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Autore: pattydcm    06/01/2019    3 recensioni
Sherlock si risveglia ferito in un luogo sconosciuto. Si rende conto ben presto che colei che lo ha tratto in salvo non è del tutto sana di mente. Dovrà far fronte ai modi bruschi e violenti di lei e tentare di sopravvivere ai suoi sbalzi d'umore e alle sue differenti personalità. Nessuno sa dove si trovi. Può solo sperare che qualcuno si attivi per cercarlo. Chiunque, ma non John Watson. Del dottore, infatti, non vuole saperne più nulla...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Buona sera a tutti!
Avevo detto il sette, ma ho pensato di vestire i panni della befana e mettere nella vostra calza questo nuovo capitolo. Spero vi piaccia.
Buona epifania a tutti voi.
A presto
Patty
 
23 novembre
 
John è fermo al bordo del precipizio. Non riesce a distogliere lo sguardo dall’auto che si scorge appena, mezza sommersa dalla neve. Degli uomini, calati con corde da arrampicata, la stanno disseppellendo nel tentativo di scoprire chi la occupa.
Sono passati cinque giorni da che la bufera ha concesso loro una tregua. Giorni nei quali ci sono state ancora blande nevicate che hanno poi lasciato il posto a un grande freddo tagliente. Hataway si è visto costretto a concedere a John e Greg un gatto delle nevi che li portasse fino allo Ski Club e lì hanno scoperto la prima triste verità.
<< Il signor Holmes? Io… io credevo fosse giunto al comando di polizia. Ha lasciato il Club il 10 novembre al mattino a bordo dell’auto che aveva noleggiato >>.
 Noleggiata a nome Edward Nolton, avevano scoperto. Stava agendo sotto copertura, gli ha spiegato Hugh Paddington, per poter svolgere le sue indagini indisturbato.
<< Quella maledetta fossa. Holmes ha ipotizzato potesse essere stata opera di uno dei miei ex inservienti, il vecchio Stilton. L’ho mandato via perché si era opposto con tutte le sue forze agli inizi dei lavori, dicendo che la zona dove volevamo costruire la nuova succursale del Club era friabile e sarebbe crollato tutto quanto. L’architetto non era d’accordo e neppure il geologo che abbiamo contattato e quando è venuta fuori la fossa anche Hataway è andato a bussare alla sua porta per sapere se per caso c’entrava qualcosa con quei corpi. Lui ha smentito e quell’idiota gli ha dato retta. ‘E’ un po’ svitato, ma da qui ad essere un assassino ce ne passa, Hugh’, mi ha detto. Il signor Holmes, invece, ha preso la cosa sul serio e per questo ha deciso di indagare sotto copertura. O almeno così mi ha detto >>.
John si sta quindi preparando. Perché quegli uomini potrebbero estrarre dall’auto un corpo che non somiglia affatto a Sherlock e che lui solo quando se lo sarebbe trovato davanti avrebbe, invece, potuto affermare il contrario. Un brivido lo percorre e il dottore rincalza sciarpa e cappello nel tentativo di vincere il gelo di queste montagne. Greg, fermo alle sue spalle, osserva a sua volta le operazioni di recupero. La targa del veicolo è saltata a causa dell’impatto e per il momento possono solo constatare che l’unica corrispondenza è il modello preso a noleggio.
<< Pensi sia il caso di avvertire suo fratello? >> gli sussurra.
<< Inutile sperare in un miracolo, Greg: quella è l’auto che Sherlock ha noleggiato ed è là sotto da troppo tempo per sperare che sia rimasto vivo >> dice gelido John. Greg lo guarda stupito, ma non può fare a meno di annuire. << Se non l’ho ancora chiamato è perché non voglio Mycroft Holmes tra i piedi. Sarei troppo tentato di gettarlo da un dirupo e non mi va di finire il resto dei miei giorni dentro a causa sua >>.
<< Sì, direi che non ne vale proprio la pena, John >>.
Il detective gli posa la mano sulla spalla e il dottore lentamente si volta verso di lui. Sta cercando di mantenere un dignitoso contegno, nonostante dentro si scateni una bufera degna di quella che li ha da poco lasciati. Un contegno che porta avanti dal momento in cui Hugh Paddington ha confermato i suoi sospetti. Sherlock era davvero andato via dal Club ed era finito fuori strada. Quell’immagine che aveva tenuta sopita e subito ricacciata negli abissi del suo inconscio quando timida saliva agli occhi della sua mente, si è avverata. Ci sono voluti due giorni per convincere Hataway a iniziare le ricerche. Altri due per trovare il punto esatto dal quale è volato giù. Un altro per distinguere la ruota anteriore destra emergere dalla coltre bianca e soffice. Fino ad oggi, giorno in cui una squadra di volontari del posto si  è decisa a calarsi giù per vedere a chi appartiene l’anima che la montagna ha reclamato.
<< Greg >> sussurra John sentendo sgretolarsi la maschera di fredda e logica razionalità che ha fin ora indossato. Accetta la spalla che il detective gli offre e ci posa la fronte. Gli ci vuole un po’ per esplodere nel pianto, per stringersi al suo amico con gesti nervosi, scossi da singhiozzi convulsi. Hataway e i suoi uomini gli scoccano appena un’occhiata girandosi poi rispettosi dall’altra parte, ma a John non gliene frega nulla di cosa stia pensando quella gente. Il suo migliore amico, l’uomo che ama, è morto. In un modo così stupido, dopo tutte le bravate e le avventure che ha vissuto, che gli fa rabbia.
<< Fuori strada, Greg. È finito fuori strada! Uno come lui che muore per un banale incidente stradale causato dalla neve! >> grida contro la spalla del detective che si limita a tenerlo in piedi, incapace di dire niente.
<< Ehi lassù! >>.
Dabbasso giunge un grido e John trattiene il respiro. Sa che stanno per dirlo, stanno per annunciare di aver ritrovato il corpo di un uomo, la cintura di sicurezza ancora inserita e l’airbag esploso a coprirgli il volto.
<< Non c’è nessuno qui! >> grida, invece, uno dei soccorritori. John si stacca svelto da Greg. Asciuga il viso sporgendosi dal limitare del burrone.
<< Come sarebbe a dire nessuno? >> grida guardando accigliato gli uomini che hanno liberato quasi del tutto l’auto dalla neve. Questa si presenta capovolta. Le quattro ruote ben in vista.
<< Che non c’e nessuno al volante, questo vuol dire >> ribatte uno di loro.
<< E’ sbalzato fuori? >> chiede Greg.
<< Non ne ho idea. L’airbag è esploso, ma la portiera è chiusa >>.
<< Questo non vuol dire niente, potrebbe essersi chiusa cadendo >> borbotta John.
<< Tom, continuate a scavare. Dobbiamo trovare il corpo >> dice loro Hataway.
<< Ma potrebbe essere finito ovunque, Jason >> grida di rimando uno di loro. << Hai idea di quanta neve ci sia qui? >>.
<< La vedo la neve, Bryan. Continuate a cercare, non voglio tenermeli qui fino a primavera >> dice indicando Greg e John. Gli uomini lanciano occhiate torve ai due londinesi, ma continuano a scavare. Se ne aggiungono altri che li aiutano a imbragare l’auto e ben preso arriva una gru per poterla riportare su strada.
<< Immagino vogliate controllarla >> dice loro Hataway con stizza.
<< Ottima deduzione, collega >> ribatte Greg.
Trascorre l’intera mattinata prima che il Suv venga riportato su strada e riposizionato con le quattro ruote a terra. Greg e John non perdono tempo nell’esaminare il veicolo, ammaccato sul lato sinistro. Il faro è stato totalmente distrutto dall’impatto violento.
<< Deve aver sbattuto contro quell’albero >> dice Greg indicando un albero dal fusto ampio in bilico tra la strada e il precipizio. Va a togliere lo strato di neve depositato sul tronco e vi trova i segni della vernice.
<< L’impatto deve aver spezzato quel grosso ramo che ha rotto il parabrezza >> continua Hataway indicando il ramo enorme scivolato poco più in là e frenato da un altro albero.
<< Una squadra di tecnici saprebbe fare meglio >> sussurra Greg osservando la cintura di sicurezza del lato guidatore che sembra essere stata sganciata volontariamente.
<< Non è tanto quello che c’è ad essere importante, Greg, quanto quello che non c’è >> dice John, che mentre i due poliziotti cercavano di capire come fosse andato l’incidente ha aperto gli sportelli posteriori e il cofano.
<< Cosa vuole dire, dottore >> domanda Hataway divertito dalla sua buffa affermazione.
<< Paddington ha detto che Sherlock aveva con sè una valigia. Il trolley che è solito usare quando viaggia per lavoro. Solo che non c’è da nessuna parte >>.
I due poliziotti si guardano stupiti. Spostano il dottore per controllare a loro volta i sedili posteriori e il portabagagli.
<< Non può essere caduta nell’impatto. Sherlock è metodico, non metterebbe mai una valigia in un posto diverso da un portabagagli >>.
<< Proprio così, Greg! >> esclama John. << Se il trolley non c’è vuol dire che qualcuno l’ha  preso >>.
<< Questo è impossibile, dottore? >> esclama Hataway. << Ha visto anche lei dove si trovava l’auto e non riesco a credere che qualcuno rischierebbe la vita per soccorrere uno sconosciuto o per derubarlo >>.
<< Io… io non credo che ci sia finita subito l’auto nel dirupo >> dice John, gli occhi fissi sul fusto dell’albero contro il quale l’auto ha impattato. << E’ rimasta in bilico, Greg >> dice correndo al tronco. << E’ rimasta in bilico e deve essere poi franata giù, spinta dalla bufera >>.
<< Questa è solo un’ipotesi, dottore >> ribatte Hataway. << E non toglie il fatto che, se anche fosse, il suo amico non sarebbe comunque sopravvissuto alla bufera per tutto questo tempo restando all’aperto >>.
<< E se non fosse all’aperto? >> lo sfida John esasperato dal suo remare contro. << Se qualcuno fosse passato da qui prima ancora che la bufera infuriasse e lo avesse soccorso? >>.
Hataway ridacchia scuotendo il capo.
<< Lei non vuole proprio rassegnarsi, eh? >>.
John non ce la fa a restare indifferente a questa ennesima risata sardonica. Afferra il poliziotto. per il bavero della giacca con una forza tale da tirarlo su da terra e spingerlo contro un albero. L’impatto è tale che alcuni cumuli di neve cadono dai rami impolverando loro le giacche.
<< Mi stia a sentire >>, ringhia John tenendo premuto l’uomo contro il tronco dell’albero, << io non so come si comporti lei con gli amici, ammesso che ne abbia, ma io sono solito non perdere le speranze finchè non ne vedo il corpo esanime con i miei stessi occhi! Ho scandagliato il deserto afgano e le città rovinate dalle bombe alla ricerca dei miei commilitoni quando ero in guerra e non ho mai perso la speranza di ritrovarli vivi finchè, purtroppo, non ho constatato il contrario. Ne ho tratti in salvo tanti grazie alla mia scarsa capacità di rassegnarmi dinanzi a quella che per lei è l’evidenza dei fatti! Quindi, ora mi farà il favore di smetterla di agire con sufficienza e di lasciarmi cercare il mio amico. E se non vuole sprecare fiato e uomini per aiutarmi se ne vada pure a fanculo con tutto il suo seguito, sono in grado di cavarmela da solo qui >>.
Lo lascia andare e con sorpresa Hataway tocca il terreno dal quale era stato separato per un abbondante numero di centimetri. Si sistema la giacca alzando lo sguardo verso John che non ha distolto per un solo istante gli occhi dal suo volto.
<< Lei è stato in Afganistan, dottore? >> .
<< E’ quello che le ho appena detto, sì >> ribatte acido.
<< Con quale grado? >>.
<< Capitano del fucilieri Northumberland, ma cosa c’entra questo adesso? >>.
<< Mio fratello c’è morto in quella merda di deserto >> aggiunge storcendo il naso. << Disperso, così hanno detto. Se fosse stato ai suoi comandi forse ora sarebbe vivo o almeno avremmo un corpo sul quale piangere >> dice distogliendo lo sguardo. << Umbridge, Southlow, formate una squadra di cinque volontari a testa e battete la zona qui attorno. Cerchiamo il corpo di un uomo tra i trenta e i quarant’anni. Macallister, tu mettine insieme un’altra e fate il giro di tutte le contrade, vediamo se qualcuno lo ha soccorso e se lo è portato a casa. Le strade verso l’ospedale sono impraticabili quando nevica a questo modo. Un tempo chi stava male si recava dal dottor Liland Abbott. Mary scende ancora all’emporio di Jo per le compere, Mac? >>.
<< Sì, capo. Ancora non si è vista da quando la bufera ha smesso di romperci i… >>.
<< Ok ok, fai un salto da Jo e digli di avvisare chiunque giunga da lui che siamo alla ricerca di un uomo. Ha una sua foto, Capitano? >>.
John è ancora stupito da quest’improvviso cambiamento. Ci mette un attimo a scuotersi prima di rispondere.
<< Era sotto copertura, ispettore. Il che vuol dire che si sarà reso irriconoscibile. Era in grado di farlo >>.
<< Non so come possa essere possibile, ma ad ogni modo dopo tutti questi giorni qualunque travestimento si sarà estinto. Ovviamente nel caso in cui sia ancora vivo >>.
<< Ovviamente >> fa eco John. << Non ho una foto con me, ma possiamo recuperarla dal mio blog >>.
<< Perfetto. Torniamo in centrale, allora. Ne stamperemo un po’ da distribuire nelle contrade e da appendere nei punti di ritrovo. Se il suo amico è vivo, Capitano, lo troveremo. Le voci corrono veloci in un paese così piccolo >>.
<< La ringrazio, ispettore >> gli dice tendendogli la mano. L’uomo la stringe di sfuggita avviandosi poi all’auto.
<< Questo Abbott, il mio collega… >>.
<< E’ morto >> lo interrompe. << Sono ormai cinque anni. E’ scivolato sui gradini ghiacciati della cantina di casa sua e si è rotto l’osso del collo. Il figlio maggiore, Jack, è venuto a chiamarmi. Una tragica disgrazia. Era bravo. Pessimo carattere, mano pesante sui figli, anche, ma ci sapeva fare col suo lavoro. Ha salvato molte vite e altrettante ne ha fatte nascere. La sua casa si trasformava in un vero e proprio ospedale in stagioni come questa. Ci manca la presenza di un medico, qui. Il più vicino, quando Keswick è irraggiungibile, è a Penrith, non proprio dietro l’angolo >>.
 
***
 
Sherlock si sveglia nell’improvviso silenzio. Un silenzio pesante. Spettrale. Dopo giorni di vetri perennemente vibranti e scossi dalle ire del vento, di spifferi urlanti e agghiaccianti, di scricchiolii del legno, a volte così forti da far temere che tutto potesse crollargli addosso da un momento all’altro, ora regna il silenzio.
Si mette a sedere sul letto e si guarda attorno disorientato. La gamba rotta gli manda un formicolio doloroso attutito dalla morfina, ma comunque capace di bloccarlo lì.
<< Mary! >> chiama e la sua voce riecheggia nella stanza.
Non ottiene nessuna risposta dabbasso. Nessun tonfo di passi sgraziati a far scricchiolare gli scalini.
<< Mary! >> ripete, mentre il cuore gli batte forte nel petto.
Da solo nel silenzio. No. Non ci vuole stare. È troppo strano.
<< Mary!! >> grida in preda a un panico nascente, scostando le lenzuola pronto a scendere dal letto e chi se ne frega della gamba in trazione, del dolore, dei rimproveri da parte di lei, anche.
<< Mary!! >> urla e finalmente qualcosa si muove.
Passi accelerati. Forse sarà arrabbiata, forse lo picchierà, perché l’ha di certo disturbata e arriverà la Mary cattiva e non la bimba dolce e premurosa. Non importa. Quei passi veloci lo rincuorano. Torna a coprirsi sentendo improvvisamente freddo. I brividi lo scuotono da capo a piedi. Eccola giungere al pianerottolo, scostare la porta in modo brusco e volgere a lui due occhi preoccupati e vispi.
<< Edward, che succede? >> gli chiede la Mary bambina e, sentendosi il più grande degli idioti, Sherlock si scioglie in lacrime. Lei si avvicina e, con questa nuova delicatezza che gli mostra dal giorno della rasatura, gli posa la mano tra i capelli nel tentativo di rincuorarlo. Sherlock prontamente la afferra e vi affonda dentro il viso sentendo profumo di pino, di ferro e di segatura.
<< Stavi tagliando la legna, per questo non mi hai sentito subito >> dice abbandonandosi in quella mano enorme piena di calli, ma così confortevole. Lei si stupisce, come si era stupita il giorno prima quando per la prima volta ha assistito alle sue deduzioni.
<< Esatto >> sorride come se le avesse appena mostrato un gioco di prestigio. << Perchè mi hai chiamata, Eddy? Che succede? >>.
<< Il silenzio. Mi ha spaventato tutto questo silenzio >>.
<< Oh, sciocchino >> ridacchia Mary, muovendo la mano contro il suo viso. << La bufera è finita. c’è sempre silenzio quando finisce >>.
<< E’ terribile! >> dice aggrappato a quella mano, per nulla intenzionato a staccarsene.
<< Non ti piace il silenzio? >>.
<< No. Lo odio. È come essere sordi. Si perdono i punti di riferimento e sembra sempre che qualcosa debba accadere da un momento all’altro. Non sto mai nel silenzio, mai >>.
<< Penso che in città nessuno ci stia veramente mai nel silenzio >> dice, tirando fuori uno di quei ragionamenti sensati che Sherlock da poco ha scoperto la Mary bambina sappia fare.
<< Mi manca il mio violino >> singhiozza strizzando gli occhi che riversano altre lacrime.
<< Suoni il violino? >> esclama Mary con un gran sorriso sulle labbra. Sherlock annuisce. << Aspetta qui >> gli dice togliendo bruscamente le mani dal suo viso. A nulla vale il tentativo di trattenerla. Si libera di lui con semplicità nonostante la sua stretta fosse forte.
“Sherlock, ma che ti sta succedendo?” gli domanda John, con più di una nota di preoccupazione nella voce. Il consulente non gli risponde. Ha fatto parecchi sogni in questi giorni. Gli effetti collaterali dell’assunzione di morfina per un periodo troppo prolungato hanno iniziato a farsi sentire con questa perenne sonnolenza.
Nei sogni è tornato a molti episodi del suo passato. Da alcuni di questi si è svegliato affannato, da altri in lacrime, da altri ancora persino gridando. Ha sempre trovato Mary bambina seduta sulla sedia. Una pezza umida in una mano pronta a tergergli il sudore e un bicchiere d’acqua nell’altro.
La presenza di questa versione di Mary lo ha allertato all’inizio. Col tempo, invece, e col susseguirsi dei bruschi risvegli, si è abituato a lei, ai suoi sorrisi, alle sue premure che lo hanno rassicurato parecchio. Le ha raccontato i suoi sogni sentendo il bisogno di parlare e Mary lo ha ascoltato rapita, come una bambina che ascolti una favola prima di andare a dormire. Solo che i suoi racconti non sono favole. Quei sogni sono brandelli della sua infanzia. La brutalità di suo padre. La morte di sua madre. L’assenza continua e le prese in giro di suo fratello. Il bullismo subito a scuola.
Mary, finito il racconto, gli ha parlato dei suoi di incubi. Pezzi del passato di una donna con la quale Sherlock ha scoperto di avere molte cose in comune. Gli incubi di Mary sono più grandi dei suoi e Sherlock ha faticato ad ascoltarli. Avrebbe voluto avere la forza di alzarsi e andarsene, ma, nonostante Mary lo faccia mangiare regolarmente e con meno minacce e punizioni, adesso, Sherlock è preda di costanti capogiri e di una nausea che spesso gli impedisce di ultimare le portate. Per fortuna, ora Mary capisce la situazione e non insiste. Negli ultimi giorni, poi, un costante mal di testa non lo ha mai abbandonato e la stanchezza l’ha fatta da padrona. Si trova, quindi, costretto a restare lì, ad ascoltare i suoi racconti terribili, durante i quali Mary gli tiene sempre stretta la mano sinistra con la sua enorme e callosa. E’ come se volesse tenerlo lì, fermo in quella realtà fatta di sonnolenza e veglia breve, tanto da rendere difficile capire quale sia il sogno e quale la realtà
“Devi reagire, Sherlock! Sei qui da molto tempo ormai. Smetti la morfina e reagisci!”.
Sherlock, però, non ha alcuna voglia di seguire i consigli John. Soprattutto perché gli ultimi sogni tristi e angoscianti hanno avuto lui come protagonista. Lui e ciò che è accaduto quel sabato sera. Non ha potuto raccontare di questi sogni a Mary. È ancora abbastanza lucido da ricordare la violenza con la quale ha minacciato la sua omosessualità. Ha, allora, reso al femminile il nome di John facendolo diventare una ex che, nemmeno a dirlo, Mary odia con tutta se stessa.
<< Meriterebbe di morire! >> dice, assumendo l’espressione feroce della Mary cattiva. Sherlock non apprezza queste esclamazioni, ma sotto sotto lo appaga sentire un'altra persona riconoscere che quello di John non è stato il comportamento migliore che si potesse avere. 
<< Per fortuna poi hai conosciuto Molly >> gli ha detto al termine di questi racconti sui sogni riguardanti John, e Sherlock ha notato una tristezza sul viso di lei così profonda da intenerirlo.
“Stai impazzendo, fratello mio!”.
Sherlock ignora anche le constatazioni ben poco amichevoli di Mycroft. Sì, è possibile che stia impazzendo. Che la costante presenza di morfina nel suo corpo e la presenza di una donna pericolosa stiano agendo in modo malsano sul suo brillante cervello al punto da farlo uscire di senno.
“Oh, Sherlock, sarebbe poi una cosa tanto riprovevole?” gli ha domandato Moriarty con quella risata perenne nella voce. “Tutti i migliori sono matti[1], non lo sai?”. Il consulente criminale, intrufolatosi nella sua mente, ha riso e, colto di sorpresa dalla sua presenza, Sherlock si è unito anche lui a quella risata priva di senso.
“Perché no?” si domanda ora. “Perché non potrebbe essere così?”. Gli hanno sempre dato del matto, in fin dei conti. Per il suo modo di vedere il mondo, per i toni che usa nel rivolgersi alle gente e per tante altre innumerevoli cose.
“La gente definisce ‘matte’ le persone capaci di fare ciò che loro non hanno il coraggio di agire” gli fa notare adesso Moriarty, ricomparendo tra i suoi pensieri. “Tu osservi e per questo sei ‘matto’. Fai uso di droghe e per questo sei ‘matto’. Non mangi e non dormi per stare dietro ai tuoi casi e per questo sei ‘matto’. Ti piacciono gli uomini e per questo sei ‘matto’. Stai rinnegando le voci di tuo fratello e di Johnny boy e per questo sei ‘matto’” .
<< Già >> constata. << Mycroft mi dice costantemente cosa fare e mi scredita in continuazione, ma non è matto. John mi scopa per poi dirmi che è stato uno sbaglio, ma non è matto. No >> sussurra con un ringhio sommesso. << Il ‘matto’ sono io che voglio essere libero di esprimermi. Io che mi sono innamorato di quell’idiota! >>.
“Esatto” lo applaude Moriarty ridendo. “E’ così che funziona, mio caro. Ti usano per i loro comodi e poi ti buttano via. Come un giocattolo rotto. Come una sudicia puttana”.
Quelle parole sono un pugno nello stomaco, forte al punto da togliergli il fiato. Una puttana. Sì, è così che si è sentito, anche se non ha mai avuto il coraggio di dirlo anche solo a se stesso. Una sciocca ragazzina innamorata usata come la più economica delle puttane. Ed è stato proprio questo amore a rendere basso il suo prezzo.
<< Mai che si facesse scappare un’occasione, il nostro John, o che non perdesse tempo per crearsela. Cadono tutti ai suoi piedi. Cosa mai avrà di così attraente? Sarà che nella botte piccola c’è il vino buono >>.
La risata volgare del commilitone molto più che alticcio di John gli risuona nella testa. Era stato lui a prenderlo di peso e trascinarlo con loro in quel sudicio pub. Lui a rifornirlo di alcol, a stargli addosso, a metterlo in imbarazzo. E John non aveva detto nulla in sua difesa, anzi, aveva ridacchiato divertito e si era finto imbarazzato dalle parole dei suoi ex camerati. È possibile anche che fosse tutto preparato. Sì, è possibile che sia caduto in una trappola, proprio lui, il brillante consulente investigativo. Che John, avvezzo a sedurre e abbandonare, come i suoi amici hanno tenuto a sottolineare, avesse chiesto loro di aiutarlo a portarsi a letto il suo coinquilino. Aveva bisogno del loro aiuto per poter poi inscenare la parte della vittima delle circostanze, dando magari a lui la colpa per aver bevuto ed essere stato, come suo solito, fuori luogo, invadente, ‘matto’, appunto. Un modo comodo per poter mantenere il suo posto nel loro alloggio e, magari, anche al suo fianco durante le indagini. È solo quello che gli interessa, infondo, di lui. La possibilità di vivere pericolosamente datagli dai casi che lui accetta di risolvere.
E chissà, forse ‘tre continenti Watson’ quel singolo caso rimarcato come sbagliato e da non ripetere mai più avrebbe fatto in modo di farlo accadere nuovamente, per poi dargli sempre la colpa.
Sì, perché a guardarli ci vuole poco a dirsi sicuri del fatto che sarebbe stato il consulente a tentare di sedurre il dottore, non il contrario. È lui quello ‘matto’, il freak, mica il valoroso soldato. John, che si sarebbe garantito, così, la dose di adrenalina e pericolo e la scopata occasionale senza neppure dover andare a cercala in giro. E Sherlock, povero sciocco, avrebbe elemosinato le sue attenzioni, sperato nelle sue avance e si sarebbe illuso che, infondo, quello potesse essere amore.
“I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde” dice Moriarty. “Non dovresti permettere che il cuore guidi la tua testa. Ho sempre sostenuto che l’amore fosse uno svantaggio pericoloso”.
<< Anche io, e ringrazio John Watson per avermene dato prova >> ribatte risoluto. Freddo. Sì, sente di essere gelido. Prova solo disgusto. Neppure rabbia, no, la rabbia è calda, accende, infiamma. Il disgusto crea il gelo, come i sudori freddi che seguono il conato di vomito. Lo stesso disgusto che aveva provato per se stesso nel sentire ancora sulla pelle l’odore di John, nel sapere di avere dentro di sé i suoi fluidi corporei e quelli ci mettono giorni prima di andarsene via.
“Li hai addosso ancora adesso, in un certo senso!” sghignazza Moriarty.
<< No! Questo no! >> ringhia colpendo con un pugno le coperte. << Non lo voglio più! Lui non esiste più! >>.
“A davvero?” lo canzona James. “Io, invece, credo che ti resterà addosso, come una malattia venerea. Un herpes che resta latente sotto la pelle per comparire quando meno te lo aspetti”.
<< Smettila! >> grida picchiandosi la testa.
<< Eccomi qua! >> entra Mary allegra nella stanza. Sherlock sente il sangue montare alla testa e alza lo sguardo pronto a urlarle contro. Il grido, però, gli muore in gola. Quel donnone spaventoso stringe nella mano la custodia impolverata di un violino. << Era del mio nonnino >> dice allegra. << Non so se suona ancora, è lì buttato da anni. Tu forse puoi farci qualcosa >>.
Gli porge delicata quell’oggetto malconcio e Sherlock lo prende con la stessa delicatezza. Posa la custodia sul ventre e ne fa scattare i gancetti. Uno sbuffo di polvere si solleva mentre apre piano il coperchio scoprendo un violino bello e prezioso quasi quanto il suo.
<< Oddio, Mary… è bellissimo >> sussurra commosso. Un nodo gli stringe la gola e le mani gli tremano mentre accarezza il legno vivo, le corde tese. << Posso davvero? >> chiede alla donna che annuisce guardandolo con occhi grandi e sorpresi.
Con un po’ di difficoltà estrae il violino dall’alloggiamento e ne pizzica le corde. Come immaginava è totalmente scordato. Inizia ad accordarlo pizzicando le corde e girando le chiavi. Quando si trova soddisfatto prende l’archetto e trascorre alcuni minuti a passare la cera sui crini. Il primo lungo suono che produce facendolo scorrere sulle corde gli accappona la pelle piacevolmente. Mary esclama un ‘oh’ di sorpresa portando le mani al viso e lui le sorride. Da un giro di chiave alla corda e passa ancora una volta l’archetto sulle corde producendo un suono più basso. Mary batte le mani l’una contro l’altra divertita. Lo guarda estasiata mentre suona qualche accordo.
<< Mio nonno suonava sempre ‘Molly Malone[2]’, la conosci? >> gli domanda euforica.
<< Purtroppo no >>, ammette vedendo il sorriso di lei appannarsi, << ma se tu la canti io ti sto dietro >>.
<< Sai farlo davvero? >> chiede stupita. Lui annuisce e sistema il violino sotto il mento invitandola con un cenno del capo a iniziare.
Mary sistema l’abito e si mette in piedi, dritta e con le mani giunge l’una sull’altra davanti al petto, come una bambina diligente che si appresti a recitare la poesia di natale. Con una voce inaspettatamente limpida, intonata e bella inizia a cantare di questa ragazza irlandese e Sherlock la segue, recuperando piano piano dal suo Mind Palace gli accordi di questa ballata che scopre di sapere.
Quando la canzone finisce e il violino tace si ritrovano entrambi sorpresi e inspiegabilmente felici. Nel silenzio che ne segue riverberano ancora le vibrazioni dell’ultima nota che si rifrangono contro le pareti, rendendo quell’ambiente freddo e ostile quasi ospitale. Quando i loro sguardi si incontrano una risata allegra nasce spontanea da entrambi e li avvolge, avvicinando i loro animi tormentati.
<< Siamo stati bravissimi >> cinguetta la donna che batte le mani tutta allegra.
<< Decisamente >> ribatte Sherlock, al quale dolgono le guance dal tanto ridere. << Ti ringrazio, Mary. Ne avevo bisogno >> dice volgendo occhi innamorati al violino.
<< Il nonno aveva provato a insegnarmi, ma ho le dita troppo grosse >> dice imbarazzata, nascondendo le mani dietro la schiena. << Rideva sempre dicendo che sembrava stessi usando una sega piuttosto che l’archetto. Lui aveva imparato da solo, sapeva suonare solo poche canzoni, ma le suonava davvero bene e io ci cantavo appresso. Tu, invece, penso che ne sai tante >>.
<< Non proprio >> ammette. << Canzoni popolari ne so poche. Conosco pezzi classici e poi mi diverso a improvvisare a seconda dell’umore e dei pensieri che ho >>.
<< Oh >> sussurra Mary con tanto d’occhi. << Tu lo hai studiato bene, allora >>.
<< No, ho imparato anche io da solo >>.
<< Come nonno! >> esulta lei. << Allora suona come ti senti adesso >> gli chiede sedendo sulla sedia. Pianta i gomiti sulle ginocchia e posa il viso squadrato sulle mani, eccitata all’idea di sentirlo suonare.
Sherlock porta il violino al mento e chiude gli occhi. Resta per qualche istante con l’archetto sulle corde in ascolto. Poi sente un suono. Greve, prolungato, che si propaga dalla spalla al braccio sinistro e sul volto. Quando le vibrazioni giungono al torace allora prende un profondo respiro fecendole espandere da lì alla totalità del suo essere.
Lascia scorrere l’archetto sulle corde, le dita agili sul manico alla ricerca di altre vibrazioni. Immagini diverse si presentano agli occhi della sua mente e le manda tutte quante al violino trasformandole in suoni e vibrazioni. A volte acuti e veloci, altre brevi e lente. Profonde. Evocative.
Quando le immagini finiscono la mente resta vuota e il braccio si ferma. Apre lentamente gli occhi e sbatte più volte le palpebre per mettere a fuoco il luogo in cui si trova. La donna seduta accanto a lui ha il volto umido di lacrime e gli occhi rossi.
<< Sei tanto triste >> sussurra, tirando su col naso. Lo asciuga passandoci su la manica del maglione infeltrito. Sherlock non sa cosa ribattere. Non sente più nulla adesso. Non ha più nulla nella testa e questo è davvero strano.
La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori, diceva Johann Sebastian Bach. È accaduto qualcosa di diverso in lui, però. Ha portato nel silenzio che c’è fuori il vociare dei mille pensieri e le altrettante emozioni che gli vorticavano dentro. Quel silenzio creato dalla neve che tanto lo aveva spaventato, ora che lo ha creato dentro di sè grazie al violino lo lascia… così. Dovrebbe esserne spaventato o anche solo stupito e invece è semplicemente… così.
<< E’ possibile, sì >> ribatte accarezzando lo strumento. Sente lo sguardo della donna su di sé, ma scopre che non lo turba più come pochi giorni prima. Le mani sono intorpidite e lontane, come non fossero più sue. A dirla tutta, percepisce questa sensazione in tutto il corpo. Si accorge appena dello scatto veloce di Mary, balzata in piedi come una molla.
<< Quando sono triste mi faccio una bella torta al cioccolato con tanta panna per tirarmi su. Direi che ce ne vuole una, che ne dici Ed? >> gli chiede e lui fatica a starle dietro. Le volge uno sguardo indifferente
<< Cioccolato e panna? >> ripete valutando la proposta. Non gliene frega nulla, constata. << Perché no? >> le dice abbozzando un sorriso, giusto per farla contenta. Ed è così che la vede reagire alle sue parole. Con contentazza, appunto.
<< Domani vado in paese a prendere tutto quel che serve. Dovevo andarci comunque per fare scorte prima della prossima bufera. Te la senti di stare qui solo per un po’? >> gli domanda divenendo improvvisamente preoccupata. In effetti Sherlock ha fatto una scenata poco prima percependosi solo nel silenzio.
<< Il pensiero della torta mi farà compagnia >> si accorge di dirle, sentendo così lontane quelle parole come fossero pronunciate da qualcun altro. Qualcuno estremamente gentile e accondiscendente.
“Avevi detto che non ti saresti mai adattato per sopravvivere. Che non saresti stato come me” la voce di Mycroft. Lontana. Flebile come un sussurro. Non crede, però, di stare adattandosi a un bel niente. E’ solo che non sente più nulla.
 
 
[1] Citazione da ‘Alice nel paese delle meraviglie’ di Carroll
[2] Inno di Dublino del XVIII secolo
   
 
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