Complicazioni
Yukari guardò Kumi ed Elena, sedute accanto a lei sul sedile posteriore del taxi che le stava
portando allo stadio di Sydney.
Entrambe sembravano con la testa altrove.
La prima era ancora scombussolata dalla brutta esperienza vissuta la sera precedente, cui
solo l’intervento di Misaki aveva impedito di diventare qualcosa di ben peggiore.
Già, Misaki … non le era sfuggito il fatto che i due si erano ultimamente avvicinati.
Certamente il giovane centrocampista avrebbe affrontato quel bruto anche se a esserne in
balìa fosse stata un'altra ragazza, ma il modo in cui aveva guardato Kumi, prima di andarsene
dalla discoteca, tradiva molto di più rispetto a una mera sollecitudine.
La seconda probabilmente pensava a Wakabayashi. Avevano ballato insieme tutta la sera,
senza pause, ma aveva evitato di salutarlo, quando lui se n'era andato dal locale con i suoi
compagni di squadra.
Doveva essere accaduto qualcosa tra i due … o forse stava nascendo.
Tutti nella squadra erano al corrente della relazione tra il portiere e la giovane ereditiera Asami
Ujimori, figlia di amici di lunga data e spesso soci in affari dei Wakabayashi, tuttavia era noto
anche il fatto che il portiere prendeva lezioni di kickboxing dallo zio di Elena e quest'ultima
lavorava nello stesso complesso sportivo, e si era instaurata una certa confidenza, facilitata
anche dallo stretto legame con la Germania, una seconda patria per entrambi.
La giovane maestra d’asilo sorrise sorniona, guardando il sole che elargiva le ultime ore di luce
a quella giornata: erano mesi interessanti quelli in arrivo, e non solo perché erano in
programma le Olimpiadi.
Kumi sembrava essere rimasta, con la mente, alla sera prima.
Ogni tanto si massaggiava delicatamente le braccia, ancora doloranti per le pressioni e gli
strattoni di quel verme. Così l’aveva definito Misaki, con la sua voce carica di rabbia e di
disprezzo.
Misaki ...
Provava disgusto e angoscia nel ricordare le mani di quel molestatore percorrere
impudentemente il suo corpo, ma poi indugiava sul momento in cui il centrocampista era
intervenuto per difenderla, la determinazione e il coraggio con cui aveva affrontato
quell’energumeno che era più grosso di lui.
L’espressione dolce e preoccupata con cui si era sincerato delle sue condizioni continuava a
occupare i suoi pensieri. Si trastullava nel formulare ipotesi su cosa sarebbe accaduto se quel
bastardo fosse rimasto a terra anziché rimettersi in piedi e cercare nuovamente di colpirlo.
L'avrebbe abbracciata? Si sarebbe limitato a sfiorarle una spalla, per poi invitarla a tornare al
bancone?
Più di tutto, non si toglieva dalla testa il sorriso che le aveva rivolto dopo che lei, in uno slancio
di audacia che aveva sorpreso anche sé stessa, gli aveva confessato che avrebbe voluto
essere invitata a ballare da lui.
E ora aspettava con trepidazione di incontrarlo di nuovo: cosa si sarebbero detti, come
l’avrebbe guardata? Nemmeno con Tsubasa si era sentita così: perché la situazione era
diversa.
All’epoca della sua cotta per il capitano sapeva, dentro di sé, di non avere possibilità.
Con Misaki, aveva colto dei segnali che potevano indurla a sperare di aver suscitato qualcosa
in lui.
Ma non voleva forzare: preferiva lasciare che le cose seguissero il loro corso.
Diversi e molto più contrastanti erano i pensieri di Elena.
Si era addormentata associando la sensazione del lenzuolo che la copriva fino alla schiena
con quella che aveva provato quando le braccia di Genzo l'avevano circondata. E quando
aveva chiuso gli occhi, il nero non era quello del buio, ma quello dello sguardo del portiere.
Era attratta da Genzo. Si sentiva in colpa per Gianluca. Oppure, amava ancora Gianluca ma le
mancavano le attenzioni di un ragazzo? Il suo cuore era un vortice di sentimenti confusi, che
non riusciva a isolare e a definire. E forse ad ammettere.
Elena, Kumi e Yukari raggiunsero i ragazzi del gruppo dei supporter nei pressi del "Sydney
Football Stadium", per poi entrare nello stadio e prendere posto insieme a loro nella curva
riservata ai tifosi della squadra ospite. Si ritrovarono proprio alle spalle di una delle porte.
Le squadre entrarono in campo, e i giocatori e la terna arbitrale si disposero in fila, a formare
una linea orizzontale, preceduta da un'altra linea formata dai bambini entrati in campo con loro.
Il lancio della moneta diede al capitano Matsuyama la possibilità di scegliere il lato del campo.
Nel secondo tempo, Wakabayashi sarebbe stato davanti alla curva giapponese.
Le due formazioni si dispersero sul campo, e i giocatori andarono a prendere posizione.
Il Giappone impose subito il suo gioco. Tuttavia, la difesa australiana era bene organizzata,
composta da calciatori dal fisico robusto e forti nei contrasti.
Alla mezz'ora, i ragazzi allenati da Kozo Kira riuscirono finalmente a raccogliere i frutti del loro
atteggiamento propositivo.
Soda corse velocissimo sulla fascia ed effettuò uno dei suoi cross a effetto.
Misaki evitò con uno splendido dribbling gli interventi dei difensori australiani, corse incontro
all’ottima palla lanciata dal difensore e saltò colpendola con il piede sinistro, scatenando la
gioia incontenibile dei tifosi.
Kumi fece un salto e mise un braccio attorno alle spalle di Yukari e l’altro attorno a quelle di
Elena, facendole quasi cadere, tra esultanze e risate.
Il primo tempo si concluse con il Giappone in vantaggio.
«Se segnassero subito, l'Australia si scoraggerebbe e a quel punto avremmo la partita in
pugno.» considerò Manabu, entusiasmato dall'ottima prestazione dei samurai.
Ma i padroni di casa, com'era prevedibile, cominciarono con una maggiore aggressività
rispetto alla prima frazione di gioco.
Per i ragazzi di Kira divenne più complicato impadronirsi del pallone e costruire nuove azioni.
A pochi minuti dall'inizio del secondo tempo, accadde qualcosa di grave nell'area di rigore del
Giappone.
Un giocatore australiano si avvicinò a Igawa e gli disse qualcosa. Doveva trattarsi di frasi
provocatorie perché il difensore nipponico, che già in precedenza aveva dato segni di
nervosismo, assestò una gomitata all'avversario, che cadde a terra. I compagni di reparto e
Genzo scattarono verso di lui, ma era troppo tardi.
L'arbitro aveva visto la scena. Si diresse verso Igawa e gli mostrò il cartellino rosso.
Il difensore dovette così uscire dal campo.
Il c.t. Kira, per tentare di bilanciare le forze in campo, richiamò Wakashimazu in panchina,
inserendo al suo posto Izawa.
Ma il peggio doveva ancora accadere.
Al ventesimo del secondo tempo, l'arbitro fischiò un calcio di punizione per l'Australia, per un
fallo di Soda su Konwell. Lo stesso Konwell si incaricò di battere, e disegnò un tiro angolato
che Genzo parò con sicurezza, ma non era riuscito a evitare Duviga che, corso in avanti per
cercare di deviare il pallone in rete, finì per spingere Wakabayashi verso il palo della porta.
L'impatto fu tremendo: il portiere andò a sbattere il viso nella zona dell'occhio sinistro.
Il maxischermo proiettò le immagini dell'azione in cui Genzo, aggrovigliato all'attaccante
australiano, aveva sbattuto la testa contro il palo. Elena sgranò gli occhi, scattò in piedi e si
portò una mano alla bocca.
«Genzo …» mormorò, spaventata.
Il portiere rimase a terra, e per alcuni minuti che sembrarono eterni non si mosse.
I suoi compagni di squadra lo attorniarono, preoccupati.
«Wakabayashi, mi senti?» chiese Matsuyama, accosciatosi accanto a lui.
Genzo strinse i denti, per il dolore. Un dolore lancinante all'occhio sinistro. Sotto il suo viso,
l'erba si stava macchiando di rosso.
«Sta perdendo sangue! Presto, fate venire il medico!» gridò Misugi, facendo segno alla
panchina e all’arbitro, che autorizzò l’ingresso dello staff medico.
I medici corsero in campo, portando una valigetta con l'occorrente per prestare cure
immediate e una barella.
Genzo fu aiutato ad alzarsi in piedi. Il suo viso era coperto per metà di sangue.
I tifosi giapponesi assunsero un'espressione sconvolta, alcuni di loro, soprattutto donne, si
coprirono il viso.
«Oh mio Dio …» esclamò Elena, giungendo le dita delle mani all'altezza del mento, sotto il
labbro inferiore. Il bel volto di Genzo sembrava una maschera macabra.
«Non mi serve la barella.» protestò il portiere.
«A ogni modo Wakabayashi, non puoi continuare. Il tuo occhio sanguina e sicuramente hai una
ferita orbitale. Devi lasciare il campo e consentire al c.t. di sostituirti.» gli disse perentorio il
dottor Takeda, il capo dello staff medico della Nazionale, pulendogli il viso e mettendogli in
mano una borsa piena di ghiaccio, che Genzo premette sull'occhio.
Il numero 1 nipponico uscì dal campo accompagnato dai medici e dagli assistenti che
trasportavano la barella da lui rifiutata, tra gli applausi dei suoi connazionali.
Batté una mano sulla spalla di Morisaki, esortandolo a proteggere quel risultato così prezioso.
Rimase in piedi accanto alla panchina, continuando a tenere la borsa premuta sull'occhio.
«Wakabayashi, è meglio se vai all'ospedale per gli accertamenti.» insistette il medico.
«Mancano venticinque minuti. Voglio restare qui fino alla fine della gara.» replicò, risoluto.
«Ma Wakabayashi, la palpebra è chiusa e tumefatta, l'occhio è gonfio. Se aspetti, rischi di
causare seri danni alla tua vista.»
«Non sento dolore. Voglio vedere la parte finale di questa gara.» ribadì, senza alcuna
intenzione di lasciarsi persuadere.
Alla fine, il dottor Takeda sospirò e annuì con una smorfia «E va bene, Wakabayashi. Ma dopo
il fischio finale, andremo subito all'ospedale.» replicò con tono fermo e ammonitorio, incontrando
stavolta il cenno d'assenso del giocatore.
Elena non aveva perso un attimo di quella scena, pur non potendo ascoltare il dialogo tra i due.
Kumi le prese una mano, per infonderle coraggio. Rabbrividì nel sentirla gelata.
Anche a gioco ripreso, i suoi occhi si spostavano dallo svolgimento della gara a Genzo in piedi
accanto alla panchina. Aveva deciso di rimanere vicino ai suoi compagni. Spesso lo sentiva
gridare frasi di incoraggiamento.
«Tenete duro, ragazzi. Mancano cinque minuti!»
Ma anche Elena sapeva bene che cinque minuti, nel calcio, potevano essere un'eternità. Il
risultato poteva rimanere invariato, come cambiare. E sperava che lo scorrere del tempo
smentisse quel brutto presentimento che era nato in lei già dopo l’espulsione di Igawa.
Morisaki riuscì a parare un bellissimo tiro di Konwell, mandando il pallone in calcio d'angolo. Lo
stesso talentuoso australiano andò a batterlo. Duviga si eresse in tutta la sua statura e
imponenza, e neppure Izawa riuscì a contrastarlo.
Il gol del pareggio galvanizzò l'Australia che passò in vantaggio dopo tre minuti, grazie a un
potente tiro ancora di Konwell.
Misugi riuscì a togliere il pallone a Shooker e lo calciò in avanti verso Matsuyama, che avanzò
palla al piede evitando gli avversari e tirando poi verso Nitta, che effettuò uno dei suoi hayabusa
shoot.
Calciò con tutta la potenza di cui era capace, supportata dalla forza della disperazione.
Il portiere riuscì a pararlo, ma soltanto deviandolo fuori campo.
Il Giappone ottenne così un calcio d'angolo, strappato con i denti.
Taro si incaricò del tiro.
«Non posso sbagliare … se perdiamo questa partita, la nostra strada verso Madrid potrebbe
essere compromessa ….» bisbigliò a sé stesso, mentre posizionava il pallone e indietreggiava
per prendere la rincorsa.
Poteva tentare il tiro direttamente in porta. In J League aveva segnato più volte in quel modo.
Ma c'era anche un ottimo colpitore di testa come Izawa, e Morisaki che aveva lasciato la porta
per prendere parte a quell'ultima occasione.
I tifosi giapponesi incitarono i loro giocatori con tutto l’ardore di cui erano capaci, sperando di
farsi sentire nonostante l’inferiorità numerica e la distanza dalla porta australiana.
Alla fine, Taro scelse di provare a sorprendere i Socceroos con un tiro a effetto: il pallone era
diretto verso l'angolo più lontano, dove Morisaki e Izawa stavano accorrendo per deviarlo in
rete. L'azione era stata però seguita da Duviga che anticipò i due giapponesi e colpì di testa
con una potenza tale che il pallone raggiunse il centrocampista Shooker il quale, libero da
marcature, calciò forte verso la porta giapponese, rimasta incustodita.
Ishizaki fu il primo a reagire e corse disperatamente verso il pallone che stava rimbalzando
verso la rete. Troppo velocemente. Un altro rimbalzo e avrebbe varcato la linea.
Ryo si tuffò, ma non riuscì a raggiungerlo. Ricadde a terra nello stesso momento in cui il
pallone concludeva la sua corsa andando a finire in fondo alla rete.
L'Australia aveva battuto il Giappone per 3-1.
I padroni di casa rinsaldarono la loro posizione in testa a punteggio pieno, mentre i nipponici
rimasero a quattro punti, insidiati da una scomoda contendente come l'Arabia Saudita.
La strada verso Madrid assunse, nelle menti di Kira e dei suoi ragazzi, l'immagine di una salita
ripida e proibitiva.
Genzo guardò i giocatori australiani e il loro c.t. Coleman esultare mentre i suoi compagni
rimasero fermi sul campo, con la testa bassa e le mani sui fianchi oppure a terra, delusi e
sfiniti dalla fatica.
Era come pietrificato, e la sua mano allentò la presa sulla borsa del ghiaccio.
«Andiamo, Wakabayashi.» lo esortò il dottor Takeda, mettendogli una mano sulla schiena.
«Rimarrà qui per una settimana, poi sarà operato. Non potrà giocare per il resto del girone.» gli
aveva annunciato cinque giorni prima il dottor Ikebe, il primario del reparto di chirurgia maxillo-facciale della clinica in cui
Genzo era stato trasferito dopo essere rimasto in osservazione per due giorni in un ospedale
di Sydney.
Era stato sottoposto a un esame clinico e a una tomografia computerizzata sia a Sydney sia a
Tokyo, e l'ultimo esame oculistico aveva escluso lesioni dirette all'occhio.
Fortunatamente il quadro clinico era molto meno preoccupante di quanto temuto dal dottor
Takeda.
Un intervento chirurgico era però necessario per evitare il verificarsi di asimmetrie del viso e
disturbi della visione.
Sdraiato nel suo letto con la parte sinistra del viso quasi completamente coperta dalla
fasciatura, strinse i pugni e digrignò i denti. Una lacrima uscì dall'occhio destro, rigandogli la
guancia.
Per lui non c'era notizia peggiore di quella di non poter giocare.
Aveva puntato tutto su quelle partite. Voleva concludere entrambi i gironi senza subire reti, e
ora si stava mettendo in forse la sua partecipazione ai Giochi Olimpici.
E la qualificazione si stava allontanando.
«Quest’anno sta andando male tutto … non credo al brutto karma o agli anni sfortunati, ma
ogni cosa che tocco si dissolve come cenere.» pensò.
Strinse i pugni. Più di tutte le sensazioni, odiava quella di impotenza.
Ma c'era anche un'altra cosa che lo angustiava, e mai avrebbe pensato che un sentimento di
tale natura avrebbe potuto tormentarlo come la prospettiva di una mancata qualificazione.
Elena ….
L'aveva ignorato quando aveva salutato lei e le altre ragazze, prima di andarsene dal locale.
Era come se volesse tenerlo a distanza, dopo aver lasciato che la stringesse per il tempo di un
ballo, dopo che i loro occhi si erano incatenati in un lungo sguardo.
Lo attraeva, era inutile negarlo. E anche lei sentiva la stessa cosa, ne era certo.
Entrambi avevano un motivo per non avvicinarsi troppo l'uno all'altra.
Non erano liberi.
Lui aveva un legame presente con Asami, una ragazza che aveva saputo capirlo e affascinarlo
come non aveva mai fatto nessuna, prima di conoscere la bionda insegnante, con cui aveva in
comune una vita passata di cui erano rimaste macerie.
Elena … lei stava cercando di rinascere dopo una storia finita non per suo volere, e soltanto
per una tragica circostanza. Non sapeva se erano i ricordi o un sentimento ancora presente a
tenerla legata a Gianluca.
Di una cosa era sicuro: una volta uscito dall’ospedale, l’avrebbe cercata. Non le avrebbe
permesso di sparire dalla sua vita prima di capire cosa provassero veramente l’uno per l’altra.
I suoi genitori erano passati il giorno prima, così come Mikami.
Keisuke gli aveva telefonato da Miami, dove si trovava per una breve vacanza.
Aveva ricevuto delle chiamate anche dalla Germania: Kaltz, Schneider e naturalmente
Günther Hoffmann.
Poi erano stati da lui alcuni compagni di squadra e aveva ricevuto un'altra chiamata da
Tsubasa, preoccupato dopo aver visto la gara contro i Socceroos.
L’infermiera gli annunciò la visita di suo fratello Hiroji, che subito dopo entrò con Annie e
Kenichi.
«Mica tanto dorata, questa settimana.» esordì il dirigente.
Genzo abbozzò un sorriso, amareggiato «Degna continuazione della mia stagione in
Bundesliga.»
«Su, ora non fare il pessimista! Non ti si confà.» lo ammonì Annie «Abbiamo appeso i koinobori
sopra la casa. Ce n’è uno anche per te.»
«Grazie.» disse, sorridendo dell’entusiasmo da bimba che la cognata sempre mostrava per le
tradizioni nipponiche.
«Abbiamo pensato fosse di buon auspicio, visto che ti trovi ad affrontare una situazione
difficile. La corrente si è fatta ostile.» spiegò Hiroji.
«Zio, mi dispiace che non sei tornato per le vacanze. Mi avevi promesso di aiutarmi a far volare
l’aquilone.» gli disse Kenichi, con un’espressione un po' crucciata.
Genzo tirò le labbra da entrambi i lati, dispiaciuto «Lo so, Ken. Purtroppo è successo questo
incidente.»
«E il tuo occhio come sta?»
Il giovane sorrise «Sta bene. Tra un paio di giorni verrà operato, poi rimarrà bendato e ben
protetto per qualche giorno, e poi metterò una maschera. Tra due mesi, o forse meno, sarà
come nuovo.»
«Una maschera? Come quella di Zorro?» chiese il bimbo, spalancando gli occhi.
«Più o meno.» fu la divertita risposta, data scambiando ridenti occhiate con il fratello e la
cognata.
«Ma giocherai alle Olimpiadi?»
«Certo. Farò l'impossibile pur di esserci.»
Hiroji fece una smorfia «Più che il tuo occhio, mi preoccupa il Giappone. All'Australia basta un
pari, e le vostre avversarie sono squadre tutto sommato deboli.»
Genzo contrasse la mascella «Non c'è ancora nulla di deciso. Il Giappone vincerà contro
l'Arabia Saudita e il Vietnam, e intanto speriamo in un errore degli australiani. Il Vietnam è la
cenerentola del girone, ma l'Arabia Saudita ha un paio di giocatori di ottimo livello come Vulkan
e soprattutto Al Owairan. Daranno del filo da torcere come hanno fatto con noi.»
«Sì … è giusto aggrapparsi a questa speranza. Finché c'è.» concordò il fratello.
«Ti abbiamo portato una vaschetta di kashiwamochi, così potrai addolcire un po’ queste
giornate.» disse Annie, posandola sul comodino di fianco al letto.
Genzo la ringraziò. Scambiarono ancora qualche parola, poi i suoi tre famigliari si
congedarono.
Appena usciti, si imbatterono in una ragazza bionda che veniva dalla direzione opposta alla
loro.
Elena si fermò, guardandoli. Annie e il piccolo Kenichi erano appena usciti dalla stanza in cui
era ricoverato Genzo, seguiti da un uomo bellissimo, alto e dal fisico imponente, con capelli e
occhi neri come la pece. Non c’erano dubbi che si trattasse del fratello maggiore del portiere.
«Ciao.» sorrise Kenichi quando la riconobbe, agitando una mano.
Elena rispose al saluto, estendendolo a Annie.
«Ciao Elena.» rispose la donna «Non conosci mio marito, vero? Questo è Hiroji.» disse, con
un gesto della mano.
«Lei è Elena, lavora alla palestra Shiroyama.» aggiunse poi, rivolta al giovane imprenditore.
«Molto lieta, Wakabayashi-san.» disse la giovane, con un inchino.
Hiroji sorrise e si inchinò a sua volta.
«Ti lasciamo andare da Genzo. A presto, Elena.» si accomiatò, per poi avviarsi con il marito e
il figlio verso le scale che portavano al piano terra.
Genzo riadagiò la testa contro il cuscino e sospirò.
La stanza era di nuovo vuota, e il suo cervello tornò preda di pensieri negativi e quasi
autolesionisti.
L'infermiera si affacciò alla porta e gli annunciò che c'era una nuova visita per lui.
La porta si aprì ed entrò Elena.
Genzo spalancò l'occhio destro per la sorpresa, ma lo stupore venne sostituito da un sorriso.
Quel momento di massimo scoramento gli sembrò a un tratto lontano, come se un raggio di
luce avesse appena squarciato una spessa coltre di nuvole.
«Ciao.»
«Ciao Genzo.» rispose la ragazza, fermandosi accanto al letto «Come stai?»
«È una frattura orbito-zigomatica dell'occhio sinistro. Tra due giorni mi opereranno, poi rimarrò
bendato per qualche tempo.» disse, recitando quasi a memoria la diagnosi pronunciata dal
medico.
«Ho pensato di portarti qualcosa che potrebbe aiutarti a farti un po' di coraggio. Avevo pensato
a un omamori, ma questo forse è più adatto a tenerti compagnia.»
Da dietro la sua schiena, fece comparire un maneki neko delle stesse dimensioni che lui le
aveva fatto vincere la sera dello Yozakura e glielo mise tra le mani.
«Rosso ….» sorrise Genzo, rigirandolo.
«Già. Il più adatto alla situazione.»
«Non solo questa. Se è efficace, i miei infortuni nel prosieguo della carriera dovrebbero
diminuire.» sogghignò, strappando un sorriso divertito alla ragazza.
Posò la scultura sul letto. «Grazie.» disse con un tono di voce basso e caldo, afferrandole una
mano.
Elena spalancò gli occhi, sentendo il suo cuore battere più forte e le guance accaldarsi «Di
nulla.» mormorò, dopo alcuni, lunghissimi secondi. «Sai, non mi aspettavo di vederti.» replicò.
Genzo la vide arrossire e avvertì le sue pulsazioni farsi più rapide. Allentò la presa e lei ritirò la
mano, evitando di incrociare quell’occhio che, ne era certa, stava cercando di scrutare la sua
anima.
In quel momento, l’infermiera annunciò la visita di due signore, e poco dopo fecero il loro
ingresso Maeko Ujimori e la figlia Asami.
Elena si voltò, e incrociò subito lo sguardo della donna più giovane.
Una ragazza bellissima, di media altezza, con lunghi, lisci e lucidi capelli neri e occhi dello
stesso colore. Un viso privo di difetti, un portamento impeccabile. Una perfetta rappresentante
della bellezza femminile giapponese, una donna capace di suscitare ammirazione immediata
in chi la guardava. Intuì subito di avere davanti a sé Asami Ujimori, la fidanzata di Genzo.
Rimasero a guardarsi per alcuni secondi, in cui Elena ebbe l’impressione di sentirsi chiedere
«E tu chi sei?» da quei profondi occhi neri.
«Bene, allora vado, Wakabayashi-san. Spero di rivederti presto in campo.» disse,
congedandosi con un inchino. Genzo la guardò dapprima stupito. Wakabayashi-san?
Poi capì. Aveva finto una conoscenza superficiale, aveva usato il suffisso onorifico per non
creargli problemi con quella che aveva intuito essere la sua ragazza, anche se non c'erano
state presentazioni.
Elena rivolse un altro inchino ad Asami e alla madre e uscì dalla stanza, seguita dallo sguardo
di entrambe.
Quella ragazza aveva il tipico aspetto nordico. Era bella, senza dubbio, anche se aveva un'aria
semplice, perfino un po' dimessa con quella maglietta un po' larga e quei jeans scoloriti. Forse
era tedesca … ma non aveva chiamato Genzo per nome, segno che tra di loro non doveva
esserci molta confidenza. Eppure era andata a fargli visita.
«Carina quella ragazza.» sorrise Maeko, con il tono affabile di chi sapeva che non poteva
comunque eguagliare il fascino di sua figlia, e che a Genzo provocò un fremito di fastidio.
«È la nipote del mio maestro di kickboxing, lavora anche lei nella palestra dove mi alleno.»
replicò, riuscendo a non farlo trasparire dalla voce.
Asami annuì «È vero, mi avevi detto che il maestro Nerlinger ha una nipote. Dev’essere
l’insegnante di ginnastica artistica, se non ricordo male.»
Genzo assentì, e Asami decise che quell’argomento aveva esaurito tutto il suo interesse.
Proseguì informandosi sulle sue condizioni, e raccontandogli, con la collaborazione della
madre, ciò che le era accaduto nei giorni in cui lui era in Australia.
Quasi non l'ascoltò. I suoi pensieri vagavano fuori da quella stanza e da quell'edificio, da cui lei
doveva essere ormai uscita.
Elena scese dal taxi e attraversò le strade del quartiere speciale di Meguro con aria assente,
immersa tra la folla brulicante come un formicaio, mentre dirigeva i suoi passi verso la
struttura in cui era ospitato Carlo con il suo staff.
Un senso di scoramento si era fatto strada in lei, dopo aver incrociato Asami Ujimori.
Quella giovane e sofisticata ereditiera era bellissima, con un'eleganza naturale e un portamento
che emanava classe e raffinatezza.
Non sapeva se si sentiva a disagio per il fatto di sentirsi attratta da un ragazzo già impegnato o
per il dubbio che lui si stesse soltanto divertendo a flirtare con due ragazze, o se era dovuto al
paragone che stava facendo tra lei e sé stessa.
Aveva deciso di andare a Tokyo per sfuggire a una domenica fatta di stanco e annoiato
girovagare. La compagnia di un cagnolino vivace e affettuoso come Wilhelm non era
abbastanza per dimenticare, seppure per poco, le sue preoccupazioni. Era così andata a
trovare suo zio, impegnato negli allenamenti per il suo incontro, e poi si era recata al tempio.
Lì aveva pensato a Genzo, Taro e alla Nazionale, al sogno che rischiava di infrangersi contro la
barriera australiana.
Vedere Wakabayashi sbattere la testa contro il palo della porta le aveva provocato fremiti di
paura che ancora la facevano rabbrividire, al ripensarci. E aveva temuto che l'occhio del
portiere avesse subìto un danno tale da compromettere la sua carriera.
Sapeva che sarebbe stato meglio mantenere le distanze, ma non voleva perdere la sua
amicizia e dimostrarsi ingrata per le volte in cui l'aveva aiutata e ascoltata.
Aveva deciso così di fargli visita e di portargli un talismano che potesse scacciare i cattivi
presagi. In un primo momento aveva pensato di comprargli un omamori, poi le era venuto in
mente quel maneki neko su cui ogni mattina si aprivano i suoi occhi e che le suscitava sempre
un sorriso, e un inevitabile pensiero anche a chi le aveva reso possibile ottenerlo.
Ebbe un fremito nel rendersi conto che avrebbe potuto accadergli la stessa cosa.
Si affrettò verso il dojo che Carlo aveva scelto come sede dei suoi allenamenti.
L'atmosfera sembrò essere tornata, almeno per quella calda e luminosa domenica di maggio,
simile a quella degli anni delle medie e del liceo, pensò Kumi, seduta a un tavolo del "Caffè
Ocean" con due amiche del suo gruppetto storico, davanti a una tazza di tè e a una fetta di
torta.
«Così Madoka sta trascorrendo un romantico week-end con Nitta?» le chiese Saya mentre svuotava una bustina di zucchero nella sua tazza. I suoi gesti, qualunque cosa facesse, denotavano sempre una grazia naturale.
«Sì.» rispose, prendendo un sorso del suo tè «Sono andati alle terme.» sussurrò poi, con aria
misteriosa.
«Oh, stanno recuperando alla grande, quei due.» commentò Ikuko, una ragazza con un viso
un po' paffuto incorniciato da due lunghe trecce rosse, con una risata.
«E tu, con Misaki? Passi avanti?» chiese ancora Saya, ravviandosi una ciocca dei suoi lunghi capelli castani.
Kumi fece una piccola smorfia, giocherellando con il cucchiaino «Forse.»
Raccontò, con un po' di riluttanza e disagio, quanto accaduto nella discoteca di Sydney,
rianimandosi nella parte in cui Taro era arrivato ad affrontare il suo quasi aguzzino.
Le due amiche si profusero in espressioni contrite e sdegnate per quello che aveva subìto, ma
sospirarono con occhi sognanti nell'immaginare Misaki nelle vesti di coraggioso cavaliere che
interveniva a salvarla.
«Oh Kumi, secondo me sei sulla buona strada. Misaki è il ragazzo dei sogni, devi cercare di
incontrarlo e di fargli capire che ti piace!» la esortò poi Saya.
La ragazza scosse la testa «Ora sarà difficile. Il Giappone ha perso l'ultima partita e deve
vincere le prossime tre. I giocatori sono rientrati subito al J-Village e solo dopo Kira ha
concesso due giorni di pausa.»
«E lui non è tornato a Nankatsu?»
«No. A quel che mi ha detto Yukari, è andato a Sendai dalla famiglia di sua madre, e a quanto
sembra è rimasto a dormire da loro. In fondo, non aveva alcun motivo per tornare qui: suo
padre sta facendo un viaggio in Corea del Sud.» si strinse nelle spalle.
«Già, nessun motivo …»
«Beh, sei nel gruppo dei supporter, no? E allora, la prossima partita che giocheranno in casa,
placcalo subito non appena esce dallo stadio!» gridò quasi Ikuko, battendosi un pugno sul
palmo dell'altra mano, facendo girare verso di sé altri avventori e guadagnandosi un'occhiata
assassina da parte dell'amica.
«Prima che lo faccia la biondina.» aggiunse Saya con un tono più sommesso, facendole
l'occhiolino.
Kumi sorrise, perplessa.
«Sapete … da quel che ho visto a Sydney, non sono più così sicura che a Elena interessi
Misaki.»
«Davvero? Questa è una splendida notizia!» esclamò Saya, giungendo le mani «Se è così, hai
la strada libera da rivali. Però …» continuò, come colpita da un'illuminazione «Se pensi che
non le interessi Misaki, allora significa che l'hai vista flirtare con qualcun altro!»
Kumi non trattenne un tremolio delle labbra.
«Ah, ho colto nel segno! Chi è?»
«Dai Kumi, diccelo! È un altro giocatore della Nazionale?» insistette Ikuko, sporgendosi verso
di lei, con le mani sul tavolo.
«Non mettetevi a gridare …» le ammonì, con uno sguardo minaccioso al quale fecero un
cenno d'assenso « … Wakabayashi.»
Entrambe repressero a malapena un gridolino «Wakabayashi! Certo che ha gusti raffinati, la
biondina. Ma pensandoci bene, è naturale che si butti su di lui. È alto, tedesco d'adozione …
peccato che sia fidanzato con l'ereditiera.» ricordò Ikuko, con un ammicco.
Kumi si rese conto di aver parlato troppo. Per esprimere una sua speranza e poi per non
tradire la confidenza fatta da Elena la sera dello Yozakura, aveva esposto lei e il SGGK a dei
pettegolezzi.
Era stato indelicato attribuire già un interesse per un altro, a una ragazza che soltanto un mese
prima confessava tutto il suo dolore e senso di colpa per l'ex fidanzato, cui non aveva mai
smesso di pensare. Ma era l'impressione che aveva avuto in Australia guardando
Wakabayashi ed Elena insieme, e che le aveva dato anche la reazione della ragazza dopo
l'infortunio del portiere.
In fondo, non era così impossibile. Erano passati molti mesi da quell'incidente, e la giovane
insegnante si era liberata di un peso confidandosi.
Inoltre, Wakabayashi era dotato di un fascino e di un carisma non comuni in un ragazzo della
sua età. Aveva la capacità di risvegliare certe sensazioni in una ragazza che era rimasta
legata a un ricordo e che inconsciamente aveva deciso che non avrebbe più potuto esserci
nessun altro, per lei.
Pensò a quanto quei due fossero simili: entrambi erano tornati in Giappone per costruire un
nuovo punto di partenza per la loro vita, entrambi avevano visto, seppure per motivi diversi, i
loro mondi disgregarsi nel giro di pochissimo tempo. Sarebbe stato bello se avessero potuto
proseguire il loro percorso insieme ….
«Proprio per questo … vi prego di non parlarne in giro. È solo un'impressione che ho avuto
vedendoli insieme. In Europa la gente è abituata a comportarsi più apertamente, può darsi che
io esageri.»
«D'accordo. Però speriamo per te che sia veramente così. In ogni caso, con Misaki fai come ti
abbiamo detto, braccalo! Come farebbe la vecchia Kumi.» la esortò Saya, con un altro,
significativo ammicco.
Alcune ore dopo, seduta alla sua scrivania, Kumi ripercorse mentalmente la sua giornata,
soffermandosi sulla conversazione con Ikuko e Saya.
Le avevano consigliato di agire come la vecchia Kumi, quella intraprendente, che cercava di
sfruttare ogni occasione per interagire con il ragazzo che le piaceva.
Ripensò soprattutto al suo primo anno di scuola media, quando cercava di farsi notare da
Tsubasa.
Già … cos'avrebbe fatto la vecchia Kumi, in una situazione del genere?
Al netto dei comportamenti un po' invadenti e immaturi della tredicenne che era, avrebbe
cercato almeno di mettersi in contatto.
Scorse la rubrica del cellulare, alla ricerca di quel numero che aveva memorizzato due anni
prima, quando era manager, per poi accordarsi con Sanae e Yukari su quali giocatori sarebbe
spettato a ognuna di loro chiamare per le comunicazioni improvvise legate agli allenamenti e
ad altri impegni del club.
Chissà se era ancora quello … premette il tasto di avvio della chiamata, con un po' di
inquietudine.
«Sugimoto?» la ragazza trasalì nel sentire la voce limpida e gentile di Taro. Aveva conservato
anche lui il suo numero? O forse … si mise una mano sul petto.
«Calmati, Kumi.»
«Ehm … sì.» rispose schiarendosi la voce e maledicendo la sua insospettata timidezza. «Ciao
Misaki. Volevo solo augurarti buon compleanno.»
«Grazie.» rispose il ragazzo, sorpreso ma anche felice del fatto che Kumi lo avesse chiamato.
«E tu come stai?» chiese poi, desiderando poter recuperare per telefono almeno parte di
quella conversazione che non era stata possibile dopo la gara.
«Ora abbastanza bene.»
«Bene …» replicò Taro sedendosi sul letto, senza sapere che altro dire.
«Sei ancora a Sendai?» chiese però Kumi, togliendolo dall'impaccio.
Quella sera aveva festeggiato il suo ventunesimo compleanno in un ristorante della città, con
Yumiko, Yoshiko e Taisho. La famiglia Yamaoka non aveva badato a spese e gli aveva offerto
una cena da principe. Era da poco rientrato a casa, e ora era in camera da letto, in procinto di
cambiarsi d'abito. Aveva appena finito di sbottonarsi la camicia quando aveva sentito suonare
lo smartphone.
Con stupore aveva letto il nome della mittente e aveva tenuto gli occhi fissi sullo schermo per
alcuni secondi, prima di riscuotersi e accettare la chiamata.
«Sì, ho festeggiato con la mamma, con mia sorella e il signor Yamaoka. Ci tenevano a stare
con me almeno una volta, in un giorno come questo.»
«Hai fatto bene. Sono contenta che abbiate recuperato il vostro rapporto.»
«Sì, anch'io sono felice di poter dire che ho una mamma e una famiglia che mi sostengono,
oltre a papà.» disse, e a Kumi si strinse il cuore.
«Domani riparto, vado direttamente al J-Village. Ci aspettano tre partite dure, e non sappiamo
nemmeno se ci basterà vincerle tutte.» le confidò poi.
«È inutile chiederselo. Vanno vinte e basta. E poi … si può soltanto sperare.»
«Già … hai ragione.»
Kumi guardò l'orologio. Era tardi. Avrebbe voluto dirgli ancora tante cose, anche solo per
continuare a sentire la sua voce.
«Allora, alla prossima partita, con l'Arabia Saudita.» riuscì a dirgli, infine.
«Sì … vedrai, la vinceremo.» disse, con un tono caloroso e rassicurante che sorprese ed
emozionò entrambi.
Taro chiuse la chiamata e appoggiò lo smartphone sul comodino, senza spegnerlo, e si sdraiò
sul letto.
Aveva pensato spesso a Kumi. Non ricordava di averle mai lasciato il suo numero, né di avere
lui il suo. Dovevano averlo scambiato ai tempi del club di calcio, non c’era altra spiegazione.
Non era riuscito a rivederla, dopo la partita: lui e gli altri giocatori non avevano potuto incontrare
i tifosi fuori dallo stadio, poiché Kira aveva deciso di ripartire subito per il Giappone, così erano
defluiti da un'uscita secondaria.
Gli era parsa così fragile … e bella. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia e dirle di non
tremare più, che era al sicuro. E forse l'avrebbe fatto, se quel bastardo non avesse cercato di
colpirlo di nuovo.
Le sue labbra si tesero in un sorriso, mentre con il cervello cercava di ricreare quel contatto
mancato, e scivolò in un sonno sereno.
***Note***
Omamori: amuleti giapponesi dedicati sia a particolari divinità Shinto, che a icone buddiste. La
parola giapponese mamori significa protezione, mentre il prefisso onorifico o- dà alla parola un
significato movente verso l'esterno, andando a significare "Tua protezione".
La copertura dell'amuleto è fatta solitamente con stoffa e racchiude al suo interno una
preghiera scritta su un foglio di carta o un pezzo di legno.
In quest'immagine, un omamori contro gli spiriti maligni, detto yakuyoke. È anche uno dei più
richiesti.
Come già spiegato nelle note al capitolo IX, il rosso è un colore protettivo che per la sua
vivacità tiene lontani gli influssi e spiriti maligni.
Socceroos: è il soprannome dei calciatori australiani, nato da una fusione tra i termini soccer
("calcio") e kangaroos ("canguri", che com’è noto sono gli animali simbolo dell'Australia).
Kodomo No Hi: la "festa dei bambini", l'ultima nell'ambito della Golden Week, si celebra il 5
maggio ed è un’occasione per esprimere gratitudine per la crescita in salute dei ragazzi e di
preghiera e per preservarli dalle malattie e dalle influenze negative.
Tradizioni di questa festività sono l’esposizione di bambole di guerrieri, i kabuto ningyo,
equipaggiate con elmo e armatura, e il famoso koinobori, le carpe di carta appese a dei
pennoni che si fanno ondeggiare nel cielo.
La carpa è considerato uno dei pesci più virtuosi per la sua capacità di risalire i torrenti ed è
simbolo di tenacia (secondo una leggenda cinese, la carpa che nuota controcorrente si
trasforma in drago). Così come le carpe nuotano controcorrente, allo stesso modo i koinobori
“nuotano” controvento, e costituiscono un augurio per i bambini, affinché crescano tenaci e
robusti come le carpe.
Come tradizione, si usa preparare i kashiwamochi, cioè dolci di riso farciti con marmellata di
fagioli azuki avvolti in foglie di quercia, che poi vengono distribuiti tra amici e vicini, e i chimaki
(dolcetti di riso avvolti in foglie di bambù), che invece vengono mangiati in famiglia.
Fonte: TradurreIlGiappone
Ikuko e Saya (quest'ultima, citata anche nel capitolo VII) sono le altre due amiche del gruppo di
Kumi comparse nel manga.
Anche i loro nomi come quello di Madoka, sono stati attribuiti da me, poiché nelle tavole del
Taka non vengono mai menzionati.
Lo stesso discorso vale per Taisho, il signor Yamaoka.
Auguro a tutti un Buon Anno Nuovo e una buona Epifania!
Sandie