la trappola.

Non potevo credere a quel che vedevo: una figura di donna eterea, bianca, si avvicinava a passo lento. I suoi capelli lunghi e neri sembravano fluttuare nella cortina di nebbia, le sue labbra erano rosso sangue. 
Di nuovo la mia immaginazione ebbe la meglio e credetti davvero nell’esistenza di una fata delle nebbie, ricordo di divinità dei tempi lontani.
Questo finché l’apparizione non si gettò famelica sui pani di mais, iniziando a divorarli con movimenti ferini: nessun essere soprannaturale brama con tanta voracità un semplice pezzo di pane.
Tirai la corda: pani e fata caddero nella buca mentre io afferravo un coltello e delle corde robuste e mi precipitavo a imprigionare la sfortunata donna, senza dubbio Anne.

L’impresa fu più difficile del previsto: la donna si difendeva con morsi e unghiate proprio come una bestia selvatica ma infine riuscii a legarla e immobilizzarla.
Nella nebbia che si dissolveva, vidi che si trattava di una donna sui trent’anni: la veste bianca era in realtà grigia e a brandelli, i capelli erano luridi e arruffati, la bocca screpolata e insanguinata. Solo gli occhi conservavano l’incanto dell’apparizione: brillavano come stelle infuocate e mi fissavano pieni di rabbia.
Quella era Anne.”
 

Ruzzante tacque e chiuse gli occhi.
“Era dunque la malata di cui aveva parlato il parroco?” Volevo la conferma perché mi sembrava che in ogni parola che Leone usava per parlare di lei ci fossero dei sottintesi che non capivo. Il tono di voce, le espressioni del suo volto, tutto contribuiva a pormi una domanda: era davvero Anne, una povera pellagrosa, oppure no?
“Era lei. Ma allo stesso tempo non lo era.”
Mi spinsi avanti verso di lui. “Che cosa intendete?”
“Ve lo dirò la prossima volta. Ora vorrei riposare.”
 
 
All’uscita trovai il tenente Valle che mi aspettava.
“Dunque come sta il prigioniero?”
“Condizioni stabili: mi aspetto tuttavia una ricaduta.” Cercai di essere quanto più laconico possibile.
“Peccato: avrei detto che fosse sano a sufficienza per essere rimesso assieme agli altri.”

Mi bloccai: all’improvviso mi sentivo pieno di ribrezzo al pensiero delle camerate comuni, sporche e colme di volgari delinquenti. Era quello il luogo dove Leone avrebbe dovuto trascorrere le giornate?
“Trasferirlo ora significherebbe vanificare le mie cure” protestai con veemenza.
“Tra prigionieri le voci si spargono in fretta: alcuni pensano che Ruzzante stia ricevendo un trattamento di favore.” Non avevo dubbi che anche il tenente fosse della stessa idea.

Cercai di controllarmi: “Abbiate la cortesia di lasciarlo nella cella singola ancora per qualche tempo: sono disposto ad addossarmene le spese.”
Il Valle mi guardò in modo strano. “Come volete. Del resto, chi sono io per intromettermi tra paziente e dottore?” Dicendo questo sogghignò e dovetti trattenermi dal colpirlo in pieno viso.

Vagai a lungo tra le strade di Padova, incapace di fermarmi: la mia mente era in piena attività eppure mi pareva di non pensare a nulla. A tratti il viso di Leone compariva nella mia memoria e si sovrapponeva con quello di una donna sconosciuta, dalle labbra rosse e dal viso bianco come la foschia mattutina.
L’immagine aveva su di me effetti indescrivibili e preso dalla frenesia mi lanciavo sotto i portici affollati, urtando i passanti e inciampando nei miei stessi passi.

Notai che si stava facendo sera solo quando la nebbia cominciò ad alzarsi e ad avvolgere tutto nel suo manto grigio. Mi fermai confuso: non sapevo dove mi trovavo, forse nei pressi del Prato della Valle, forse al Portello, forse altrove.
Un suono fioco mi fece voltare. Per un momento distinsi la sagoma di una donna vestita di bianco ma quando provai ad avvicinarmi l’illusione sparì.
Ero solo, accompagnato dai fantasmi della mia mente.
 
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Jordan Hemingway