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Autore: Sandie    06/02/2019    2 recensioni
Genzo torna in Giappone lasciandosi alle spalle Amburgo e tutte le sue certezze crollate in pochi mesi.
Ritrovati la sua famiglia e gli amici di sempre, nel suo futuro ci sono le Olimpiadi di Madrid e decisioni importanti che apriranno un nuovo capitolo della sua vita. Un destino che condivide con Taro.
I loro percorsi si intrecciano con quelli di Kumi ed Elena: due ragazze che, come loro, dovranno costruire una
nuova vita, diversa da quella immaginata.
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Genzo Wakabayashi/Benji, Kumiko Sugimoto/Susie Spencer, Taro Misaki/Tom
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo XIV

Capitolo XIV


Padri e figli

 


L'autobus proveniente da Fuji rallentò in prossimità della fermata e accostò.

Kumi era appena scesa, quando sentì una piccola goccia di pioggia caderle sul viso.

Poi ne seguirono altre, che costrinsero lei e altre persone che camminavano sulla strada ad accelerare il passo e infine a correre, sollevando la cartella sopra la sua testa.

Una volta davanti alla porta di casa, sbuffò seccata, ma si rasserenò nel riscontrare che si era trattato soltanto del dispetto di una nuvola passeggera, e il sole aveva ripreso la sua preminenza in cielo.

«Sono qui.» gridò, entrando nel salotto dopo essersi cambiata le calzature nel vestibolo. «Ciao papà.» disse poi, in tono più calmo, vedendolo seduto al tavolo, intento a leggere un quotidiano.

«Ciao Kumi.» rispose l'uomo alzando gli occhi giusto per l'attimo necessario a guardarla in viso, per poi tornare alla sua lettura.

La ragazza fece un mezzo sorriso, per nulla stupita.

«Ciao Kumi! Questa mattina hai ricevuto questo.» le annunciò Reiko, posando una busta bianca sul tavolo.

Kumi la prese tra le mani e avvertì un colpo al cuore quando lesse l'indirizzo stampato sul retro.

Con gli occhi sgranati e le labbra socchiuse, sollevò l'ala superiore della busta e ne estrasse un foglio su cui era scritto un breve comunicato: poche frasi, ma che le mozzarono il fiato.

Le avevano risposto più rapidamente di quanto si fosse aspettata …

Venti giorni prima Umeko, una sua compagna di classe conosciuta al tanki-daigaku e come lei appassionata di manga, le aveva prestato una rivista pubblicata da una piccola casa editrice, la cui sede si trovava proprio a Fuji.

«È stata fondata pochi anni fa.» le aveva detto la ragazza «Al momento produce due riviste, molto piacevoli da leggere. A quanto ne so, vendono bene. Chissà, potrebbe espandersi!»

Kumi era rimasta colpita favorevolmente da quel giornalino, le cui pagine ospitavano manga interessanti e, memore dei suggerimenti di Misaki, aveva inviato alcuni suoi disegni all'indirizzo stampato sull'ultima pagina.

«Ho ricevuto una lettera dalla casa editrice Uchiyama Shoten. Sono interessati ai miei lavori.»

«Che casa editrice è? Non l'ho mai sentita.» chiese Shinji, inarcando un sopracciglio.

«È stata fondata da pochi anni, ha sede a Fuji. Sta cercando nuovi autori.» spiegò Kumi.

«Credevo fossi andata a Fuji per studiare.» replicò sarcastico.

La giovane sospirò «Certo. Ma nel contempo, non rinuncio ai miei sogni.» ribatté.

Shinji tirò le labbra da un lato «Alla tua età non avevo questi grilli per la testa.»

«Eppure è anche grazie a te se ho cominciato a disegnare.» affermò Kumi, con un mezzo sorriso di sfida.

«A me?» chiese, con un tono tra lo stupito e l'ironico.

«Sì, a te. Perché eri tu quello che fin da piccola mi faceva vedere i film dei nostri grandi cineasti, e che mi raccontava antiche leggende. Le stesse storie che ispirano i miei disegni.» dichiarò con tono beffardo, incrociando le braccia e sporgendosi verso di lui.

Shinji sembrò esitare, poi aggrottò le sopracciglia «Non ho mai desiderato che tu facessi la mangaka. È un lavoro che non dà nessuna certezza, è troppo legato ai gusti del pubblico, che cambiano come il soffio del vento.»

«Ci sono artisti che hanno saputo attraversare le generazioni.»

«Ah sì? Beh, le Rumiko Takahashi e le Naoko Takeuchi si contano sulle dita di una mano.»

«Ma esistono. Voglio sognare, finché potrò.» ribatté ancora, imperterrita «Questa lettera è la dimostrazione che ci sono persone, in quel settore che vedono in me del talento e che sono intenzionate a darmi una possibilità. Sarei stupida a rinunciare proprio adesso.» insistette, mettendogliela davanti al naso perché la leggesse.

Ma Shinji sbuffò e allargò le braccia, in una posa teatrale «Certo, e fuggire così dalla vita reale. Il club di calcio, i manga … Sai una cosa, Kumi? È proprio vero, sei tutta strampalata. Proprio come tua nonna.»

La ragazza si alzò di scatto spingendo indietro la sedia «Lascia in pace mia nonna! Lei è una sensitiva. È una sua dote naturale, e non l'ha soffocata.» gridò quasi, con gli occhi contratti per la rabbia.

«Io mi preoccupo per te Kumi, come fanno tutti i genitori per l'avvenire dei loro figli!» ribatté Shinji, alzando anch'egli la voce.

«Continuerò a studiare al tanki-daigaku, se temi che io possa lasciare la scuola. Ma cercherò anche di realizzare il mio sogno. Non voglio avere il rimpianto di non averci mai provato.» disse, in tono definitivo. Prima che suo padre potesse replicare, si alzò dal tavolo e uscì dalla porta di casa.

«Kumi! Dove stai andando?» gridò, ma Reiko gli mise una mano su un braccio.

«Smettila di trattarla come una bambina irresponsabile.»

«È lei che si comporta così. È mio dovere farle tenere i piedi per terra.»

«Lei ce li ha già, i piedi per terra. Solo che ogni tanto le piace passare qualche ora in mezzo alle nuvole. L'importante è che si ricordi di scendere quando serve. E finora l'ha fatto.» replicò la donna, con un ammicco.

Shinji scosse la testa, con una smorfia divertita, suo malgrado «Kumi somiglia a te e a tua madre, da me ha preso poco o nulla.» affermò, guardando il bel viso di sua moglie, ancora giovanile nonostante fosse vicina a compiere quarant'anni. Si erano sposati appena maggiorenni, quando Reiko era già incinta di Kumi.

Era stata una gravidanza difficile … la donna era stata costretta a passare gran parte di quel periodo a letto, per non perdere la bambina. Ricordava ancora con nitidezza l'angoscia patita in quei mesi che sembravano non dover terminare mai …

Era ancora bella, i lunghi capelli castani e gli occhi di un colore poco più chiaro di quelli di Kumi. E anche se a vederla ora sembrava strano da credere, anche Sakamae, la nonna, aveva avuto quell'aspetto, da giovane. Erano tutte e tre donne vivaci, entusiaste, curiose.

Lui, che era un sarariman anche nell'aspetto con i suoi corti capelli neri sempre in ordine e il suo impeccabile completo in giacca e cravatta, aveva trovato in Reiko una compagna allegra e con un atteggiamento sempre positivo, un antidoto alla noia e al grigiore che avrebbero altrimenti ammorbato la sua vita.

«Non è esatto. La cocciutaggine è tale e quale.» lo punzecchiò «E anche se non ci credi, è una ragazza con la testa sulle spalle. Non ha mai saltato un giorno di scuola, ha sempre avuto bei voti, sta studiando con impegno anche al tanki-daigaku. Sarebbe onesto riconoscerglielo, da parte tua.»

Shinji strinse le labbra «Avrebbe avuto voti più alti, se non avesse perso tempo con il club di calcio e con i manga. Come la figlia degli Shimokawa, che studia in uno degli atenei più prestigiosi del Giappone.»

«Madoka è naturalmente portata per lo studio e ha altre aspirazioni.» puntualizzò Reiko «Comunque non devi preoccuparti. Kumi non si perderà per strada. Sei tu piuttosto, che devi fare attenzione. Hai sempre criticato le sue passioni, i suoi hobby, i suoi sogni. Continuando così, finirà per odiarti e tu perderai tua figlia.»

Shinji sospirò e incrociò le braccia, stringendo ancora le labbra.

Reiko si sedette di fronte a lui e si sporse sorridente, appoggiandogli una mano su un braccio.

«Non è così difficile, sai? Trova un compromesso, proprio come sta facendo lei.»

 

I tifosi giapponesi, per la maggior parte in piedi sugli spalti del National Stadium di Tokyo, trattennero il respiro nel vedere il tiro potente e preciso di Mark Al Owairan dirigersi verso la porta del Giappone.

Mancavano pochi minuti al termine della partita e la Nazionale del Sol Levante stava vincendo per 1-0. Un risultato fondamentale con cui i calciatori nipponici stavano per togliere di mezzo la diretta rivale per la qualificazione al secondo posto del girone.

Ishizaki respinse con la faccia il pallone lanciato dal capitano saudita.

I supporter locali esultarono come se il difensore avesse segnato un gol.

Izawa recuperò la sfera e ingannò gli avversari fingendo un disimpegno.

Effettuò invece un passaggio verso l'accorrente Misaki, che a sua volta eseguì uno splendido lancio in direzione di Nitta, che stava correndo velocissimo verso la porta, in posizione regolare. L'attaccante si trovò solo davanti al portiere e lo spiazzò con il suo potente tiro di destro.

Dopo pochi minuti, l’arbitro fischiò per tre volte nel fischietto, decretando la fine della partita tra Giappone e Arabia Saudita.

I calciatori dell’Under 23 giapponese levarono le braccia al cielo e strinsero i pugni, esultando compostamente.

Il primo tassello era stato posto.

Mark Al Owairan, il giovane capitano saudita, si passò una mano sul viso per asciugare il sudore misto a qualche silenziosa lacrima e si diresse verso Taro Misaki, che aveva appena dato una pacca sulla spalla al portiere Morisaki che non aveva fatto passare un solo tiro, nemmeno quelli più insidiosi, come se lo spirito di Wakabayashi si fosse in parte trasferito dentro di lui.

«Complimenti, Misaki. Diventi più forte di partita in partita.» sorrise, tendendogli una mano.

«Grazie. Anche tu e i tuoi compagni vi siete fatti onore.» replicò, stringendogliela.

Mark assentì con il capo.

«Il sogno olimpico per noi finisce qui, Misaki. Ma come membro della famiglia reale e giocatore della Nazionale saudita, onorerò questa maglia anche contro l'Australia e giocherò con il massimo impegno.»

«Grazie Mark. Ho fiducia nelle tue parole.»

   

Taro scese dall'autobus che dalla stazione di Tokyo lo aveva portato a Nankatsu.

Kira aveva concesso un paio di giorni di riposo, prima delle partite con Vietnam e Australia, tra le quali non ci sarebbero state pause, e lui aveva deciso di approfittarne per trascorrere un po' di tempo con suo padre, che non vedeva da settimane per via del suo soggiorno in Corea del Sud.

Giunto in prossimità della sua abitazione, i suoi occhi vennero attirati da qualcosa di insolito.

La Toyota Yaris parcheggiata davanti all'entrata di casa, con i fanali rivolti verso l'esterno, testimoniava la presenza di ospiti. Si chiese chi potesse essere arrivato.

Attraversò il vialetto lastricato che portava all'ingresso dell'abitazione e aprì la porta.

Incontrò subito suo padre nel vestibolo. Stava per rientrare in salotto, ma si era voltato nel sentire la maniglia della porta abbassata.

«Sei solo in casa?» chiese, guardandosi intorno alla ricerca di altre persone.

«Certo. Chi altro dovrebbe esserci?»

«C'è un'auto lì fuori. Credevo fosse venuto qualcuno.»

«Ah, quell'auto?» disse in tono di apparente noncuranza, dirigendosi verso la porta e invitandolo a uscire con lui.

Nel giardino, Ichiro guardò la Toyota e poi si voltò verso Taro, con un sorriso.

«Papà …» mormorò il ragazzo, dopo aver trattenuto il fiato.

Ichiro annuì e gli afferrò le spalle «Buon compleanno, figlio mio.»

 

Taro guidava lungo una strada poco trafficata, diretto a Fuji, il luogo scelto dal padre come soggetto del suo nuovo quadro.

Perché non poteva tralasciare proprio la città omonima del vulcano per cui provava da sempre un misto di venerazione e soggezione, anche dopo aver realizzato l'opera che gli era valsa un premio prestigioso.

Gli occhi di Ichiro erano fissi sul paesaggio costiero che scorreva davanti ai loro occhi, deciso a coglierne nuovi particolari.

Era tornato dal suo breve soggiorno in Corea del Sud portando con sé nuove tele, in cui aveva ritratto paesaggi suggestivi, come sempre lontani dal caos, dalla frenesia, dal sovraffollamento cittadino. Campagne, periferie, località in riva al mare. Quei paesaggi di cui troppo spesso ci si dimenticava l’esistenza o cui non veniva data adeguata considerazione.

E ora aveva ripreso a dedicarsi al suo amato Giappone, e soprattutto al Monte Fuji cui aveva intenzione di dedicare una serie di quadri come aveva fatto Hokusai con le sue "Trentasei vedute".

Gli occhi di Ichiro erano piccoli, ma sapevano cogliere dettagli che ad altri sfuggivano.

La contemplazione dei paesaggi e della natura era ciò che l’aveva affascinato e appassionato fin da bambino, al punto da voler passare la sua vita a imprimere ognuna di quelle manifestazioni su una tela, quando aveva scoperto che esisteva un mestiere bellissimo: quello del pittore.

Abbassò la testa sulla fotocamera, scorrendo le immagini che Taro aveva scattato nella sua breve permanenza a Sendai. Taro abbracciato a Yumiko e con le mani sulle spalle della sorella Yoshiko, e altre foto che lo ritraevano con la famiglia Yamaoka al completo, un'altra ancora in cui era seduto al tavolo con Taisho, la sera della cena organizzata per festeggiare i suoi ventun anni.

«Sai papà … ora che ho un ottimo rapporto anche con la famiglia della mamma, mi piacerebbe festeggiare un compleanno in cui siamo tutti insieme.» gli confidò Taro dopo quei minuti di silenzio, come se avesse captato i suoi pensieri.

Ichiro annuì, con aria assorta «Sì, sarebbe bello.»

 

Una volta a Fuji, Taro parcheggiò di fronte a un bar-ristorante, a poca distanza da una radura da cui il grandioso vulcano offriva una vista a dir poco emozionante.

Sembrava così grande e così vicino …

Ichiro si diresse verso quel luogo, riempiendosi gli occhi di ogni elemento di quello scenario.

Vagò per il terreno, quasi misurando i passi, poi appoggiò il cavalletto sul punto da lui scelto. Posizionò la tela e il secchio, prese la tavolozza, il pennello e cominciò a mischiare i colori, osservando il paesaggio davanti a sé.

«Sai Taro» disse voltandosi verso il figlio, in piedi qualche passo dietro di lui «Ho sempre visto in te qualcosa di tua madre. I lineamenti del viso, il taglio e il colore degli occhi, li hai presi da lei. E anche la riservatezza, quella straordinaria emotività che ha rischiato di distruggerla.»

«Non si è fatta sentire per dieci anni … le ho chiesto il perché e mi ha risposto che temeva di non essere una buona madre, per me … che aveva dovuto ricostruire sé stessa, e mi ha lasciato con te perché sapeva che mi avresti cresciuto con amore e con attenzione. Poi mi ha guardato come per pregarmi di non chiederle altro.»

Ichiro chinò leggermente la testa, con un sorriso triste «Vedi Taro, quando stavamo insieme, io mi spostavo spesso per il mio lavoro, e Yumiko mi seguiva.» si interruppe ed emise un sospiro impercettibile. Stava per rivelare a Taro un periodo doloroso e penoso della loro vita, e aveva scelto di tacerlo per non instillargli l'idea sbagliata che lui ne fosse stato la causa. Ma adesso suo figlio era un uomo, ed era giusto che conoscesse tutto di un passato che riguardava anche lui.

«Quando rimase incinta di te, lasciò momentaneamente gli studi e mi seguì finché il suo fisico glielo permise. Poi ci stabilimmo a Kobe, la sua città natale. Poche settimane dopo la tua nascita, a tua nonna, la madre di Yumiko, venne diagnosticato un tumore al pancreas. Era già in fase avanzata e i medici da subito non avevano dato speranze di guarigione. Tuttavia, Yumiko non si perse d'animo: accompagnava sua madre alle sedute di chemioterapia, le comprava e le somministrava le medicine, le stava accanto nei momenti peggiori, quando vomitava tutto quello che mangiava e beveva …» raccontò, con un lieve abbassamento della voce, mentre gli occhi di Taro divenivano sempre più sconvolti.

Sua madre non gli aveva mai raccontato nulla … sapeva che la sua nonna materna era morta pochi mesi dopo la sua nascita, ma aveva sempre ignorato tutti i particolari che Ichiro gli stava raccontando.

«Io rimanevo a casa ad occuparmi di te, lei quando poteva tornava e ti dava da mangiare, mi aiutava a cambiarti il pannolino, a farti giocare … ti cantava la ninnananna.» ricordò ancora Ichiro, con un sorriso triste «Non ti ha trascurato. Cercava di dare la giusta attenzione a te e a tua nonna. Ti abbiamo desiderato entrambi, Taro. Purtroppo la situazione della madre di Yumiko era compromessa e lei era l'unica che poteva starle costantemente accanto e aiutare suo padre, perché sua sorella viveva a Okinawa con la sua famiglia, e raramente veniva a Kobe.»

Guardò ancora Taro, che lo stava ascoltando attentamente e con gli occhi lo esortò a continuare. Ichiro trasse un altro profondo respiro e raccontò infine l'ultima parte di quella storia, quella più angosciosa per quella che era stata la famiglia Misaki … una famiglia sfaldatasi poco dopo essersi formata …

«Tua nonna morì pochi mesi dopo. Yumiko ebbe un esaurimento nervoso e cadde in depressione. Non riprese gli studi come era sua intenzione. Cominciò a soffrire di disturbi alimentari, diventò aggressiva verso gli altri, anche verso di te. Una notte, tu cominciasti a piangere e lei si alzò di scatto e ti sollevò dalla culla. Credevo ti avesse preso in braccio per cercare di tranquillizzarti, invece iniziò a gridare, a scuoterti … mi fiondai su di lei e ti strappai letteralmente dalle sue mani. Non si poteva più andare avanti così … e la convinsi a ricoverarsi in una clinica. Io nel frattempo, per motivi di lavoro dovetti lasciare Kobe e ti portai con me. Il padre di Yumiko non fece nulla per trattenermi, anzi mi invitò a non farmi più vedere finché sua figlia non fosse completamente guarita … non aveva mai visto di buon occhio la mia relazione con lei… non ero il classico impiegato, con un posto di lavoro e uno stipendio fisso. E ovviamente ha dato la colpa a me, di quello che le era capitato.»

Taro strinse le labbra. Non aveva mai conosciuto suo nonno, sapeva solo che era anziano e viveva ancora a Kobe. Yumiko non ne parlava spesso, e quello che gli aveva raccontato suo padre eliminò ogni briciolo di desiderio di conoscerlo.

«La mamma non me ne ha mai parlato …» mormorò.

«È normale, Taro. Tutti tendiamo a vergognarci del male che facciamo agli altri e a noi stessi, quando ce ne rendiamo conto. E non parlarne è un po' come fingere che non sia accaduto e minimizzarne le conseguenze.»

Il ragazzo abbassò la testa e strinse le labbra. Agli angoli degli occhi erano comparse due piccole lacrime.

«Sono passati tanti anni senza vederci … lei nella mia infanzia non c'è mai stata … ma ora abbiamo un buon rapporto, e non ci voglio rinunciare.»

Ichiro annuì e gli mise una mano su una spalla «Se accetti un consiglio, Taro … quando ti legherai a una donna … amala, proteggila, ma non permetterle di dipendere da te. Deve avere una sua personalità, un'individualità, dei sogni suoi. Altrimenti finirete per soffrire entrambi.»

   

Taro attraversò la strada e si recò al bar-ristorante di fronte al parcheggio in cui aveva lasciato la sua nuova auto. Ichiro stava dipingendo ininterrottamente da quasi un'ora e il giovane calciatore aveva deciso di andare a prendergli un caffè e qualcosa da mettere sotto i denti.

Si trovava da poco davanti al bancone in attesa di essere servito, quando si sentì chiamare da una squillante voce femminile. Una voce che ormai conosceva bene …

Si voltò e vide Kumi che agitava una mano, seduta a un tavolo con un'altra ragazza dai corti capelli castani che lo guardava incuriosita.

«Sugimoto!» rispose con un sorriso, e si avvicinò. L'altra ragazza stava di fronte a lei, probabilmente una sua compagna di scuola. Kumi gli presentò Umeko e i due si salutarono con un cenno del capo.

«Hai terminato i corsi?» chiese poi all'ex manager.

«Quelli del mattino, ma tra non molto iniziano quelli pomeridiani.»

In quel momento sentirono il rumore di una sedia spostata all'indietro.

«Kumi, io vado avanti. Ci vediamo dopo, a scuola.» le annunciò Umeko strizzandole un occhio e salutando nuovamente Taro, il quale andò a sedersi sulla sedia imbottita lasciata libera.

«Sai» disse Kumi «Un paio di settimane fa ho inviato alcuni miei disegni alla Uchiyama Shoten, una casa editrice di questa città.» si interruppe e lo guardò, attendendo la sua reazione.

«Hai fatto bene.» rispose, con un cenno di approvazione «Hai già ricevuto una risposta?»

Kumi annuì, con gli occhi che brillavano come quelli di una bimba «Sì. Ieri mi è arrivata una loro lettera, e sono interessati. Vogliono che li chiami per fissare un appuntamento e presentarmi alla sede con altri miei lavori.»

«Ma è splendido!» esclamò Taro, esprimendo un entusiasmo quasi pari a quello dell'amica.

Kumi sollevò le labbra, scoprendo i denti in un sorriso pieno di gioia. La gioia di aver ricevuto una così bella notizia, aggiunta a quella di vedere il ragazzo che amava parteciparvi sinceramente …

«È merito tuo se ho preso questa decisione. Mi sono ricordata di quello che mi hai detto due mesi e mezzo fa, alla cartolibreria.» disse.

Taro avvertì un intenso calore invadere il suo petto, a quelle parole. «Hai intenzione di accettare?»

«Credo di sì, indipendentemente dall'esito del concorso. In fondo, vincerlo significa fare uno stage alla Shogakukan, certo sarebbe un'esperienza fantastica ma non è detto che poi mi assumano.»

«E tuo padre lo sa?» le chiese Taro, ricordandosi di quello che gli aveva raccontato sulla ferrea opposizione del signor Sugimoto a quel progetto.

Kumi smise di sorridere e tirò le labbra da entrambi i lati «Sì … ero seduta a tavola con lui quando la mamma mi ha dato la lettera. Non l'ha presa bene. I soliti discorsi: devo pensare a studiare, disegnare non mi darà un futuro stabile, sono un'illusa … e altre amenità.» concluse, appoggiando il mento su una mano e abbozzando un sorriso amaro.

«È una convinzione radicata nella società, Sugimoto … molti faticano a metterla in discussione.»

«So che in fondo lui si preoccupa per me. Ma questa mancanza non dico di approvazione, ma di comprensione … me lo rende lontano. E questo mi dispiace.» disse, stringendo le labbra, e mostrandogli per la prima volta degli occhi malinconici e sofferenti.

«Pensare che quando ero bambina» riprese poi, giocherellando con gli angoli di un tovagliolo «mi faceva vedere i classici del cinema d'animazione e i film dei grandi registi. Quando ero piccola, di ritorno dal lavoro mi portava sempre qualche rivista piena di fumetti o dei libri illustrati. In un certo senso, è stato lui a far nascere dentro di me questa passione. E ora che vorrei farne un lavoro, cerca di convincermi che non ne vale la pena.»

«Sono sicuro che con tuo padre le cose si sistemeranno, prima o poi. Intanto, hai già delle persone che ti sostengono: tua madre, le tue amiche, e anche io ed Elena apprezziamo molto i tuoi disegni.»

Kumi sorrise e assentì con il capo «Grazie Misaki. Le tue parole mi fanno capire che non sono sola.»

«No, Sugimoto. Non sei sola.» ribadì lui, guardandola con un sorriso teso a confortarla e incoraggiarla.

I due tennero lo sguardo l'uno sull'altra per alcuni secondi, poi lei sgranò gli occhi e alzò il braccio per controllare il suo orologio da polso.

«Devo andare. Tra pochissimo comincia la lezione. Arriverò sicuramente in ritardo.» esclamò, alzandosi e prendendo la sua cartella posata per terra.

«Non perdi mai il vizio, eh?» la punzecchiò Taro, con bonomia.

Kumi lo guardò stupita, e Taro fece una smorfia, imbarazzato.

«Scusami. È che mi sono ricordato di quando arrivavi di corsa a scuola e ti fiondavi in fretta nella tua classe.»

La giovane chinò la testa e ridacchiò «Già. Dovevo essere proprio buffa.»

Taro rise di rimando «Comunque ho l'auto parcheggiata qui fuori. Se vuoi ti do uno strappo fino al tanki-daigaku. Non so se servirà a evitarti il ritardo, ma almeno guadagnerai qualche minuto.»

«Va … va bene.» rispose stupita. Era tutto così … bello, così inaspettato da sembrarle irreale.

Taro comprò due filoni di pane e due lattine di caffè, Kumi pagò il conto del suo pranzo, e i due ragazzi uscirono nel piazzale antistante il locale.

Il sole dominava nel cielo azzurro, solo poche nuvole scorrevano lente, senza attenuarne lo splendore. Un vento lieve giocava con i capelli di Kumi.

Il calciatore aprì cavallerescamente la portiera del lato passeggero della sua auto, permettendole di prendere posto e accomodarsi. Poi, andò a mettersi alla guida.

Dopo pochi minuti arrivarono davanti al cancello ancora aperto della scuola.

Kumi guardò ancora una volta il suo orologio e lanciò un gridolino di gioia «Sono puntuale! La lezione inizia tra tre minuti!» cinguettò, suscitando in Taro una smorfia divertita. Recuperò la sua cartella, scese e si chinò leggermente, per ringraziarlo attraverso il finestrino abbassato.

Il ragazzo fece un cenno del capo e la salutò, prima che lei si voltasse e si mettesse a correre verso l'entrata.

Mantenne gli occhi su di lei finché non la vide aprire la porta e sparire all'interno dell'edificio.

Rimise in moto e si diresse verso la radura dove suo padre stava ancora dipingendo.

 

«Papà, che ne dici di fermarti e fare una pausa? A pancia piena si dipinge meglio.»

«Aspetta … l’ispirazione non va interrotta.» rispose Ichiro, sfumando la chioma di un albero con il pennello.

Taro accennò una risata «È sempre così quando lavori a un quadro … perdi la cognizione del tempo e ti dimentichi perfino di mangiare.»

Il pittore alzò la testa, tenendo il pennello stretto tra le dita e si voltò verso il figlio, con un’espressione di bonario rimprovero «E tu dimentichi tutte le volte che sei arrivato in ritardo per la cena, perché eri rimasto al campo di calcio?»

Taro alzò le spalle «Touché

«A ogni modo hai ragione, è meglio fare una pausa.» disse, riponendo il pennello e la tavolozza e prendendo la lattina di caffè che il figlio gli stava porgendo.

Poi Taro stese una tovaglia sul prato.

Ichiro lasciò momentaneamente il suo lavoro e si sedette, prendendo un filone di pane.

«Con ogni probabilità, sarà una delle ultime giornate che potremo passare così, Taro.» disse, spezzandolo in due parti.

Sentiva che dopo quell’estate, avrebbe preso il volo. Anche con la qualificazione alle Olimpiadi in bilico, Taro aveva attirato l’interesse di importanti squadre europee: l’Atlético Madrid, il Siviglia, il Borussia Dortmund, l’Arsenal e quel Paris Saint Germain che era stato a un passo dall’ingaggiarlo, prima che quel maledetto infortunio facesse sfumare tutto.

Lui, lo aveva già deciso, sarebbe rimasto in Giappone.

Le immagini di suo figlio comparivano con sempre maggiore frequenza sui quotidiani e riviste specializzati, la sua maglietta dello Jubilo Iwata era ancora la più venduta, e le sue giocate, le movenze con cui aveva superato avversari forti e con maggiore esperienza internazionale erano spesso proposte dalle trasmissioni sportive.

Era considerato già uno dei centrocampisti più promettenti della nuova generazione che avrebbe dato lustro al calcio internazionale nel decennio successivo.

 

Genzo si arrestò davanti al complesso sportivo Shiroyama. Rimase fermo per qualche minuto davanti all'entrata, riprendendo fiato.

Era stato operato e ora doveva osservare un periodo di convalescenza.

Il dottor Ikebe gli aveva detto che c'erano ottime probabilità di un recupero più rapido rispetto ai tempi previsti.

Le sue lezioni di kickboxing erano finite anzitempo, e incapace di starsene a casa a vagare per il grande giardino, aveva indossato una tuta ed era andato a fare una corsa per la città.

Spinse la porta, salutò la segretaria e si diresse verso la palestra in cui si insegnava ginnastica artistica. Non vi si stava svolgendo nessuna lezione … ma c'era lei.

Era accanto a una vaschetta e si stava cospargendo le mani di polvere di magnesio.

Si apprestava a eseguire un esercizio alle parallele … quell'attrezzo che per tanto tempo non era riuscita ad affrontare.

Con un salto afferrò lo staggio inferiore e fece una prima, semplice capovolta.

Eseguì alcuni volteggi, saltando con scioltezza da uno staggio all'altro.

Poi tentò alcune combinazioni più difficili.

Una verticale a gambe unite e tese, per poi fare una capovolta e darsi una spinta al termine della quale si ritrovò nella medesima posizione, per poi lasciare la presa sullo staggio inferiore e cercare di afferrare quello superiore.

Era uno Shaposhnikova, come gli aveva detto Arimi quando l'aveva visto alla kermesse di Numazu.

Forse era stato allora che si era reso conto di quanto Elena lo affascinasse.

Il modo in cui incitava, incoraggiava, riprendeva e consolava le sue ragazze lo aveva coinvolto e colmato d'ammirazione, e aveva alimentato il desiderio di conoscere ancora di più, su di lei.

 

Un errore della ragazza lo fece sussultare.

Elena mancò di poco la presa e ricadde sul materassino. Rimase con le ginocchia piegate e portò le mani sulle cosce. Inspirò profondamente, e rilasciò un lento sospiro.

Era il primo esercizio che stava cercando di svolgere per intero, dopotutto. E aveva provato un elemento difficile, forse troppo per lei che aveva ripreso dopo un anno.

«Ti sei fatta male?» le chiese Genzo, avvicinandosi a passo rapido.

La ragazza trasalì e alzò la testa, guardando dapprima davanti a sé, per poi voltare il viso verso di lui. Era a pochi passi dal materasso, nello spazio tra le due parallele.

«No, non mi sono fatta niente. Capita spesso di cadere dalle parallele.» spiegò, con un leggero sorriso.

Genzo fece un cenno d'assenso con il capo, e le tese una mano.

Lei scosse la testa, facendo dondolare la coda in cui aveva legato i suoi capelli «Una ginnasta deve sapersi rialzare da sola.» disse con voce pacata, e con una spinta si sollevò sulle gambe segnate da alcuni lividi, parzialmente coperti dalla polvere di magnesio che era sparsa anche sulla canottiera e i pantaloncini che indossava.

Soffiò sui palmi delle mani, dove la pelle era screpolata.

«Ti fanno male?»

Elena fece una piccola smorfia «Vesciche … non ci sono più abituata.» sorrise ancora.

I suoi occhi brillavano. Era la stessa luce che vedeva negli occhi dei suoi compagni quando giocavano a calcio e che di certo aveva anche lui stesso.

Ma il suo tono sembrava più … freddo, rispetto ai loro precedenti incontri.

Si stava ritraendo di nuovo nel suo guscio.

«Vedo però che non hai intenzione di fermarti.» continuò lui, senza lasciarsi scoraggiare.

Elena annuì «La grande Nadia dice che l’unico modo per sconfiggere le proprie paure è correre verso di loro e calpestarle sotto i piedi.»

Genzo fece un sorriso d'approvazione.

Le si avvicinò e le prese le mani. I palmi avevano delle sbucciature, contornate da altra polvere di magnesio, di cui alcuni granelli si erano depositati anche sui ciuffi di capelli sfuggiti all'elastico.

«Le mani sono importanti anche per una ginnasta.» mormorò, sfiorandole piano, con una delicatezza impensabile per quelle mani così grandi, disegnandone i contorni con lievi tocchi delle dita.

Elena ne osservò i movimenti e quella stretta ormai familiare quando si trovava accanto a lui, quel calore che si irradiava dal petto, la invase.

La ginnastica artistica era un mondo in cui le sue preoccupazioni e i suoi turbamenti non esistevano. Quando si allenava o si apprestava a fare un esercizio, dimenticava tutto. I pensieri, le preoccupazioni, le angosce … si dissolvevano. Era come entrare in un'altra dimensione.

E Genzo stava irrompendo anche lì … non poteva permetterlo.

«Genzo … non invadere il mio mondo … l’unico in cui mi sento al sicuro.» gli disse, sfilando le mani dalle sue dita.

Lui la guardò. Quegli occhi azzurri sembravano diventati due gemme dure.

«Al sicuro? Elena … parli come se avessi paura di me …» replicò, guardandola dritto negli occhi. Le sue iridi, nonostante fossero contornate dalla maschera protettiva, sembravano più larghe … la ragazza sentì che si sarebbe persa, se le avesse guardate un secondo di più.

Arrossì e distolse lo sguardo.

Genzo strinse le labbra e si allontanò di pochi passi.

«Vado.» disse «Stasera sarò al Tokyo Dome a vedere il match di Carlo.» le annunciò, per poi voltarsi e avviarsi verso l'uscita della palestra.

Elena era rimasta nella stessa posizione e si riscosse solo quando udì la porta chiudersi.

I suoi occhi erano umidi. Il cuore batteva sempre forte, più forte di quanto volesse …

Nei primi mesi successivi all'allontanamento di Gianluca, si addormentava desiderando di risvegliarsi in un giorno qualsiasi purché fosse precedente a quello dell'incidente.

Ma ogni giorno riapriva gli occhi, rendendosi conto inevitabilmente che era sempre un nuovo domani, anche se le sue giornate avevano preso a susseguirsi tutte uguali.

Pensava al futuro senza slancio, senza stimoli. Vedeva soltanto il vuoto … poi le vacanze natalizie avevano portato Carlo a Roma, dove le aveva proposto di passare un periodo in Giappone.

E lì aveva trovato più di quanto si fosse aspettata … forse persino più di quanto avesse sperato e voluto.

Aveva riscoperto la sua passione per la ginnastica artistica, aveva fatto nuove amicizie, aveva rincontrato Taro e conosciuto una ragazza piena di energia ed entusiasmo come Kumi. E poi … aveva conosciuto anche Genzo. Un ragazzo dal carattere forte e determinato, ma anche sensibile e generoso. Un vero amico. Ma negli ultimi tempi l'ammirazione e l'affetto verso di lui erano progressivamente cresciuti, e ora aveva paura di dire fino a che punto.

Sì … aveva paura dei suoi sentimenti. Sentiva che non doveva stargli accanto troppo a lungo, perché anche quando pensava di aver eretto una barriera, lui riusciva sempre a indebolire, pian piano, le sue difese. Anche solo guardandola e pronunciando il suo nome … con lui, ormai, era come camminare su un filo sottile.

Era affascinata e temeva che uno sguardo o un gesto in più da parte di lui avrebbero potuto causare qualcosa che le avrebbe procurato un senso di colpa indelebile.

Anche perché ormai riteneva di conoscerlo abbastanza bene per essere certa che non stava fingendo, non si stava divertendo a darle attenzioni di cui sentiva la mancanza.

Ma ogni volta che Genzo si avvicinava a lei, ogni volta che la guardava, il pensiero di Gianluca bloccato in un letto, incapace di muoversi, la faceva sentire meschina per sentirsi attratta da un ragazzo che era la personificazione della salute e della forza fisica e interiore.

Era quasi felice che il fidanzamento con quella bellissima ereditiera costituisse un ostacolo che il portiere evidentemente ancora non voleva o non poteva rimuovere.

Anche se i suoi sentimenti per lui non erano più quelli dei suoi primi mesi in Giappone.

Chiuse gli occhi, sentendosi improvvisamente più fiduciosa.

In fondo … avrebbe dovuto tenere duro soltanto poco più di un mese, ossia quanto mancava alla fine dell'esperienza alla palestra Shiroyama e al ritorno in Italia.

Ce l'avrebbe fatta.

 

Cominciò a camminare a passo più svelto già a pochi metri di distanza dalla palestra, per poi riprendere gradualmente il ritmo di corsa.

Che si aspettava? Elena pensava ancora al suo ex ragazzo, e lui frequentava Asami.

Asami … l'avrebbe vista anche quella sera, perché sarebbe andato a cena con lei e poi insieme, a vedere il match.

Già, finito l'incontro avrebbe presentato a Carlo quella che era ormai considerata la sua fidanzata ufficiale.

E poi l'avrebbe accompagnata a casa e lì avrebbe fatto l'amore con lei, come sempre.

Anche se il giorno dopo aveva un esame.

Tutto questo mentre Elena sarebbe rimasta a casa perché in quel periodo alla palestra il lavoro era raddoppiato e ormai la teneva impegnata anche al mattino.

Mancava poco più di un mese, poi lei sarebbe tornata in Italia … doveva capire cosa voleva davvero, prima che uscisse dalla sua vita, lasciandogli soltanto domande cui non avrebbe mai potuto dare una risposta.

 

Accolti dagli applausi e dalle grida di incitamento degli spettatori che avevano riempito il Tokyo Dome, in una scenografia con sfondo scuro illuminata dai riflettori e dai flash dei fotografi, i due contendenti, il tedesco di origini per metà italiane Carlo Nerlinger e il giovane astro nascente, il serbo Dragan Iljanovic fecero il loro ingresso sul ring, accompagnati dai rispettivi allenatori e secondi uomini, introdotti da un'entusiastica presentazione in stile americano.

Dopo le rituali spiegazioni delle regole da parte dell'arbitro, il match ebbe inizio.

Carlo fece subito valere la sua esperienza attaccando Iljanovic con una combinazione di calci e pugni che lo disorientarono.

Poi il giovane serbo riuscì a recuperare terreno e fu il suo turno di sferrare calci e pugni dalla potenza micidiale, alle gambe, ai fianchi, alla testa.

Carlo resistette eroicamente in piedi, fino al termine del primo round.

All'inizio del secondo round, dopo pochi minuti passati dal gong, Dragan trovò la combinazione risolutiva.

Il giovane serbo colpì Carlo con un calcio al fianco sinistro, e con i pugni riuscì a sfondare la sua difesa. Lo colpì di nuovo, stavolta dal lato sinistro, con un calcio alla testa che lo fece cadere a terra.

I dieci secondi della conta dell'arbitro passarono tutti, senza che Carlo riuscisse a rialzarsi. Dragan corse verso uno degli angoli del ring, e sollevò braccia e pugni, esultando mostrando un sorriso da bambino felice, coperto dal paradenti.

L'arbitro alzò il braccio del nuovo campione, mentre Carlo, rialzatosi con l'aiuto di Akinori Shiroyama e del suo secondo, il suo allievo Ieshige Honda, sorrideva orgoglioso, come sempre, e dopo la proclamazione andò ad abbracciare il suo erede.

Genzo applaudì, dispiaciuto per la sconfitta del suo maestro, che usciva comunque dal ring a testa alta, ma convinto che avesse perduto contro un degno avversario.

Asami applaudiva e sorrideva accanto a lui.

«È stato davvero un bell'incontro. Breve, ma emozionante.» commentò, alzando leggermente la voce per farsi sentire in mezzo alla salva di applausi e grida d'incitamento.

Genzo fece un cenno d'assenso. Un pensiero si fece strada nella sua mente, e per un attimo lo spiazzò. Si chiese se Elena si sarebbe limitata a un commento tutto sommato banale come quello appena espresso dalla sua ragazza.

Si affrettò a scacciarlo, alzandosi in piedi e tendendole una mano.

«Vieni, ti faccio conoscere il maestro Nerlinger.»

Lei abbassò la testa in segno d'assenso e intrecciò le dita con le sue, per poi alzarsi a sua volta.

Avevano quasi percorso tutta la fila delle poltrone su cui erano stati seduti quando furono raggiunti da uno Ieshige sudato e agitato.

«Honda, che succede?» chiese Genzo, esprimendo nella sua voce l'angoscia mostrata dal giovane allievo.

«È terribile, Wakabayashi!» rispose, con voce rotta «Il maestro Nerlinger … io e il maestro Shiroyama lo abbiamo trovato nello spogliatoio, disteso per terra … svenuto! Respira, ma non risponde … non si sveglia! Abbiamo chiamato i sanitari. Stanno per portarlo in ospedale.» spiegò concitato, davanti all'espressione sempre più inorridita di Genzo e al viso preoccupato di Asami, che strinse le mani attorno al braccio del fidanzato.

«Io e il maestro Shiroyama adesso andiamo con lui allo Juntendo Hospital.»

«Va bene, Honda. Io vi raggiungerò più tardi.» disse, dandogli una leggera pacca sulla spalla per infondergli coraggio.

«Devo chiamarla.» mormorò, dopo che Ieshige se ne fu andato.

Asami lo guardò, senza dire nulla. Sapeva di chi si trattava: la nipote di Nerlinger, la ragazza che aveva incontrato in ospedale quando Genzo era stato ricoverato.

 

«Elena? Sì, è finito.» sorrise debolmente, accennando una risata forzata «Sì, ha perso davvero con onore. Credo anch'io che non mollerà tanto facilmente. Senti, devo dirti una cosa …» sospirò, cercando di metterla al corrente della situazione senza allarmarla più del dovuto «Tuo zio si è sentito male negli spogliatoi. L'hanno appena portato allo Juntendo Hospital. Io sto andando lì … ti chiamo un taxi che ti porti alla stazione di Nankatsu. Poi, a Tokyo, troverai Kuroda ad aspettarti. Sì, me ne occupo io. Ti chiamerò se ci saranno delle novità.»

Ripose il cellulare nella tasca e si rivolse alla ragazza accanto a lui.

«Asami, ti accompagno a casa e poi vado in ospedale.»

«Lo Juntendo Hospital è più vicino rispetto a casa mia. Ti faccio accompagnare lì.»

Genzo annuì e i due si incamminarono verso l'uscita del Tokyo Dome.

 

La berlina della famiglia Ujimori giunse nel piazzale davanti all'ospedale in cui era stato portato Carlo.

«Vengo con te?» chiese Asami.

Genzo scosse piano la testa «Non so a che ora tornerò. Tu hai un esame importante, domani.» le disse, sfiorandole una spalla con le dita «Hai bisogno di riposare.»

La ragazza piegò il capo, in segno d'assenso «Va bene. Fammi sapere. So che gli sei affezionato, è anche grazie a lui se sei migliorato ancora in questo periodo.»

Genzo annuì. Le posò un lieve bacio sulle labbra e scese. L'autista degli Ujimori rimise l'auto in moto e si avviò verso l'appartamento in cui abitava la giovane ereditiera.

    

«Ma com'è possibile … è sceso dal ring, sorrideva, era lo stesso di sempre.» obiettò, incredula.

«Sì è sentito male nello spogliatoio ed è svenuto. È stato soccorso dai sanitari, che lo hanno intubato e lo hanno portato in ospedale con un'ambulanza.» le spiegò Genzo.

Elena rimase zitta per alcuni secondi, il suo cervello faticava a razionalizzare ciò che l'amico le aveva appena detto, a credere a ciò che le aveva succintamente raccontato.

«Ti faccio chiamare un taxi, tra poco sarà da te. Poi, arrivata alla stazione di Tokyo, troverai Kuroda ad aspettarti. Ti porterà davanti alla clinica. Anch'io sto andando lì.»

«Elena, mi hai sentito?» chiese, non sentendo giungere alcuna risposta.

«Sì …» mormorò. Poi, in un tono più deciso «Sì, scusami. Grazie. A più tardi, allora.»

Chiuse la chiamata e lasciò la presa sul cellulare, che cadde sul cuscino del divano.

Ristette in piedi, senza altro pensiero che recarsi all'ospedale e rivedere suo zio.

Poi iniziò a muoversi, confusa e agitata, il televisore ancora sintonizzato sul canale che aveva trasmesso il match tra suo zio e Dragan Iljanovic, cercando di mantenere almeno la lucidità necessaria a mettere nella sua borsa lo stretto necessario per una notte da passare nella sala d'attesa di un ospedale.

La telefonata di Genzo l'aveva dapprima sorpresa, poi sconvolta e gettata nell'angoscia totale.

Aveva potuto seguire il match solo alla televisione, perché il mattino seguente doveva andare in palestra per coadiuvare Mayuko nella direzione degli allenamenti delle loro ginnaste.

Avvertì un tuffo al cuore quando sentì Wilhelm abbaiare. Si avvicinò a una delle finestre della facciata della casa e vide un'auto bianca rallentare e fermarsi davanti al cancello.

Era tutto vero … stava accadendo realmente …

Prese la sua borsa, ci infilò il cellulare e uscì nel giardino.

«Buono, Wilhelm.» mormorò, chinandosi ad accarezzargli la testa «Vado dallo zio … che non sta bene.» disse a voce bassa. Il cane sembrò percepire la preoccupazione nell'espressione e nel tono di voce della ragazza, perché abbassò le orecchie e si accucciò, incassando il muso tra le zampe anteriori.

Elena aprì e varcò il cancello e salì sul taxi.

 

Nel cielo nero in cui occhieggiavano le stelle, la luna piena e luminosa sembrava vegliare sul suo percorso, ma in quel momento non vedeva nulla attorno a sé.

Soltanto l'immagine di Carlo, combattente indomito che ora stava lottando per la sua vita.

 

Ogni tanto guardava lo schermo del cellulare. Non c'erano simboli di chiamate perse o di messaggi ricevuti. Riusciva soltanto a rimanere seduta, guardando fuori dal finestrino dello Shinkansen che la stava portando a Tokyo.

Non percepiva né rumori né voci attorno a sé, se non sotto forma di brusio.

 

Era passata la mezzanotte quando arrivò all'ospedale.

Salì le scale che portavano al primo piano, dove si trovava la stanza assegnata a suo zio, come recitavano le indicazioni datele da Genzo in una seconda telefonata, in cui le aveva annunciato che il primario aveva disposto una delicata operazione alla testa.

Si ritrovò ancora una volta ad attraversare quei corridoi bianchi e asettici. Il forte odore di disinfettante le penetrò nelle narici. Sperava di non mettere piede in un luogo come quello, almeno lì in Giappone. E invece c'era stato l'infortunio di Genzo, e ora suo zio …

 

Vide Genzo seduto all'estremità più lontana di una serie di poltroncine e velocizzò i passi, al punto che lui sollevò la testa e si girò verso di lei, alzandosi subito in piedi e andandole incontro.

Dietro di lui vide Ieshige Honda, seduto con le spalle ricurve, la gambe allungate davanti a sé e le mani intrecciate sulle ginocchia, che alzò appena la testa per rivolgerle un cenno di saluto. Si stava letteralmente consumando dalla preoccupazione, e non era un'immagine incoraggiante. Genzo, invece, era imperscrutabile.

Oppure semplicemente, stava aspettando di conoscere l'esito dell'intervento, senza esternare la sua apprensione.

«Genzo. Come sta lo zio?»

«È ancora in sala operatoria.»

Elena annuì, ma dentro di sé avvertì la morsa stringere ancora di più il suo petto.

Stava andando per le lunghe …

«Il maestro Shiroyama è qui?»

«È andato via poco fa. Deve essere a Nankatsu per sottoporre degli allievi a degli esami per l'assegnazione delle nuove cinture. Honda rimarrà qui fino al termine dell'operazione.» disse, guardando il ragazzo, che continuava a guardare per terra, incapace di uscire dalla bolla fatta di paura e inquietudine.

Elena emise un lieve sospiro «È meglio che chiami i miei, prima che lo leggano su Internet o che lo sentano da qualche giornalista sportivo su un canale tematico.» affermò, selezionando il numero di sua madre dal registro delle chiamate sul cellulare.

In Italia erano passate le sedici, doveva aver già terminato il suo turno al supermercato.

Comunicò la notizia senza giri di parole, cercando di sembrare tranquilla. Non voleva nascondere nulla, ma nemmeno allarmare oltremodo i suoi genitori.

«Vi terrò aggiornati. Ah mamma, papà come sta? Almeno lui … sì, ci sentiamo domani.» riattaccò, facendo una piccola smorfia.

«Le ho chiesto come sta papà …» disse poi, con un sorriso amaro «sembra che agli uomini che mi stanno accanto debba sempre accadere qualcosa di brutto …» mormorò, volgendo gli occhi verso il basso.

Chiuse gli occhi e cercò di fare un respiro profondo, per cercare di calmarsi, ma questo si spezzò.

Le sue guance cominciarono a rigarsi di lacrime, il suo petto venne scosso dai singhiozzi.

Genzo le andò incontro e le mise le sue grandi mani sulle spalle. La trasse lentamente a sé, e lei non oppose alcuna resistenza.

Pianse con il viso sepolto sul suo petto, mentre lui le cingeva la schiena con un braccio e le accarezzava piano i capelli con l'altra mano, senza dire niente.

Senza chiederle se tra gli uomini di cui parlava c'era anche lui.

«Carlo è un lottatore nato. Ce la farà.» le disse soltanto, con voce pacata e rassicurante.

Il suo respiro le sfiorava i capelli, poteva sentire il calore delle sue parole irradiarsi dal petto e avvolgere anche lei.

Gli si accostò ancora di più, abbandonandosi alla sensazione di sicurezza che le donava. L'unica cosa che desiderava, dopo il risveglio di suo zio, era che Genzo continuasse a tenerla stretta, trasmettendole la convinzione che nulla di brutto sarebbe potuto succedere.

 

Un uomo di mezza età, magro e non molto alto, comparve sul corridoio.

Indossava un camice e una mascherina pendeva dal collo. Fece un cenno verso Genzo, che scambiò un'occhiata con Elena e si avvicinò insieme a lei e a Honda.

«Lei è una parente?» le chiese il dottore.

«Sì, sono Elena Rulli, la nipote del signor Nerlinger.»

L'uomo fece un cenno d'assenso.

«Signorina, suo zio ha riportato un trauma cranico dovuto ai colpi ricevuti durante l'incontro. È stato sottoposto a un intervento chirurgico per la riduzione di un ematoma, fortunatamente non molto esteso. È in prognosi riservata, ma la situazione è sotto controllo.»

 «Quindi non è in pericolo di vita …?» chiese Elena, con occhi spalancati che imploravano una risposta affermativa.

Il medico le sorrise e scosse la testa «No, signorina. Si riprenderà.»

Elena espirò, chiuse gli occhi e sorrise, e si mise una mano sul petto «Grazie.»

Il dottore assentì con il capo e tornò nella sala operatoria.

Ieshige guardò verso l'alto e strinse i pugni in silenzio, Genzo chiuse gli occhi e sorrise, manifestando compostamente il suo sollievo.

Pochi minuti dopo, nel corridoio comparve il letto su cui era sdraiato Carlo, spinto da due infermiere. Era addormentato.

Elena e Ieshige lo seguirono con lo sguardo finché non venne sistemato nella stanza, il fiato trattenuto e gli occhi lucidi, mentre Genzo guardava alternatamente il suo maestro e poi la ragazza.

La ragazza strinse la mano a Honda, poi guardò Genzo e gli sorrise. I suoi occhi brillavano di nuove lacrime, questa volta di sollievo e di felicità. Lui avrebbe voluto stringerla di nuovo tra le sue braccia, ma si limitò a ricambiare il sorriso e a chiederle se avesse bisogno di qualcosa.

Elena scosse la testa «Rimarrò qui, voglio esserci quando lo zio si risveglierà.»

«Ora sono più tranquillo.» intervenne finalmente Ieshige «Devo tornare a Nankatsu per gli esami degli allievi. In assenza del maestro Nerlinger, lo sostituisco io. Tornerò a trovarlo domani sera.» annunciò, incontrando il cenno d'assenso di entrambi i ragazzi.

 

Non sapeva da quanti minuti avesse lo sguardo su di lei, come a vegliarla.

Rassicurata dalle parole del medico sulle condizioni di suo zio, Elena si era addormentata su una poltroncina accanto a quella dov’era seduto lui. Si era seduta di traverso, con le gambe appoggiate su un bracciolo e la testa sullo schienale, il busto leggermente ricurvo.

I suoi lunghi capelli gli celavano il viso. Avrebbe voluto alzarsi, avvicinarsi a lei e sfiorarglieli con una mano, ma rimase fermo dov'era.

Un gesto di troppo avrebbe potuto rovinare tutto …

Una giovane infermiera comparve sul corridoio, fermandosi davanti a lui.

«C'è un divanetto nella sala d'attesa accanto, ed è libero.» lo informò.

Genzo annuì e la ringraziò, poi guardò Elena. Se l'avesse svegliata, avrebbe rischiato di spaventarla, ma non poteva nemmeno lasciare che dormisse in quella posizione scomoda.

Si alzò e si avvicinò a lei. Si chinò, le mise un braccio attorno alla schiena e fece passare l'altro sotto le sue gambe, sollevandola e prendendola in braccio. Percorse qualche passo verso la saletta accanto e, con la massima delicatezza, la stese sul divanetto.

Le scostò alcuni capelli rimasti sul viso, sfiorandole inavvertitamente una guancia.

Rimase a contemplarla, per alcuni istanti. I lineamenti del viso rilassati, la bocca leggermente dischiusa … era bella. Sentì un calore ormai consueto nascere e irradiarsi nel suo petto.

Chiuse gli occhi ed emise un leggero sospiro.

Doveva accontentarsi di questo, per il momento …

Poi si voltò, per tornare nel corridoio.

L'infermiera aveva assistito alla scena e lo guardò con un sorriso, ma non era malizioso né insinuante. Era dolce e quasi commosso, tanto che Genzo lo ricambiò d'istinto, prima di tornare a sedersi sulla poltroncina e chiudere gli occhi, cedendo infine anch'egli alla stanchezza prodotta dalla mancanza di sonno e dalle emozioni susseguitesi nel corso di quella giornata.

    

«Elena.»

Le scosse una spalla con quanta più delicatezza possibile, ma abbastanza forte da riuscire a svegliarla.

La ragazza fece una smorfia e aprì lentamente gli occhi, sbattendo più volte le palpebre per abituarli alla luce del sole che filtrava dalle persiane abbassate.

Poi mise a fuoco il volto di Genzo che le sorrideva con dolcezza, infondendole subito quella calma che le faceva capire che era stata una notte serena, non c'erano state brutte sorprese e nella migliore delle ipotesi suo zio dormiva tranquillo dietro la porta della stanza in cui era stato ricoverato.

«Che ore sono?» chiese, la voce ancora flebile per il sonno, mentre si rendeva conto di essere sdraiata su un divanetto.

«Quasi le nove.» rispose Genzo.

Elena si mise a sedere, i capelli biondi le ricaddero sulle spalle e ne scostò alcune ciocche finite davanti al viso.

«Non mi sono addormentata qui, stanotte.» disse, alzando gli occhi sul portiere.

«No, infatti. Un'infermiera mi ha avvisato che quel divanetto era libero e io ti ho sollevata e ti ci ho sdraiata.» spiegò semplicemente, senza alcuna nota di malizia.

Elena assentì «Grazie.»

Genzo le sorrise e le tese una mano per aiutarla a rialzarsi, come aveva fatto il giorno prima.

Stavolta Elena la accettò, e riuscì a reggersi in equilibrio sulle ginocchia indolenzite.

«E tu sei rimasto qui tutta la notte …?»

Genzo annuì. La maschera celava le occhiaie, ma non i capillari che attraversavano le sclere dei suoi occhi e che testimoniavano le poche ore di sonno.

«Non dovevi …» mormorò commossa, dandogli una lieve carezza su una guancia.

Genzo avvertì la pelle bruciare lì dove Elena l'aveva toccato.

Lei gli sorrise, con dolcezza e gratitudine.

Quei gesti lo stavano sconvolgendo più di quanto gli accadeva facendo l'amore con Asami …

Fortunatamente fu la sua stessa sollecitudine a venirgli in aiuto, facendogli recuperare il contegno.

«Vuoi mangiare qualcosa? Posso andarti a prendere un caffè al bar qui sotto.»

Elena lo guardò ancora, riconoscente per la sua premura che sembrava infinita …

«Sì, grazie … mi prenderesti anche un croissant alla fragola? Io intanto, vado a darmi una sistemata.» disse, passandosi una mano sui capelli spettinati.

Lui annuì, distendendo le labbra in un sorriso aperto.

Un quarto d'ora dopo, Genzo ritornò al primo piano e trovò Elena seduta su una delle poltroncine. Il ragazzo si accomodò accanto a lei e le porse il cornetto ancora caldo e fragrante e la tazza di caffè, prontamente ringraziato.

Era strano, e sicuramente non sarebbe stato possibile se suo zio fosse stato ancora in pericolo di vita, ma Elena provava una sensazione di benessere e serenità.

La bontà e la dolcezza di quella colazione, sapere che Genzo aveva vegliato su di lei per tutta la notte e si stava prendendo cura di lei, in un certo senso. Come un amico.

Le sarebbe mancato, una volta tornata in Italia, e i pensieri che aveva fatto quel mattino in merito non le sembrarono più così confortanti.

 

«Signori, se volete vedere il signor Nerlinger, si è svegliato.» la voce dell'infermiera li riscosse e li fece voltare. Si alzarono quasi contemporaneamente e si diressero verso la donna, che fece loro cenno di entrare.

Appena varcata la soglia, Elena corse verso il letto su cui era sdraiato Carlo, che le sorrise non appena la vide, la parte superiore della testa completamente fasciata.

«Zio … come stai?» gli chiese, chinandosi su di lui e circondandogli il collo con le braccia, in un buffo abbraccio.

«Ho la testa dura.» rispose, toccandosi leggermente la fasciatura e, nel contempo, sollevando l'altro braccio per scambiare una forte stretta di mano con Genzo.

«Ci scherzi sempre su … ma io ho avuto paura di perderti.» confessò, sollevandosi e guardandolo con un piccolo broncio di rimprovero.

«Sì, questa volta me la sono vista brutta, effettivamente.» ammise infine, con un tono di voce fattosi serio «Ma credo sia stato il mio ultimo incontro. I medici mi hanno sconsigliato di riprendere l'attività agonistica.» rivelò, guardando i due ragazzi con le labbra tirate ai due lati.

I suoi occhi azzurri sembravano ancora più chiari, e si affrettò a stringerli per impedire alle lacrime di scendere lungo il viso e manifestare la loro presenza.

Genzo vide in quel gesto un comportamento che era caratteristico anche di Elena … non mostrare la propria sofferenza.

«Puoi essere fiero della tua carriera zio, e dell'esempio che hai saputo dare, facendo sempre le tue scelte in autonomia. E comunque puoi continuare a insegnare, hai dimostrato di saper trasmettere le tue conoscenze e soprattutto la tua passione. Genzo può testimoniarlo.»

Il portiere assentì, di rimando.

Carlo sorrise, con una smorfia che sapeva di rassegnazione «Sarà difficile … nel codice del guerriero non esiste la resa. E anche quando il corpo dice "Basta", lo spirito grida "Mai".» affermò, risoluto. Poi ammise, con un tono di voce più sommesso «Ma stavolta ho davvero temuto di non svegliarmi mai più.»

 

L'infermiera annunciò una nuova visita, e lasciò entrare un uomo alto, con un corpo massiccio, corti capelli castani e un volto squadrato dai tratti decisi, segnato da un paio di cicatrici testimoni di una carriera di kickboxer conclusa da alcuni anni.

«Frank!» lo salutò Elena, andandogli incontro.

«Sei Elena, vero?» esclamò l'uomo, stringendole la mano con entrambe le sue, grandi e ruvide «Sì, lei è la tua nipotina bionda, quella mora si chiama Angelina, se non ricordo male.» disse guardando verso Carlo, che assentì con il capo. «Da quanto tempo non ti vedo?» chiese, rivolgendosi nuovamente a Elena «Eri alta la metà di adesso e io ero ancora un aitante ragazzone che si divertiva a far penare tuo zio sul ring!»

«Veramente quello che ti faceva sputare sangue ero io.» ribatté Carlo, sporgendosi verso di lui con un tono tra il provocatorio e lo scherzoso.

«Eccoli che cominciano …» ridacchiò Elena, voltandosi verso Genzo «Ti presento Frank O'Malley, ex kickboxer statunitense, uno dei suoi rivali più agguerriti.»

«Chi vinceva più gare?» chiese il portiere, con un sogghigno, aspettandosi già la risposta.

«Io!» gridarono infatti entrambi gli atleti, per poi scoppiare a ridere.

«Diciamo che ce le davamo di santa ragione. Però sempre nel rispetto delle regole, e fuori dal ring siamo sempre stati ottimi amici.» rispose Carlo.

«Se non sbaglio, lui è il portiere che stai allenando.» disse Frank, guardando Genzo.

Il ragazzo fece un cenno d'assenso.

«Viaggio molto per lavoro e ho visto spesso la tua foto sui quotidiani sportivi. Complimenti, sei uno forte.» gli disse, stringendogli la mano e dandogli una pacca sulla spalla.

«Lui ha capito da un pezzo quando è saggio fermarsi.» commentò Carlo, facendo cenno con il mento al suo antico compagno di battaglie.

«Ero completamente suonato. Non ho mai avuto la tua resistenza.» obiettò Frank.

«Hai preferito tenerti tua moglie e farci dei figli, mentre io non ho voluto lasciare il kickboxing. E così ho detto addio alla donna che mi è stata accanto per quindici anni.» replicò Carlo, con un lampo di disappunto negli occhi.

«Su coraggio, ormai ci sono uomini che si sposano e fanno figli a sessant'anni, tu sei ancora un ragazzino.»

Carlo scosse la testa «Mi sa che i miei nipoti diventeranno genitori prima di me.» ribatté guardando Elena di sottecchi.

Lei pensò ad Angelina che aveva sentito per telefono il giorno prima e le aveva nuovamente chiesto dove intendeva frequentare l'università. In fin dei conti, era maggio ormai, ed era tempo di prendere una decisione.

 

«Che ora è, ragazzi?» chiese Carlo, dopo che Frank se ne fu andato.

Fu Genzo a rispondergli, dopo un'occhiata al suo orologio da polso «Le undici.»

«Le undici? Elena, che ci fai ancora qui? Devi tornare a Nankatsu, a preparare le Nazionali juniores!» la rimproverò Carlo.

Elena spalancò gli occhi, poi aggrottò le sopracciglia e si mise una mano su un fianco «Come potevo andarmene senza sapere se ti saresti ripreso?»

«Beh, sei qui da ore ormai, e adesso sto bene. Rimarrò qui ancora per diversi giorni, ma mi riprenderò in tempo per venire ad assistere alle gare, quindi devi rimetterti al lavoro.»

Elena chiuse gli occhi e sorrise «Va bene, vado in stazione a prendere il treno.»

«È un peccato che tu sia costretto qui, Carlo. Avrei voluto invitarvi a cena insieme a Mikami, la sera della partita contro il Vietnam.» disse Genzo, volgendo lo sguardo anche alla ragazza.

«Beh, io non potrò esserci per ovvi motivi, ma … tu Elena, ci puoi andare.» le disse, con un ammicco.

«Io …» esitò, presa alla sprovvista « … certo, perché no?» concesse poi, guardando Genzo con un sorriso. In fondo, l'aveva aiutata e le era stato vicino, ancora una volta. E non aveva ragione di avere paura di lui, quali che fossero i suoi sentimenti. Non si sarebbe mai comportato in modo sleale, non l'avrebbe mai forzata a fare qualcosa che lei non avesse voluto. E poi, non sarebbero stati soli, visto che era ospite anche il suo allenatore e mentore.

Mandò un sms a Mayuko. Sarebbe tornata alla palestra quel pomeriggio stesso.

«Genzo, puoi accompagnarla se vuoi.» gli propose Carlo, strizzandogli un occhio.

 

Erano da poco giunti al pianoterra quando incrociarono il giovane campione serbo, Dragan Iljanovic.

Sul viso erano ancora visibili i lividi e le escoriazioni retaggio dei colpi ricevuti durante il match.

«Scusate. Volevo sapere come sta il maestro Nerlinger.» disse in un inglese dall'accento slavo.

Elena fece un cenno d'assenso con la testa «Sta bene. Ha riportato un trauma cerebrale, ma si riprenderà.»

Dragan annuì, sollevato «Mi dispiace averti fatto prendere questo spavento. Purtroppo nel nostro sport si danno e si ricevono colpi molto duri e a volte questo può arrivare a costarci la vita.»

«Lo so. Ma è la vostra passione.» replicò, mostrando di comprendere perfettamente di cosa stava parlando e i sentimenti che provava.

Dragan sorrise «Carlo è uno dei miei idoli, fin da bambino. Posso andare a fargli visita?»

«Certo. È ricoverato al primo piano, stanza 31.»

Il giovane la ringraziò e si diresse verso le scale.

 

Uscirono dal piazzale dell'ospedale e si ritrovarono sul marciapiede della strada antistante, nuovamente immersi nella luce del sole e nei rumori della città. Un primo ritorno alla vita di tutti i giorni.

Elena si portò dietro le orecchie le ciocche di capelli mosse da un vento un po' più forte rispetto agli altri giorni.

«Vieni anche tu alla stazione?» chiese, volgendosi verso Genzo.

Stava per risponderle quando sentì un trillo ovattato provenire dalla tasca dei suoi pantaloni.

Estrasse il cellulare e il simbolo e la scritta sul display gli comunicavano che aveva appena ricevuto un messaggio.

Ho passato l'esame. Massimo dei voti. Pranziamo insieme?

Genzo sospirò.

«No. Ho un impegno.» disse con voce monocorde, digitando qualcosa sul cellulare e riponendolo nella tasca, stringendo le labbra.

In quel momento, un taxi rallentò e accostò nel punto in cui si trovavano.

«D'accordo. Ci vediamo la sera della partita allora. Grazie ancora, di tutto.» replicò Elena con serenità, per poi aprire la portiera del taxi e infilarsi dentro.

Mentre l'auto spariva nel traffico, Genzo rimase a vagare per alcuni minuti su quel tratto di marciapiede, per poi fermare anche lui un taxi e farsi portare alla residenza della sua famiglia, lì in città.

 

 

 

 

 

***Note***

 

Come suggerisce il titolo, in questo capitolo ha molta importanza il rapporto che lega tre dei quattro protagonisti di questa storia ai loro padri o comunque parenti che possono essere considerati una sorta di figura paterna (come nel caso di Carlo con Elena).

Ichiro, padre che ha sempre incoraggiato Taro a inseguire i suoi sogni e a prendere in autonomia anche le decisioni più importanti, persino quelle solitamente ritenute premature; Shinji, padre che tende invece a dissuadere Kumi dall'intraprendere un percorso che lui non approva poiché non lo ritiene "sicuro" per il suo avvenire. 

Carlo non è il papà di Elena, ma lo si può considerare una seconda figura paterna per lei. L'ha avviata al mondo dello sport, l'ha chiamata con sé in Giappone, le sta vicino e la consiglia come se fosse un genitore.

 

Shoten è un termine giapponese che significa "libreria". Viene usato molto dagli editori che decidono di dare il loro cognome alle case editrici da loro fondate.

 

Sarariman: pronuncia giapponese del termine inglese salaryman, significa letteralmente "lavoratore salariato" e indica un lavoratore dipendente impiegato nel settore terziario, in particolare presso aziende, con un reddito fisso.

 

La descrizione dell'azione del gol di Shun Nitta e il dialogo tra Mark Al Owairan e Taro Misaki sono tratti dal capitolo 82 del "Golden 23".

 

Hokusai, nome d'arte di Katsuhika Sori (1760-1849) è stato un pittore e xilografo giapponese, autore appunto della serie "Trentasei vedute del Monte Fuji", di cui fa parte la celeberrima opera "La grande onda di Kanagawa".

Qui la sua biografia.

 

Il Tokyo Dome è uno stadio situato nel quartiere speciale di Bunkyo, dove si trova, tra l'altro, l'Università di Tokyo (Todai). Inaugurato nel 1988, ospita moltissimi eventi di vario genere, dalle gare sportive (football, boxe, arti marziali) ai concerti degli artisti più famosi a livello mondiale. Lo Juntendo Hospital esiste realmente e si trova sempre nel quartiere speciale di Bunkyo, a poca distanza dal Tokyo Dome.

 

 

Le parole di Carlo e il breve dialogo tra Dragan ed Elena sono ispirate dalla canzone "Burning Heart" dei Survivor, che fa parte della colonna sonora di "Rocky IV" (1985).

In particolare, questa parte di testo:

 

In the warrior's code

There's no surrender

Though his body says, "Stop"

His spirit cries, "Never"

 

Deep in our soul

A quiet ember

Knows it's you against you

It's the paradox that drives us on

 

It's a battle of wills

In the heat of attack

It's the passion that kills

The victory is yours alone

 

Questa è la traduzione: 

[Nel codice del guerriero

Non esiste la resa

Se il suo corpo dice "Basta"

Il suo spirito grida "Mai"

 

Nel profondo della nostra anima

Una quieta brace

Sa che sei tu contro te stesso

È il paradosso che ci guida

 

È una battaglia di volontà

Nel fervore dell'attacco

È la passione che uccide

La vittoria è solo tua]

 

 

Piccolo dizionario di ginnastica artistica:

La "grande Nadia" è Nadia Comaneci, leggendaria ginnasta romena, la prima a ottenere un "10 perfetto" ai Giochi Olimpici di Montréal 1976 (gliene vennero assegnati sette in tutto). È rimasto nella storia e nell'immaginario collettivo degli amanti di questo sport il suo esercizio alle parallele asimmetriche (qui il video).

Sua la frase: "Non scappo da una sfida perché ho paura. Piuttosto corro verso di lei, perché l'unico modo per sfuggire alla paura è calpestarla sotto i piedi" citata da Elena.

Una curiosità: il secondo nome della Comaneci è proprio Elena.

A proposito di curiose coincidenze, esiste un'ex ginnasta che ai tempi in cui gareggiava era la sosia in carne e ossa proprio della nostra protagonista.

Si chiama Olga Mostepanova e nella prima metà degli anni '80 ha fatto parte della fortissima Nazionale sovietica. Era una ginnasta dall'eleganza e dal talento sbalorditivi, ma a causa del boicottaggio deciso dal governo dell'URSS non poté partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles 1984.

Ecco due immagini. La somiglianza con Elena è notevole!

 

Lo Shaposhnikova, chiamato familiarmente "Shaposh" è un elemento delle parallele asimmetriche presentato da Natalia Shaposhnikova, una delle ginnaste di punta della Nazionale sovietica a cavallo tra gli anni '70 e '80. Qui un video che mostra le evoluzioni di questo elemento, ripreso e arricchito nel corso degli anni da altre ginnaste, con combinazioni sempre più difficili.

 

Ecco il XIV capitolo … riesco finalmente a postarlo dopo un mese infernale -_-

Chiedo scusa per il ritardo.

Grazie ancora a chi continua a leggere questa storia! :-*

Sandie

  
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