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Autore: Diana LaFenice    07/01/2019    1 recensioni
«Sapevi che esistono ben più di ottantotto costellazioni, nella volta celeste? Alcune sono scomparse, altre esistono già, alcune sono visibili a occhio nudo e altre ancora devono ancora nascere. Invece, alcune sono talmente lontane che non possono essere viste neanche con il telescopio più potente del mondo. Io le conosco tutte, io le vedo e le sento tutte. Eccole, sono proprio qui, davanti a me, le sento sulla punta delle dita».
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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 I campi della Dea


Camus
Era il momento di lasciare la Palude Nera. 
Ti separasti un attimo dalle truppe per riposare un po’. Non che ne avessi realmente bisogno, era solo che non riuscivi a camminare e pensare al tempo stesso. Ti accomodasti sopra un masso.
Era passato un giorno dalla riconquista. Lady Pandora e gli Specter stavano organizzandosi in vista del prossimo scontro. Adesso i Black Saints di Don Avido non avrebbero atteso a lungo come prima. Le ultime battaglie gli avevano dimostrato che facevate sul serio tutti.
Le prossime sarebbero state ancora più dure. Soprattutto adesso che anche Death Mask era sceso in campo. Avevi percepito il suo Cosmo a Sud Ovest rispetto a voi. Una volta salvato il Grifone, catturate le schiere dei Black Saint di stazza e imprigionatele di nuovo; Lady Pandora ristabilì il dominio di Flegias di Licaone. Lo Specter aveva disegnato un inchino, poi era andato a cercare gli alberi migliori con cui ricostruire la sua zattera. I Black Saints gliel’avevano distrutta.
Il panorama infero che si stagliava davanti ai tuoi occhi con tutto il suo fascino inquietante.  Non ti interessava vedere la foresta che avevate riconquistato. Ti interessava di più sapere di questa misteriosa donna. Di questa Azona. Chi diavolo era? Di lei avevi percepito solo un Cosmo normale. Niente di particolare, eppure era riuscito a debellare la tecnica delle ametiste del falso Megres XIII. Non era una persona comune, era chiaro. E la questione sarebbe anche potuta finire lì per te se non fosse stato per quello che era successo dopo. Quello che aveva fatto Shaka ti aveva turbato. E gli Specter avevano pure infierito. Non occorre scervellarti mio caro, a pungolarti ci penso io. Oh, tu sapessi con quanta passione aveva proferito il suo giuramento, con quanto ardore si era inginocchiato a lei. E come l’aveva seguita fedelmente come un cagnolino. Da quando era comparsa l’atteggiamento di Shaka era cambiato. Era ovvio che la conoscesse, come avevi fatto a non pensarci prima?
“Dunque era questa la cosa importante che doveva fare?” Ti chiedesti distogliendo lo sguardo. Il dorso delle mani intrecciate a sostenere il mento. I gomiti piantati sulle ginocchiere. Usare gli Inferi così? Tu non l’avresti mai fatto, nonostante la Guerra Sacra ma qui ti fermasti. “Ah, già”. Bravo, è meglio che tu taccia perché anche tu avevi fatto il doppiogioco, non far finta di non ricordartelo. “Tuttavia questa è ancora diversa”. Ti dicesti.
Non avevi potuto inseguirlo perché l’Azona, una volta liberata la Colomba Astrale non aveva pensato agli altri prigionieri. Perciò tutto quello che sapevi ti veniva dai testimoni oculari in quanto troppo impegnato a liberare Minosse del Grifone. Il quale si andò immediatamente a riunire alle fila e inchinarsi davanti alla Somma Pandora. Comunque un inchino meno spudorato di quello di Shaka. Così ti avevano riferito gli Specter che tornarono dall’inseguimento. Quindi adesso chi avrebbe comandato le creature Ctonie? Shaka aveva affidato il comando alla Somma Pandora, ma le avrebbero obbedito? E lei gliel’avrebbe perdonato? Conoscendola no. Ma se la determinazione che le avevi visto in battaglia e al comando delle truppe durante l’assedio era anche solo la metà di quella sfoderata, allora Shaka era nei guai.
“In cosa ti sei andato a cacciare?” Pensasti preoccupato, alzando un momento gli occhi al cielo degli Inferi. D’accordo che eravate entrambi adulti ed emancipati da un pezzo. Però le azioni di Shaka erano state estremamente rischiose. Non solo temevi che gli Dèi della Notte prendessero a male la sua decisione, dopo avergli affidato le proprie armate, ma chi la sentiva poi Pandora?
Voi Saint eravate in una posizione precaria a prescindere dal Patto. Il Patto non vi proteggeva, infatti, dalle congiure. La sua protezione era relativa e Shaka lo aveva compromesso.  
Non avevi più pensato al voltafaccia di Shaka. Ma si poteva davvero chiamare così? Non lo conoscevi benissimo, ma avevi parecchi dubbi che il suo fosse stato davvero un tradimento. Checché ne dicessero tutti.
Ti stringesti nelle spalle e ripercorresti gli avvenimenti alla ricerca di un segnale premonitore. Ora che ci pensavi quando si era presentato a Villa Heinstein ti era sembrato scosso. Non lo conoscevi molto ma non ti sembrava più lo stesso. Poi cos’era quell’album che vi aveva salvato? Che cosa si era ritrovato tra le mani? Che cosa gli era successo per cambiare tanto?
Se tu avessi potuto vederti dall’esterno, ti saresti sembrato un allievo del tuo compagno. Gambe incrociate, schiena curva e mani a sorreggere il mento. L’espressione pensierosa la faceva da padrone sulla tua faccia, mentre osservavi il territorio senza vederlo. 
Pensa che ti pensa, giungesti alla conclusione che la colpa era di quell’album. Da dove veniva quell’album? Che fosse stregato o che qualcuno avesse stregato il tuo compagno? Non ti sentisti di escluderlo.
«Nobile Aquarius». Ti chiamò uno Skeleton. «Vengo subito». Rispondesti e ti riunisti alla marcia.  
Una cosa era certa: i problemi sarebbero ricaduti sulle tue spalle. Infatti: «Nobile Aquarius, la Somma Pandora vuole vedervi». Ti riferirono poco dopo il vostro ritorno all’accampamento. “Appunto”. Andati al padiglione degli Specter.
Vi eravate accampati in mezzo alla pianura e presto, dopo questa notizia, avreste recuperato tutto, smontato il campo e vi sareste spostati di nuovo. Gli Specter avevano già individuato il luogo adatto.
Appena entrasti nella tenda della Sacerdotessa degli Inferi, fosti accolto da quattro paia di occhiate truci. Poco più in disparte un compiaciuto Valentine dell’Arpia.
«Che cosa significa?» Esordì il Garuda inferocito.
«Aiacos». Lo richiamò la Sacerdotessa. L’uomo la guardò, poi tacque e fece un passo indietro. La donna ti fece accomodare sulla poltrona davanti alla sua scrivania. Poi si accomodò a tua volta dall’altro lato del tavolo. «Immagino sappiate già perché siete qui».
«Sì, signora ma vi posso garantire che io non ne so niente».
«Non mentire! Lo sanno tutti che voi Gold Saint siete dei doppiogiochisti!» Ti accusò di nuovo il Garuda ma la donna lo richiamò di nuovo e si rivolse a te. «Quel che è stato è stato. Voglio sapere che cosa è successo».
«Sinceramente non ci ho capito molto neanch’io». Rispondesti sconvolto. Le raccontasti tutto quello che era successo, compreso il fatto che Shaka ti aveva bloccato. Quando arrivasti alla trasformazione e quel che era accaduto dopo la Sacerdotessa sgranò gli occhi: «Avevano un’arma così potente e non se ne erano accorti. Che fine ha fatto?»
«É scomparsa».
«E la ragazza?»
«Andata».
«Vi dispiacerebbe ripetermi che nomi hanno usato?»
«Colomba Astrale, Drago Rosso e Azona».
A quest’ultimo nome la donna s’irrigidì. «Siete sicuro che abbia detto questi nomi?»
Confermasti, guardandola preoccupato. Perché reagiva così? Era come se conoscesse questi nomi. Sembrava turbata e non sapevi spiegarti perché. Erano così importanti? Non li avevi mai sentiti prima. 
«Mia Signora, lasciate ch’io vada a prenderlo e lo punisca come merita.» continuò Aiacos, smanioso di lanciarsi all’inseguimento. «Non facciamo nulla. Lasciamolo andare e spieghiamo alle creature Ctonie che il loro comandante ha ricevuto una missione e che, momentaneamente, obbediranno a me». Lo bloccò. Lo Specter di Garuda nascose la sua delusione e si inchinò rispettoso. «Sì, mia Signora».     
«Adesso lasciatemi sola, tutti». Vi scacciò.
Non ti volle mai dire che cosa significasse, sapevi che tanta magnanimità era anomala. E anche gli altri Giudici Infernali concordavano.  Tuttavia da allora le cose per te peggiorarono. Continuavi a stilare i piani e le strategie insieme a Lady Pandora e i suoi strateghi, ma spesso nessuno ti ascoltava perché tu e le strategie eravate due cose a parte. Non che fossi scarso, ma le tue strategie erano banali e, in questa situazione dovevate collaborare tutti. Tu non c’eri abituato e la tua autoformazione ti impediva. Quella volta che avevi provato a mettere in pratica una tua strategia Aiacos si era visto parte della nave distrutta e per poco non avevate perso terreno. Se eravate sopravvissuti era stato solo grazie al fatto che avevi rimediato coadiuvato da Fianna. Che aveva allontanato per te le Creature. I Black Saints ti guardavano con rispetto, ma a che prezzo? Anche parte dei vostri combattenti era morta. Credevi di essere abbastanza cauto da considerare tutti i rischi e invece non era così. Questo era un grosso smacco pure per te.  
Adesso Aiacos esigeva un risarcimento con gli interessi. La Somma Pandora non faceva niente per tutelarti e, anche Valentine lavorava contro di te. L’unica cosa che ti proteggeva era la tua amicizia con il popolo celta. Lady Niniane, infatti, ti teneva in grande considerazione, ti aveva battezzato come uno dei suoi guerrieri. Questo ti aveva dato una sorta d’immunità e la fedeltà del popolo della piccola pitta che ti seguiva. I pitti, infatti, rispondevano agli ordini della Sacerdotessa Reale di Avalon. Tuttavia anche così non bastava. Dovevi saperne di più e per farlo dovevi trovare Shaka e l’Azona. Se l’Azona era tanto potente allora tanto valeva reclutarla nelle vostre fila per avere  un’alleata in più. Sottoponesti la tua proposta ai capi della schiera Infera. Per evitare di creare altri dissapori però dichiarasti che avresti continuato a combattere al fianco della Somma Pandora. Gli Specter acconsentirono, a patto che tu tornassi dopo due giorni a partire dall’abbandono degli Inferi. Al termine avrebbero mandato qualcuno a riprenderti e ti avrebbero degradato. Nel senso che non avresti più potuto partecipare alle riunioni e ti avrebbero tolto alcuni privilegi conquistati fin qui. Era un prezzo che eri disposto a pagare e partisti. Non avesti bisogno che di portare con te la tua Cloth. Per le Creature non c’era problema, con la velocità della luce sarebbe stato questione di un attimo e saresti stato laggiù. Così partisti.  
Raggiungesti le rive dell’Acheronte appena riconquistate. Ma fosti bloccato immediatamente da una schiera di anziani: «Fermo là! Chi sei?» Ti bloccasti più per lo stupore che per l’effettivo pericolo.
«Fermi, non fatelo, è un Cavaliere d’Oro! É dalla nostra parte!» Esclamò un’aspirante Sacerdotessa-Guerriero in un italiano con un pesante accento francese, comparendo sopra un masso. I vecchietti si fermarono subito: «Sei sicura, Cherie?» Le domandò uno di loro, che indossava una coppola, guardandola. Cherie annuì. «D’accordo, scusateci». Fecero i nonnetti e, si allontanarono (chi più o meno velocemente) sotto al tuo sguardo stupefatto.
«Non fateci caso, sono ancora scossi per la battaglia». Si scusò la giovane.
«Non fa niente.» mormorasti accompagnando lo strano gruppetto con lo sguardo. Ti guardasti intorno e una domanda iniziò a riecheggiare prepotentemente nel tuo cervello. Pensavi che Death Mask si muovesse da solo. Non che… Atena, non trovavi neanche le parole. Sul serio la sua armata era questa qui? Improvvisamente ti sentisti poco bene.
Oddea, l’Armata Brancaleone era meno scassata! E questa era la vostra linea difensiva? Per di più senza nessuna protezione? Ti venne istintivo segnarti e snocciolare un paio di preghiere, anche se mentalmente. Death Mask avrebbe avuto bisogno di un miracolo e pure in grande stile: non ce ne era uno che si salvava. La tua salvatrice ti chiese se stessi bene.
«Sì, credo, chi sono cioè… chi siete?»
«Noi siamo i guardiani della Bocca dell’Ade». Rispose poi ti si inchinò, come avevi visto fare al Tempio dalle Sacerdotesse-Guerrieri e si presentò come l’ex aspirante Gold Saint di Cancer.
Sgranasti gli occhi e la ragazzina rispose al tuo muto interrogativo. «Certo, credevate che il nobile Death Mask fosse stato l’unico ad addestrarsi per conquistare la Gold Cloth?» La fissasti esterrefatto per un po’, poi ti rinvenisti e le chiedesti di portarlo da lui. La ragazza obbedì, colpita dalla tua gentilezza. Il percorso fu uno dei più inquietanti di sempre. Era come attraversare la Quarta Casa. E tu per raggiungere l’Undicesima l’avevi oltrepassata. Il tragitto fu intervallato di bare spostate da persone, telecinesi o dai fuochi fatui. Si respirava però una certa laboriosità e operosità mischiata a una buona dose d’inquietudine. Dopo due ore lo vedesti intento a parlare con un uomo dalla fluente chioma di un rosso più carico della tua. 
«Death Mask!» Chiamasti pieno di sollievo. Mai avresti immaginato di usarlo con lui: tanto ti sembrava di essere circondato da dei pazzi squilibrati.
I due ti guardarono. Ti scoccò uno sguardo indolente e borbottò qualcosa. Si tolse una cicca di bocca e la gettò a terra per calpestarla con il tacco dell’Armatura. Eppure anche così sembrava un raggio di sole in mezzo all’oscurità.
«Eccoci qui, credo che possiate cavarvela anche da solo. Arrivederci». Ti salutò la Sacerdotessa-Guerriero, prima di andarsene. Lo sconosciuto la imitò dopo averti indirizzato un cenno del capo.
«Cosa ci fai qui? Credevo che fossi insieme a Lady Pandora».
«Come lo sai?» Chiedesti battendo le palpebre.
«Le voci corrono». Rispose con un’alzata di spalle e un tiro di sigaretta e ti guardò in cagnesco: «Te la togli quell’espressione spaventata dalla faccia, per cortesia? Mi stai facendo saltare i nervi».
«Scusa è che non mi sono ancora ripreso». Mormorasti accennando all’Armata Brancaleone alle tue spalle. Death Mask sbottò: «Non ti ci mettere anche tu! Non sono ancora riuscito a farmi dare la maschera di Cherie. É imbarazzante per uno della mia levatura guidare questa ciofeca di armata! Rivoglio i miei incapaci di sottoposti e i loro sottoposti ancora più incapaci! Li vedevo poco, li lasciavo allo sbando ma almeno ero contento e non avevo ostacoli. Porco cane, io me ne stavo bello tranquillo nella mia Casa e devo combattere una guerra di cui non m’importa un emerito accidente, con questo schifo, capisci? Mi hanno dato la bicicletta senza sellino, porca miseria. Avrei anche già finito da solo se non ci fossero quelle dannate Creature!» Si allontanò e tu lo seguisti mentre faceva l’elenco della vergogna inframmentizzato di intercalari italiane. «Vecchietti artritici con il deambulatore, il respiratore, la briscola, vecchiette con l’ampliphon e le calze contenitive, liceali che non sanno dove sbattere la testa, universitari che paiono più un gruppo di boy scout in gita. E ogni giorno aumentano di numero, come se si moltiplicassero tipo amebe. Una ragazzina isterica che credevo di essermi tolto dalle palle per sempre e, dulcis in fundo, un Guardiano di una delle Case degli Astri e sua figlia che me l’ha messa in quel posto perché ho accettato di essere un guerriero della Speranza! Roba da matti, per fortuna che…»
«Aspetta, che hai detto?» Lo bloccasti afferrandogli il braccio e lo costringesti a voltarsi verso di te. Guadagnandoti un’occhiata torva e una minaccia che tu interrompesti prontamente: «Un Guardiano delle Case degli Astri? Ce n’è un altro?»
Il tuo collega liberò il braccio con uno strattone e si bloccò, poi si accigliò. Era fumino e malvagio, ma non era sordo. «Un altro? Come sarebbe a dire un altro?» Domandò colpito e attento. Ti sentisti quasi smarrito a parlarci. Non tanto perché nessuno voleva avvicinarlo e lui non incoraggiava l’amicizia a priori. Né tu in questo momento lo desideravi. «É per questo che sono qui». E gli raccontasti tutto. Death Mask ti guardò stupito a sua volta e ti spronò a raccontargli altri dettagli. Quando finisti di descrivergliela commentò, inarcando le sopracciglia: «Ah, però».
«Però? Che significa però? La conosci?»
«Sì, la conosco, è la figlia del Guardiano della Casa di Marte, il Drago Rosso qui presente». Disse indicandoti un possente guerriero con attributi dragoneschi che fino a quel momento non avevi notato. Era un uomo sui quarant’anni alto e grosso, raggiungeva e superava Aldebaran con la Cloth indosso. Non indossava alcuna armatura, bensì una maglietta grigia su pantaloni neri e anfibi. Le braccia muscolose adorne di bracciali e polsiere tradivano in parte la sua reale potenza fisica. Aveva la carnagione olivastra e scompigliati capelli mossi lunghi fino alle spalle. Una ciocca era adorna di una perlina colorata. Una barbetta di qualche giorno incorniciava la bocca. Aveva il naso aquilino proporzionato e un sopracciglio spaccato da una cicatrice. Gli occhi erano castani. Tuttavia avesti l’impressione che fossero gialli in un primo momento. Le corna ritorte si alzavano ai lati del capo, si lanciavano indietro e risalivano come quelle di un’antilocapra. Sul braccio destro e l’avambraccio sinistro recava due file di sottili tatuaggi. Era una parola araba ripetuta all’infinito, ma non sapevi quale. Ma il dettaglio più impressionante erano le ali di drago, rosse come il sangue ripiegate sulla sua schiena. Il manico di una claymore faceva capolino dietro la spalla sinistra. Le rughe d’espressione tradivano la sua reale propensione al sorriso, maligno. Come quello di Death Mask quando massacrava. Quello era una persona, o meglio, un’entità da cui tenersi alla larga, nonostante l’aura di sacralità che emanava. Persino più forte di quella dell’Azona. Stava rientrando nell’accampamento. Accompagnato da ombre Solo in un secondo momento di accorgesti che le ombre che tanto t’inquietavano nascevano dalla sua. «Noi li chiamiamo Eragon e Arya perché agli sfigatelli qui piace il fantasy. Ecco dov’è finita, per un momento io e il mio maestro pensavamo che avesse disertato. E che Guardiano ha trovato?»
«Detto così sembra che tu stia parlando di una raccolta di figurine».
«Lascia perdere il tono e rispondi».
Glielo dicesti e aggiungesti: «Ma non è tutto…» Death Mask ti guardò interessato e, tu continuasti. Verso la metà scoppiò a sghignazzare: «Shaka. Oddei, Shaka…» La sua risata sguaiata echeggiò ma non contagiò nessuno. Tu non ci trovavi niente da ridere. Neanche quando a racconto finito si piegò in due e si batté la mano sul ginocchio. Ormai completamente in lacrime e con gli addominali indolenziti. Così ti disse. Ti guardò con le lacrime agli occhi dal gran ridere: «É uno scherzo?» Riuscì solo a dire prima di tornare a sganasciarsi. Quando tornò parzialmente serio, gli spiegasti il motivo per cui eri qui. «Ah, vuoi risalire nel mondo dei Vivi?» Domandò il tuo compagno della Quarta. «Precisamente».
Ti guardò e fece uno sbuffo cavallino. «Chi l’avrebbe mai detto che Shaka, ah, al solo pensiero mi viene da ridere di nuovo.». Tu non replicasti. Si dette un contegno: «D’accordo, ma solo per questa volta. Mi sto proprio intenerendo se tutti mi scambiano per una sorta di taxista e usciere. Prima Aiolia, ora tu e basta, cazzo! Ma non sapete muovervi con le vostre gambe? Siete fastidiosi, pretendete un dito e poi vi prendete tutto il braccio! Pagatemi almeno il servizio! Parlando di cose più serie, io alla pessima nomea sono abituato, lo sanno tutti, ma tu? Non è che questo causerà qualche problema alla Somma Pandora? Cos’è, sei forse passato al lato oscuro anche tu? Oppure ti ricordi ancora come si fa a fare il doppiogioco? E non ti offendere, ma tu rispetto a me sei un esperto». Ti punzecchiò sarcastico accennando alla scalata delle Dodici Case nell’Ottantasei. Lui e Aphrodite furono fermati da Mur, ma tu, Shura e Saga eravate riusciti a proseguire. “E tu sei uno stronzo”. Pensasti ma non replicasti, mantenendo la tua espressione neutra. Invece dicesti: «Dimmi una cosa, sai qualcosa di più su questa Dea, questa Asia?» Che tra le varie informazioni le avevi dato anche il nome. Con tua enorme sorpresa anche lui aveva delle informazioni per te. «Non moltissimo, so solo che è una Dea e che è lei la signora che serviamo. Nel momento stesso in cui abbiamo giurato di essere guerrieri della Speranza abbiamo riconosciuto la sua autorità». Spiegò. Poi aggiunse qualcosa sul fatto che tutto il tempo se ne era stata in disparte a scrivere su quel suo album da disegno». Rispose.
Drizzasti immediatamente le orecchie: l’album! Allora era proprio a lei che apparteneva. Non c’erano dubbi. Chi altri si sarebbe portato un album da disegno negli Inferi?
Lui rise, intuendo le domande che ti arrovellavano il cervello. «Credo d’aver fatto la stessa faccia la prima volta che lo ricordai». Questa era stata la parte più strana di tutto il suo racconto, però sembrava che fosse vero. La vera signora del Grande Tempio? Com’era possibile? Non ne avevate mai sentito parlare. Se la vera signora era lei allora chi era la Dea che veneravate? Che fosse un altro complotto? Non sarebbe stata la prima volta. Avevi saputo anche tu di quella bambina. Com’era che si chiamava quella controllata da quel tizio? Avevi saputo che vi avevano combattuto i Bronze Saint ma perché il ricordo di quelle gesta, che pure conoscevi, era così sbiadito di colpo? Un effetto dei colpi? No. Impossibile, avevi la testa dura. Che cosa stava succedendo? Era strano. Che cos’era? Lo mettesti a parte di questo lapsus. Anche lui disse di aver provato la stessa cosa e che tuttora continuava a provarla. Alcune cose stavano sbiadendo dalla sua mente e ne riaffioravano altre. «Memorie sopite?»
Il tuo commilitone caricò il proprio Cosmo: «Giacché vai su fattelo spiegare, Onda infernale dello Tsei She Ke!» Urlò e l’onda ti colpì con inusitata violenza. Non avevi mai pensato che il più debole di voi potesse essere così forte. Perché tu, Anima Viva, adesso eri separata dalla tua componente fisica. Tangibile, materiale, con i bisogni di un Vivo, ma sempre spirito eri. Ora capivi perfettamente che la sua potenza era relativa. Lui era l’uomo che aveva la forza di controllare e comandare gli Spiriti, anche di ucciderli, ecco la verità.  
L’onda ti staccò da terra e ti sbalzò via alla velocità della luce. Ma l’impatto fu così forte che ti mozzò il fiato. Vedesti appena il nero Infero sostituito dal grigio, prima di vedere gli alberi innalzarsi come sbarre attorno a te. Rovinasti a terra e rotolare nel sottobosco per qualche metro sollevando foglie secche e legnetti. 
Quando ti fermasti restasti a terra qualche secondo per riprenderti. Dopodiché ti rialzasti spossato e a fatica, tossendo. Avevi i conati di vomito e ti girava la testa. Rinunciasti ad alzarti e ti mettesti seduto. Chiudesti gli occhi prima di accovacciarti e mettere la testa tra le ginocchia, trovando così un po’ di sollievo. Solo quando passò ti rialzasti. Ma le gambe ti tremavano ancora. Barcollando raggiungesti un albero e ti appoggiasti al tronco. Continuasti a respirare a pieni polmoni intanto che ti abituavi alla temperatura e le tue orecchie smettevano di fischiare.
Quando ti sentisti meglio, scandagliasti l’area con il tuo Cosmo. Individuasti subito quello di Shaka ma non quello dell’Azona. Chissà dov’era andata? A lei avresti pensato dopo, adesso dovevi raggiungere il tuo compagno. Ti avviasti in quella direzione ricordandoti che eri di nuovo tra i Vivi e, stavolta, la bambina celtica, Fianna, non era con te a proteggerti. Avresti dovuto fare molta attenzione. Oh, Shaka ti aveva sentito e stava venendo verso di te. Lo capivi dallo spostamento del Cosmo. Bene.
Avevi appena percorso qualche chilometro e ti sembrava che la foresta fosse tutta simile, ma non uguale. Le lande siberiane erano peggio, questo posto non ti diceva nulla.
Stavi ancora domandandoti dove ti trovassi quando urtasti qualcosa con il piede. Abbassasti lo sguardo per vedere cos’era e vedesti un mattone. Confuso alzasti di poco la testa e vedesti un muro cadente e rovinato dal tempo poco più in là. Aggrottasti le sopracciglia: «Ma cosa…?»
Non facesti in tempo a terminare la frase che fosti afferrato e inchiodato all’albero più vicino. La lama di una spada premuta esattamente sulla corazza. Trasalisti sentendo il metallo sul punto di piegarsi e cedere alla pressione. L’altro braccio di lei di traverso sulle clavicole per bloccarti meglio. Davanti a te un volto serio con due occhi castani. La Dea non ti era sembrata così forte da riuscire a compiere un gesto come questo. 
Cercasti di muoverti ma: «Non una mossa». Ti minacciò Lady Asia. Poi sgranò gli occhi: «Eh? Ma tu non sei Alegre di Black Whale».
«Nossignora». Riuscisti a balbettare reclinando di poco la testa per parlare. Stando attento al filo della spada. Di solito gli Dèi non si abbassavano a tanto, ma questa sì. Questa aveva sempre saputo che qualcuno l’avrebbe raggiunta.
«Mia Signora!» Intervenne Shaka sconvolto.
«Shaka!» Esclamasti tu. Avresti voluto dire altro ma lei te lo impedì continuando a tenerti fermo e minacciarti. Senza staccarti gli occhi di dosso rispose: «Oh, mi hai seguito? Ti avevo detto di restare all’accampamento».
«Ho percepito dei Cosmi ostili in avvicinamento, non potevo restarmene laggiù. Camus, benritrovato, ho sentito anche il tuo. Cosa ci fai qui?»
«Shaka». Ripetesti facendo attenzione a non tagliarti con il solo movimento della mascella. Decisamente, questa Dea non andava tanto per il sottile. «Vi conoscete?» Chiese.
«Sì, lui è Camus di Aquarius, ex custode dell’Undicesima Casa e, per via del Patto tra Atena e Hades, anche del Cocito». Ti presentò.
La Dea si scostò e rinfoderò la spada. Ti staccasti dall’albero, ti portasti una mano alla gola e la sentisti ancora intera. Facesti la spola con lo sguardo tra loro e infine salutasti: «Per servirvi». Dopo aver deglutito. O almeno ci provasti.
«Come ci hai trovati?» T’interrogò la donna, alzando il mento come a darti il permesso di parlare. Rispondesti. Lo sguardo della giovane si illuminò di un lampo di riconoscimento nel sentir nominare il Gold Saint di Cancer. Poi si schiacciò una mano sulla fronte e scosse il capo: «Fantastico. E adesso sono due sotto la mia responsabilità». Borbottò infastidita in hindi.
«Prego?» Chiese Shaka. «Sotto la vostra responsabilità?» Ripetesti confuso e offeso, ma non potesti approfondire che un ululato vi raggiunse, facendovi accapponare la pelle. Vi guardaste istintivamente attorno.
«Lupi, spero». Rispose la Azona rispondendo al tuo muto interrogativo. Lanciò lo sguardo sui rami degli alberi. Come se i lupi avessero potuto attaccarvi dall’alto. Figuriamoci se i lupi vi potevano impaurire. Era lo spero che non ti piaceva. Cosa poteva esserci peggio di un lupo? «Spero?» Domandò Shaka perplesso.
«Spero, sì, altrimenti sono cani selvatici e quelli sono ancora più feroci. Andiamo via». Decretò, poi, si incamminò nella foresta, sfruttando gli ultimi raggi del tramonto.
La cosa che ti sorprese, fu la rapidità con cui Shaka la seguì. Tu ci mettesti tre secondi prima di smaltire lo shock dell’attacco e fare altrettanto.
«Aspettate, che significa che siamo sotto la vostra responsabilità? Che posto è questo?» Domandasti quando l’avesti raggiunti. Non sapesti se porti al suo fianco o dietro. Nel dubbio restasti dietro di lei, mentre Shaka l’affiancava. «Significa che qui le parti sono invertite, in questa Cerca sono io a dover proteggere voi, invece che il contrario». Spiegò girando la testa per guardarti brevemente da sopra una spalla.
«Con tutto il rispetto, Signora, ma noi siamo dei guerrieri addestrati».
«Lo so, ma fidatevi quando vi dico che ora le parti sono invertite. Pertanto, io sono responsabile delle vostre vite e della vostra incolumità. Inoltre, se moriste il Patto tra Atena e Hades crollerebbe come un castello di carte».
«Ma voi siete una Dea.» obiettasti. Non l’avessi mai detto. Si fermò, si volse verso di te, e t’incenerì con lo sguardo: «E allora?»
Ti bloccasti immediatamente. Ti venne istintivo alzare un po’ le mani come a bloccarla subito in caso ti si fosse scagliata addosso. Come sembrava avere tutta l’aria di voler fare. Perfetto, neanche tre secondi e l’avevi già offesa. Non ti era mai successa una cosa simile. Neanche di avere a che fare con una Dea così impetuosa. Per quel che ne sapevi Lady Isabel era molto più delicata. E proprio qui saltò fuori tutta la differenza tra le due. Gli occhi della Vostra Dea erano dolci, innocenti, si potrebbe dire. Ma questi erano seri e per niente puri. Con questa non c’era da scherzare o fare il Cavalier servente. Questa era una di voi: un soldato. «Niente, niente». Ti scoccò un’ultima occhiataccia, poi si girò e riprese a camminare.
Ti aveva fatto venire i sudori freddi ma evidentemente non aveva ancora finito perché aggiunse: «Per rispondere alla seconda domanda, questa è la Foresta Rossa di Černobyl’».  
“Černobyl’?” Pensasti orripilato. Il cuore ti balzò più rapidamente in petto come se avesse messo le gambe e stesse cercando di scappare. Il sangue ti si gelò nelle vene. Il terrore che quella parola t’incuse ti invase e ruppe il sigillo sui ricordi. Persino il canto degli uccelli parve zittirsi ora che avevi realizzato dove vi trovavate.
Nelle foreste vicine alla centrale non ci avevi mai messo piede, ma sapevi. Perciò, questi luoghi intensificarono soltanto il tuo orrore. Se non tremasti fu solo per via del tuo senso dell’onore e della diffidenza. «É un luogo molto tetro e spettrale». Commentasti. E sì che anche gli Inferi non scherzavano. Ma quello che ti preoccupò di più, fu vedere che l’accampamento era nei pressi dell’ex strada principale che conduceva alla città fantasma di Pryp” jat’. Città che conoscevi di fama. Come le numerose leggende sulle mutazioni in seguito alle radioattività che ti avevano procurato un brivido lungo la schiena.
Questo era un luogo che anche a distanza di anni sapeva di desolazione, di rovina e devastazione. Un luogo dove la morte regnava sovrana incontrastata assieme alla natura e altre creature. Come se parte del Tartaro si fosse trasferita in questa regione. Impressione che avesti fin da quando la città fu svuotata e, cominciarono a saltare fuori, come partorite dalla Terra, le prime creature deformi. Come se Gaia fosse stata di nuovo fecondata e avesse ripreso la sua creazione mostruosa.
I primi mostri causati dalle radiazioni, quando gli animali domestici s’inselvatichirono. E, quando cominciarono a circolare le prime leggende urbane sui sopravvissuti dell’immenso spazio colpito. Su questi mutanti. Ritrovarti qui a distanza di decadi non contribuiva a tranquillizzarti. «Signora, non sarebbe più prudente andarsene da qui?»
«Perché? É un posto come un altro». Ti rispose l’Azona.
«Forse non avete la piena consapevolezza del posto in cui ci troviamo».
«Mi dispiace deluderti Camus, ma io questo posto lo conosco bene. Ci sono stata dieci anni fa, in condizioni anche peggiori di quelle in cui vertiamo e ci ho anche combattuto». Aggiunse mesta, come se parlarne scatenasse ricordi molto spiacevoli. «Siamo dovuti passare di qui per una tappa obbligatoria». Disse poi e il suo sguardo si fece assente, come se stesse rivivendo chissà quale ricordo spiacevole. «Speravo di riuscire ad attirare qualche mostro per liberarci dei Black Saint che sono sulle nostre tracce. Anche se non sarebbe comunque servito a granché, ma almeno li avrebbe rallentati mentre continuiamo a cercare».
«Perché qui? É ancora pericoloso, le radiazioni ci sono ancora e non si sa che cosa si aggiri per queste lande». Le domandasti angosciato anche. Anche Shaka espresse la sua preoccupazione. «É quello che le ho fatto presente anch’io».
Lady Asia vi rispose, tranquillamente: «Non ce n’è motivo, in quanto Azona posso sopravvivere in qualsiasi luogo o dimensione senza riportare danno alcuno. Invece voi non avete niente da temere, gli spiriti sono immuni alle radiazioni, il Velo che separa i Mondi li protegge». Concluse, gettandovi uno sguardo fugace. Ti accigliasti. Cosa intendeva dire? Cercasti lo sguardo di Shaka e quest’ultimo ti fece un cenno come a dire: “Poi te lo spiego”. Invece domandasti: «Perché è una tappa obbligatoria?»
«Perché devo recuperare una cosa».
«Un altro Guardiano degli Astri?» Ipotizzasti.
«Se la fortuna mi assiste, spero di sì». Confermò rialzando la testa.
«Perdonate la mia franchezza, ma credete davvero che lo troverete qui?» Domandò Shaka mentre arrivavate a un torrentello e cominciavate a saltellare sulle rocce per guadarlo. Non che fosse chissà quanto esteso. In tre balzi tutti e tre lo superaste. Solo allora ribatté: «Sì; se qui c’è chi penso, allora dovremmo riuscire a incontrarlo presto, setacciando palmo a palmo la Foresta e le città circostanti». 
«I Guardiani scelgono sempre le foreste?» Chiedesti incuriosito, ricordandoti della Colomba Astrale.
«No. É quasi impossibile trovarli, ma diciamo che sono sensibile alla loro presenza». Ti tornò in mente il soggetto e non ti facesti troppi problemi a figurartelo così come lo descriveva.
Camminaste per qualche chilometro prima che lei facesse cenno di fermarvi, sotto un malandato cartello autostradale e coperto di edera. «Fermiamoci qui per la notte». Decretò, poi sfoderò la spada, e tracciò un cerchio magico dal diametro di tre metri tutto attorno a voi e al cartello. Quando finì il tracciato si illuminò di una tenue luce verde per un momento, poi scomparve. Improvvisamente ogni suono scomparve e tutto ti parve immobile. Che diavolo di tecnica era mai questa? «Non temete, ho solo creato una tasca temporale attorno a noi».
«Una che?» Chiedesti.
«Una tasca temporale, un momento nel Tempo dove siamo invisibili al resto del mondo, solo noi potremo entrare o uscire, nessun altro potrà e nessuno ci vedrà e disturberà». Promise. Poi aggiunse: «Non possiamo mangiare niente di ciò che si aggira qui, ma penso che per stasera potremo sopravvivere senza problemi. Dopotutto il vostro addestramento vi permette di fare questo e altro. Bene, anche il mio; un consiglio ve lo do lo stesso, raccogliete della legna da ardere e poi tornate qui».
Obbediste. Tornaste dopo mezz’ora con due grosse fascine mentre lei aveva già raccolto sassi e pezzi di cemento e, scegliendo i rami giusti, accese il fuoco. Istituiste i turni di guardia («Perché non si sa mai») e poi attendeste il calare del Sole. Ma lo vedeste soltanto quando vi parve che fosse passata un’eternità. Ti aspettasti qualsiasi cosa da parte sua, ma se ne restò raccolta, con le ginocchia abbracciate al petto e la testa china, come se piangesse. Più volte la guardasti preoccupato e confuso. Solo dopo qualche ora ti accorgesti che non stava piangendo. Le sue spalle si alzavano e si abbassavano regolarmente, quasi in sincrono con quelle di Shaka. Come se stessero intrattenendo chissà quale conversazione silenziosa. Solo quando foste sicuri di essere al sicuro e le Cloth vi divennero scomode vi spogliaste. Il primo turno lo facesti tu. Poi, a una cert’ora, Shaka ti dette il cambio.
Quella notte, sognasti di essere di nuovo nell’Ottantasei. L’esplosione fu l’unica ragione per la quale Arles non sferrò un attacco diretto ad Atena e ai Bronze. Oh, se conoscevi il disastro della centrale nucleare di Černobyl’; foste inviati proprio tu e Aiolia a cercare di limitare il danno.
Se ti salvasti dalle radiazioni, fu grazie alla sua barriera protettiva. Tuttavia quella barriera non ti esentò dal vedere.
I danni si erano fatti vedere, oh, sì. Non solo per quanto riguardava l’ambiente in generale, ma anche e, soprattutto, dal punto di vista umanitario. Avevi pianto quando avevi visto i cadaveri dei bambini che non si erano salvati. Le mutilazioni e le evacuazioni che aiutaste a gestire.  
E tu piangesti. Tu fosti ridotto in ginocchio dal senso di annichilimento che ti procurò questa visione, quando giungeste sul posto. Tutta quella gente, tutti quegli animali, tutte quelle morti.  
Non eri riuscito a trattenere le lacrime di fronte a quello spettacolo.
La centrale in fiamme sembrava un rogo uscito dalle profondità del Tartaro. Non percepivi nessun Cosmo dentro quell’altoforno a cielo aperto. Oltre crepitio delle fiamme v’era solo un desolante silenzio. Era stato allora che avevi avuto la triste illuminazione: avevi capito che la vostra presenza era inutile. Che non avreste cancellato le radiazioni e che, una volta sciolto il ghiaccio e la barriera, la corsa della nube tossica sarebbe ripresa, inesorabile.
Aiolia stava per lanciarsi tra le fiamme ma tu l’avevi afferrato per un braccio, costringendolo a fare marcia indietro. Lo slancio che però c’aveva messo vi aveva quasi fatti scivolare dal ponte dove vi trovavate: «Cosa fai, Camus? Lasciami andare!» Protestò adirato girando la testa per guardarti.
«No!» Ti eri rifiutato.
Aveva cercato di divincolarsi, ma tu non ne avevi voluto sapere. Allora ti aveva fulminato con gli occhi ed era sbottato: «Perché no? Sei pazzo? Dobbiamo fare qualcosa!»
 «É inutile, Aiolia». Avevi risposto sentendo i tuoi occhi riempirsi di lacrime di disperazione. Ed erano state queste a fermarlo. «Non possiamo fare niente». Avevi aggiunto con voce rotta distogliendo lo sguardo, il capo chino. Aiolia aveva capito e aveva rilassato il braccio.
Poi tutto dentro di te era scomparso, mentre, davanti a voi, le persone si stavano indaffarando per spegnere l’incendio e soccorrere i feriti. Cosa che faceste anche voi, sfruttando la velocità della luce. Ma tu eri più distratto, non riuscivi a sopportare tutte quelle grida di dolore che ti perforavano le orecchie. Tutti quei pianti. Li sentivi e nulla potevi fare per fermarli. Tuttavia al tempo stesso sentivi anche il senso di annientamento che andava espandendosi dentro di te. Da grande come un puntino sembrava assumere proporzioni colossali.
Neanche potevi supplicarli di smetterla o cancellare la sensazione di mancato bersaglio che provavi rivolta a te stesso. Ti aveva toccato da vicino, ancora più della Titanomachia, Eris e la guerra civile. Perché questa devastazione fu provocata da mano umana. Non divina, non titanica e neanche di Saint, ma da esseri umani come voi, te.
Aiolia era stato più stoico di te. Ti aveva sostenuto e spronato a non arrenderti. Avevi cercato di non uscire dalla sua barriera e di non rallentarlo. Ma non ti era mai sembrata un’impresa tanto difficile. Quella notte, la passaste a cercare di salvare quante più vite possibili.
Solo il sorgere del Sole ti aveva ridato un briciolo di forza, ma non era servito granché per la depressione che ti colse. Avresti voluto scappare, ma non potevi, ma neanche potevi abbandonare il tuo compagno. Perché avresti disonorato la tua Armatura, il Santuario e la Dea che servivi. Ricordi che allora eri crollato a sedere? Che fissavi l’asfalto pieno di detriti senza neanche vederlo?
E che Aiolia ti aveva posto le mani sulle spalle, ti si era accovacciato davanti e ti aveva detto, guardandoti negli occhi: «Non preoccuparti, se non ce la fai non fa niente, diremo al Gran Sacerdote qualcos’altro. Non è necessario che vega a sapere del tuo tracollo».
«Non è una cosa molto onorevole per un Saint. Ti sto facendo perdere tempo prezioso». Ti eri scusato, dopo un singhiozzo cui erano seguite nuove lacrime e altre, altre ancora, copiose. Eppure durante la Titanomachia non eri stato così.  «Lo so, ti capisco, anzi, un po’ t’invidio». Ti rassicurò.
L’avevi guardato stupito. «M’invidi? Perché?»
«Perché riesci a esprimere appieno quanto la faccenda sia effettivamente grave». Poi aveva taciuto e abbassato lo sguardo lucido di lacrime di rabbia e frustrazione. Anche lui si sentiva inutile come te e, stava provando con tutto sé stesso a non piangere e a non darsi per vinto. A volte ve lo chiedevate, se valesse davvero la pena vestire l’Armatura e, proteggere l’umanità quando la belva umana era capace di queste tragedie. Che senso aveva proteggere delle creature del genere, anche per voi? Voi che eravate umani? Gli scudi stessi dell’umanità? Questo era troppo anche per te.
Dove neanche la tua vita era mai riuscita a strapparti la fiducia e l’amore nell’umanità, questa visione ci riuscì. Non sapesti neanche tu con che coraggio non ti disperasti ancora di più.
Se mai avevi covato dentro di te la speranza di diventare padre, questa idea scomparve del tutto dalla tua mente. Non avresti mai lasciato che creature con il tuo sangue camminassero su questa Terra. Non avresti mai lasciato che soffrissero o fossero ammazzati da gente come questa. Te lo giurasti quando parlaste con i tecnici e gli ingegneri. I sopravvissuti sapevano a cosa sarebbero andati incontro. Avevano sempre saputo quali problemi strutturali aveva la centrale, quanto instabile potesse diventare. Ciononostante non avevano esitato a continuare. 
Avevi guardato la centrale ardente.  
Aiolia t’aveva detto: «Non guardare, guarda me».
«É difficile ignorare quello che abbiamo appena visto, questo… questo è peggio di ogni altra cosa abbiamo mai affrontato».
I suoi lineamenti si erano contratti in una smorfia di pianto trattenuto. «Sì, lo so». Aveva ammesso, cercando di tenere la voce ferma. Poi ti aveva stretto in un abbraccio fraterno. E tu avevi ricambiato aggrappandoti a lui, piangendo sulla sua spalla. Sigillando gli occhi per non vedere lo spettacolo.   
Il massimo che avevi potuto fare fu restare poco più indietro di lui. Cercavi di renderti utile però ogni tuo gesto era meccanico: il corpo agiva ma la tua mente era immota. Aiolia ti aveva lanciato un piccolo sorriso d’incoraggiamento, come a dire che era contento di vederti di nuovo operativo.
Per l’incendio c’era stato poco da fare. Avevate dato una mano a organizzare l’evacuazione.
Quando Aiolia ti aveva guardato, mentre guidavate l’esodo e parlavate con i soldati dell’URSS, ti aveva lanciato una triste occhiata e un piccolo sorriso. Avevi ricambiato con un cenno del capo ma eri ben lungi dall’esserti ripreso.
E dentro di te già ti ribellavi alla tua decisione. Il tuo amore per l’umanità superava di gran lunga la disperazione, per permetterti di restartene con le mani in mano. Avresti fatto come la Dea. Avresti amato l’umanità, ma non ti saresti più accostato a essa come prima.  Eri abbastanza forte per sostenere questa decisione. Fu così che nacque quella proverbiale freddezza che gettò quella: «patina di brina nei tuoi occhi». Come la definì un giorno una delle tue ex ancelle, in pena per te.
Già eri dell’idea che i sentimenti fossero d’intralcio in battaglia, ma avere questa conferma anche nella vita fu molto triste. Povera Antiochia, così si chiamava quella tua ex ancella che aveva cercato di farti cambiare idea. Era giunta addirittura ad abbracciarti e si era offerta di scaldare il tuo cuore raffreddato al contrario del reattore. E tu di fronte a quelle profferte d’amore avevi distolto lo sguardo, cercando di restare impassibile, pregando che non si accorgesse che la tua era tutta una mascherata. «Mi dispiace». Le avevi detto.
Aveva sciolto la stretta ed era corsa via, in lacrime. «Siete crudele!» Ti aveva urlato.
I suoi singhiozzi erano riecheggiati nel tuo Tempio assieme ai suoi pass sempre più distanti.
Nel sentirli sparire qualcosa dentro di te si era rotto. Avevi cercato di fermare le lacrime; ti eri fatto violenza da solo per evitare di ricorrerla, abbracciarla e implorarla di non lasciarti solo. C’eri riuscito.
“Come diavolo fa Atena?” Ti eri ritrovato a pensare, finalmente conscio che questa strada, questa scelta, non avrebbe portato altro che dolore. Tu che al dolore avevi cercato di fuggire.
Anche se tu avessi dato retta all’impulso e l’avessi raggiunta a cosa sarebbe servito? Lei non aveva vissuto le tue stesse esperienze, non aveva mai toccato con mano tutta la disperazione come te. Non aveva mai saputo cosa significava avere a che fare con la crudeltà umana.
«Sei crudele!» No, non eri crudele, eri ferito. E lei non avrebbe potuto salvarti. Come poteva? Era solo una ragazzina con niente in mano e tante convinzioni sbagliate nella testa. Avevi assecondato per un po’ il suo amore, perché sì ti piaceva davvero. Avevi provato a darle questa possibilità, ma non eravate riusciti a incontrarvi a metà strada. Ci avevate provato ed era giusto che fosse finita.
Lei, prima o poi, lo sapevi, avrebbe voluto diventare madre. Come dirle che tu non volevi figli? Come farla restare con te dopo una notizia del genere? Non c’era modo.
Neanche il Gran Sacerdote se l’era sentita di infierire. Anzi, ti aveva lasciato in pace con il tuo dolore. Milo invece, ti era stato vicino proprio come un fratello. Senza ironia, senza parole, solo con la sua presenza. Dove non era riuscita Antiochia almeno ti aveva raggiunto lui. 
Oh, lui sì che era riuscito a comprenderti, sebbene non vi foste mai parlati granché. «Era tanto orribile?» Ti aveva chiesto in tono mite, quasi esitante, mentre ti teneva stretto a sé di lato, seduti sul divano. Avevi annuito ripetutamente, incapace di sollevare lo sguardo.
Lo Scorpione non aveva ribattuto; si era limitato a tenerti stretto a sé, come se avesse voluto proteggerti e, al tempo stesso, condividere il tuo dolore. Sperando, forse, di riuscire a istillarti anche un po’della sua forza. Tra voi due era sempre stato lui il più forte anche se lui sarebbe stato pronto a giurare il contrario. Ma non era vero, quello che eri l’avevi imparato da lui.   
Oh, lui sì che era riuscito a comprenderti, anche se non a salvarti. Forse, in cuor suo, per quanto avesse provato a trarti fuori dal baratro, sapeva che era inutile. Forse stava cercando di ricordarti in modo diverso. Forse si aspettava già da tempo che un giorno, il mostro nero che ti portavi nel cuore, avrebbe reclamato la tua vita e lo avresti lasciato solo. Speravi solo che sarebbe successo il più tardi possibile. Quando per il troppo calore anche tu saresti evaporato come neve. Sì, forse eri un egoista del cazzo, come ti avrebbe definito lui. Saresti dovuto andare avanti ma non riuscivi proprio a trovare una via d’uscita, tranne la morte.
Il tuo mostro nero ti aveva raggiunto.
Tu solo sapevi quanto fosse forte e fragile al tempo stesso. Ma lui avrebbe sopportato, sarebbe andato avanti e, un giorno, vi sareste riuniti e avreste riposato insieme. Per questo il tuo ultimo pensiero andò anche a lui, mentre Hyoga sferrava l’Aurora Execution con la perfezione che tu non avevi mai raggiunto.
Ti svegliasti con un sussulto. Ci mettesti un po’ per riconoscere questo luogo e il crepitio delle fiamme che ti scaldavano il volto e le parti scoperte della tua pelle, non più appesantita dalla Cloth.
Sentisti il rumore di un panno passato su una superficie e di un dolce canto sommesso.
Voltasti la testa verso quei rumori e vedesti la Dea a gambe incrociate, intenta a lucidare la spada.
Shaka era sdraiato alla sua destra, nel suo giaciglio fatto con il mantello, come il tuo, accanto al falò.
«Un brutto sogno?» Indagò comprensiva. Ti guardò come se avesse veramente voluto sapere cosa attanagliasse la tua mente tormentata.
«No, non era niente». Mentisti tornando a sistemarti sul fianco. La sua voce ti giunse delicata, quasi flautata all’orecchio, nonostante il crepitio del fuoco: «É questo posto, non è così?» Centro perfetto. Avresti potuto mentire ancora, ma che senso aveva? «Sì». Mormorasti sincero guardando le fiamme senza vederle.
«Mi dispiace». Poi, dopo un momento, aggiunse «Sai, non sei l’unico a soffrirci». La guardasti confuso. Come l’aveva capito? Perché te lo stava dicendo? Era forse un monito a essere più cauto o era evidente? «Anch’io soffro enormemente a causa di questo posto». Rivelò rattristata guardando il paesaggio circostante illuminato dalla luce del tramonto intrappolato nella tasca. Perché, che cosa c’entrava? Lei che al massimo aveva ventiquattro anni, cosa poteva c’entrare con queste lande?
«Se questo posto per voi è solo fonte di dolore, perché ci siete tornata?» Le domandasti esitante. Solo dopo ti rendesti conto non aver collegato la bocca al cervello: «Scusate, non volevo impicciarmi».
«No, non preoccuparti, non faccio caso all’etichetta e a tutte quelle cose lì; io ho sempre preferito avere un rapporto paritario con gli esseri umani, di solito non rivelo neanche di essere una Dea. Perciò non temere di offendermi con le tue domande, chiedi pure tutto ciò che vuoi».
«D’accordo». Le ripetesti la domanda e lei eruppe in un sospiro strano, come se all’ultimo avesse trasformato così un gemito di pianto. «Perché nessun nemico ti verrebbe mai a cercare in un posto pieno di dolore per te. Io qui ho perso qualcosa di importante, a volte ci torno, nella speranza di ritrovarlo, ma quello… non c’è più. Di giorno cerco di farmi forza, ma di notte, è come se i miei demoni personali venissero a trovarmi e a tormentarmi e ne ho moltissimi. Un po’ come te».  
Ti mordesti l’interno della guancia distogliendo lo sguardo. Non poteva capire.
La sofferenza era universale, ma non credevi che avesse il tuo stesso bagaglio di esperienze. La zittisti, cortese, ma in tono di scuse, sostenendo la tua testa con la mano. Non poteva comprenderti, voi eravate soldati, agli Dèi cosa poteva mai importare?
«No, è vero, le mie sono più personali». Confermò, più piano.
«Eravate qui, quando accadde?» Chiedesti dispiaciuto.
«No, ma posso vedere com’era questo posto, come avrebbe potuto essere e come invece doveva diventare ed è diventato. Purtroppo quelli come me possono solo scrivere la Storia nella direzione che deve prendere. E a volte, nonostante i mezzi per impedirlo, dobbiamo restare fermi. Perché alcuni avvenimenti esistono per evitare cose ancora peggiori. Un esempio sono i campi di concentramento e di sterminio; un altro è questo».
A quelle parole qualcosa dentro di te si fermò. Lo stupore ti fece inarcare le sopracciglia, poi fu soppiantato dall’ira. La inceneristi con lo sguardo. «Avreste potuto fermarlo?» Domandasti con voce accusatoria sentendo quell’ira montare dentro di te. «Perché non l’avete fatto? Ne avevate i mezzi, il potere, tutto, potevate evitarlo, potevate…» Le parole ti morirono in gola. Benché avessi solo sussurrato, benché fossi praticamente seduto, ti sembrò di aver gridato e di essere balzato in piedi. Tutte quelle persone. Sapere che c’era qualcuno che poteva evitarlo e che non aveva mosso un dito ti fece dimenticare chi lei fosse. Adesso ti osservava perfettamente immobile, come se tu l’avessi congelata con la Freezing Coffin.
Sospirò e posò la spada a terra e pose i gomiti sulla parte morbida delle ginocchia, le punte delle dita unite a guglia nascondevano la sua bocca. Gli occhi bassi. Stava scegliendo le parole con cui ribattere. Sul serio ce n’erano? Ora volevi proprio vedere con che faccia tosta ti avrebbe risposto. Dea o non Dea non aveva giustificazioni.
I inspirò e parlò, con un tono completamente diverso da quello che ti saresti aspettato: con rassegnazione. Ti dette ragione: «Credi che non abbiamo pianto per questo? Credi che noi stessi non ci poniamo queste domande? Credi che ci sia piaciuto sacrificare queste persone per evitare una strage futura ben più grande? Credi che non avessimo cercato un altro modo? Non ce n’erano. Hai idea di cosa sarebbe successo se ci avessimo provato? Io sì e fidati quando dico che non vuoi veramente saperlo». Solo allora rialzò lo sguardo, ma non guardò te. I suoi occhi si rabbuiarono e la sua faccia si piegò in un’espressione di terrore. Come se avesse visto qualcosa di orribile, se lo ricordasse ancora troppo bene e lo temesse. Un gemito di pianto eruppe dalle sue labbra e gli occhi le divennero lucidi, però non versò neanche una lacrima. Quando ritrovò un minimo di contegno continuò: «Tu non sai quanto sia doloroso portare questo fardello senza poter fare nulla. Mentre tu, che puoi congelare gli atomi pensi che le tue tecniche, che il tuo quasi zero assoluto, non siano serviti a niente. Che ti sei dannato per le conseguenze per non aver potuto fare nulla di concreto, pensa a noi che, pur avendo la possibilità di cambiare tutto, non l’abbiamo sfruttata. Sì, noi Dèi Azoni disponiamo di numerose magie del Tempo». Rivelò con dolore e rammarico. Sgranasti gli occhi per la sorpresa, ma ciò non te la rese per niente più giustificabile. La lasciasti continuare, più per mero rispetto che per vero interesse: «Nonostante questo, di fronte a certi eventi siamo impotenti come tutti gli altri. Non possiamo fermarli, non possiamo impedirli, né possiamo cambiarli, se una cosa è così, deve andare così allora dev’essere così. Non è un potere che possiamo usare per il nostro tornaconto personale. É solo preso a prestito, come l’energia vitale, perché non ci appartiene veramente, per questo sarebbe sacrilegio approfittarsene. Proprio come voi non potete usare le armi perché Atena ve l’ha proibito, noi non possiamo cambiare la Storia come ci pare e piace. Solo che, mentre voi con un’arma in mano raggiungete la stessa potenza degli Dèi, già di suo una blasfemia, noi rischiamo di essere sopraffatti dal Potere stesso ed essere manipolati, impazzire nel tentativo di aggiustare le cose o di degenerarle e, condurre il Tutto sull’orlo dell’abisso, senza possibilità alcuna di ritorno». Non immaginavi che anche gli Dèi corressero questi pericoli. «Se credi che per te quel ventisei aprile dell’Ottantasei sia stato uno dei più brutti della tua esistenza pensa a noi, vedila dal nostro punto di vista quanto sia stato orribile. Una delle stragi più grandi dopo la bomba atomica. Riesci a immaginare lo sconcerto e lo sgomento che abbiamo provato quando ci siamo resi conto che avevate imparato a manipolare gli atomi per crearne armi di distruzione di massa? O forse hai dimenticato che anche qui si produceva plutonio per scopi bellici? Immagina noi cosa abbiamo provato nel realizzarlo e quanto ci siamo spaventati. E alla nostra disperazione quando abbiamo visto cosa sarebbe successo e decidemmo di non intervenire per il bene di tutti. Io le grida di quel giorno, l’annientamento, lo shock, il pianto, la disperazione, le sento ancora adesso e non posso fare nulla. Tu almeno hai pianto e sei cambiato solo da quel giorno in poi, noi piangiamo da sempre. Se a volte hai pensato che fosse orribile la vita di un Saint, pensa a quanto sia orribile quella di un Azone. Sapere ma non potere; questo è pure peggio che non sapere e non potere».
Proprio in quel momento, Shaka si girò sul fianco e una sua mano finì vicina al ginocchio della Azona. Lo guardaste temendo di averlo svegliato. A volte di notte anche un bisbiglio può risuonare potente come uno scoppio di cannone. Ma il tuo collega non si destò.
Vedesti la Dea rilassarsi e curvare la bocca in un dolce sorriso e rilassò le spalle.
«Come lo sapete che ho pianto?» Chiedesti, cercando di riprendere il filo. Lei distolse lo sguardo da Shaka per risponderti. E il suo sorriso prese una piega malinconica. «Noi eravamo un passo dietro di voi, anche se siamo piuttosto abili a passare inosservati».
«Perché?»
«La nostra tortura è che dobbiamo registrare tutti gli eventi che accadono, che almeno uno di noi deve recarsi sul posto e verificare che tutto sia andato secondo i piani. Anche per arginare eventuali errori e il potere sprigionato dall’evento stesso. Quel giorno non toccava a me, ma la disgrazia la conosciamo tutti».
«Mi rincresce, non sapevo che» la voce ti si spezzò di colpo perché l’Azona carezzò dolcemente i capelli di Shaka, spostandogli una ciocca che gli era finita sotto il naso. Un gesto tanto bello quanto protettivo e alquanto strano, considerato chi stesse toccando e la discussione che stavate avendo.
Poi tornò a guardarti, stavolta più seria. «Non potevi, infatti. È inutile piangere sul sangue versato. In vita e in morte il sangue scorrerà sempre; il Tempo è una linea infinita tinta di rosso. E la Terra ne sarà sempre macchiata. Non c’è verso di arginarlo e non mi riferisco solo alle guerre».
«Allora che senso ha avuto tutto questo? Creare voi?»     
«Questo è un altro discorso».
«Vorrei conoscerlo».
«Sicuro? Guarda che è una lunga storia che è intimamente collegata a voi».
«Sono sicuro». Ancor più se era effettivamente così.
«D’accordo, ma prima mi devi giurare sullo Stige che non ripeterai a nessuno quanto sto per dirti. Che terrai per te queste informazioni, ora e per sempre, Alexandre Camus Dumas. Che non ne parlerai con anima viva o morta e non ne scriverai mai o lo raffigurerai in nessun modo, anche fosse con il pensiero, il Cosmo, i sogni, i codici segreti, la lingua muta o il linguaggio del corpo. E che custodirai quanto sto per dirti nella tua memoria per sempre. Queste sono le mie condizioni, prendere o lasciare». Due cose ti colpirono subito. Il fatto che conoscesse il tuo vero nome di battesimo e la promessa di dannazione. A ora soltanto tu lo conoscevi ma vi avevi rinunciato da molto tempo. Anche se ignoravi chi fossero i tuoi avevi sempre saputo di chiamarti così, ma lei come lo sapeva? Sempre in virtù dei poteri del Tempo? Non era un’avversaria da sottovalutare.
Quella proposta non era casuale: lo Stige era molto ligio sui giuramenti e i trasgressori sarebbero morti tra le sue acque. Il fatto che lo invocasse significava che era tanto gentile e disponibile quanto diffidente. Che quelle informazioni erano preziosissime. Sarebbe stato un aiuto per il Santuario ma ne valeva la pena? E se per sbaglio avessi vuotato il sacco? E se non esistesse alcuna informazione e fosse tutta una trappola? Poi nelle prossime vite non avresti più potuto proteggere la Dea, ammesso e non concesso che esistessero altre vite.
«Io...» Ti guardò, in attesa. Sì, il Santuario sarebbe sopravvissuto anche senza. Dopotutto non era la prima volta che affrontavate Hades alla cieca. Completasti con un: «non credo di volerlo sapere».
Lei ti fissò un po’ con un’espressione neutra. Piano piano, un sorriso dolcissimo le ammorbidì i lineamenti, trasformandola in una persona completamente diversa. Che strana metamorfosi. Non ti saresti mai aspettato che un semplice sorriso l’ingentilisse così. Che potesse emanare tanto calore e tanta dolcezza.
«Perdonami, non avrei dovuto spaventarti. Pensa a dormire un altro po’, Camus, se dovesse succedere qualcosa vi sveglierò io». Promise in tono materno. «Su, dormi». Ti spronò indicandoti con gli occhi il tuo giaciglio.
Era difficile. Chi ti garantiva che non vi avrebbe tagliato la gola appena assopito? Decidesti di dormire con un occhio solo. Ti stendesti di nuovo, avvolgendoti nel mantello, la guancia sul tuo bicipite: «Scusatemi, ancora, per aver risvegliato queste memorie».
La sua voce ti giunse in un triste sussurro: «Tu non hai risvegliato proprio niente. I miei demoni personali sono sempre qui con me». “E non c’è verso di mandarli via”. Ti parve quasi che dicesse, affranta nel silenzio carico di tristezza che seguì. Tu non eri tipo da colpevolizzarti, ma eri molto generoso a dispetto del tuo potere. Solo in quel momento realizzasti che tu eri un ossimoro vivente.
«Mi dispiace lo stesso». Chiudesti gli occhi. Altro che sonno leggero, eri così stanco che sentivi avresti potuto dormire per decadi. Com’era possibile? Che ti avesse stregato? No. Non l’aveva fatto. Ti aveva solo aperto il suo cuore.
Questa Dea era una brava narratrice, dovesti ammetterlo: era riuscita a farti dimenticare il luogo in cui vi trovavate e la paura che ti incuteva. Era come se fosse riuscita ad avvolgerti con la sua voce calda e rosea e le sue parole. Un po’come se avesse posto una coperta sulle tue spalle persino più materiale del tuo mantello.
Ti sentivi rassicurato e meno solo, non solo come Camus, ma anche come Saint. Atena non era l’ultimo baluardo di difesa, c’erano anche gli Azoni. Nonostante la loro contorta morale. Non potevi pretendere di comprenderla, eppure ti sentisti molto vicino a lei. Sapere che esistevano asciugò le tue lacrime. La tua sofferenza era ancora lì, ma era più attenuata. Eppure quello che provavi era diverso ancora. Non era solo conforto, ma era vera e propria gratitudine. Perché? Ripensasti alla vostra conversazione, arrovellandoti per comprenderlo.
Non ti accorgesti neanche che le palpebre si erano sigillate e il tuo respiro si era già fatto più pesante. Ormai nel dormiveglia, ti venne un’idea che ti riempì di stupore. Stupore che ti fece pensare: “Non può essere”. Era la tua impressione o aveva cercato di consolarti? Con questi sentimenti nel cuore e la consapevolezza in testa, ti addormentasti per davvero.   
Sognasti di trovarti nel buio più assoluto e tu ci fluttuavi. C’era un silenzio talmente pesante e opprimente che persino tu tremavi di terrore. Improvvisamente udisti una voce femminile cantare.“Io conosco questo canto”. Animato dalla speranza ti avviasti nella direzione da cui proveniva e vedesti la luce e la ragazza in bianco a braccia spalancate. “Lady Asia!” Pensasti stupito. Questo sogno aveva qualcosa di troppo reale per essere un parto della tua mente lo capivi dalla luce. Dietro di lei le immagini coi fatti di Asgard scomparivano. Ti avvicinasti e anche il sogno sparì, sostituito da una calda luce rosata. Solo dopo sentisti anche il calore sulla pelle e il cinguettio nelle orecchie. Apristi gli occhi e vedesti delle macchie colorate prima che la luce ti ferisse. Gemesti di dolore. La guancia premuta a terra, l’indolenzimento alla schiena e alle membra, complice anche la forza di gravità. A causa della posizione aveva premuto sulla tua spina dorsale. Fu così che prendesti coscienza del fatto che fossi sdraiato sulla pancia sul sottobosco. Non ricordavi che questa posizione fosse così scomoda. 
Fosti costretto a coprirti la faccia con un braccio. Non c’eri quasi più abituato allo splendore del Sole.  
«Buongiorno». Salutò Shaka. Indossava già la sua Cloth ed era fastidioso guardarlo tanto luccicava.
Ti stiracchiasti maledicendo la scomodità del tuo giaciglio. «‘Giorno». Ricambiasti sofferente. Ti girasti supino, poi abbassasti il braccio e apristi lentamente gli occhi. Mettesti a fuoco le fronde verdi sopra di te. Si prospettava una giornata radiosa. E mai immagine fu migliore di questa, quando le tue narici percepirono l’odore del sottobosco. Non ti eri accorto che sull’asfalto non c’era cresciuta solo l’erba ma anche tutta una serie di piccoli fiori. Ecco cos’erano quelle macchie colorate. La primavera ha uno strano effetto anche sui luoghi più miserandi, non trovi anche tu? Come disse Dylan Dog nel color fest del Duemiladodici, ho scoperto che la primavera arriva anche qui da noi. Ma tu questo numero non avevi mai potuto leggerlo. Però, se avessi potuto, fidati di me che ti sarebbe uscita spontanea. La vita si stava comunque riprendendo e il mondo degli incubi di giorno non era così spaventoso. Ti sarebbe bastato guardare meglio per capire che, anche questi luoghi non facevano eccezione.
Girasti la testa a destra e a sinistra e domandasti dove fosse finita Lady Asia. Non la vedevi proprio. «Si è allontanata un momento, doveva andare a verificare una cosa». Spiegò. Cominciasti a stiracchiarti per ravviare la circolazione e ti mettesti seduto. Eri abituato a fare moto.
Ti pettinasti i capelli con le dita, ti sfregasti gli occhi cisposi. Sì, anche ora risentivate degli effetti del sonno.
Mentre ti sistemavi meditasti sulla foresta. Questo posto era centro di leggende urbane da brivido su creature mutanti e altri animali selvatici. Correva voce che alcune persone non fossero state completamente evacuate. Tu avevi fatto il giro molte volte. Ti eri sincerato apposta che tutti se ne andassero. Alcune case erano effettivamente già vuote prima del tuo passaggio e, non eri sicuro che fossero del personale. A ripensarci adesso ti domandasti se fossero mai davvero esistite.
«Ti ha detto cosa?» Domandasti.
«No, però non mi piace che si sia allontanata così. Anche se mi ha garantito che conosce a menadito questo luogo, non mi piace». Poi aggiunse anche che aveva dissolto la tasca temporale. Ti sembrava strano di poter udire di nuovo i rumori e che fosse mattina.
«Allora perché non sei andato con lei?»
«Perché mi ha ordinato di restare qui». Rispose infastidito. Proprio allora ti tornò in mente il dettaglio che avevi scoperto da Death Mask. Chissà se… «Capisco. Era suo, non è vero?» Inarcò le sopracciglia e se ne uscì con uno «Scusa?» pieno d’incredulità. Non ti lasciasti ingannare. Non ti era sfuggito l’irrigidirsi della sua schiena e l’improvviso raddrizzarsi della sua postura. 
«L’album che ti ho visto leggere a Villa Heinstein e negli Inferi». Specificasti. Lo avevi riconosciuto eccome. Dalla consistenza della carta che avevi visto prima che lo chiudesse e lo mettesse da parte quando gli portavi da mangiare. Era la stessa delle mappe che ti aveva portato l’emissario di Death Mask con cui avevate liberato il Grifone e le domande del vostro commilitone, più lo strano comportamento del tuo compagno ti avevano fatto riflettere. Eri un po’ tardo a fare i collegamenti, ma se no per quale altro motivo l’avrebbe seguita, oltre l’attrazione?
Shaka andò nel pallone per pochi secondi che, subito recuperò la sua altezzosità. «Le mie intenzioni sono molto più nobili di quelle che pensi e non devo renderne atto a te». Fortuna che alla sua proverbiale arroganza eri abituato. Era già così anche a sei anni e quando combatteste i Titani. Fu proprio lui a contenere il loro potere anche se, dopo ieri notte, non ne eri più così sicuro. A parte questo, si rendeva conto dell’intrinseca contraddittorietà del suo discorso?
Sciogliesti la posizione delle tue braccia dietro la schiena per grattarti la nuca. «Sì, Death Mask mi ha accennato qualcosa prima di spedirmi qui».
Neanche la vicinanza dell’Azona aveva contribuito a smussare questo suo lato. Stavi per domandargli altro quando lui ti prevenne: «Mi stai forse accusando di furto?» Chiese in tono duro e deciso. Anche se continuava a tenere le palpebre chiuse, riuscivi a sentire il suo sguardo affilato su di te. «Non sono un ladro, tantomeno un guardone, controllavo solo che non ci fossero importanti segreti militari all’interno. Tu avresti fatto lo stesso se fossi stato al posto mio. Se non fosse che appartiene a una Dea l’avrei già bruciato da un pezzo». S’inalberò. Come no, ma a chi voleva darla a bere? Inarcasti il sopracciglio destro: «Sicuro?» Lo punzecchiasti. Iniziasti a rivestirti delle tue Sacre Vestigia. 
Shaka si strinse la borsa al corpo. «Ovviamente l’avrei fatto pervenire al Gran Sacerdote prima, ma questo è un sacro tesoro che appartiene a una Dea e tu sai quanto mi sia battuto per le donne anche al Santuario».
Lo guardasti stupito: «Veramente no. Non avevo idea che tu fossi femminista».
«Non ho idea di cosa voglia dire. So solo che anche le donne possono raggiungere l’illuminazione quanto gli uomini e che questa possibilità non deve essere loro preclusa. Mi sono sempre battuto, sia per le ancelle che per le Sacerdotesse-Guerriero per quella legge della maschera. Secondo te perché io, la reincarnazione di Buddha, milito tra le fila di una Dea se non per difendere anche i diritti delle donne? É uno dei miei tanti precisi doveri». Ti rivelò, orgoglioso di sé stesso.
Ora capivi perché fosse molto amato e rispettato. E voi tutti vi eravate domandati come mai, vista la sua evidente puzza sotto al naso. Pensavate che la causa fosse il suo distacco. Sulle donne doveva esercitare una sorta di fascino, soprattutto perché non l’avevate mai visto schierarsi apertamente.
«E questo comporta anche un furto ai danni di una Dea? Che illuminazione può mai voler raggiungere una Divinità, anche se incarnata?»
Lui sviò narrandoti di come lo avesse recuperato su precisa richiesta di Lady Asia. «Shaka», sospirasti poggiandoti le mani sui fianchi, come quando Hyoga e Isaac combinavano qualche marachella, «per favore, smettila. La Dea non lo sa, eh?» Gli dicesti poi, impietosito. Perché non si era reso conto che la verità era più che evidente? Lui che tanto pedissequamente aveva perseguito la sua opera di stracciare i veli di Maya ora se ne ricopriva?
Lui però non accettò né l’implicito rimprovero che gli scoccasti con gli occhi, né la compassione nella tua voce. «No. Senti, non c’è bisogno che tu mi dica niente, so benissimo anche da me quello che devo fare. Senza il mio aiuto Lady Asia non potrà mai sopravvivere». Eccolo lì il solito spocchioso di sempre. Ma se era una Dea e pure più aggressiva, battagliera, potente e coraggiosa di Atena! Shaka era montato a tal punto? «Lo sai almeno qual è il vero potere di un’Azona, o quale sia il suo compito?» Chiedesti per sicurezza.
Parve cascare dal pero: «Potere?»
«Non te l’ha detto, allora». Deducesti.
«Non ce ne è stato bisogno, ho già meditato a lungo su questo e le conclusioni mi hanno sorpreso». Ribatté con convinzione. Inarcasti le sopracciglia: «Mi auguro che siano le stesse che so io». Lo informasti e Shaka ti rispose che erano le stesse. «Mi dovresti ringraziare, se non fosse stato per me, probabilmente ti avrebbe sgozzato».
Roteasti gli occhi. «Ti ringrazio». Stavi per porgergli altre domande ma la sua espressione contrariata ti fece desistere. Capisti l’antifona, proferisti soltanto un «Come vuoi.» prima di indossare l’ultimo pezzo. Non era salutare discutere con Shaka, considerando la sua spietatezza. Inoltre, tu eri l’ultima persona ad aver bisogno di un suo rimprovero. «Posso farti solo una domanda?»
«Te ne concedo una». Ribatté gelido.
«Sei davvero sicuro che sia solo per questo che segui Lady Asia?» Calcando bene l’accento su per questo. Sussultò come se tu gli avessi dato un pizzicotto o ficcato le dita nelle costole a tradimento. Arrossì ma non ebbe il tempo di risponderti che la chiamata in causa ricomparve dalla vegetazione. Nel vederti in piedi ti sorrise: «Buongiorno Camus, Shaka, qualche novità?» Chiese poi. Il Cavaliere sbiancò e tornò a esibire la sua solita espressione neutra e distaccata. «É stato tutto tranquillo, mia Signora».
Lei annuì, soddisfatta: «Bene, allora è il momento di metterci in marcia». Decretò. Gli smeraldi lanciarono un brillio. «Non ci fermeremo, cammineremo finché non lo troveremo». V’informò. «Ottimo Milady, avete una pista?» Chiese Shaka.
 
Camminaste fin dopo mezzogiorno. Come la sera prima, l’Azona sembrava dotata di una resistenza sovrumana a dispetto del suo corpo. Il suo stomaco non aveva brontolato neanche un secondo e le sue gambe non erano mai vacillate.
Shaka la seguiva facendo attenzione a ogni cosa, soprattutto a lei. E ne avesti la conferma quando incespicò. Shaka si protese in avanti ma non ce ne fu bisogno perché lei riacquistò subito l’equilibrio. In una situazione normale avresti anche sorriso, ma questa non lo era. Eravate pur sempre nella Foresta Rossa di Černobyl’. Tu invece preferisti concentrarti sui Cosmi. Percepivi quello di Shaka, quello degli escursionisti, ma non quello dell’Azona. Proprio come negli Inferi. Esiste un vero e proprio turismo estremo di questo tipo, con guide e piste. Non avevate incontrato nessuno ed era stato difficile per te ignorare le rovine che occhieggiavano dalla vegetazione. O il rumore delle macerie a ogni passo. T’immobilizzasti di colpo, percependo un Cosmo. Anche i tuoi compagni se ne accorsero. La Dea si bloccò a sua volta e alzò un braccio. «Fermi.» ordinò mentre i mulinelli si sollevavano. Il Cosmo lo sentivate tutto attorno a voi ed eravate più che sicuri che questi mulinelli che vi circondavano fosse opera del nemico. 
Cercaste di proteggere la Dea circondandola. Le braccia tese come a proteggerla. Tuttavia lei sguainò lentamente la spada e v’intimò di non muovervi.
Il tuo cuore cominciò a pulsare all’impazzata. L’adrenalina iniziò a entrare in circolo. Poi, vi arrivò una sventagliata talmente forte che vi mandò tutti e tre a gambe all’aria. Questa non te l’aspettavi. Era stato come essere investito da un tir in corsa. «Che cos’è?» Domandasti rialzandoti.
«É la Tempesta Radiante». Rispose la Dea alzandosi a sua volta facendo leva sulla lama. «Mia Signora, fate attenzione!» Si raccomandò Shaka.  
Il vento si sollevò e vi circondò, costringendovi a chinarvi e alzare le braccia per proteggervi la faccia. Ma questo vento aveva un odore strano.
«Che cos’è?» Urlasti, che quasi non si sentiva più niente a causa dell’ululato del vento.
«Sono radiazioni condensate. Il Guardiano della Casa di Urano manipola i Venti ma anche le radiazioni e l’uranio stesso. Non è un avversario da sottovalutare, inoltre, i suoi attacchi cadono…» In quel momento avvertiste il Cosmo piovervi addosso e dividersi in una pioggia di meteoriti. Foste costretti a ripararvi sotto i mantelli. Shaka protesse la Dea. «Dall’alto verso il basso, un po’ come una nevicata o delle meteore, come si credeva nell’Antica Roma». Finì la giovane.
Un’onda di sabbia si sollevò alla vostra destra. Faceste appena in tempo a girarvi che lei gridò: «Attenti!» Menò un fendente e la sabbia ricadde a terra. «Ahi!» Esclamò con voce maschile e i mulinelli si ritrassero. Si radunarono davanti alle vostre facce e assunsero la forma di un ragazzo nel cuore dell’adolescenza. Aveva candidi capelli lisci e asimmetrici, come se glieli avesse tagliati un parrucchiere impazzito. Due grandi orecchie da volpe artica sormontavano la sua testa. Gli occhi erano gialli con le sclere blu. Se avesse pianto lacrime di sangue, non vi sareste sorpresi. Il naso lungo, le labbra sottili erano nere e tese in un ghigno di una chiostra di zanne acuminate. Aveva la pelle di uno strano colore metallico e la faccia volpina. Indossava un orecchino a forma di foglia, una torque d’oro e degli occhialini tondi da sole con la montatura dorata. Delle grandi code vaporose si ergevano dietro la sua schiena. Era slanciato ma non aveva una corporatura piuttosto muscolosa o sviluppata. Indossava una camicia blu e dei pantaloni neri. La parte inferiore era ancora infilata nel mulinello. Si teneva una mano coperta di sangue iridescente con l’altra. “Questo è un Guardiano?” Pensasti sorpreso. Avevi pensato che fossero tutti come quello della Casa di Marte, almeno la componente maschile. Non che fossero tutti diversi tra loro.
Il Guardiano sollevò lo sguardo dalla ferita e incenerì la Dea. «Sei riuscita a ferirmi». Sibilò.
Lady Asia si rimise in posizione.
Il Guardiano attaccò di nuovo ma tu trasformasti il getto di sabbia in ghiaccio che cadde a terra con un tonfo. Però era strana come sabbia, sembrava composta da sferette minuscole.    
«Ma guarda. Interessante». Commentò la voce del vostro avversario, risuonando tutt’attorno a voi, come se vi stesse circondando. Vi metteste schiena contro schiena. In realtà avreste preferito disporvi diversamente per Lady Asia ma lei non era dello stesso parere.
Attorno a voi s’innalzò una muraglia di sabbia che ricadde su di voi. Non fece in tempo a cadervi addosso che Lady Asia mosse una mano e la muraglia tornò indietro fino a riunirsi nella figura irritata del Guardiano che sorrise affilato: «Ma guarda, non pensavo che due Redivivi e una Dea da quattro soldi potessero resistermi tanto facilmente. E dire che non mi sono nemmeno trattenuto».
A giudicare dalla forza del suo attacco non ne eri così sicuro, ma tacesti. «Astronauta riprendi le tue vere sembianze e seguimi». Comandò la Dea portandosi un pugno sul petto.
«Perché?»
«Il tempo è giunto». Ribatté enigmatica.
«Chi l’ha deciso?»
«Io».
Un sorriso crudele piegò le labbra dell’altro. «Ah, sì? In nome di quale autorità?»
«La mia».
«Sai quanto me ne frega? Dovrete riuscire a obbligarmi, anzi no, a catturarmi per tornare al servizio dei tuoi infami parenti! Ah, sì, adesso mi ricordo, sì. Tu sei la Dea Maledetta, la stupida Dea che crede di poter sfuggire al proprio destino». La ragazza gli puntò addosso la lama. Un’espressione bestiale le deformò i lineamenti.
Il Guardiano della Casa di Urano non se ne curò. Anzi, si leccò qualche goccia di sangue e si rimarginò la ferita: «Perché non diamo una piccola svolta agli eventi? Che cosa succederà se sarò io il primo a strapparti la testa? Credi che il mondo finirà lo stesso?» Propose.
«Di che parla?» Chiedesti.
Un luccichio illuminò i suoi occhi e si rivolse a voi: «Non sapete con chi viaggiate, vero?»
«Stai zitto!» Ululò l’Azona lasciando esplodere il proprio Cosmo. Eravate abituati a quello della Dea Atena ma non pensavate che questo potesse di gran lunga superarlo. Questo era ben oltre il sublime, questo era il noumenos di Kant. In quel Cosmo sentisti racchiusa la vita e la morte ripetuta in un ciclo infinito. Mille voci e mille suoni ne erano intrappolati. Era così forte che la terra tremò e il cielo divenne color oro bianco. L’energia rilasciata spazzò via le foglie, spezzò i tronchi degli alberi più vicini e li incenerì. Quel Cosmo era talmente potente che vi avrebbe uccisi entrambi, Velo o non Velo. Persino questo si deteriorò.
Se non riuscì ad andare fino in fondo fu solo perché l’album vi protesse, creando una specie di barriera che fece da spartiacque per la sua energia.
Shaka spalancò gli occhi per la paura. Fissò Lady Asia come se non la riconoscesse, mentre il Guardiano sogghignava. Per lui il suo Cosmo non era altro che una sventagliata. Dovette provocarla perché ululò a pieni polmoni: «Ti ho detto di chiudere il becco!» E la sua voce si trasformò in un’onda di energia che lo mandò a gambe all’aria nel sottobosco. Il Guardiano rise a crepapelle prima di smembrarsi i miriadi di goccioline che rimbalzarono come palline sul terreno. Arretraste istintivamente e solo allora Lady Asia si fermò e recuperò il controllo del Cosmo. Respirava dal naso. Le spalle che si alzavano e si abbassavano rapidamente. «Lady Asia?» Tentasti mentre anche la barriera scompariva. Shaka sembrava aver perso l’uso della parola. «Lo avete ammazzato?»
«No, quello non muore così facilmente, state attenti potrebbe…» 
«Preso». Sentisti flautare all’orecchio. Prima che avessi il tempo di capire cosa stesse succedendo fosti inglobato dentro una goccia. Provasti a liberarti ma non ci riuscisti, sentivi appena le voci e gli attacchi dei tuoi compagni. Ti dimenasti urlando come un ossesso. Era tutto inutile.  
Proprio quando pensasti che saresti morto, ti sporgesti in avanti e la bolla s’infranse, cadendo a terra in miriadi di goccioline che rimbalzarono sul terreno. Riprendesti fiato sconvolto. Lady Asia e Shaka ti soccorsero. «Stai bene?» Ti chiese lei mentre Shaka si metteva davanti a voi, pronto a difendervi mentre il Guardiano riacquistava la sua vera forma.    
«Che rogna, proprio uno spirito mi doveva capitare, così non c’è gusto». Commentò infastidito vedendoti rialzare carponi. Poi un getto di mercurio ti raggiunse e ti schiantò contro un muro.
Mentre lottavi per restare sveglio ti toccasti il petto, laddove eri stato colpito e quando sollevasti la mano vedesti le gocce. «Non è acqua.» costatasti mentre ti rialzavi dalla pozza di quello strano liquido, che adesso riconoscevi. Ti guardasti le mani e poi le goccioline che, dalle braccia e i capelli, rotolavano via da te. «Questo è mercurio!» Urlasti ai tuoi compagni.  
«Mercurio?» Ripeté Shaka perplesso, prima di schivare un’altra ondata. Neanche i suoi colpi servivano a qualcosa.  
«Accidenti, non l’avevo previsto! Scappate, scappate! Ho detto scappate!» Esclamò Lady Asia allarmata. Obbediste senza pensarci due volte.
In quel momento un’altra ondata vi accerchiò, vi superò e vi sbarrò la strada. «Dove pensate di andare? Ho appena cominciato. Tu sei d’intralcio piccola Dea, non crederai davvero che ti lascerò scappare. Sai troppe cose e osi troppo, hai bisogno di una punizione». Annunciò. Poi si trasformò in mercurio e si lanciò addosso alla Dea. Innalzasti rapidamente una muraglia di ghiaccio ma fosti lo stesso troppo lento. La lama di mercurio ferì l’Azona a un braccio. La Dea gemette di dolore e perse la presa sulla spada. Si afferrò il braccio dolorante. Il mostro attaccò ma Shaka l’afferrò e saltò via appena prima che l’energia la colpisse. Il mantello bianco e parte della lunga chioma distrutti. Il Velo avrebbe dovuto proteggervi dagli attacchi dei Vivi, con i Guardiani non funzionava! Non vi restava che sperare nelle Creature, ma dov’erano finite? Perché non si facevano vive? Raggiungesti i tuoi amici che si stavano riparando dietro la barriera della Dea. «Non hai ancora capito, sciocca Dea? Io non ti lascerò mai il tempo di pensare!» Sghignazzò il Guardiano Volpe continuando a bombardarvi.
«Somma Dea! Usate noi!» Intervenisti.
«Sei impazzito, Camus?» Ribatté mentre concentrava l’energia per rinforzare la barriera che andava crepandosi sempre di più. «Fidatevi!»
Non fece in tempo a finire la frase che il Guardiano cambiò tattica: fosti afferrato per la vita e strattonato indietro. Battesti la testa in terra e ti ritrovasti di fronte la faccia di Milo. Strabuzzasti gli occhi spaventato. «Ciao mio vecchio amico». Ti salutò beffardo. Alzò la Cuspide Scarlatta  e, sempre sorridendo, la calò su di te ma la lama della Dea tagliò quella mano. Il mostro si agguantò il polso mozzato, trapassò Lady Asia con lo sguardo e ringhiò come una fiera.
Lady Asia puntò la spada contro di lui. Dalla mano destra un piccolo pugnale verde. Il respiro affannoso per lo sforzo: «Stai lontano dai miei protetti!»   
«Camus! Che ti prende? Perché ti sei alleato con lei? Ti sei dimenticato della missione? Dovevamo proteggere il Santuario e la Dea! Lei non è la tua Dea, è la nemica, sta in guardia!» Continuò il falso Milo, la mano di nuovo intatta. «Se non mi credi ci penso io a farti rinsavire: Cuspide Scarlatta!»
Shaka gli oppose il Khān ma i colpi rossi erano così forti da mandarlo in frantumi.
Lady Asia vi afferrò per gli spallacci e vi strattonò indietro quel tanto che bastò perché le Cuspidi si schiantassero al suolo.
«Mia Signora!» Esclamò Shaka agitato mentre tu continuavi a fissare Milo.
No. Era impossibile che fosse Milo. Milo non ti avrebbe mai attaccato senza un buon motivo. Non come ad… Dove? Dov’era che era successo? Perché non ricordavi più quella parte? «Ce l’ha con te! Camus, stai attento! Smetti di pensare!» Gridò Lady Asia riportandoti alla realtà.
«Che guastafeste!» Commentò infastidito l’avversario, poi posò una mano a terra e dal suolo fuoriuscirono delle sagome scure e informi che si trasformarono in soldati ombre. E ve li mandò addosso. Parasti un colpo e scopristi che il loro tocco era corrosivo. Ritraesti il braccio urlando e scopristi di non averlo più. Neanche la Cloth era riuscita a proteggervi. «Scappate!» Urlò la Dea.
Fu Shaka a convincerti a restare. Combinaste i vostri Cosmi e riusciste a spazzare via quei mostri. Restasti stupefatto della tua forza, non pensavi di avere ancora tanta energia. Sentivi che potevi attingerne quanta ne volevi, che c’era qualcuno che ti osservava e attendeva. Cos’era questa sensazione?
Non potesti pensarci che un’altra onda di mercurio l’aggredì. Non la vedesti neanche alzare il braccio. Combattevano a una velocità superiore della vostra in tutti i sensi. Lei tese una mano verso l’onda, bloccandola a metà come se si fosse scontrata contro una barriera invisibile. Non era sufficiente: la massa liquida avanzò millimetro dopo millimetro accumulando sempre più forza. Il braccio di lei tremò. La Dea mosse l’altro braccio e menò un fendente che aggirò il liquido. Il fendente tagliò in due il falso Milo che si disgregò in una pioggia di goccioline che rimbalzarono a terra. L’onda decadde e andò a spargersi ai vostri piedi come un lago velenoso. «Milady!» Esclamasti mentre lei si aggrappava a te per restare in piedi. «Sto bene». Fece, portandosi una mano alla testa. «Sto bene». Ripeté.
«Non ti permetterò di pronunciare quel nome!» Esclamò la voce sotto ai vostri piedi, poi il Guardiano si ricompose e Lady Asia si ritrovò a combattere da sola. Nonostante la sua abilità sembrava una bambina maldestra alle prime armi.
A un tratto l’essere bloccò la lama con una mano sola e la cinse, macchiandola del suo sangue velenoso. La sua espressione si tinse malinconico, quando la osservò. Lady Asia trasalì, rendendosi conto di non poterla più muovere. «Oh la leggendaria Tamerlane, era molto tempo che non la vedevo». Riconobbe in tono delicato, come se parlasse di un vecchio, caro ricordo. Il suo volto perse l’espressione di gioia crudele in favore di una più truce e rabbia. «Ma non lascerò che accada una seconda volta, non più, te la strapperò con tutto il braccio». Vedesti solo la luce verde che l’altro Guardiano le prese il braccio destro e strinse la presa. La Dea urlò di dolore e fu costretta ad aprire le dita.
«Lady Asia!» Urlaste. Shaka si gettò addosso al Guardiano ma quest’ultimo fu più rapido e gli scagliò addosso la Dea. Che dette una testata contro il tuo compagno e cadde a terra. Shaka  si accorse solo troppo tardi di ciò che era successo, che in un colpo si ritrovò schiantato al suolo, accanto alla Dea, che, andava rialzandosi dolorante. Un rivolo di sangue d’oro bianco le colava dalla bocca. «Cerchio d’ombra». Comandò il Guardiano e attorno alla gola di lei si formò un collare d’ombra. La ragazza aprì bocca ma non ne uscì alcun suono: «Ecco, adesso ti sfido a chiamarlo!» Ghignò l’altro soddisfatto.
Asia lo trapassò con lo sguardo. Poi, infuriata e spaventata, bruciò finalmente il suo Cosmo aprendo la bocca in un grido muto. Se solo l’espansione aveva causato tutta quella distruzione, l’ardere fu infinitamente più devastante. Vi salvaste solo grazie alle code della volpe di Mercurio. La fiammata d’oro bianco attorno a lei era terrificante. Persino il Cosmo e la Dunamis dei Titani impallidivano al confronto. Ma neanche questo bastò a estinguere la tecnica del mostro che anzi, se la rise. I vestiti e i capelli smossi ma illesi. «Credi di impressionarmi? Stolta!» In un baleno le fu accanto e la schiantò al suolo con una mano. La Dea smise immediatamente di bruciare il Cosmo.
«Lady Asia!» Urlaste.
Vi rialzaste nonostante le ferite e correste da lei. Lady Asia tremava e si dimenava nel tentativo di liberarsi, il Guardiano era talmente forte da bloccare il suo spostamento. Ogni volta che cercava di bruciare il Cosmo e sembrava sul punto di teletrasportarsi, tornava solida. Cercò di artigliare quel braccio e toglierlo, ma non ci fu verso.
«Come, la volete proteggere ancora? Non capite proprio allora.» vi ritrovaste al punto di partenza  e al tappeto. «Com’è possibile che non capiate che mi basta fare così per mandarvi KO?»
Ma anche così trovaste la forza di rialzarvi e di essere sbalzati via ancora. Per lui era un gioco, per ma per voi no. Ogni volta che vi rialzavate puntavate i piedi. Eravate pronti a combattere anche a costo di spaccarvi le gambe nei gambali.
«Proprio non vi arrendete?» Chiese il Guardiano mentre vi lasciava raggiungere la Dea priva di sensi. Vi lasciò avvicinare. «No. Noi non ci arrendiamo. Abbiamo giurato di proteggerLa e lo faremo!» Dichiarò Shaka. Il Guardiano vi scagliò al punto di partenza. Rotolaste per cinquanta metri prima di fermarvi. Stavolta entrambi feriti e provati per lo sforzo. Ogni esplosione era più forte della precedente. Anche se avevate capito come faceva non serviva a nulla. «Stupidi umani, possibile che non comprendiate mai quando è il momento di fermarvi? Datemi retta, arrendetevi». Consigliò. Improvvisamente tutto il dolore della battaglia vi sopraffece e vi ritrovaste schiacciati al suolo, boccheggiando. Non avevate mai sofferto tanto neppure quando vi sacrificaste al Muro del Lamento. Ora le parole di Lady Asia vi erano chiare, come era chiaro che il Guardiano stesse giocando con voi.
Una mano ti afferrò per i capelli e ti sollevò la testa. Il Guardiano si era sdoppiato e le sue copie si stavano occupando di voi. Presto vi avrebbero uccisi.
Non sapesti neanche tu dove trovasti il coraggio di boccheggiare: «No, non possiamo arrenderci». Cercando di sforzare la voce ad articolare parole comprensibili. Sentivi la bocca piena di sangue e tossisti. Non avevate neanche più le forze per stare bocconi. Shaka ci provò, ma vacillò e crollò di nuovo al suolo, mentre tu ti sentisti tirare indietro nella tua stessa coscienza. «Noi, non ci arrendiamo, siamo i Cavalieri della Speranza». Appena lo dicesti, vedesti il sogno di quella notte. Lady Asia che cantava per voi e che vi proteggeva nel Limbo e che aveva quasi perso la vita per voi tredici. Ora sapevi cos’era quella distesa oscura. Lady Asia nel castello degli Specter che stava per essere sopraffatta e voi che la raggiungevate e la proteggevate. «Noi siamo i vostri Cavalieri». Disse Aiolos.
«Qualsiasi cosa succeda potete contare su di noi. Chiamateci e arriveremo da voi». Promise Milo a nome di tutti. Shaka che le restituiva il suo scettro. Tu che annuivi convinto a sottolineare le sue parole. Ora sapevi chi fosse. La guardasti: «Lady Asia». Mormorasti. Come avevi fatto a non riconoscerla? Non era una nemica. Le copie di mercurio vi lasciarono andare e si riunirono all’originale. Che vi lasciò avanzare di nuovo, ma di lui non v’importava più. «Lady Asia». Chiamò Shaka a sua volta con il tuo stesso tono.  
Riusciste a strisciare lentamente lottando contro il dolore. Eravate prossimi a perdere i sensi. Vi ribellaste entrambi. Non adesso che l’avevate ritrovata.  
«Oh, sì, la vostra presunta capacità di compiere miracoli. Sì, certo, come no». Commentò aspro il Guardiano. Si avvicinò alla Dea. Un ghigno di gioia perversa gli deformò il volto mentre ridendo protendeva le mani artigliate verso di lei: «Ho vinto io!» Gioì. Poi le tenebre dell’incoscienza ti catturarono.
A svegliarti fu il ruggito inumano. La terra tremò come durante l’esplosione di un vulcano. Un potentissimo Cosmo ardente soppiantò quello del vostro avversario e avvolse ogni cosa precipitandovi nel terrore più puro. Era pregno di sì tanta ostilità e furia, che vi fece gelare il sangue nelle vene. Era il Cosmo di un mostro assetato del sangue dei cadaveri di mille massacri. 
Sollevasti la testa per guardare la scena. Il cielo era rosso come se riflettesse le fiamme di un incendio gigantesco. Sembrava di essere finiti all’Inferno vero e proprio e il Guardiano della Casa di Marte sembrava il demone suo sovrano. Il Guardiano di mercurio lo salutò allegro: «Ma guarda chi si vede, fratello».
Il Drago Rosso si limitò a fissarlo in cagnesco, fremendo. Era la seconda volta che lo vedevi e, non avevi alcuna difficoltà a riconoscere che fosse la persona perfetta per custodire la Casa di Marte. Poi notò la Dea che lottava per sollevarsi da terra.
Gli occhi dell’essere si restrinsero in fessure roventi. Poi girò di nuovo la testa verso il fratello: «Come hai osato?» Gridò, furibondo.
Costui rise divertito. «Come, ti preoccupi per questa mocciosa che ci ha dato tanti grattacapi? Non dirmi che non avresti voluto ridurla così anche tu!»
«Questa mocciosa è mia figlia!» Rilevò adirato il Guardiano della Casa di Marte.  
«Davvero? Scusa tanto». Se ne uscì sorpreso e ridanciano il guardiano volpe, incrociando le braccia. «Lady Asia!» Urlò Shaka e tutti la guardaste. Era crollata al suolo e non si muoveva più.
Il Drago Rosso ululò rabbioso e liberò il Cosmo. L’onda d’energia fu così forte che ogni cosa s’incendiò. Tu e Shaka vi schiacciaste al suolo proteggendovi la testa con le braccia. Avevate già sperimentato la forza di un Guardiano ma non pensavate che avreste preso quasi letteralmente fuoco. Vi rotolaste in terra nel per spegnere le fiamme, scoprendo con orrore che anche le cloth avevano preso fuoco. Era impossibile! Non bruciavano così facilmente!
«Come hai osato?» Ringhiò.
Spegnesti le ultime vampe e lo guardasti. Desiderasti scomparire seduta stante: con quell’espressione bestiale e il fumo che gli usciva di bocca sembrava un drago.
Il fratello scoppiò a ridere - appena affumicato: «Su, andiamo, non essere così paranoico, sta benissimo, non le ho torto neanche un capello». Queste parole andarono ad alimentare la sua rabbia.   
Si spostò così rapidamente che non lo vedeste neanche e gli appioppò un violento gancio. Il Guardiano della Casa di Mercurio cadde KO. Il Drago Rosso soccorse l’Azona.
Shaka, ridotto anche peggio di te, cercò di strisciare da lei ma fu superato da una scia di fuoco che separò i tre. Il Guardiano Volpe si ritrasse immediatamente, scottato. Quando si era ripreso? Quando si era mosso? Smise immediatamente di ridere. Il Drago Rosso scomparve e ricomparve davanti a lui. Lo afferrò per il collo. Il fratello cominciò ad annaspare e scalciare. Gli occhiali gli caddero dal naso. «Lasciami, fratello». Implorò spaventato.
«Non sono tuo fratello! Non dopo quello che hai fatto!» Sibilò, più piano. L’altro capì di aver tirato troppo la corda. Sgranò gli occhi e - spaventato: «Perdonami, stavo solo giocando».
«Io no!» Digrignò denti di nuovo il mostro e un filo di fumo gli uscì dalla bocca. 
«Ti prego, possiamo parlarne…»
«Parlarne? Come? Con che coraggio dopo quello che hai fatto?»  
«No, hai ragione, non possiamo parlarne non possiamo parlarne, possiamo…» L’altro lo lasciò franare al suolo e il Guardiano Volpe raccolse gli occhiali.
«Fa silenzio! Tu adesso te ne torni alla tua Casa e ci resti. E una volta che sarà finita tutta questa storia, non voglio più rivedere la tua brutta faccia in giro per molto, molto tempo, è chiaro?!» Minacciò. Non aveva bisogno di proferire le minacce in questione: la distruzione che aveva portato era più che sufficiente.  
«Sì». Balbettò con un filo di voce, annaspando, prima di dissolversi.
Il Guardiano rimasto fece un respiro profondo per calmarsi. Le fiamme si spensero e anche il fumo che usciva dalla sua bocca scomparve. Poi tornò dalla figlia. Le sollevò la parte superiore del corpo dal suolo, le batté la mano su una guancia per svegliarla. La Dea batté le palpebre e riaprì gli occhi. «Padre?» Domandò perplessa, come se non ci credesse neanche lei. «Sì, sono qui.» confermò sollevato. La Dea svenne di nuovo.
Il genitore la depose a terra e fece leva sui suoi punti di pressione. Lady Asia gemette e cominciò a tossire. Solo allora il Guardiano si occupò anche di voi. Forò un polpastrello della figlia e vi passò una goccia del suo sangue dicendovi di berla. Obbediste e dopo qualche secondo il dolore che vi aveva attanagliato si dissolse e le vostre energie tornarono forti come prima. Tu e Shaka vi guardaste stupefatti: persino le vostre Cloth erano di nuovo integre. Poi, raccolse un’altra goccia e la lasciò cadere al suolo. Il sangue della Dea rigenerò tutta la zona e voi non tratteneste un moto di stupore.  
Restaste a vegliarla in silenzio finché non si destò. Battendo le palpebre, domandò: «Padre, allora sei qui, mi hai sentito davvero. Che è successo? Dov’è il…»
«É andato alla Casa di Mercurio, ora pensa a riposare».
La giovane chiuse gli occhi e mormorò: «Sì». Poi le carezzò la testa con una delicatezza inaspettata. Andò a recuperare la lama verde e il pugnale e glieli mise accanto. Restò tutto il tempo a vegliare su di lei, che riposava. «Si riprenderà?» Domandò Shaka, preoccupato.
Solo allora vi trapassò con i suoi crudeli occhi cremisi: «Cosa credevate di fare? Pensavate sul serio di proteggerla? Dovete essere fuori di testa». Vi rimbrottò. Ti sentisti rimpicciolire mentre la paura ti strizzava le viscere come fossero un cencio bagnato. Era solo grazie alla Cloth che non ti tremavano le ginocchia. Non avevate mai avuto a che fare con una creatura simile: superava in inquietudine e terrore persino Loki di Asgard e l’Hades intero. Quegli occhi non erano umani: quelli erano gli occhi di un drago infilato in un corpo umano. Provaste a spiegarvi ma non avevate giustificazioni per il vostro fallimento. «Cosa credevate di fare?» Vi chiese di nuovo.
«Lasciali stare». Biasciò la giovane ancora distesa a terra, beccandosi un secco rimprovero a sua volta. L’Azona non tacque: «Dico sul serio, sono sotto la mia responsabilità».
«Responsabilità un corno, ti rendi conto che non sei capace di proteggere nessuno?» Lei lo fulminò con un’occhiataccia: «Grazie tante per la fiducia, eh?» Il Drago Rosso parve essersi reso conto di ciò che aveva detto e si scusò. «Comunque grazie per essere venuto».
«Meno male che ti ho sentito e che avevo già dei sospetti.» e vi raccontò come gli erano venuti. Aveva percepito i vostri Cosmi e poi l’aveva sentita chiamarlo. Poi le disse che la Colomba Astrale e la Gazza Ladra erano già nei rispettivi Templi. Le domandò cosa stesse succedendo e perché non lo avesse informato. L’Azona sorrise divertita e rispose che sapeva che se l’avesse fatto gliel’avrebbe impedito. «E a ragione!»
Tu e Shaka vi scambiaste un’occhiata e arretraste di qualche metro. Non vi eravate mai sentiti così in imbarazzo e così di troppo. I due discussero ancora a lungo poi il Drago Rosso la salutò e scomparve. Solo allora vi riavvicinaste. Lady Asia era seduta, aveva le spalle rigide e una faccia rassegnata. «Milady», tentasti e lei ti guardò. Poi disse: «Su, riprendiamo».
Shaka chiese della Volpe. «É alla Casa di Mercurio, si può dire che il nostro compito l’abbiamo fatto, anche se per metà. Mio padre mi ha detto che l’Astronauta è ancora qui, forza, rimettiamoci in marcia».  Rispose. Ma quando si alzò impallidì e crollò di nuovo a terra.
«Milady!» Urlaste in coro.
Proprio in quel momento arrivarono anche le Creature.
 
Shiryu

L’esplosione di quei Cosmi tremendi l’avevate sentita tutti. Prima quello che aveva fatto vibrare la terra e ogni vostra cellula, poi quello che l’aveva fatta tremare. L’esplosione che aveva generato quell’onda di energia che vi aveva messo KO. Infine quello che vi aveva fatti svenire tutti.  
Se pensavi che non ci fosse niente di più grande del Cosmo di una Divinità ti sbagliavi. Ti rialzasti dolorante da terra e ti massaggiasti la testa. Che diavolo era stato? Non eri riuscito a capirlo. Aphrodite, che era accanto a te in quel momento, aveva commentato: «Io conosco questo Cosmo».
«Ah, sì? Di chi è?»
«L’Azona». Aveva detto in tono cupo.
«Chi?»
Aphrodite ti spiegò ogni cosa, non senza una buona traccia di rabbia nella voce. Esistevano entità di questo tipo e non ne eravate a conoscenza. Dovevate prepararvi a una nuova battaglia. Forse la più cruenta e sanguinosa di tutte quelle che avevate combattuto. E non eravate neanche al completo. Non che fosse un così grande problema, però ti domandavi se stavolta sareste bastati.
Dovevate ringraziare che i Marine di Poseidone se n’erano andati ignari. Ti domandavi solo quanto ci sarebbe voluto prima che anche loro si mettessero in azione.
Shunrei aveva accettato tutto passivamente, ormai c’aveva fatto il callo. Invece tu no. Eri preoccupato anche per Ryuho. La Dama degli Smeraldi incombeva sulla vita di tutti coloro che combatterono contro Mars e Pallas. Shura doveva essere contento considerando che Ionia era uno di questi.
Per questo trovavi che non fosse una pessima idea che tuo figlio si stesse sottoponendo a un allenamento intensivo. Anche Astrid si stava allenando. Nel tuo giardino ogni mattina all’alba da quando l’avevate processata prima dell’Ostrakon. Per questo le lasciavi sempre un bastone appoggiato al tronco del salice. Era una specie di gioco tra voi. Ti eri quasi abituato a sentirle allenarsi. Vero che non percepivi il Cosmo di Sole Piangente, ma quello di Paradox sì. Era stato basandoti sul suo che eri riuscito a capire cosa stessero facendo.  
Da un lato ammiravi quell’ancella. Ti ricordava una creatura dei boschi di cui abbondavano le leggende occidentali. Forse una fata dei boschi, te la saresti figurata.
A te non dispiaceva che qualcuno visitasse questo giardino. Pur essendo perfetto per meditare a volte lo trovavi tristemente vuoto.
Ma le brutte notizie non erano finite: le Creature nel loro sciamare a Est avevano mietuto delle vittime e Astrid non era riuscita a salvarle. Era stata la prima volta che i suoi poteri facevano cilecca e non sapevate ancora spiegarvi il motivo. Che ci fosse un limite di tempo entro cui agire? O che non avesse avuto sufficienti energie? Non sapevi neanche se l’onda che vi aveva travolto avesse avuto qualche effetto su di lei. 
La voce del Venerabile Shion ti strappò ai tuoi pensieri. “Ne sono morti ancora, eh?” Osservò tristemente. Come al solito la sua telepatia gli permetteva di comprendere in anticipo alcuni eventi. Era come se sul Santuario si fosse posato un presagio di morte e sventura.  “Forse è il momento per me di rientrare in servizio”. Annunciò l’anziano ex Gran Sacerdote e lo sentisti slacciarsi la benda. Assumesti un’espressione sbigottita. «Venerabile Shion?» Domandasti con il tono di chi non ha capito bene. “Shiryu, ho retto il Santuario per duecentotrent’anni. Ho combattuto in prima fila nelle Guerre Sacre per ben due volte, una delle quali come traditore. Sono stato io a sconfiggere Yoma di Mephistophele e a lanciare l’Anti-Spell quando le dimensioni hanno cominciato a fondersi. Non sono un giovanotto di primo pelo ma resto sempre un Cavaliere d’Oro, benché io non indossi più l’Armatura. Non me ne resterò con le mani in mano mentre i giovani muoiono. Mi sono riposato anche troppo, adesso è tempo di agire”. Quando raggiunse la Settima lo facesti passare.
Al ritorno, verso sera, ti annunciò che il Gran Sacerdote aveva acconsentito.  
In un secondo tempo scopristi che l’Ex Pontefice aveva convocato il Bronze Saint di Sculptor, di Fornax e quest’ultimi erano partiti per una missione in Jamir. Che aveva in mente il Venerabile?

In un secondo tempo Ryuho ti raccontò cosa era successo in infermeria. Castalia e Shaina erano state reintegrate in servizio e la maestra di Seiya aveva ripreso a lavorare in astanteria. Anche lei e Neera avevano portato i corpi all’obitorio della struttura. Lì c’era anche Astrid che era stata convocata per salvare i defunti in extremis. Ma non c’era riuscita ed era scoppiata in lacrime. Ryuho l’aveva messa seduta su una sedia. Astrid si era portata le ginocchia al petto, vi aveva affondato la faccia e aveva pianto. Il disastro era successo quando Neera aveva detto, in tono contrito: «Mi dispiace, nobile Castalia».
«Non è colpa tua». L’aveva confortata posandole una mano sulla spalla. Poi era andata a prendere la macchina fotografica per le foto che avrebbe inviato a Shun di lì a poco.
Astrid aveva rialzato la testa dalle braccia e l’aveva guardata. «Sei stata tu». Aveva mormorato. Poi la sua espressione si era accesa di odio rovente. Gli occhi non sembravano neanche umani. Si era alzata in piedi e aveva afferrato un lenzuolo candido del morto come se avesse voluto tirarlo via. Cominciò a fremere come una belva: «Sei stata tu! Tu li hai ammazzati!»
«Cosa? Ma di che parli? Sono state le Creature!» Aveva ribattuto la Saint sconvolta.
«Balle! Se fossero state le Creature io le avrei resuscitate!» Era sbottata Astrid.
«A volte i tuoi poteri fanno cilecca». Si difese la mora ma Astrid non demorse: «É impossibile! I miei poteri non fanno mai cilecca, a meno che qualcun altro non si metta in mezzo e agisca prima di me!»
«Era mai successo prima?» Le aveva chiesto Castalia e la bionda aveva risposto di no, che non aveva provato la volta scorsa, ma era sicura che fosse così. Alle tue orecchie le sue affermazioni persero immediatamente ogni credibilità ma continuasti ad ascoltare. Castalia allora le aveva domandato perché pensasse che la colpevole fosse lei. E Neera aveva continuato a ripetere che non aveva fatto niente e che era svenuta. Ma Astrid non le aveva creduto e aveva continuò a inveire: «Non mentire, una come te non sviene per un semplice bernoccolo!» Neera aveva cercato di ponderare la questione: «Magari i tuoi poteri hanno un limite di tempo». 
«No perché le stelle di Aphrodite non hanno subito cambiamenti!» Sbottò a sua volta.
A quel punto Ryuho s’era intromesso, che ogni tanto ne avevano parlato: «Cosa? Ma avevi detto…»
«Lo so quello che ho detto! Le stelle di Aphrodite non sono cambiate perché erano già luminose come fiaccole quelle che sono riuscita a ricreare». Spiegò.
«Non è quello che ho detto io». Fece notare la Silver Saint. 
«Ho sentito la cazzata che hai sparato! Sono io che ho questi poteri, so io come funzionano, non tu!» Sbottò l’altra sporgendosi verso di lei, le mani improvvisamente lucenti di un alone bronzeo. La Sacerdotessa-Guerriero s’irrigidì e arretrò di un passo, alzando le mani per difendersi. Castalia si spostò istintivamente la compagna d’arme dietro le spalle. Ryuho invece scattò in posizione d’attacco ma neanche questo bastò a fermarla. Che Astrid esclamò: «Allontanati da lei! É pericolosa!» La fissava come se fosse stata un mostro da abbattere. 
«Non è vero!» Pigolò Neera, spaventata dietro di loro.  
«Adesso calmati, Astrid! Calmati subito o dovrò chiederti di uscire!»
«No che non mi calmo! Stai proteggendo un’assassina, scostati!»
«Astrid!» L’avevano richiamata.
«Non voglio combattere con un’amica, Castalia». Aveva minacciato.
«Nobile Castalia…» Squittì la Silver alle tue spalle e quella vocina e il Cosmo spaventato di Neera le avevano fatto prendere la sua decisione. «Vattene!» Astrid la guardò come se non la riconoscesse. Provò a protestare ma tu non glielo permettesti: «Esci!» Ripetesti perentorio. Astrid non si mosse. «Esci subito da qui!» Ripeté la maestra di Seiya fissandola negli occhi. Non immaginavi che avesse un temperamento focoso. Non dovesti neanche attendere troppo per capire a quanto potesse spingersi. Ti bastò attendere quella sera stessa. Quando udisti il Cosmo spaventato di Neera dare battaglia a qualcuno nella Quinta Casa. Quando accorresti vedesti Aiolia cercare di separare le due. Ma non era Neera a dare problemi, era Astrid, che stava cercando di opporsi alla telecinesi di Aiolia e urlava come un’indemoniata: «Lasciami, lasciami andare! Lei sta rubando dei documenti da queste Case! É lei l’assassina, lasciami!» Neera urlava a sua volta che non era vero e cercò il tuo sostegno mentre Aiolia lasciò la presa e, spostandosi alla velocità della luce, riuscì a darle un colpo alla nuca e tramortirla. Astrid svenne e Aiolia la portò via. «Mi occuperò io di Astrid. Neera, ritieniti sotto la mia protezione».

Milo
Il terreno ai tuoi piedi era pieno di cenere. Il vento ululava prepotente attorno a te smuovendoti vestiti e capelli. Un brivido scosse le tue membra. Conoscevi questo posto, era il corridoio di passaggio tra i due Mondi. Tu non avevi dimenticato niente della tua resurrezione e quel suono, quella sensazione che il terreno sotto di te si disfacesse, te la portavi impresse a fuoco nei tuoi sensi. Soprattutto nel tatto e nell’udito. Stavolta era l’olfatto a non rispondere. Non c’era odore di putrefazione. Ti guardasti attorno e la nebbia si diradò. I cadaveri decomposti si trasformarono in terra. Mano a mano che la nebbia arretrava scoprivi le lapidi del cimitero che un tempo ospitò anche il tuo vuoto sepolcro. Ma non era quel luogo, era la Tredicesima Casa, ridotta a un cumulo di macerie. I refoli di vento sollevavano coriandoli grigi e polveri tutto attorno a te. Fu così che scopristi di stare respirando i resti del Santuario.   
Apristi gli occhi e balzasti a sedere madido di sudore.
Ti portasti le mani alla fronte recuperando il contatto con la realtà. «Era un sogno, solo un sogno». Mormorasti a te stesso per tranquillizzarti. Ma era difficile. Ti alzasti, sentendo l’aria farsi pesante. Ti vestisti e uscisti. Salire fino all’Undicesima non ti era sembrato il caso. Non con Hyoga qui. Finché la Dea non avesse deciso di tornare a Tokyo non avresti potuto fare alcunché. 
Visto che non avevi niente da fare, ti vestisti e decidesti di fare una camminata a passeggiare per il Santuario. I confini erano abbastanza larghi, una ventina di chilometri e coprivano un’area che andava dalla costa fino alle montagne. L’Acropoli era solo la porta d’ingresso.
Oh, come avresti voluto tornare all’isola che ti aveva dato il nome. Lì sì che stavi bene. Se solo questa situazione si fosse risolta in fretta.
Forse ti avrebbe fatto bene scendere alla spiaggia. Ma, per quanto bella fosse, non sarebbe mai somigliata a quelle della tua isola. Quell’isola che quando c’era il sole illuminava l’acqua. L’isola con quel paesino di pescatori dove avevi preso casa. L’isola che ti evocava le atmosfere rilassate di Down under dei Men at Work o di I won’t let the sun goes down on me di Nick Kershav. Nonostante le tematiche trattate. Che c’erano delle volte che ti sentivi rilassato nella tua bella isoletta, a guardare le onde del mare o a prendere il sole in spiaggia, in tempi di pace. Checché ne dicessero le persone, tu eri più rilassato di quanto sembrassi.
La spiaggia di notte fa un effetto molto diverso, soprattutto in primavera. Soprattutto qui, al Santuario. E ora era troppo tardi per mescolarsi alla movida ateniese che cominciava a ripopolarsi di turisti. Di fumare non se ne parlava, di sbronzarti ancora meno e di vedere paesaggi naturalistici che, nell’ombra della notte sembravano appartenere a un’altra realtà, non ti sentisti.
Quella sera, con la coda dell’occhio, mentre uscivi, scorgesti una luce per i sentieri delle montagne. Sulle prime avevi pensato di esserti sbagliato, ma, guardando bene c’era davvero. Così, la seguisti.
In breve tempo, dopo aver risalito le Case, ti ritrovasti a passeggiare sui sentieri impervi. Avresti potuto placcare il fuggiasco in un battibaleno ma non lo facesti. E non solo perché a un tratto lo perdesti di vista. «Maledizione». Borbottasti infilandoti una mano nella chioma prima di cominciare a frugare la montagna in lungo e in largo.
Erano le tre del mattino quando ti arrendesti, anche se per niente stanco. L’ addestramento ti aveva reso molto più resistente di una persona comune. E volevi trovare l’idiota che si aggirava per le montagne a quest’ora. Era sicuro come l’oro che non fosse uno dei vostri sottoposti, nessuno metteva mai piede tra le montagne di notte. Neanche gli Specter furono così avventati.
Sulla via del ritorno, quando ormai ti eri convinto di esserti immaginato tutto, scorgesti la luce. O meglio, a farti voltare in quella direzione, fu l’odore di legna bruciata.
Seguendo quell’odore vedesti anche la luce rosseggiare tra le rocce situate una decina di metri più in alto, vicine al sentiero. “Ecco perché è sparita”. Pensasti. Dopodiché la seguisti e, fu così che trovasti una piccola conca circolare tra le rocce e il terreno, dove era pure riuscita a crescere l’erba e qualche arbusto, dal diametro di circa cinque metri. Lo spiazzo non era completamente pulito, infatti c’erano molte rocce di varie dimensione a rendere il terreno molto simile a un percorso a ostacoli. Tra cui, vedesti, un tavolino di quelli pieghevoli con tanto di sedia sotto un’altra cerata.
Una grossa roccia piatta a tre metri dal focolare fungeva da tavola e, anche da pedana. Era addossata alle altre tramite altre rocce più piccole.
Il centro esatto era illuminato da un falò che risplendeva nella notte scoppiettando e mandando scintille al cielo. A un metro di distanza c’era una cerata sistemata su un’impalcatura che fungeva da tenda di fortuna per Astrid. La ragazza era seduta sotto la tenda ed era illuminata dalla luce del focolare e da quella, più vicina, della lucerna.
Il fuoco sospettavi l’avesse acceso per scaldarsi, nonostante la giacca a vento e i vestiti pesanti che indossava. E come darle torto? La notte era molto fredda a quest’ora. Però non ti aspettavi che Astrid, zitta zitta, avesse costruito tutto questo. A te invece questo privilegio, durante l’addestramento, non ti fu neanche concesso, ricordi? Dovevi diventare uno scorpione in tutto e per tutto, secondo quel pazzo del tuo maestro. Lo prendesti come una sfida e come un gioco, nonostante il dolore dell’allenamento e del veleno dello scorpione che ti veniva iniettato nelle vene per aumentare la tua resistenza. La sfida consisteva nel resistere fisicamente e assorbire il veleno nel Cosmo, per rilasciarlo poi nella Cuspide Scarlatta. Solo adesso riuscivi a vederne la crudeltà e l’estremismo. Non avevi avuto neanche il conforto di un riparo, né uno zaino come quello che lei si era portata dietro e che ora era adagiato alla sua destra. Ti prendesti la mano destra nella sinistra e la massaggiasti come tante volte avevi fatto nella tua infanzia per lenire il dolore.
Tornasti a guardarla e assottigliasti gli occhi: cercava di aggiustare un cannocchiale? «Oh». Ti sfuggì sorpreso, quando realizzasti che cosa si trattasse.
Lei trasalì e drizzò la testa di scatto smettendo di armeggiare. Gli occhi grandi e spalancati.
Poi ti riconobbe e si rilassò. «Mi hai spaventato». Ti accusò. Ti ficcasti le mani nelle tasche della giacca. «Scusa, pensavo mi avessi sentito arrivare».
«No, non ti avevo sentito, come sapevi che ero qui?»
«Non lo sapevo, ho solo visto una luce e l’ho seguita. É bello, qui». Dicesti, tanto per dire qualcosa, dopo aver lasciato vagare lo sguardo sul panorama.
«Grazie e scusami, non era mia intenzione allarmare il Santuario».
«Non hai allertato nessuno a parte me. Sembra quasi lo Star Hill». Commentasti. Quasi, eh.
Un sorriso divertito le curvò gli angoli della bocca: «Perché, ci sei stato?»
«No, io», sentisti le tue guance scaldarsi mentre ti raddrizzavi e ti cingevi una gamba con un braccio, «non sono degno di salirci. Solo chi ne è degno e il Grande Sacerdote possono scalare quella montagna e scrutare il moto degli astri. Tu invece, cosa ci fai qui?» Ti rispose che veniva a osservare le stelle. Visto che neanche lei poteva salire sullo Star Hill si era dovuta accontentare. E poi non poteva tenere gli attrezzi nella sua stanza. Ah, quindi era a questo che servivano le sue gite domenicali? «Perché non puoi?» Lei ti spiegò perché e aggiunse che: «Mi serve una visuale a trecentosessanta gradi. Questa conca è perfetta, le rocce poi riparano dalla corrente».
«Non ci potresti venire di giorno?»
«Di giorno non ci sono le stelle. Vengo qui anche per fare il conto non delle stelle, quelle non posso contarle, ma delle costellazioni, così posso capire chi c’è ancora e…» La voce le morì in un decrescendo.  
«Ho capito ma non potresti lavorare a queste cose di giorno?» Ti rispose che di giorno lavorava come ancella e anche per Shura e Saga. Disse anche qualcosa sui colleghi che lasciasti perdere. Ma restasti di stucco quando disse che Kanon avrebbe potuto buttare all’aria il Santuario se fosse sparita. Che esagerata! Ma ora non avevi voglia di parlarne. «E così te la svigni».
«Sì e no». La guardasti confuso e lei spiegò, più chiaramente: «Non so se si possa definire svignarsela cercare un po’ di tempo per sé stessi o un posto in cui starsene un po’ in pace. E poi non sono mai uscita dai confini del Santuario per cui, non credo che il mio sia uno svignarsela a tutto tondo. Credo che somigli più a un uscire in giardino». Alzò le spalle.
«Alla faccia del giardino!»
«Eh, che pignolo, vieni qua sotto che c’è la guazza». T’invitò poi accennando all’impalcatura con la cerata a fare da tetto, rischiarata dalla lanterna. «Dai che se no ti becchi il raffreddore». Aggiunse a fronte della tua occhiata scettica. Come se tu avessi dovuto avere paura di un po’ di muco o del naso tappato. Però non ti costava niente accontentarla. Dopotutto erano sere che non avevate una conversazione civile. Perciò obbedisti, anche se dovesti abituare la vista al chiarore della lampada a olio. C’era anche un bel tepore qui sotto, vero? “Non tanto, dovrebbe sistemare meglio la tenda, sento uno spiffero alle zone basse”. «Fai attenzione, per favore, c’è tutta la mia roba sparsa in giro». Si raccomandò. Parlaste un po’della questione di Neera e volle sapere cosa ne pensassi. Le dicesti la verità. Secondo te aveva esagerato, però era stato un bello spettacolo: non avevi mai visto il gattaccio tanto in difficoltà. Avrebbe dovuto farlo più spesso. Ma se c’era anche solo un filo di verità nelle sue convinzioni, allora doveva impegnarsi per dimostrarlo e non così. Non le facesti la paternale, non ne aveva bisogno e non t’importava.
Ti dette ragione. Poi tornò ad armeggiare col cannocchiale. Osservasti i suoi movimenti e poi le domandasti che cosa stesse facendo. «Sto cercando di regolare le lenti, purtroppo quando ci guardo dentro vedo tutto sfocato; ed è già un miglioramento, prima non si vedeva niente, ora spero che con questo ci riuscirò».
«Non sei molto brava a costruire cannocchiali, eh?» La prendesti in giro. Curvò la bocca in un sorrisetto divertito. «No, in realtà per niente, è la prima volta che ci provo». La guardasti stupito. Adesso si spiegava perché fosse così rozzo alla vista. Non male ma tu, sì, tu, non fare il gradasso, tu non avresti neanche saputo da che parte cominciare.
«Lo so che non è un granché, ma piano piano conto di sostituire i pezzi e renderlo decente».
«Comprarsene uno no?» Domandasti sistemandoti sul fianco.
Lei alzò le spalle mentre continuava ad armeggiare con il cannocchiale. «Avevo chiesto di usare la Bronze Cloth del Telescopio ma non mi hanno ascoltato». E così si era arrangiata. Chiedesti se potevi fare qualcosa per aiutarla e lei disse di no, poi ci ripensò. «Dammi una mano a collaudarlo quando ho finito». Ribatté continuando ad armeggiare con l’oggetto. Quando finì uscì dalla tenda. La imitasti e seguisti le sue istruzioni. Le raddrizzasti il treppiedi e glielo apristi. Poi lei ci posò sopra il cannocchiale e, mentre lo assicurava sull’impalcatura, finalmente comprendesti: «Ma è un telescopio!» Un sorriso divertito per la serie: “Finalmente ci sei arrivato”, curvò la sua bocca. «Perché non me l’hai detto subito?»
«E perdermi quest’espressione sbigottita? Giammai». Rise. Incassasti scoccandole uno sguardo severo. Tornasti a guardare lo strumento, confuso e le chiedesti dove avesse trovato il tempo e i materiali. Ti rispose che era successo poco prima di portare Saga in terapia. E che Mur e Lancelot l’avevano aiutata. Aveva faticato moltissimo a trovare le lenti giuste. Che i suoi le avevano insegnato a costruire questi e altri oggetti. «A proposito, di giorno quando ho un momento libero, preferisco ripassare tutto quello che so sull’astronomia. Meno male che la biblioteca della Tredicesima è molto fornita, peccato che sia...» cercò il termine giusto, «datata».
«Datata?»
«Sì, datata, per esempio non ha Le mie risposte alle grandi domande di Stephen Hawking o Dal Big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, sempre dello stesso autore, oppure L’altra faccia dell’universo di Luca Amendola, ma anche l’Atlante di astronomia.  Pensa che sto ancora aspettando che escano i volumi di mio nonno».
«Tuo nonno scrive libri? Non sapevo che gli astrofisici li scrivessero».
«Più che altro dissertazioni, dispense e appunti. L’ultima volta che l’ho sentito aveva detto che stava lavorando a una nuova  raccolta; l’aveva intitolata Scrigni del Tempo. Credo che fosse una raccolta su uno scrigno di pianeti e qualcosa sulla teoria delle stringhe e della relatività».
«Eh?» Domandasti, adesso completamente smarrito. Di che diavolo stava parlando?
Astrid si girò a guardarti e scoppiò a ridere, divertita: «Hai la stessa faccia di Saga quando mi metto a ripassare tutto quello che so. Devi sapere che esistono fenomeni spaziali noti come scrigni di gioielli e scrigni di pianeti. Gli scrigni di gioielli sono ammassi stellari aperti, come quello NGC Quattromilasettecentocinquantacinque presente nella costellazione della Croce del Sud. Se fossimo nel punto giusto del globo e, avessimo gli strumenti adeguati, te lo farei anche vedere, ma dovremmo accontentarci».
«Quindi gli scrigni di pianeti sono...»
«Per spiegartelo dovrei ripartire dalla Costellazione del Toro che, per nostra sfortuna, non è visibile in questa stagione».
«Sembra lungo». Commentasti.  
«Ma è abbastanza interessante». Ti assicurò con occhi brillanti. In realtà non te ne importava quasi nulla ma già che c’eri, decidesti di sentirla. Anche perché lei sembrava non stare più nella pelle per parlartene. Lei ti fece cenno di avvicinarti mentre regolava il telescopio.
Obbedisti, roteando gli occhi: «Ebbene miliardi di anni fa, il nostro Sistema solare era un turbinio di gas e polveri che ruotava intorno al nostro Sole appena nato. Nelle fasi iniziali, questo cosiddetto disco protoplanetario non aveva caratteristiche specifiche, ma presto parti di esso iniziarono a fondersi in gruppi di materia, i futuri pianeti. Con il tempo il disco polveroso lasciò il posto alla disposizione relativamente ordinata che noi conosciamo oggi. Questo scenario di formazione del nostro Sistema solare è stato ricostruito dagli scienziati in base alle osservazioni di dischi protoplanetari attorno ad altre stelle, abbastanza giovani da essere in questo momento nel processo di formazione planetaria. Utilizzando A.L.M.A.».
«Utilizzando che?» Domandasti cercando di seguire il filo dei discorsi.
«É l’acronimo di Atacama Large Millimeter Array, è un radiointerferometro situato a cinquemila metri d’altitudine nel deserto di Atacama in Cile, è stato costruito sei anni fa. É uno strumento astronomico derivato da più radiotelescopi che serve a determinare posizione e struttura geometrica e fisica delle radiosorgenti».
«Radio, per caso funziona con le onde radio?» Domandasti, sperando di averci azzeccato. Tu l’unica cosa che sapevi legata alla radio era quella a transistor che avevi portato al mercatino dell’usato prima che cominciasse tutta questa storia.
«In definitiva sì, le osservano. Dicevo, è composto da quarantacinque antenne radio e situato nel deserto di Atacama in Cile, che nome per un telescopio, eh? Il gruppo di ricercatori ha eseguito un’analisi di giovani stelle nella regione di formazione stellare del Toro, una vasta nube di gas e polveri situata a quattrocentocinquanta anni luce da Terra. Ora sia chiaro, con questo telescopio non pretendo di arrivare a vedere così lontano, ma a mostrarti qualcosa di altrettanto stupefacente sì, con un po’di fortuna. A parte questo, osservando l'emissione della polvere di trentadue stelle circondate da dischi protoplanetari, i ricercatori hanno scoperto che ben dodici mostrano anelli e divisioni, strutture che hanno interpretato come tracce dalla presenza di pianeti nascenti. Scrigni di pianeti. «Solo che mentre alcuni dischi protoplanetari appaiono uniformi, come dei "blob" privi di strutture interne, in altri erano già stati osservati anelli luminosi concentrici separati da divisioni. Poiché gli studi precedenti si erano concentrati sulle stelle giovani più brillanti, che sono le più facili da osservare, non era ancora chiaro quanto questi dischi con strutture ad anelli fossero davvero comuni nell'Universo. I risultati di questa ricerca sono quindi i primi a essere statisticamente significativi proprio perché i dischi oggetto delle osservazioni sono stati selezionati indipendentemente dalle loro proprietà. Ora, studiando le caratteristiche degli anelli e delle divisioni osservate con A.L.M.A. alla ricerca di possibili spiegazioni alternative, gli scienziati hanno potuto escludere che tali strutture potessero essere il risultato di effetti dipendenti dalle proprietà stellari, come ad esempio le ice lines, confermando quindi la presenza di pianeti appena nati quale origine più probabile di queste affascinanti formazioni. I calcoli effettuati. per avere un’ idea della tipologia di pianeti che potrebbero formarsi nella regione di formazione stellare del Toro, hanno dimostrato che gran parte degli anelli sembrano causati da pianeti gassosi delle dimensioni di Nettuno o delle cosiddette super-Terre. Solo due dei dischi osservati potrebbero potenzialmente ospitare pianeti giganti come Giove. Secondo una ricercatrice in dischi protoplanetari strutture come anelli e cavità, cioè gli spazi vuoti, sono molto comuni e, le strutture osservate nel Toro, dovute alla presenza di pianeti di piccola massa, operando insieme ad altri processi, producono queste affascinanti strutture. Un collega dei miei aggiunge che l'osservazione della morfologia dei dischi potrebbe affermarsi come una nuova metodologia per rilevare la presenza di pianeti attorno a stelle giovani, complementare agli studi sui pianeti extrasolari che in genere si concentrano su stelle adulte, dell'età del Sole. Inoltre questo metodo permette di osservare pianeti altrimenti non rilevabili, in quanto troppo poco massicci e troppo lontani dalla loro stella
«
Ho letto che in futuro, il gruppo di ricerca intende modificare la collocazione delle antenne di A.L.M.A. per ottenere una maggiore risoluzione e osservare strutture su scale dell'ordine della distanza Terra-Sole, rendendo le antenne sensibili a grani di polvere più grandi, ci pensi?» Domandò entusiasta, guardandoti di nuovo. Forse dimentica che per te queste informazioni erano solo arabo. Eppure l’aveva raccontato in un tono talmente entusiasta che era riuscita a stupirti. Non pensavi che bastasse così poco per vederla tanto eccitata. «Non immaginavo che una domanda così semplice richiedesse una risposta tanto articolata».
Lei rise divertita poi tornò seria e si offrì: «Se c’è qualcosa che non hai capito provo a rispiegartelo».
«Eh, in realtà mi dovresti rispiegare quasi tutto». Ammettesti confuso e imbarazzato. Lei ridacchiò e ti accontentò, parlando più terra terra. «Che cosa sono le ice lines?» Domandasti poi. Questo termine ti aveva preso da subito. «Puoi anche chiamarle limite della neve. Identificano la particolare distanza dalla giovane stella centrale all’interno di una nebulosa protoplanetaria, in cui la temperatura è sufficientemente bassa da permettere ai composti contenenti idrogeno, come acqua, ammoniaca e metano, di raggiungere lo stato solido». Il cuore dette un colpo più forte degli altri. “Camus.” «La locuzione è presa in prestito dalle scienze della Terra, indica la profondità alla quale solitamente una falda acquifera si suppone congeli; profondità di congelamento o...»
«Frost line». Mormorasti. Ora capivi perché il Gold dell’Undicesima padroneggiasse le tecniche del ghiaccio.
Ma se Astrid sapeva queste cose e aveva questi poteri allora… «Quindi potresti persino replicare le tecniche di Aquarius?» Domandasti a metà strada tra lo speranzoso e il preoccupato. Da un lato ti sarebbe piaciuto che anche lei le conoscesse, dall’altro, volevi conservare il ricordo di Camus.
Improvvisamente ti sentisti in colpa nei suoi confronti. Come avevi potuto sperare di trovare qualcosa di Camus in lei? Il senso di colpa si trasformò in vergogna e sentisti il bisogno di andartene. Ma qualcosa ti fermò: non potevi piantarla in asso. Vi trovavate entrambi sulle montagne che circondavano il Santuario. Non erano sicure di giorno, figuriamoci di notte. E se fosse caduta? E se si fosse persa? Impossibile, non era un’imbecille.    
Cominciasti a pensare a delle scuse per levare le tende da lì. Questa conversazione stava diventando troppo pesante per i tuoi gusti. «Ho i miei dubbi». Rispose dubbiosa. La risposta ti spiazzò.  «Perché?» Chiedesti.
Appoggiò una mano sul telescopio. «Per prima cosa non so neanch’io l’esatta portata dei miei poteri, seconda cosa, non m’interessa e, terza cosa, la mia sembra essere più magia che una tecnica. Per replicarla mi serve di diventare la Gold Saint di Aquarius».
Te la immaginasti in Armatura e non che le stesse male, ma puntava parecchio in alto: «Ma non è mica necessario, basta anche essere un Bronze Saint, come il Cigno o la Corona Boreale». Ridacchiasti.  
«Ah, sì? Non lo sapevo, comunque, guarda un po’e dimmi se non è uno spettacolo affascinante».
Guardasti anche tu e non potesti trattenerti dall’aprire la bocca, stupito. Stavi osservando una stella in tutto il suo splendore. Non immaginavi che quei puntini biancastri fossero composti da così tanti colori. Bianco, giallo, rosso e azzurro con tocchi di verdi che si mescolavano tra loro come lingue di fuoco. La corona dorata.
Era come se Astrid ti avesse mostrato il buco della serratura da cui potevi intravedere tutto l’Universo. Pura perfezione, poesia assoluta. Non avevi mai pensato di indulgere in questi piaceri, di fermarti un attimo e di scrutare il cielo per il semplice gusto di farlo. Neanche da piccolo. Eri troppo distrutto per arrivare a sera senza crollare addormentato e, anche di sera non era facile, considerato che di notte, fa freddo ovunque ci si trovi. Specialmente se il tuo addestramento avviene all’aria aperta. In quei momenti puoi fare quello che vuoi, ma le stelle saranno le ultime cose che guarderai.  «Oh, ma è…»
«Bellissima, vero?» Domandò orgogliosa, neanche l’avesse creata lei. Convenisti con lei, ancora in tono estasiato. Ora riuscivi a capire perché avesse sempre il naso per aria e perché uscisse di notte. Non pensavi che una singola stella potesse essere tanto bella. Se una era così, allora chissà com’erano tutte le altre.
«Dammi una mano a spostare il telescopio che ti faccio vedere un’altra cosa». Ti staccasti da quella visione e le desti una mano a spostarlo. Più volte doveste modificare l’angolazione e lei dovette controllare che si vedesse bene. Poi si fermò sopra una roccia piatta e abbastanza grande per ospitarvi entrambi. Adesso eravate talmente concentrati che il vento che spirava dolcemente passarono in secondo piano.
Quando controllò di nuovo si aprì in un sorriso soddisfatto: «Sì!» Poi si tolse e ti cedette il posto.
Così tu ti ritrovasti a guardare la stella più strana che avesti mai visto. Che diavolo era? Perché sembrava tagliata a metà? «Che cos’è?» Chiedesti perplesso.
Lei ti rispose sorridente: «Saturno».
Sgranasti entrambi gli occhi avendo per un secondo la bizzarra visuale del pianeta e della notte circostante. Chiudesti un occhio. «Sul serio?» Domandasti, la voce permeata del suo stesso entusiasmo, girando la testa verso di lei. Era la prima volta che avevi l’occasione di vedere un pianeta del Sistema Solare così da vicino. Non che fosse mai stato un tuo sogno, eppure, sentisti il bisogno di continuare a osservare e osservare ancora. Oh, ma in che mondo eri vissuto finora?
«Oh, sì». Sorrise, poi sentisti il suo sorriso scomparire dal suo tono di voce, quando parlò in seguito: «Mi dispiace solo che il mio telescopio sia così rozzo; con uno normale non avrei tutti questi problemi». 
«Non fa niente, tanto ci vedo ancora bene». Per fortuna non avevi bisogno di chinarti troppo per guardare nel telescopio.   
«Sei sicuro?»
«Assolutamente, ho una vista da falco. Perché sembra che sia tagliato?»
«Oh, a seconda della sua posizione lungo l’orbita solare, gli anelli si mostrano sotto angolazioni diverse, per la combinazione dell’inclinazione dell’asse del pianeta e della sua orbita rispetto alla nostra. Per due volte, durante la rotazione di Saturno attorno al Sole, gli anelli ci appaiono di taglio e, poiché sono davvero sottili, scompaiono alla vista». La guardasti e ti accorgesti che i suoi occhi brillavano di scaltrezza, come se non avesse ancora finito. Infatti se ne uscì con un sorprendente: «Quello che non sai è che Saturno è a colori». Le facesti eco a metà tra lo stupito e il “perché, dovrebbero essere in bianco e in nero?” «Non vivaci come quelli di Giove, però è caratterizzato da sfumature tenui. Le bande sono meno marcate, forse per la minore frequenza di formazioni nuvolose che si generano a maggiore profondità o per la presenza di idrocarburi negli strati più esterni. Comunque dovrebbe essere azzurro con bande rosse tenui e gialle, tutte sfumate e gli anelli sembrano d’oro». Non immaginavi che fosse così.
Una gelida brezza soffiò in quel momento, costringendola a stringersi nei vestiti pesanti. A te non disse niente. «Io conosco soprattutto la mitologia, neanche troppo bene, a essere sinceri». Ti avevano insegnato a riconoscere la stella polare. Non che ti servisse altro, l’isola di Milo era pur sempre un’isola di pescatori in mezzo al mare. Poi non esisteva che un Gold si perdesse.  
«É una buona cosa». Ti sorrise incoraggiante.
Scoppiasti in una risata amara: «Non saprei, per me queste leggende sono reali. Tornano utili, se per caso un giorno ti capita di dover affrontare il Minotauro, o chissà quale altro mostro. Ma nella vita di tutti i giorni…» Alzasti le spalle.   
«Non è inutile è pur sempre qualcosa da raccontare. Lo sai? Se avessi deciso di terminare gli studi, probabilmente al quarto anno io mi sarei data alla divulgazione scientifica».
«Ti ci vedo, saresti stata molto brava». Un’ombra passò sul suo volto. Non era questa la reazione che ti saresti aspettato. Facesti per aprire bocca e domandarle se stesse bene, magari dirle che non intendevi offenderla, ma lei ti sorrise di nuovo: «É la stessa cosa che mi dicono anche i miei ragazzi».
«I tuoi ragazzi?» Ripetesti confuso. Ti spiegò chi fossero, i ragazzini cui dava ripetizioni. «Oh, si usa ancora studiarle?» Chiedesti sorpreso. La Divina Atena aveva fatto le cose in grande se l’aveva trasformata in una scuola a tutto tondo. Prima tutto questo non ti aveva mai sfiorato la mente, adesso invece non facevi che pensarci. «Perché, tu non le hai studiate?» Domandò andando a riavvivare il fuoco.
«Un po’ così. Credo di avere appena la licenza elementare, ma per quello che mi può servire mi basta. Dopo tutto noi Saint abbiamo una vita abbastanza semplice, ci accontentiamo di poco». Spiegasti portandoti una mano sul fianco e alzando gli occhi alla stellata lucente.
Il rumore del ciocco che veniva gettato nel falò ti fece voltare verso di lei. Si occupò del fuoco finché non tornò a risplendere di una bella fiamma viva. Il chiarore non riusciva a raggiungervi, perciò la visuale era ancora buona. Il calore poi, ti arrivava a malapena. «Allora è già tanto, ti ricordi com’era la scuola?» Ti chiese scaldandosi un po’ al tepore delle fiamme scoppiettanti.
«Dura, non so come sia adesso, ma i nostri insegnanti erano molto severi con noi. Soprattutto con noi dodici. Ognuno di noi è stato allevato e istruito da un maestro in vari angoli del globo. Io per esempio, sono stato addestrato nella mia isola natia, l’Isola di Milo, che mi ha dato il nome. La maggior parte del nostro addestramento è tutta improntata a farci sviluppare il Cosmo e raggiungere il Settimo Senso il prima possibile. Al mio non importava granché che io avessi una cultura, si limitava a lasciarmi qualche ora libera tra un pasto e l’altro perché potessi svagarmi e giocare un po’. É stato solo dopo aver conquistato la mia Cloth che sono potuto venire qui e imparare qualcos’altro e, comunque, non sarei capace di fare calcoli complessi. Quelli spettano solo ai Cavalieri di Aquarius e di Gemini».
«Perché?» Chiese tornando da te e girò il telescopio in un’altra direzione, prima di tornare a osservare. Ti fece capire che continuava ad ascoltarti. «Perché il primo manipola le energie fredde e, per forza di cose, deve studiare fisica per riuscirci. Il secondo per riuscire a sfruttare le tecniche come l’Another Dimension, deve approfondire i suoi studi. Con Saga e Kanon, per esempio, potresti parlare tranquillamente di fisica e astrofisica senza problemi. Con me e gli altri, no, a meno che non t’interessi sentirmi parlare in lingue diverse».
Lei fischiò, ammirata. Poi chiese: «Quindi per sfruttare le vostre tecniche vi basate su una disciplina?»
«Boh? Non ne ho la più pallida idea. Se devo essere onesto credo che tutti siamo stati addestrati almeno alla biologia e all’anatomia umana e a calcolare. I più bravi erano Mur e Shaka». Le spiegasti chi fosse quest’ultimo.
Un ricordo sbiadito ti balenò in mente. Ti accigliasti e ti prendesti il mento tra pollice e indice. «Però… mi ricordo che c’era un aspirante Saint, che ci ha insegnato i rudimenti della matematica. Non ricordo più la sua faccia, è passato tanto tempo. Ricordo solo che ero la sua dannazione perché non riuscivo neanche a fare un’addizione decentemente e, spesso l’avevo fatto dannare perché marinavo le sue lezioni». Un sorriso divertito incurvò la tua bocca e, Astrid, a giudicare dalla sua espressione divertita, non ebbe alcuna difficoltà a crederti. «Credo che fosse un aspirante Gold Saint perché, anche quando usavo la velocità della luce per sfuggire alle sue grinfie mi anticipava sempre e riusciva catturarmi».
«Sempre da solo?»
«Sì, per quello che ne so. Ricordo di aver provato a carpire il suo segreto ma di non esserci mai riuscito, era come se fosse dappertutto. Mi domando se non fosse una sua peculiarità o una sua tecnica». Già, i primi tempi finiva sempre che ti caricava in spalla come un sacco di patate e ti costringeva a tornare a studiare sotto le risate di Aiolia. Eravate stati costretti a studiare insieme tutte le estati che i vostri maestri vi portavano al Santuario per discutere dei vostri progressi.
E inevitabilmente, finivate tra le grinfie di quest’aspirante Saint che, non solo provvedeva a fornirvi l’istruzione che vi mancava, ma anche a riacchiapparvi. Le tue convinzioni si rafforzarono perché ripensandoci, ignorava le tue proteste: “Io sono un Gold Saint! Io sono il Gold Saint dello Scorpione! Lasciami! Mettimi giù! Mi devi il rispetto che mi merito!” Ricordi come ribatteva? “Ah, sì? Molto piacere. Sarai anche un Gold Saint ma sei ancora un bambino e come tale ti tratto”.
“Non è vero! Tu sei cattivo! Solo perché sei grande e grosso non significa niente! Io posso distruggerti solo con un dito”. Lo minacciavi sputacchiando a causa della finestrella tra i denti da latte.
Ma queste parole non gli facevano né caldo né freddo. “Sì e poi hai pensato a cosa dire al Vecchio Shion? Perché è stato lui a incaricarmi di darvi un’istruzione e non me ne andrò finché non avrò completato il mio lavoro. Inoltre non credo che sarà felice di sapere che hai ucciso il tuo maestro e compagno d’arme. Non lo sai che è proibito per legge?” Era riuscito a zittirti. Non avevi trovato scappatoie e ti eri dovuto arrendere.
Tuttavia era una brava persona perché, pur di non farti perdere la faccia, ti metteva giù e ti spronava a camminare davanti a lui.
La cosa buffa era che più che le facce ti ricordavi il paesaggio. Le giornate di sole, il candore delle rocce e l’intensità dell’azzurro risaltato per contrasto.  «Non ne ho mai parlato con il Venerabile Shion». Facesti poi, riemergendo dai tuoi ricordi e lei si fece da parte per permetterti di scrutare a tua volta. Stavolta, stavi osservando, una stella strana. Non riuscivi a capire bene. Ti togliesti dal telescopio e battesti le palpebre, poi tornasti a guardare.
«Il telescopio ha qualche problema?» Chiedesti. 
«No.» rise prima di spiegarti che stavi guardando: «α Canum Venaticorum, Cor Caroli per fare prima. Benché entrambe appaiano bianche, alcuni osservatori hanno riscontrato tenui sfumature di colore. Forse a causa della composizione chimica inusuale della più luminosa. Invece il nome Cor Caroli significa Cuore di Carlo, in onore a Carlo I d’Inghilterra. Credo che sia una nana bianca». Aggiunse poi, pensierosa. Le chiedesti cosa fosse. «Eh, se mi chiedi questo dovrei attaccare a spiegarti tutto per filo e per segno, non so quanto possa interessarti».
«Come, ti sei già stufata di parlarmene?» Scherzasti sorridendo. E lei ribatté allegra che aveva anche lei qualche domanda. «Davvero? Pensavo che una come te non ne ponesse. Sai, la lettura della mano e tutto il resto». Spiegasti gesticolando. Lei tacque due secondi per l’imbarazzo prima di porti la prima, incuriosita: «Perché credi di non sapere niente?»
«Non è ovvio? Non potrei mai rivaleggiare con te, che sembri sapere tante cose e mi domando come fai».
«A me è sembrato che come oratore non te la cavassi poi così male. Salta fuori una persona completamente diversa quando parli, sai?»
«Cerco sempre di evitare inutili spargimenti di sangue. É un compito ingrato per molti affrontarci.» spiegasti, senza nascondere la tua pietà. In fondo eri una persona misericordiosa. Continuò a sorriderti con quell’espressione dolce. Poi domandò: «Sei davvero sicuro che non ci sia alcun punto di collegamento tra me e te, dal punto di vista del sapere?» Confermasti e le domandasti se volesse chiederti altro. Ti chiese quanti anni avessi quando diventasti un Gold Saint. «Sei». Rispondesti spiccio. Non amavi parlarne. Non che qualcuno te l’avesse mai chiesto.
Spalancò gli occhi inorridita, poi se ne uscì con un impacciato: «Io a sei anni guardavo ancora i cartoni». Che ti strappò una risata divertita. Saggiasti il nome della stella: «Canum Venaticorum. Il Cane Minore, non era uno dei due cani di Orione?»
«Proprio lui, il Cane Maggiore è vicino a lui e Orione…»
«Orione che fu punto dallo Scorpione e assunto nel firmamento; invece, secondo un’altra leggenda, pare che fosse innamorato di un gruppo di ninfe, le Pleiadi, che, per sfuggirgli, si tramutarono in colombe e ascesero al cielo. Se fossimo ancora a dicembre o a gennaio te le indicherei». Dicesti.
«Tuttora, a causa della rotazione terrestre, la costellazione di Orione pare rincorrere le Pleiadi». Completò e ti sorrise. «Vedi che qualcosa sai anche tu?» “Cosa?” Pensasti stupefatto. Quella fu la prima grande lezione che t’impartì, ossia che tutto è collegato. Continuaste a parlare ancora a lungo. Fu felice di condividere con te le sue conoscenze. Aveva un modo caldo di spiegare le cose, come se cercasse di tenere sempre attiva la tua attenzione. Addirittura a volte, ti spiegava quello che non capivi tramite paragoni con le leggende. Oppure le tracciava su un bloc notes che aveva estratto dallo zaino, quando eravate scesi dalla pedana a ravvivare il fuoco. Lì vi eravate scaldati, avevate bevuto dal termos e ti aveva spiegato quello che non capivi. Rideva con te quando ti scappava qualche battuta.  
Fino a questi momenti avevi mai pensato che materie come quelle che la sua disciplina abbracciava potessero essere così interessanti.
Gli unici momenti che vi fermaste fu per bere un po’ d’acqua che si era portata dietro dal Santuario.
Per la prima volta la vedesti felice e nel suo Elemento. Brillava di felicità, gliela leggevi negli occhi.
Anche se a volte dovevi aiutarla a trovare i termini giusti nella tua lingua vi divertiste. A un certo punto lei tirò fuori il telefono per vedere che ore fossero e quando leggesti anche tu ti accorgesti che era tardi. «Devo completare il giro». Ti scusasti, sperando che andasse comunque tutto bene. Che figura ci avresti fatto se un nemico fosse riuscito a infiltrarsi? «Capisco».
«Dovresti tornare alla Tredicesima». Le consigliasti. Lei sospirò e disse che lo sapeva.  
«Vuoi che ti accompagni?» Ti offristi nel tentativo di recuperare un po’ l’atmosfera che si era venuta a creare. «Non serve, ho ancora la lanterna, cambio l’olio e me la posso cavare anche da sola».
Sorridesti divertito. «Va bene. Buonanotte, Astrid».
«Buonanotte, Piattola».
«Ancora?» Sbottasti. Lei ti sorrise, affilata, ma senza cattiveria: «Sempre».
«Buonanotte».
«Piattola». Ti richiamò e ti girasti un’altra volta, con un sospiro. «Che c’è?»
«Volevo dirti che se vuoi puoi venire a vedere le stelle con me, tanto io la sera sono sempre qui, se non piove».  
«Grazie ci penserò, buonanotte».
«Buonanotte anche a te». Poi te ne andasti. Solo dopo ti rendesti conto che era riuscita a farti dimenticare le tue preoccupazioni. 

Shun
Avevi esaminato le foto dei corpi carbonizzati che ti erano stati mandate. Eri tornato a Tokyo in compagnia di Hyoga e Natasha per seguire una conferenza. All’inizio eri stato tentato di dirgli che potevano anche restare al Santuario. Se non fosse che Natasha non si era voluta separare da te. E Hyoga aveva accettato di venire. Con il senno di poi avevano fatto bene, visto quello che era successo.
In quanto Gold Saints avevate molta più libertà d’azione di prima. Per la verità voi eravate sempre stati più liberi degli altri, considerando la vicinanza alla Dea. La strategia di Kanon non la capivi ma se riteneva giusto lasciarvi tutta questa libertà allora andava bene.
Ma a cosa serviva?
Avevi scrutato tra i mondi e quello che avevi visto ti aveva lasciato sconvolto.
Lo scontro, le Case degli Astri che andavano recuperando i loro inquilini. Che diavolo stava succedendo? Cosa stava progettando la Dama degli Smeraldi? Avevi raccontato tutto a Hyoga e pure lui era preoccupato. Ancora di più per l’evidente tradimento di Camus e Shaka. Quelli non potevano essere loro.
Come avresti voluto chiedere consiglio a tuo fratello maggiore. Ma lui era scomparso chissà dove e al telefono non rispondeva. L’ultima volta che l’avevi visto era circondato da fuoco e fiamme. Sembrava una dimensione alternativa e stava combattendo con indosso la Shin Cloth ma non avevi potuto vedere granché.
Mettesti via il telefono e tornasti ad ascoltare il relatore della conferenza. Seduto al tuo posto in mezzo al pubblico, non potesti fare a meno di ripensare a ciò che stava succedendo. Un terzo delle città del mondo si era svuotato, quei pochi che restavano presto sarebbero morti.
Cercasti di pensare ad altro ma non ci riuscisti. Tutte quelle persone erano morte. I tuoi compagni d’arme stavano morendo sotto ai tuoi occhi. La cosa più triste, per un medico era proprio questa. Nonostante la tua laurea, i tuoi studi, tu eri impotente, neanche Hades poteva darti una mano. Il Dio degli Inferi stava zitto, ritenendosi estraneo.
Proprio allora sentisti il tuo telefono vibrare insistentemente nella tua tasca.  Lo estraesti e vedesti che era una videochiamata di Shiryu. Ti alzasti e, facendo attenzione a non inciampare nelle gambe dei presenti, abbandonasti la sala. Ti trovasti davanti Shiryu e Paradox. Non ti ci volle la scienza per capire perché avessero chiamato proprio te. Salutasti entrambi e poi, dopo avergli detto che eri occupato e che avevi al massimo dieci minuti, ascoltasti cosa volevano.
A fine del racconto sospirasti. «Ancora lo stesso sogno, Paradox?» Domandasti alla giovane allieva di Shiryu, percependo il suo tormento. Stavolta, piuttosto che restare a tormentarsi, aveva preferito chiederti aiuto. Anche se in wireless non potevi fare alcunché. Ma eri il Gold Saint di Virgo e, avevi già accumulato una discreta esperienza nel campo del misticismo. Per questo avevi accettato il caso di Paradox. «Sì, non fa che tormentarmi tutte le notti». Rispose angustiata. E ne aveva di motivi per esserlo. Non le era mai successo prima di fare un sogno ricorrente come questo. Ogni volta si aggiungevano dei particolari. Stavolta, si erano aggiunte anche la meridiana dello Zodiaco con le torce accese. Chiedesti cosa ne pensasse Astrid e lei rispose che non gliel’aveva ancora detto. «Sta cercando di aiutarmi a incanalare il mio dono come può e io sto cercando di aiutarla a capire come può funzionare il suo». Conoscendola era inutile domandarle perché non lo lasciasse fare a Kiki. Dopotutto Astrid aveva tantissimo in comune con i lemuriani. Se solo Paradox non fosse stata così gelosa delle persone cui si affezionava e amava. E dire che Kanon aveva approfittato della situazione per far sì che fosse Paradox stessa ad accompagnare Saga dallo psicologo. In quanto anche lei affetta dallo stesso problema, poteva comprendere in anticipo i segnali del ritorno di Arles e sconfiggerlo. Era un’ex Cavaliere d’Oro anche lei, dopotutto. Solo che la sua fedeltà non cambiava come la personalità. La cosa che ti sorprese fu che lei disse che secondo lei era un messaggio per qualcun altro. Solo che non sapeva per chi e perché lo stesse ricevendo lei. Era l’unica cosa su cui lei e sua sorella concordavano. «Forse perché il destinatario non riesce a riceverlo e quindi ripiegano su una persona sufficientemente forte per farlo». Ipotizzasti e mentre lo dicevi capisti che era così. «E con la mente in ricostruzione che ha, non mi sorprende affatto».
«Non lo so, magari è solo un sogno». Onestamente avevi i tuoi dubbi.
Percepisti un movimento davanti a te. Rialzasti lo sguardo e spalancasti gli occhi trattenendo il fiato per la sorpresa. Di fronte a te si era aperta una visione sull’altro mondo. Di solito le scorgevi dentro la nebulosa di Andromeda, che, da quando padroneggiavi il Settimo Senso, eri capace di sfruttare anche così. Ma questa era la prima volta che si apriva da sola.
Avesti la panoramica di Tokyo e un flusso di anime quasi lillà a contrasto con la notte. E poi una donna, appoggiata al muro a braccia conserte che osservava. Si accorse del tuo sguardo e si girò verso di te. I suoi occhi nocciola ti fissarono incuriositi. «Aida?» Ti sfuggì sgomento. Lei ti guardò come a dire: “Sì? Posso fare qualcosa per te?” Poi, al suo fianco vedesti volteggiare delle figure rettangolari e dorate grandi quasi quanto il suo busto e altrettanto alte. Ti ci volle un po’ per capire che cos’erano. Ti accorgesti che da quando l’avevi visitata era peggiorata. Poi la visione scomparve e tu tornasti alla realtà, dove le voci di Shiryu e Paradox ti chiamavano.
Non eri sicuro neanche tu di cosa fosse accaduto.

Quella sera a tuo fratello maggiore avevi solo detto che dovevi riferire un messaggio importante ad Astrid da parte di sua madre. Solo che non avevi detto quale. Ti eri limitato a dire che non erano cose belle.
Non te l’eri sentito di tornare al tuo appartamento, così eri andato a casa di Hyoga e Natasha.
Dopo che avevate messo a letto la bambina eravate tornati a parlare della Dama e Hyoga si era rabbuiato. Anche se ti aveva ferito vederlo così, non ci potevi fare niente. Natasha si era accorta del suo cambiamento di umore e aveva cercato di risollevargli il morale.
Hyoga ti versò da bere e tu lo ringraziasti distrattamente. «Che c’è, Shun? Sembri preoccupato».
«Stavo ripensando a quell’onda d’energia e alla Dama degli Smeraldi».
«Pensi che sia il caso di fare qualcosa?»
«Non lo so con certezza. Penso che sia il caso di tenere d’occhio Astrid e i superstiti della Guerra Sacra contro Mars e Pallas. Se la Dama sta cercando coloro che combatterono quelle battaglie allora anche noi siamo in pericolo». Hyoga annuì con aria grave: anche voi avevate combattuto al fianco di Kouga e delle nuove leve. Quello che non sapevate spiegarvi era come mai la Dea avesse permesso alla Dama di uccidere Kouga. Quando eravate accorsi l’avevate trovata in lacrime accanto al capezzale del giovane Pegasus. I funerali si erano tenuti da poco e voialtri vi eravate radunati per assistere. Persino Yuna, Apus (in sedia a rotelle), Raki, Kiki, Paradox, Integra, Sirrah e Ionia erano venuti al funerale. Per quanto riguardava Souma e molti allievi della Palaestra dispersi eravate convinti che fossero morti.
Era stato Hyoga, mesi prima, a mettersi sulle tracce degli altri compagni di Kouga di Pegasus. Ed era sempre stato lui a trovarne le tombe grazie all’aiuto di Mama, la sua amica trans poliziotta. Era un’eccellente detective e collaborava in pianta stabile con Hyoga, mentre Kanon disquisiva direttamente coi leader mondiali. Gli sforzi congiunti di Kanon e Mama portavano sempre qualche buon risultato.
«Non capisco perché Aphrodite se la sia lasciata sfuggire». Commentò il biondo accomodandosi sulla poltrona davanti alla tua. «Non lo capisco neanch’io. Ma dopo quello che abbiamo sentito penso che anche se avesse provato a catturarla…» Il Cosmo della Dama era tremendo. Non avevate mai sentito una roba del genere, prima. «Secondo te è una Dea?» Chiese Hyoga. E la cosa che più vi preoccupava era che questa combatteva in prima linea. Ricordavate perfettamente la battaglia contro il Gran Dio Zeus e come Shura si era sacrificato. Se stava possedendo il corpo di quella ragazza forse avevate un piccolo vantaggio. Ma molto piccolo. «Non lo so».
«Pensi che dobbiamo lasciarla fare? O dobbiamo intervenire subito?» Domandò lui guardandoti.
«Penso che la cosa migliore sia cercare di proteggere quanti più di noi. Se la Dama non manifesta il suo Cosmo non possiamo trovarla».
«Però tu puoi provare a cercarla».
«Ho già tentato ma non è facile, è come se riuscisse a sfuggirmi e ora so anche perché».
Sapevi a cosa stava pensando Hyoga e quando ti alzasti gli battesti una mano sulla spalla. «Vado a dormire, buonanotte». Poi ti avviasti alla tua camera degli ospiti.        
  
Eri tornato al lavoro all’ospedale di Tokyo. La Dea ti aveva concesso di lasciare la struttura del Santuario in via definitiva. Adesso aveva assunto un tuo collega che era un pioniere nel campo della chirurgia. Così adesso potevi muoverti con più libertà di prima.
La prima cosa che facevi dopo il tuo turno era cercare la Dama tra le dimensioni e controllare le Case degli Astri. Hyoga invece aveva ripreso i contatti con Mama e stava cominciando a condurre ricerche sulle Case degli Astri e la Dama degli Smeraldi.
Al Santuario era tutto tranquillo. Per curiosità desti un’occhiata anche ad Astrid e la trovasti in una viuzza di Rodorio che parlava con Milo. Probabilmente si erano incontrati a Rodorio e ora lui la stava riaccompagnando alla Tredicesima. Lui stava cercando di dissuaderla a girare da sola. Non aveva neanche tutti i torti e lei, invece, lo rassicurò. Alla fine lui si convinse e la salutò. Poi s’infilò in un’osteria.  
Trenta metri dopo la giovane si ritrovò la via ostacolata da un uomo. Anche se quello era un soldato semplice. Cosa voleva da lei? Perché sembrava tradito e risentito? Lì per lì la giovane non ci fece caso. «Oh, buonasera. Mi avete spaventato».
Invece di scusarsi, l’uomo avanzò verso di lei con incedere minaccioso e andò subito al sodo: «Perché non sei venuta alla taverna, stasera?» Lei s’irrigidì e sgranò gli occhi. Però rispose incerta che aveva avuto da fare. «Con il Gold Saint di Scorpio?» Domandò lui con disprezzo. Sapevate di non essere amati da tutti i vostri sottoposti, ma così platealmente no. 
«Anche fosse perché vi dovrebbe interessare?» Chiese lei, sulla difensiva.
«Dovresti saperlo il perché».
«No». Fece adesso intimorita.
«Ma come, mi hai letto la mano!» Esclamò l’altro e Astrid parve cascare dal pero. «Davvero?»
«Certo! Sono due settimane che mi leggi la mano e le carte».  Rispose il suo poco gradito corteggiatore. Lei aggrottò la fronte: «Ok, intanto ve lo siete inventato; la mano si legge una volta sola e sono sicura di aver avuto altri clienti oltre a voi».
L’altro le dette ragione: «Sì, per quello sì, per le carte sono sempre io».
«Sì, mi ricordo, ma non capisco cosa volete» Specificò lei, stavolta guardinga, ma il suo tono di voce ti diceva che avesse intuito il motivo che si celava dietro la sua insistenza. Ed era ben più grande della superstizione. A giudicare anche da come stava reagendo non doveva neanche essere la prima volta che succedeva. «Secondo te? Che cosa posso mai volere da te? Il mio numero te l’ho già lasciato, perché non mi hai chiamato?» Ah, era questo il motivo? Lei obiettò di non capire cosa volesse lo stesso, che il suo rifiuto era più che chiaro e che non voleva essere usata così. Non aveva bisogno di un uomo che ci provasse con lei passando per il lavoro. Per lei era una gravissima mancanza di rispetto. Non era mica una sozzona come la Batgirl del film di Azzarello e anche come una certa Solo Anal di una serie di film che non avevi visto. In realtà usò un altro termine ma per amor di rispetto soprassediamo. Il soldato non la prese bene: «Brutta stronza! Ridammi i miei soldi, imbrogliona!»
«No!»
«Osi forse trasgredire l’ordine di un soldato della Dea? Ma io ti…» Fece per acchiapparla e tu sgranasti gli occhi. Facesti per intervenire, ma non ce ne fu bisogno. Astrid attaccò a sua volta, dandogli una bastonata con un furiage sune. Ossia un colpo portato alle gambe partendo dalla posizione di guardia chudan. Altro termine tecnico della naginata. Ma l’uomo parò con il proprio avambraccio. Si separarono e lui la guardò stupito.
Lei tornò in posizione di guardia, per la precisione di waki ni kamae. Un piede davanti e il bastone parallelo ai fianchi. Avevi sentito dire che era in possesso di questa tecnica e, molte volte, si era alzata presto la mattina per esercitarsi. Proprio allora da una stradina laterale sbucò un altro soldato: «Ehi! Cosa sta succedendo?» Il vigliacco l’accusò di essere una ladra che lo stava derubando. Astrid si difese urlando che non era vero. Ma mosse il bastone per tenerli entrambi a distanza. L’aggressore continuò a rincarare la dose e il secondo soldato si accodò a lui, intimandole di ridargli le sue cose. «Non è la sua roba, me la sono costruita io».
«Ah, sì? E cosa sarebbe?»
«Sono strumenti ottici, mi servono per studiare il cielo notturno!»
«Li hai costruiti rubando i miei soldi, pretendo un risarcimento».
«Non è vero!»
«Allora hai violato i confini del Santuario!»
«No!»
«Allora che ci fai in piedi adesso con una borsa piena di strumenti ottici?»
Astrid non seppe che rispondere, se non che il primo si avvicinò eludendo la guardia e le ghermì la borsa. La bionda se ne accorse, si girò come una biscia e gli sferrò un colpo alle tempie, liberandosi.   Il collega cercò di afferrarla ma Astrid roteò il bastone da destra a sinistra, con la parte inferiore del medesimo. Che si andò a schiantare negli attributi di quello a sinistra.
Il primo, ripresosi, cercò di balzarle addosso ma stavolta si ritrovò il bastone piantato nello stomaco fino al mono ucki (ossia la parte curva della lama, se fosse stata una vera lama da naginata). Subito allontanato. Si mise parallela ai bestioni poi, alzò rapidamente il bastone e li colpì in rapida successione. Il primo con un colpo alle gambe abbassandolo, poi alla gola e l’altro direttamente alla gola buttandolo a terra.
Eseguì un harai, ossia deviò il braccio di uno come fosse stata una lama, volteggiò su sé stessa e abbatté uno joge buri sul secondo. Un colpo verticale dall’alto verso il basso. Qualcuno cercò di farle lo sgambetto ma lei non glielo permise. Riacquistò subito l’equilibrio e continuò a tenerli tutti e due a distanza. Era imprevedibile, non seguiva uno schema fisso, alzava il bastone e lo muoveva in un modo mai banale. Era una combattente discreta, se faceva qualche errore riusciva a rimediare subito grazie alla velocità e alla prontezza di riflessi. Ora che ci facevi caso, stava combattendo alla stessa velocità dei Bronze Saint. Per questo non riuscivano a starle dietro.  
Quello ancora parzialmente illeso chiamò il compagno che si contorceva a terra in preda al dolore. Ma la ragazza gli abbatté il bastone sulla testa proprio alla nuca, mandandolo a fare compagnia al compare. Proprio allora il primo tornò all’attacco. Astrid sollevò il bastone e lo affrontò. Presto lo mandò a gambe all’aria, con dei bernoccoli sulla testa e altri lividi e botte. Poi, lo tenne lontano da sé, continuando a tenerlo d’occhio.
Il soldato si rialzò e fece per attaccarla ma lei avanzò minacciosa di un passo e materializzò i bagliori e, con essi, finì la sua opera di terrore. L’aggressore si fermò di botto, spaventato.
«Questo era solo un assaggio, posso fare ben di peggio. Raccogli il tuo amico e non mi disturbare oltre». Comandò. L’uomo preferì darsela a gambe, come un codardo. 
La ragazza si rilassò solo quando fu sicura di essere sola. Almeno lei era al sicuro.
 
Avevi cercato più e più volte una spiegazione a quella visione improvvisa che si era aperta davanti a te. Avevi scrutato tra i mondi, ma tutte le volte vedevi solo te stesso che t’imbambolavi a fissare il vuoto. C’avevi messo un po’ a capirlo, ma era ovvio che fosse uno specchio. Com’era possibile? Perché non potevi vedere oltre? “Non ti è concesso”. Ti rispose la voce di Shaka.
“Shaka?” Pensasti sorpreso e la tua immagine riflessa assunse le sue fattezze. “Che cosa sta succedendo? Perché non posso vedere?”
“Non puoi vedere tutto, ci sono cose che neppure noi possiamo vedere”. Ti rispose.
“Allora dimmi che cosa succede, ti prego. Chi è la Dama degli Smeraldi? Chi sono i Guardiani delle Case degli Astri? Dimmelo, che sta succedendo?”
“Non lo so ancora, ma ti do un consiglio, state alla larga da questa storia”.
“Che vai dicendo? Non possiamo starne alla larga, se è una nemica…”
“Statene fuori”.  Ripeté, poi la sua immagine si dissolse e tornasti a scrutare il tuo volto.
Richiudesti quella finestra sulla realtà con un sospiro di frustrazione. Non eri l’unica persona che monitorava gli altri mondi. Ovviamente non lo facevi meditando quasi ventiquattro ore su ventiquattro come Shaka, ma lo facevi. La mente di corse al podio a forma di fiore di loto nella Sesta. Tu non eri degno di salirci, non eri un illuminato. Né ti interessava esserlo, ma non riuscivi a smettere di pensare a tutto quello che stava accadendo. Sapevi solo che Astrid stava lottando per impedire a voialtri di morire ma che, al momento non ci riusciva. C’era un assassino tra le vostre schiere e lei non sapeva chi fosse. Per fortuna che c’erano Kiki e Raki con lei, perché altrimenti sarebbe stata ancora più esposta di prima. Spesso vi eravate ritrovati a discuterne, a pranzo qualche volta, quando Natasha era a scuola. Hyoga non voleva che la bambina ascoltasse questi discorsi. «Forse dovrei portarla via da qui». Ipotizzò congiungendo le mani, pensieroso, tradendo la sua paura. «Non è più sicuro».
«Nessun posto è sicuro. Portarla qui o nasconderla là non cambierà la realtà delle cose».
Hyoga sospirò sconfitto.

Seiya
Il periodo di lutto era finito eppure sentivi già la mancanza di quel ragazzino. “Kouga, giuro sul mio sangue che ti vendicherò”, pensasti guardando il cielo. Era tanto coraggioso, era davvero un degno Saint e un bravo bambino. Non sarebbe dovuta finire così. Avresti trovato il suo omicida.
Tornasti nella tua stanza a Villa Kido e posasti gli occhi sulla spada di Amaterasu. La spada era rimasta a te e non eri più riuscito a liberartene. La toglievi dal suo supporto solo per lucidarla ogni tanto, ma non la usavi mai neanche per allenarti. Ti ricordava troppo lo smisurato potere che avevi liberato e il modo in cui Shura ti aveva fermato.
Andasti da Lady Isabel e l’implorasti di metterti sulle tracce dell’omicida ma la Dea sgranò gli occhi inorridita e rifiutò la tua richiesta. La guardasti sbalordito. Perché no? Kouga era anche suo figlio! Non ti spaventava lo smisurato Cosmo del suo omicida, avevi combattuto contro gli Dèi e ne eri uscito vincitore. «Non puoi, Seiya!» Era sbottata Lady Isabel balzando in piedi.
«Ma Milady, perché?»
«Non puoi». Aveva ripetuto lei. Avevi guardato altrove: «Capisco». Poi te ne eri andato. Aveva provato a richiamarti ma non c’era stato verso.
Avresti trovato quel maledetto omicida, avevi riconosciuto quel Cosmo, era lo stesso che aveva portato via Kouga, solo rilasciato. Ora che lo conoscevi l’avresti trovato ovunque.
Non era la prima volta che ti separavi dalla Dea, avevi anche una vita. Da quando eri uscito dal coma prima e poi dall’albero di Mars (per finire poi di nuovo intrappolato nel coma) eri stato lontano. Avevi preferito andartene e non ti eri sentito più degno di indossare le Sacre Vestigia del Sagittario, un tempo appartenute ad Aiolos.
Ti appoggiasti al parapetto del ponte e guardasti l’acqua scura che scorreva sotto di te senza vederla. Proprio mentre la fissavi sentisti dei colpi di tosse. Girasti il capo perplesso e incontrasti un’affascinante signora con lunghi capelli mossi e neri, la pelle abbronzata e gli occhi nocciola. Era ancora molto bella, nonostante le prime rughe. L’avevi già vista da qualche parte: «Signor Seiya, vi ricordate di me? Sono Aida Foscavalle, la madre di Astrid». Si presentò, di fronte al tuo sguardo smarrito e incantato. Ti ci volle un po’ per ricordartela. La signora aveva dato spettacolo a Rodorio mescolandosi alle danzatrici di tisfeteli. Una danza greca. Eri rimasto a guardarla colpito dalla sua vitalità. Anche la figlia si era aggiunta a lei che, fino a quel momento aveva cantato assieme ad alcuni servi sul palco. Anche tu eri stato chiamato, per questo lo dicevi con cognizione di causa.
La ragazza aveva intonato una canzone che piaceva a sua madre dopo aver istruito il pubblico. Poi la signora l’aveva acchiappata per ballare. Astrid si era divincolata ed era tornata sul palco. Aida aveva riso divertita. La lunga gonna che le si sollevava un po’a ogni giravolta e il sorriso che albergava sul loro volto ti erano rimasti impressi. Ancora di più quando aveva danzato con te.
Ti voltasti completamente verso di lei: «Ah, sì! Sì, sì, mi ricordo, come state?» Vi stringeste la mano. Ci avevi messo un po’ a riconoscerla. Era più emaciata e stanca. «Bene e voi?» Decidesti di non contraddirla e rispondesti alla seconda domanda. Ti espresse il tuo cordoglio e poi aggiunse che: «Ci sono delle attività energetiche anomale e sono venuto a controllare».
«Le Creature?» Domandasti preoccupato. Di solito le persone non dovevano essere coinvolte nei vostri affari. Meno ne sapevano e meglio stavate. Ma questa signora era la stessa che, avevi sentito dire, aveva predetto lo scoppio della Guerra Sacra con Eris. Poteva esserti d’aiuto. «Non solo».
Le domandasti di raccontarti tutto. Lei si cacciò le mani nella tasca della giacca. Tu l’imitasti inconsciamente.
«Non saprei. So che è un’attività Cosmica. Magari sono le stesse che hanno ucciso Kouga».
«Non credo». Lei ti raccontò comunque quello che stava succedendo. «E se ci fosse la stessa mano dietro?» Poi ti convinse ad aiutarla, si offrì addirittura di darti la posizione dell’assassina una volta completate le sue indagini. A niente erano serviti i tuoi tentativi di farle cambiare idea. Impelagarsi con il vostro mondo poteva essere pericoloso, era meglio andare con lei. Perché gliene parlavi? Perché tu in fondo, eri ancora quello stesso ragazzino che, se non fosse stato per Tatsumi (Mylock, “É uguale”) avrebbe affidato il ritrovamento della Gold Cloth di Sagitter ai poliziotti invece che di occuparvene di persona. Se la signora Aida era anche lontanamente potente come la figlia allora era doppiamente in pericolo. In quel momento il tuo cellulare cominciò a squillare. Ti scusasti e rispondesti. La voce di Hyoga ti assalì: «Ma dov’eri?»
«In giro, perché?» La tua missione era segreta, il Gran Sacerdote era stato categorico. Non poteva permettere che anche i tuoi fratelli abbandonassero le loro posizioni.
«Sempre il solito idiota. Quante volte ti abbiamo detto che non devi scomparire così senza avvertire? Non ti si riusciva a trovare!.
«L’hai trovato?» Domandò la voce di Ikki. Poi, subito dietro si aggiunse Shun: «Dov’era?»
«Ragazzi, va tutto bene, sto bene...»
«No che non stai bene! Ti rendi conto che c’è un’allerta e te ne vai a zonzo come se niente fosse? Ma io non lo so, te lo sei bevuto il cervello!»
«Che idiota». Commentò Shiryu. La  signora al tuo fianco nascose una risatina dietro la mano.
«Si può sapere dove sei?» Chiese poi Hyoga. Glielo dicesti e giù un’altra raffica di insulti da parte dei tuoi fratelli minori e maggiori. Dopo che attaccarono ti scusasti con la tua ospite.
Lei si scusò a sua volta per le risate. «Non assistevo a una scena divertente da tanto tempo».
Riprendeste a camminare.
Mentre passeggiavate ti raccontò cosa l’avesse condotta qui. Si era accorta che dopo la sparizione della sua migliore amica, nonché tata di Astrid, in Europa e in tutto il mondo stavano succedendo delle cose che avevano a che fare con gli spiriti. Non l’aveva mai fatto prima d’ora. Si sentivano sempre e una volta ogni due settimane si vedevano. Era andata in Germania a vedere e quando era arrivata a casa dell’amica aveva trovato solo macerie e i nastri della polizia. Aveva provato a chiedere alle autorità ma aveva ottenuto poche risposte. Le carte le dicevano che era viva ma lei non si fidava. Conosceva la sua amica ed era sicura che fosse spaventata, dovunque fosse. E che avesse bisogno di lei. «Temo che le sia successo qualcosa e che abbia a che fare con tutto quello che sta succedendo». Aveva provato a parlarne anche con le autorità ma non avevano voluto ascoltarla.
Così aveva preso le ferie dal giornale e aveva cominciato a investigare. Le sue indagini l’avevano portata qui quando aveva ricevuto una visione di Shun che la guardava sbalordito. Le carte l’avevano guidata fino al Giappone. «A quanto pare ho fatto bene». Concluse. Le chiedesti da quanto fosse qui. «Quasi due settimane, ma non ti credere, anche prima che tutta questa storia cominciasse io stavo già viaggiando».
«Davvero?»
«Per lavoro, gestisco un’azienda che pubblica guide turistiche, il mio compito è trovare i posti più belli, le mete migliori e redarre rapporti, diciamo così, sugli itinerari. Ora che Astrid è maggiorenne ed è al sicuro al Santuario, posso anche tranquillizzarmi per lei». Spiegò. Si capiva che la sua migliore amica e sua figlia erano le persone più importanti per lei: quando ne parlava la sua voce si faceva più calda. Ti disse che era riuscita a prendere una stanza in un hotel.
Più volte, mentre camminavate, foste costretti a fermarvi di tanto in tanto, soprattutto quando ti accorgesti che era molto affaticata. Più volte tossì e le mancò il fiato. Non era nelle tue corde piantare in asso qualcuno, a prescindere da chiunque fosse. Soprattutto della persona che poteva aiutarti.
Verso l’ora di pranzo andaste a mangiare qualcosa. Fu lei a scegliere, ti portò in un ristorante che non avevi mai visto. Ti spiegò che l’aveva scoperto grazie al suo lavoro e che se lo ricordava bene.
Era un bel posto e i prezzi erano abbordabili persino per te. Vi accomodaste a un tavolo e vi portarono i menù. Ordinaste e, mentre parlavate, il cameriere tornò con le vostre ordinazioni. A un tratto, dopo aver finito di distribuire i piatti: «Mi scusi, ma lei non è il Bronze Saint di Pegasus? Quello che combatté nelle Galaxian Wars?» Confermasti un po’in imbarazzo. La gente a volte ti riconosceva e te lo chiedeva. A quel punto l’uomo s’illuminò tutto e cominciò a tempestarti di domande. Ti chiese pure l’autografo che tu gli facesti volentieri.
L’espressione adorante del tuo connazionale si ampliò. Mancò poco che si prostrasse, commosso ai tuoi piedi: «Grazie per essere venuto qui, grazie, grazie! Sono onorato di averla come cliente!» Dopodiché uscì dalla saletta lasciandovi soli. Tornasti a guardare Aida e la vedesti sorridere divertita. «Avete un bel seguito, eh?» Commentò divertita.
Sentisti le tue guance scaldarsi: «A quanto sembra. Non pensavo che esistessero ancora persone che si ricordavano di quello show». Ammettesti imbarazzato. La donna batté le palpebre per la perplessità. «Perché no? Anch’io me lo ricordo».
Adesso fu il tuo turno di stupirti: «L’avete visto anche voi?»
«Certo, facevo un tifo sfegatato per il Saint di Pegasus». Rivelò con un gran sorriso.
«Oh, se volete posso fare un autografo anche a voi». Ti offristi lusingato.
«Nah, non ce n’è bisogno, io sto già pranzando insieme a voi, credo di essere già più fortunata di quel cameriere e poi ho finito per conoscere quasi tutti i partecipanti di quel torneo! Cosa posso volere di più?» Ti sorrise di rimando.      
Le sue parole però riportarono alla mente tutto ciò che era successo e il tuo entusiasmo scomparve. «Già, a proposito, mi dispiace davvero per come siete venuta a conoscenza di tutto… Noi non abbiamo mai avuto intenzione di coprire Death Mask quando ha portato con sé vostra figlia».
«Anche a me, non vi nego che potendo vi denuncerei tutti».
«Se volete potete, almeno me e i miei fratelli facciamo tutti Thule di cognome».
«Siete tutti figli del Duca?» Chiese stupita.
Confermasti e continuasti la tua confessione: «E Lady Isabel è stata adottata, quindi teoricamente anche lei di cognome fa Thule. Se almeno così posso rimediare in parte a ciò che hanno fatto, allora così sia». Ti sembrava equo. Questa donna aveva creduto di aver perso la figlia, aveva vissuto dei mesi d’Inferno. Non riuscivi neanche a immaginare cosa si provasse, né volevi farlo: sarebbe stato troppo duro. E poi cosa era mai la giustizia umana a fronte di una Guerra Divina? Non era niente che non avreste potuto sopportare. Sarebbe stata una gran bella macchia sulla reputazione del Santuario, ma avrebbe ripagato la signora di tutto. Avevi saputo che Lady Isabel pur sapendo cosa era successo non aveva mai fatto nulla per questa famiglia. Anche Hyoga e Shiryu non erano mai stati d’accordo con la sua decisione di tenerla entro le mura del Santuario senza avvisare la famiglia. Con la tecnologia della Fondazione Grado avrebbero dovuto fare qualcosa. Considerati i vari agganci del Santuario poi ne valeva la pena? Solo dopo ti accorgesti che non aveva quasi toccato cibo, al contrario di te. Che ti avesse avvelenato? Che fosse una spia nemica? No, non era possibile. Perché avrebbe dovuto farlo?
 Aida si servì a sua volta e mangiò. «Avevate ragione, è tutto squisito». Decretasti alla fine, sazio.
Lei ti sorrise, contenta. «Sono contenta». Sospirò e un’ombra oscurò nuovamente il suo sguardo. 
Finiste di mangiare, pagaste e ve ne andaste.
Passaste tutta la giornata  a giare nelle varie prefetture più vicine ai luoghi da lei evidenziati. Più volte la dovesti aiutare perché era sempre stanca.  Passaste anche di fianco al Colosseo Grado.
Vederlo ti riportò alla mente ogni cosa, compreso il ricatto di Lady Isabel. E provavi solo dolore e rancore. Non ti era mai fregato niente di Alman di Thule. Neanche volevi portare il suo cognome. Tu non ti sentivi figlio suo, tu eri un figlio delle stelle, tale ti consideravi e così ti andava bene.
A Tokyo ti sembrava che il passato camminasse accanto a voi. Un passato di cui francamente, non ti fregava un fico secco. Non dovevate niente a quell’uomo che vi aveva tenuti rinchiusi come bestie in un canile. Addirittura la recinzione elettrificata. Voi eravate tutti frutto delle sue numerosissime scappatelle, niente di più.  
Aida si accorse del tuo turbamento, ti strinse dolcemente il braccio e ti portò via - in barba al galateo giapponese. Eri troppo scosso per pensarci adesso. «Scusatemi, Aida-san».
«No, non c’è nulla di cui scusarsi, avrei dovuto pensarci quando ho insistito per passare di qui. Perdonatemi, è stata una enorme mancanza di rispetto da parte mia».  
 
La luce del mattino irradiava la biblioteca della Tredicesima e faceva risplendere i suoi capelli di una lieve aureola dorata. Come avresti potuto dirglielo? Ti torcesti le mani e ripercorresti gli eventi trascorsi appena tre giorni prima.  
Invincibile e libera erano le parole con cui avresti descritto Aida-san, se qualcuno ti avesse chiesto di parlargli di lei. Come lei ti sembrava mentre quella sera ti accompagnava per le vie della città. Ti aveva detto di aver trovato una sorta di centro di raccolta per spiriti. Avresti preferito che lei non venisse, ti sembrava molto stanca, ma lei aveva insistito. Non si arrese neanche quando dopo aver attraversato un ponte, cominciò ad ansimare per la fatica. «Vi sentite bene?» Le avevi chiesto.
«Sì, sì». Ti aveva risposto alternando colpi di tosse ad ansiti con un’espressione dolorante. Cominciavi a pensare che stesse mentendo. Cercasti di persuaderla a tornare indietro ma fu inamovibile. Non ti sentisti di biasimarla, non era mica una Saint. Era normale che il suo fisico ne risentisse. Considerando tutto, poi, non era neanche anormale che stesse poco bene. 
Perciò non avesti altra scelta che prenderla in braccio. E fu così che scopristi che era leggerissima, quasi come una piuma. Sembrava che dovesse volare via dalle tue braccia al primo colpo di vento e ti venne istintivo stringerla. Lei appoggiò la testa sulla tua spalla e si scusò per quest’intralcio. «Non fa niente». Rispondesti dopo aver respirato il suo profumo. Era diverso da quello di Lady Isabel, ma era buono, sapeva di fresco e di pulito. E ti piacque.   
Forse a causa di quello che faceva si stava privando del suo meritato riposo. Dopo qualche centinaio di metri fu di nuovo in grado di camminare e ti portò a un tempio shintoista. La mettesti giù e lei si dovette riabituare alla sensazione di essere di nuovo coi piedi per terra. Per fortuna non vomitò. Le ci vollero giusto cinque minuti, durante i quali tenesti d’occhio il Black Saint con il Cosmo.
Nel frattempo chiamasti a te la Gold Cloth di Sagitter che ti raggiunse subito e ti rivestì. Anche se questo avrebbe attirato le Creature. Non importava. «Un tempio?» Esclamò la tua accompagnatrice sgranando gli occhi. «Perché un tempio? Finora avevano colpito solo nei cimiteri, perché questo cambio di programma? Qui dentro si sente fortissima l’opera della magia». Disse poi.
«Davvero? Io non sento niente». Mormorasti lanciando lo sguardo verso le lapidi. T’istruì a percepire la magia. Era come percepire il Cosmo, solo che si doveva ascoltare più attentamente. 
«É qui che è successo?»
«Sì. Non vi preoccupate, ho già purificato personalmente la zona e chiuso ogni eventuale passaggio tra il regno dei morti e questo».   
«Ditemi una cosa: come pensate di difendervi in caso di attacco?» Chiedesti, guardandola.
Lei cacciò le mani in tasca e rispose. «Userò il Potere dei Tarocchi». Di nuovo quel potere.
«Vostra figlia lo ha menzionato spesso».
«Sì, mi ha detto quello che ha fatto per aiutarvi. Ti avrà anche detto che non ne può parlare, giusto? Non preoccuparti, se ci sarà occasione potrai vederlo all’opera coi tuoi stessi occhi». Ti promise, sperando però che non dovesse accadere, lo capisti dal suo sguardo. «Purtroppo non so spiegarti bene come sono andate le cose e cosa ho visto, ma forse, se tu riuscissi a percepire qualcosa…»
«Purtroppo non sento niente neanch’io, temo che dovrete portarmi con voi se vogliamo saperne un po’ di più».
«Non si potrebbero usare le carte per avere un quadro preciso della situazione?» Suggeristi in uno dei tuoi rarissimi lampi di genio.
«L’ho già fatto. Ho scoperto che c’è una Guerra Santa negli Inferi e che i nemici pensano di ingrossare il loro potere rapendo l’energia vitale di altre persone».
La guardasti sbalordito: «Cosa?»
«É così».
«Non sono solo le Creature?»
«No se uccidi prima le persone, l’anima si stacca e se ne va prima che le creature la tocchino. I nostri nemici le catturano e le infilano da qualche parte per usarle come batterie».
«L’avete già detto a vostra figlia?»
«Sì. L’ho chiamata la sera stessa che ha scoperto che alcuni dei vostri Saint hanno iniziato a morire e il suo potere non è bastato. In questo momento se ne sta occupando al Santuario. Per fortuna è più potente di me».
«Davvero? Aspettate, ma se è così significa che al Santuario c’è un assassino!»
«Sì, l’ho già detto a mia figlia ma temo che non mi abbia ascoltato, vi prego, chiamate il Gran Sacerdote, avvisatelo».
«Chiamerò Kiki, riferirà tutto lui». Tirasti fuori il telefono dalla tasca.  Improvvisamente Aida-san urlò. «Seiya! Attento!» E ti spinse a terra. Qualcosa passò sulle vostre teste e si schiantò addosso a una lapide.
«Accidenti, c’ero quasi!» Berciò una voce maschile. Un Black Saint. Vi rialzaste e le chiedesti se stesse bene. Lei confermò e poi guardò nella direzione da cui era arrivato il colpo e sgranò gli occhi: «Un Black Saint? Ma non erano tutti al Santuario?» Chiese. Guardasti anche tu e ti stupisti a tua volta. «Lo credevo anch’io». Ammettesti. La forma della Black Cloth ti ricordava qualcosa, o meglio, qualcuno. Avesti un flashback di Castalia crocifissa a testa in giù tra i flutti del mare. Il Santo Decaduto ignorò le tue parole: «Ehi, ragazzo, se non vuoi farti del male consegnami la donna che è con te».
«Seiya…»
«State indietro, Aida-san. Perché, chi sei? Che cosa vuoi?» Dicesti rivolgendoti al Saint.
«Voglio la signora». Stavi per aprire bocca quando Aida ti anticipò: «Non se ne parla neanche, la signora non è interessata».
«E dire che ero venuto qui per chiederglielo con gentilezza». Mentì il vostro avversario fingendo d’intristirsi. «Il vostro contributo sarebbe magnifico e di grande aiuto per la nostra causa. Il nostro capo vi tiene in grandissima considerazione, venite con me, collaborate, nostra alleata e verrete ricompensata». Spiegò tendendo la mano verso di lei, ma Aida-san non si mosse.  «Non so di che farmene di una simile collaborazione. Io sto bene dove sono».
Il vostro aggressore sogghignò. «Il mio capo sapeva che avreste detto così, perciò mi ha ordinato di prelevarvi con la forza in caso di rifiuto». Ciò detto si mosse velocemente verso di voi ma tu  lo vedesti e lo intercettasti.  La sua mano si scontrò con la tua e il Black Saint arretrò sbalordito.
«Porta rispetto alla signora. Ti ha detto di no e allora è no, non ti hanno mai insegnato a non toccare le donne, sbruffone?»
«Seiya-kun, quest’uscita è totalmente fuori luogo». Sospirò la signora alle tue spalle. E tu la guardasti: «Eh? Che ho detto di male?» Lei ti guardò con un sopracciglio alzato come a dire: “Davvero me lo chiedi?”
Il Black Saint ti attaccò di nuovo. Provasti a ribattere ma eri in seria difficoltà, nessuno dei tuoi attacchi sembrava avere effetto. “Com’è possibile? Sarebbe dovuto già essere morto!” Pensasti spaventato. L’avversario rise intuendo i tuoi pensieri. «Credi forse di farmi qualcosa, Cavaliere? Io sono già morto!» Trasalisti. Proprio in quel momento vi separaste con un balzo. Lui alzò gli occhi sopra le vostre teste e sorrise soddisfatto: «Neanche le Creature possono niente su di noi, ma su di te sì. Addio Gold Saint di Sagitter!» Improvvisamente le Creature discesero su di voi, attirate dal richiamo del tuo Cosmo ma non fecero in tempo a disturbarti che azzerasti il Cosmo e quelle ti passarono accanto senza toccarti. Il nemico batté in ritirata: «Non finisce qui, verrò a prendervi di nuovo!» Poi scomparve nel nulla.  
Ti avvicinasti alla signora e le domandasti se stesse bene. Lei disse di sì, anche se si vedeva che era un po’scossa. Usciste dal cimitero e, solo allora ti rendesti conto della sirena antiaereo e delle persone che scappavano in preda al panico. Alzasti gli occhi un momento e vedesti il nugolo di Creature, solo dopo sentisti anche il rombo dei motori dei caccia. Il Giappone aveva schierato persino le forze armate? Non avesti il tempo di guardare che dovesti fare attenzione alle persone che correvano in ogni dove.
Trovaste un rifugio e lì osservaste tutto, compresa la disfatta dei soldati e la caduta dei caccia in fiamme sulla città, bloccate dalle catene di Shun e dagli scudi di ghiaccio di Hyoga. «Hyoga, Shun!» Esclamasti e facesti per correre da loro ma la signora ti bloccò e tu restasti lì. Soprattutto per le parole di Death Mask che ti tornarono alla mente: “Se tu accorri sempre in loro aiuto significa che non hai fiducia in loro”. Anche adesso era così. Death Mask aveva ragione: i tuoi amici non erano stupidi, se la sarebbero cavata benissimo.      

«Che cosa voleva dire?» Chiede

il paesaggio attorno a voi cambiò, divenendo blu scuro come la notte. Una strana nebbiolina azzurra fluttuava attorno a voi. Il Black Saint provò ad attaccarti ma il suo colpo rimbalzò su una barriera di energia dorata che non apparteneva a te. Che stava succedendo? Ti guardasti intorno e vedesti la signora avanzare tranquillamente verso di voi. Le mani in tasca, camminava in mezzo a tutta questa devastazione come se fosse la regina.
 
Lamairgos di Heracles digrignò i denti, infastidito. «Stai indietro, mi serve la tua anima intera non a pezzi, donna. Non montarti la testa».
«Chi sei tu, piuttosto, che osi giocare impunemente con le anime delle persone». Ribatté piccata. In un certo senso ti ricordò Shaka. Ed era veramente adirata per queste azioni. 
«Non ho tempo da perdere con donnine inutili, sei venuta a consegnarti?»
«No, a fermarti».
«Buona questa, vorrà dire che ti tramortirò e porterò via». Le lanciò un attacco ma questo si abbatté su un muro invisibile. Lamairgo rimase di sasso. «Com’è possibile che tu abbia deviato il mio attacco? Non dovresti riuscirci!»
«Anch’io ho qualche asso nella manica». Dichiarò lei. Il vento cominciò a soffiare attorno a voi. Presto nell’aria cominciaste a vedere il baluginio dorato di figure rettangolari. Che cos’erano? Ma ancor più sorprendente fu quando sentisti il Cosmo della signora accendersi e ribollire e la magia di cui parlava. Era come un torrente in piena, una nota prolungata di un diapason all’orecchio. Attorno a voi si delineò la figura luminosa della Luna. 
Lamairgo arretrò di qualche passo sconcertato e intimorito, mentre sotto di voi la Lama della Luna si trasformava nell’Ammasso del Presepe. E poi, in mezzo, compariva la Porta degli Inferi, chiusa.
Il Black Saint provò a ribellarsi ma non ci riuscì. «Credevo che fosse uno scherzo, non è possibile, non dovrebbe esistere!»
«Aida-san!» Esclamasti.
«Laimargo di Heracles, finalmente ci incontriamo». Esclamò e dietro di lei comparve la figura della Giustizia alata, con la spada in mano e la bilancia nell’altra. I vestiti e i capelli della signora ondeggiavano al vento. Emanava una tale aura di solennità che per un attimo ti sentisti di fronte a una regina. «I peccati commessi dalla tua anima sono troppo gravi per permetterti di scorrazzare liberamente in questa città». Decretò alzando il mento.
«Maledetta, cosa credi di fare? Pensi che due o tre figure in croce possano farmi qualcosa?»
«Io ti condanno a restare nell’Oltretomba». Comandò.
«Tu non farai proprio niente!» Replicò il Black Saint del passato.  
«Tornatene da dove sei venuto, spirito maligno!» La Giustizia spalancò le ali e, con un grido belluino si lanciò addosso al Black Saint, colpendolo in pieno. Lui cadde al suolo e tossì sangue. Tu sgranasti gli occhi allibito mentre quello alzava la mano e osservava il palmo coperto di rosso. «Cosa?» Esclamò spaventato intanto che la Porta della Luna si apriva.
«Il potere dei Tarocchi mi permette di agire sui Vivi quanto sui Morti anche se non sono una negromante». Spiegò la signora mentre la Giustizia catturava il Black Saint e lo rispediva nell’Aldilà. Il suo grido vi accapponò la pelle.
La porta della Luna si richiuse e poi scomparve, così come la Morte e la Giustizia. Infine, anche il cielo notturno e l’ammasso del Presepe scomparvero, lasciando il posto alla strada lastricata.
Ma anche Aida perse i sensi e cadde a terra. «Aida!»  Corresti da lei e la portasti via.

Si svegliò solo all’alba. L’avevi riportata a Villa Thule e l’avevi vegliata tutto il tempo, non sapendo bene cosa fare. A un tratto lei si svegliò e ti vide: «Seiya…» Mormorò con voce roca. «Dove…» Rispondesti alla sua domanda e poi lei ti chiese dove fosse Laimargo, dopo essersi schiarita la voce.
«Sconfitto. Il portale chiuso». Le portasti un bicchier d’acqua. Ma ebbe bisogno di una mano in quanto le sue tremavano troppo. Quando tolse le labbra dal bicchiere tu ne vedesti l’impronta insanguinata. Sgranasti gli occhi e lasciasti cadere il bicchiere che s’infranse a terra.
«Mi dispiace, Seiya, non volevo che vedessi». Mormorò lei con un sospiro stanco, girando la testa altrove, con un’espressione contrita. Quel sangue non era il risultato di un morso sulla lingua.  
«Perché? Vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per agevolarmi ma ora basta. Non c’è più bisogno che voi vi mettiate in pericolo. Pensate a voi adesso, avete chiesto troppo al vostro corpo, concedetevi di riposare».
Contrasse la faccia in un’espressione addolorata: «Non posso». Poi cominciò a tossire forte, ancora più delle altre volte e fu costretta a girarsi nella tua stretta per prendere il fazzoletto e, così, tu scopristi, per la prima volta, che stava tossendo sangue.
Sussultasti mentre la povera donna nascondeva (inutilmente) la bocca e il suo segreto dietro la stoffa.  «Signora Aida…» Mormorasti quando lei, con occhi lacrimanti, smise di tossire. Un’espressione afflitta, come se stesse per scoppiare a piangere, albergava sul suo viso. «Ora capisci perché non posso? Io sono malata, Seiya. Avevo già dei sospetti a gennaio, prima di venire in Grecia al Santuario sono andata a farmi visitare e bum!» Scoppiò in una triste risata che tradiva tutta la sua paura e si lasciò sfuggire un altro colpo.  
Tu eri come la Nike di Samotracia. Non avevi mani, né braccia per stringere a te le persone, però avevi le ali e con esse, potevi proteggerle e ripararle dal freddo. Avresti voluto poterla aiutare davvero. «É già in metastasi, i medici dicono che se inizio in tempo le cure avrò qualche chance, ma… Ma ho già avuto una parente che ha fatto la chemio e… so cosa vado incontro. Per questo voglio dare significato alla mia vita prima che sia tardi. Se c’è qualcosa che posso fare, non esitare a chiedere, non ti sarò d’intralcio. Qualsiasi cosa ti serva, per favore, dimmelo».
Poi riprese a tossire e cacciò subito il fazzoletto davanti alla bocca. Era così fragile ed esile tra le tue braccia. Non ti era parso, all’inizio, quando la conoscesti al Santuario. E sì che ti aveva colpito molto allora, proprio per la sua vitalità e la sua positività. Non ci volevi credere, ti sembrava impossibile. Eppure in lei avvertivi ancora la forza, la stessa vitalità. Ma era inutile ingannarsi: lo vedevi anche tu che i vestiti le stavano larghi, le pendevano proprio addosso. Che ogni volta che tossiva era sangue quello che buttava fuori. Che respirava a fatica.
Eri un Saint, il tuo dovere era proteggere le persone. Eri stato mandato qui per questo, oltre che per scongiurare qualcosa di terribile. E, mentre tutto adesso aveva un senso; dall’aiuto che ti aveva dato alle informazioni che aveva raccolto per te, ti sentisti impotente e al tempo stesso molto vicino a lei. Il tuo cuore prese a battere con più forza e sentisti le guance scaldarsi.
Anche tu eri così, solo che la tua consunzione era più lenta, meno evidente e meno invasiva. Era più come un lasciarsi andare.
Cosa dovevi fare? Non ti era mai successo di avere a che fare con una persona così. Il tuo primo dovere era proteggere gli innocenti, ma capivi questa donna. La ferita al tuo petto si fece risentire. Tu capivi cosa si provava a essere un peso e capivi la sua volontà. «Signora Aida, voi conoscete a menadito questa città, potreste aiutarmi?» Le sussurrasti, con gentilezza. E lei acconsentì.
Insieme avevate affrontato l’ultimo Black Saint. Alla torre di Tokyo. Credevi che la signora non avrebbe sopportato il viaggio e invece sì. Mentre combattevate, aveva però avuto un mancamento.
«Uh, le tue condizioni sono peggiorate». Commentò il Black Saint con un sorriso malevolo.
«Lasciala stare, la tua battaglia è con me!» Esclamasti senza spostarti dalla tua posizione.
Il Black Saint si appoggiò alla finestra, incrociando le caviglie. Si aprì invece in un gran sorriso. «Ti sbagli Cavaliere, non sei tu che ci dai tanti problemi; potrei ucciderti e non te ne accorgeresti nemmeno».
Cominciasti a disegnare con le mani le tredici stelle della tua vecchia costellazione. E tu ti sentisti rinfrancato nel costatare che dopotutto Pegaso non ti aveva abbandonato con la promozione a Gold Saint. «Pegasus Ryu Sei Ken!» Esclamasti prima di lanciare il tuo attacco. Ma riuscisti solo a distruggere la struttura retrostante al nemico e parte del tetto.
«Seiya, fermati!» Esclamò Aida a sua volta prima di essere colta da un altro attacco di tosse. Proprio mentre ti fermavi. “I miei colpi non gli fanno niente, com’è possibile?” «Lui non è Vivo, non puoi colpire i morti, solo il Gold Saint di Cancer può». Urlò Aida intuendo i tuoi pensieri, prima di annaspare per via del fiato corto.
Il Black Saint atterrò sulla ringhiera a braccia conserte e piedi uniti: «Già, almeno così credevamo, vero, strega? Che cosa hai dato in cambio per essere così potente? Una magia così non si ottiene dal nulla, allora? Cos’è che hai dato? Aspetta, non me lo dire forse lo so: la tua vita, non è così?»
Guardasti la tua alleata orripilato. La donna ti guardò a sua volta a occhi sgranati, una mano sul collo, mentre cercava, faticosamente, di respirare.  
«Sì, diglielo, Aida». La spronò in tono canzonatorio il vostro avversario. Lei abbassò lo sguardo, ormai il fiato regolarizzato.
«Aida, è la verità?» Lei si morse il labbro inferiore, distolse lo sguardo e annuì. «Cos’avete fatto?» Chiedesti orripilato mentre la sostenevi, tenendola per le spalle. «Il patto dei Tarocchi richiede un Prezzo da pagare. Ma per fare questo, non bastava più solo la mia felicità, serviva molto di più, anche se ciò significa usare la magia nera». Spiegò con un’espressione triste.
Il Black Saint rise sguaiato: «Anche se il tuo corpo è inutilizzabile e il tuo Cosmo è mediocre, la tua anima è come una fiamma viva e con quel potere immenso che racchiude ci sarai comunque molto utile, Aida Foscavalle di Pisa».  
«Che cosa?» Esclamasti frapponendoti di nuovo tra lui e la madre di Astrid. 
«Non hai ancora capito, Gold di Sagitter? Tutto questo altro non era che una trappola per lei e tu me l’hai portata. Mi serviva solo un’altra anima e la sua era quella giusta».
«Bastardo, non ti permetterò di prenderla». Facesti, mettendoti in posizione di attacco e bruciasti il tuo Cosmo, che t’illuminò di quell’aura dorata tipica dei Gold Saint.
Ma il Black Saint si limitò a incrociare le braccia e a sorridere: «E chi la tocca? Non ce ne è bisogno. Né posso ucciderla, altrimenti perderebbe il suo prezioso potere. Ci vediamo negli Inferi, Aida». Esclamò ridendo sguaiato prima di tuffarsi nella porta dimensionale.
Ti sporgesti per vedere e ti venne male solo a vedere l’ampiezza del portale: era più grande di tutti gli altri. Ti arrabattasti per cercare una soluzione. Forse avresti potuto fare qualcosa facendo evolvere la tua Cloth in Kamui. Ma non avevi più la Cloth di Pegasus. Non sapevi se anche questa potesse evolvere. Forse avresti potuto usare il Cosmic Star Arrow, ma avrebbe richiesto comunque l’uso del Cosmo e soltanto Astrid avrebbe potuto tenere a bada le Creature. La signora non ne era in grado perché lei stessa era dotata di un piccolo Cosmo. Le Creature, leste, si radunarono sotto di lei, affamate come squali. E c’erano le Creature, farlo le avrebbe fatte avvicinare ancora di più. Ma se tu eri in una posizione di stallo, a risolvertela, ci pensò la signora. Lei ti affiancò e ti prese la mano. Tu la guardasti spaesato e incontrasti la sua espressione dolce, malinconica e speranzosa. Erano gli occhi di una persona che stava cercando di aggrapparsi alla vita un’ultima volta e che, presto, avrebbe detto addio al mondo. Sembravano gli occhi di un’amante che dice addio all’amato. E, tu lo sapevi, vero? Perché spesso avevi avuto quegli occhi per Lady Isabel. Quello sguardo ti bruciava negli occhi e spesso alla Dea lo avevi rivolto. “Se devi proprio morire allora avresti voluto farlo con impressa nella mente l’ultima bella immagine del mondo”. Ti eri sempre detto, forse senza neanche essere consapevole di questo pensiero. E, di solito tu avevi Lady Isabel.
Percepivi quello sguardo, ma per la prima volta di riflesso. «Dì alla mia bambina che la amo più di qualsiasi cosa al mondo». Ti pregò guardandoti con occhi lucidi. Il vento che, ululando, le vostre chiome.
«No signora Foscavalle, Aida, non fatelo». Implorasti ricambiando la stretta. Lei sorrise commossa dal tuo trasporto e sfilò dolcemente la mano e tornò a guardare nel vuoto, verso il portale violetto pervaso da energia sotto di voi. Le afferrasti i polsi. «Signora Foscavalle!»
La donna dalla chioma nera come l’ala di corvo si girò e ti sorrise. Poi si liberò dolcemente dalla tua presa. «Va tutto bene, questo vi darà qualche tempo in più, anche se va contro tutto ciò in cui credo».
Scuotesti il capo: «No, Aida, non fatelo».
«Devo farlo, per favore, non voglio finire i miei giorni soffrendo e non voglio che la mia anima finisca nelle loro mani. Questo è l’unico modo». Spiegò malinconica mentre le lacrime abbandonavano gli angoli dei suoi occhi e venivano trasportate via dalla corrente. 
Ti incorniciò il volto tra le mani e ti baciò. Poi si ritrasse e, senza staccare gli occhi dai tuoi, mosse un passo indietro. «Aida, no!» E si gettò nel vuoto. Le figure delle Carte che avevano tenuto a bada le Creature fino a quel momento si alzarono di quota per qualche metro e si trasformarono i fiotti di energia dorata che ricadde verso il portale superando in velocità la signora e, sprigionando una luce e un’energia immensa che ti costrinse a schermarti gli occhi per non essere accecato. Ma anche così riuscisti a sentire con chiarezza l’agghiacciante grido di dolore di Aida, mentre le Creature la raggiungevano. E tu non potesti fare altro che assistere impotente al suo sacrificio.
Poi, tutto si acquietò e tornò normale, come se non fosse mai successo niente.
Sentisti i tuoi occhi riempirsi di lacrime che, presto, ti inondarono il volto. Il dolore esplose dentro di te, riducendoti presto in ginocchio, mentre la cenere veniva trasportata via dal vento tranquillo, del Regno dei Vivi.
Ti portasti una mano alla bocca, mentre continuavi a piangere. Perché non l’avevi afferrata? Urlasti il suo nome dall’alto del palazzo con tutto il fiato che avevi in gola.
Tornasti in Grecia con gli occhi arrossati e un peso sul cuore. La prima cosa che facesti fu di vedere Astrid. Trovasti la figlia di Aida china su un libro, seduta alla scrivania sotto una finestra. I raggi del sole le colpivano pelle e capelli ammantandola di un vago alone bianco e giallo che si rifletteva sulla parete e gli oggetti vicini in un buffo gioco di luce. Mentre era così ti ricordò Aida, per un momento la vedesti al suo posto, mentre guardava giù dalla balaustra.
Tossicchiasti e Astrid si girò verso di te e ti salutò, sorpresa di trovarla lì. «Seiya». Ti chiamò la voce di Astrid.  Per un momento ti mancò il coraggio. Vi scambiaste qualche vuoto convenevole. Poi, prendesti un po’ di coraggio e iniziasti, contrito: «Astrid... Io non so come dirtelo».
La giovane ti guardò con occhi spaventati. Poi, le facesti notare la fascia da lutto che portavi al braccio e le porgesti il ciondolo di sua madre dicendo solo: «Mi dispiace».
La ragazza si morse il labbro, tremando. Gli occhi improvvisamente colmi di lacrime: «No, Seiya, no, dimmi che non è vero, ti prego, dimmi che non è vero…» Tu continuasti a distogliere lo sguardo, addolorato e lei scoppiò a piangere. Poi corse via prima che tu avessi il tempo di fare qualcosa.

Astrid
Stavo lavorando per riuscire a riaprire quella gabbia. Ma tutto quello che ero riuscita a ottenere era solo un fioco brillio. “É già un miglioramento”.  M’incoraggiò il mio maestro. Ormai avevo la certezza che solo io potessi percepirlo, se adesso mi stava accanto anche in pieno giorno e alla presenza di altri Gold Saint. 
Aveva ragione. Ma non poteva continuare così, prima, dovevo liberarmi di un altro peso.
Il maestro intuì le mie intenzioni perché mi posò una mano sulla spalla e disse: “Qualcosa mi dice che andrà bene”. Coprii la sua mano con la mia e annuii.
Poi andai verso la Nona. Feci un gran respiro prima di entrare. Attraversai il corridoio di passaggio e poi svoltai verso gli appartamenti privati. «Seiya». Lo chiamai quando lo vidi in salotto che cercava di raddrizzare un quadro.
Il fratello di Shun si girò e mi guardò stupito di trovarmi qui. «Astrid». Esclamò. «Come stai?» Mi chiese dopo, balbettando, preoccupato. Forse di aver urtato i miei sentimenti con quella domanda tanto ovvia quanto inopportuna. Eppure nei suoi occhi leggevo un sincero dispiacere e il pentimento per essere stato latore di brutte notizie.
Una domanda di circostanza, per quanto fosse veramente desideroso di saperlo. Ma a giudicare dalla sua faccia credette di aver fatto una gaffe perché si affrettò a scusarsi. 
L’imperatore Mutsuhito de L’ultimo Samurai fece la stessa domanda che posi io a Seiya. La stessa voce rotta: «Com’è morta?» Ma Seiya non mi avrebbe mai risposto: «Io ti dirò come è vissuta». Seiya accontentò la mia richiesta.
E quando seppi della sua malattia, delle sue ultime parole per me, mi sentii un po’ meno triste. Sapere che mi voleva bene era rincuorante, anche se avrei preferito non stringesse mai questo patto.
Quando lui finì di raccontare, sempre temendo di peggiorare il mio umore, lo ringraziai. «Grazie, Seiya, per esserle stato accanto nei suoi ultimi momenti. Grazie davvero».
Lui annuì, poi, mi disse: «Tua madre mi ha lasciato delle informazioni per te, a proposito di tutto quello che sta succedendo. Ha detto che le ha raccolte perché credeva che potessero esserti utili. Vuoi ascoltarle?» Il cuore prese a balzarmi in petto. Mia madre aveva cercato di… «Sì». E, Seiya mi raccontò ogni cosa. Alla fine lo abbracciai e gli sussurrai: «Grazie». All’orecchio.
Quella sera celebrai le esequie a modo mio.
Passeggiai dalla Tredicesima alla spiaggia, passando per i sentieri dei servi. Non volevo essere seguita da nessuno, né volevo essere fermata da alcuno. Apprezzavo il sostegno che mi davano i miei amici e Castalia e Juan, ma questa era una cosa che dovevo fare da sola.
Durante il tragitto raccolsi un ciottolo e me lo rigirai tra le dita tutto il tempo, pensando ai bei momenti passati con la mamma e pregando gli Dèi che mi assistessero nel darle l’estremo saluto.
Presi un bel respiro profondo e, poi, lo lanciai nell’acqua. Pregando che ci saremmo riviste nella prossima vita.
Mia madre avrebbe voluto così. Niente fronzoli, niente preghiere. 
Mi sentii posare un mantello sulle spalle da due mani gentili. Mi girai e vidi Kiki, in piedi accanto a me che mi guardò con occhi pieni di dolcezza e preoccupazione. Sembrava chiedermi scusa con lo sguardo per aver interrotto questo momento. Tesi le labbra in un sorriso mesto, cercando di rassicurarlo, perché in realtà non aveva interrotto proprio niente. Appoggiai la testa sulla sua spalla e lasciai che lui mi cingesse le spalle con un braccio. Mi dette un bacio sulla testa e vi posò il mento.  
Poi, mi ricondusse al Grande Tempio.
O almeno era quello che stavo cercando di convincermi. «Mamma...»
Le parole di Seiya continuavano a rimbombare nella mia mente, implacabili. «No, no, no, è impossibile. Non può averlo fatto, non può». Improvvisamente ogni cosa aveva perso d’importanza.
Quello che credevo su Neera, quello che stava succedendo, tutto. Improvvisamente mi sentii come se il mio mondo fosse andato in pezzi, lasciandomi più sola di prima. Death Mask era sparito dalla circolazione e io sentivo la mancanza del mio amico. Dov’era andato?
Avevo bisogno di parlare con lui, almeno questo. Al mio dolore avrei pensato da sola poi, ma mi mancava parlargli. Mi erano tornati in mente i momenti che aveva passato al mio capezzale in infermeria e come mi era stato vicino. Anche se era un poco di buono avevo bisogno di rivederlo, sapere se stava bene. Ormai mancava dal Santuario da troppo e io mi sentivo sempre più smarrita.
“Non è da te abbatterti così”. Disse il mio maestro. “La ragazza che conosco io combatterebbe anche quando non ci sono più speranze. La ragazza che conosco io non si ferma mai perché riesce a vedere ciò che gli altri non vedono!” Lo sentii esclamare mentre mi attaccava ripetutamente. Mi ritrovai schiacciata contro la roccia, sentivo il respiro del mio maestro sulla pelle mentre mi urlava: “Che diavolo stai facendo? Svegliati!”  
«Come puoi chiedermi questo? Mia madre è morta! É morta!» Urlai sia con la mente che con le parole. Crollai a terra bocconi. Il viso rigato di lacrime. «Mamma, mamma, no…» Per un attimo vidi il volto sorridente di mia madre e sentii ancor più il vuoto.
Per tutte quelle volte che avevamo litigato e non le avevo mai chiesto scusa. Tutte quelle volte che avevo urlato contro di lei, che non aveva mai alzato la voce, per tutte quelle che avevo preferito restare fuori casa che stare con lei. Come, come avevo potuto essere così meschina?
«Mamma…» Chiamai tra le lacrime, mentre dentro di me si apriva una voragine di niente, che faceva ancora più male del dolore. Singhiozzai, poi mi raggomitolai abbracciandomi le ginocchia e affondandoci il viso. Il mio maestro s’inginocchiò e mi strinse a sé: «Devi scusarmi. Noi Saint non sappiamo cosa si provi a perdere qualcuno di caro. Noi siamo tutti orfani, alla morte siamo abituati. Ma tu no per questo ti starò vicino finché non troverai il coraggio di diventare abbastanza forte da sopportare tutto questo». Promise e io mi aggrappai a lui, continuando a piangere.
Fui ritrovata  più tardi, quando il sole era già tramontato, da Kiki e Raki e ricondotta al Santuario.
I lemuriani mi tennero compagnia e mi stettero vicini tutto il tempo. La notizia non era trapelata, era rimasta tra noi.
Per quel giorno tutti rispettarono il mio dolore.
Tranne Kanon. Non interruppe niente, si limitò solo a essere più discreto e meno invasivo del solito.
Mi disse però che ringraziava mia madre per le preziose informazioni che aveva raccolto. «Ci saranno molto utili, in questa Guerra».
Io mi limitai a giocherellare con il cibo nel piatto e piluccare di tanto in tanto. Il dolore e la tristezza mi avevano chiuso lo stomaco.
Kanon mi lasciò andare. Finalmente, questa seduta era durata più del previsto e, solo gli Dèi sapevano cosa era andato perduto e cosa no.
La Dea non aveva acconsentito a dare retta al mio progetto. Non era la prima volta che mi capitava, ma è diverso quando lo dici a un barista o a un negoziante. No, qui c’era in ballo molto di più, come facevano a non capirlo?
“Vai a vedere le stelle?” 
“Sì”.
“Vuoi che venga con te?”
“No, grazie”.
“Allora buonanotte”. 
“Buonanotte”.
Quando avevo capito come agivano le Creature, non immaginavo che in realtà agissero a questo modo su ogni forma di vita. Pensavo che agissero solo sui Saint e tutti quelli che usavano il Cosmo, non su ogni essere vivente. Avevo dimenticato che chiunque può avere un Cosmo. 
Anche mia madre. Il suo volto comparve di nuovo davanti a me e serrai gli occhi, raggomitolata sul fianco. “Mamma.” Pensai e mi accorsi solo dopo di non essere più sola.  
Avrei voluto credere alla baggianata di Dragonheart, secondo la quale quando un’anima draconica muore viene assunta nel Paradiso dei Draghi verso la costellazione omonima. La stessa baggianata, raccontata con altre parole che vuole che quando una nuova anima venga assunta in cielo, nasca una nuova stella. Ma non c’era nessuna nuova stella. Le stelle non erano niente di tutto questo. Le stelle sono solo sfere di gas che rilasciano l’energia prodotta dalle reazioni chimiche che avvengono nei loro nuclei. Punto, basta, stop. Non c’è nient’altro. «Non c’è nient’altro». Mormorai sconfitta portandomi una mano alla fronte, come se avessi potuto impedire al dolore di uscire da me. 
«Ehi». Mi salutò la Piattola entrando nel cerchio di luce del falò. 
Alzai lo sguardo sconsolata: «Ehi».
«Di nuovo qui, eh?» Mi chiese, come se cercasse un pretesto per fare conversazione. Il fiato usciva condensato in nuvolette, dalle bocche sebbene fosse aprile. A queste altitudini era normale. Come per me era diventato normale mettere vestiti pesanti quando mi recavo quassù. Non avevo altra scelta se non volevo morire di freddo.
«Di nuovo qui. E tu? Alla fine hai considerato davvero la mia proposta». Mormorai, cercando in me la voglia di parlare, di insegnargli, che non c’era più annichilita dal dolore.
«Sì, diciamo che ho trovato quella chiacchierata piuttosto interessante». Ammise.
«Mi fa piacere sentirlo». Risposi lacrimosa, con un sorriso stiracchiato. Ma non avevo voglia di parlare.
«Senti… Ho saputo quello che è successo e mi dispiace, davvero». Disse poi, impacciato. Rivelando il vero motivo per cui fosse venuto a cercarmi. Annuii, ma non dissi niente.
Lui si avvicinò e si accucciò davanti a me, guardandomi preoccupato e ostruendo il calore e la luce del fuoco. Si allontanò e, quando non sentii più i suoi passi, piansi apertamente, sfogando tutte le mie lacrime e la mia tristezza. Così, a poco a poco mi placai.
Ero sdraiata sul fianco a fissare le braci del focolare che avevo acceso in fretta e furia.
Mi asciugai le lacrime e mi soffiai il naso con un fazzoletto. Avevo le mani intirizzite e sentivo le membra più fredde. Senza il fuoco a scaldare l’ambiente l’umidità aveva ripreso il sopravvento. E, come l’umidità che prendeva il sopravvento, mi sentii un niente di persona. Tutto questo potere e poi non serviva a niente Non era possibile. Perché tutto stava cadendo in pezzi a questo modo? Perché?  
A un certo punto qualcosa si posò sul mio corpo.
Lì per lì credetti che fosse la cerata che aveva ceduto ed era crollata dall’impalcatura, ma poi, mi resi conto che questa cosa era di un materiale diverso ed era caldo. «Tieni, se no prenderai freddo». Disse la voce profonda di Kiki. Sussultai per la sorpresa e mi rialzai sul gomito, trovandomi addosso il suo pastrano nero e lui, a mezze maniche, che cercava di riaccendere il fuoco.   
«Cosa vuoi fare, adesso?» Mi domandò.
«Mi andava, di parlarti di mia madre, sempre se, ti vada».
«Sì, certo che mi va».
E le raccontai tutto di lei, di come aveva lottato contro il pregiudizio a causa di assassini che coltivavano lo stesso hobby, della travagliata storia d’amore con mio padre, della sua amicizia con la zia e del periodo trascorso in Germania. Di come avesse sempre cercato di non farmi mancare niente, di quanto mi volesse bene. Di quanto fosse stonata e come mi avesse insegnato l’Astrologia.
«Credo che mia madre lo sapesse, anche prima, di voi, che quello che mi era successo non fosse un gioco sfuggito di mano». Dissi poi, pensierosa. «Credo che abbia cercato di proteggermi anche da questo. Ma evidentemente non c’è riuscita. É da lei che ho imparato a essere forte, a cavarmela da sola e adesso… Adesso non c’è più».
«Io credo che tua madre sarebbe orgogliosa di te».
«Credi? Lei mi augurava sempre tutto quello che non aveva avuto lei. Un matrimonio stabile, una vita serena, una famiglia, un buon lavoro, una bella casa, magari un cane o un gatto».
«E invece sei qui».
«Sì; ma non è necessariamente un male. Dopotutto, io non mi sono mai trovata bene nello stereotipo che mia madre sperava seguissi». Ridacchiai tristemente. Non mi ci vedevo in versione casa e chiesa. «Gli altri tuoi parenti lo sanno?»
«Non lo so, non so neanche se glielo debba dire o no».
«Secondo me dovresti».
«La fai facile, vero? Cosa devo dire a mio padre? E ai miei nonni materni?»
«La verità. Il come temo che spetti a te deciderlo».
Seguii davvero questo consiglio. Il mattino dopo e dopo una colazione che fu un pranzo per via della fame. Mio padre scoppiò in lacrime dall’altra parte del telefono.  

La primavera stava restituendo a questo posto la bellezza che nell’estate seguente sarebbe fiorito in tutta la sua gloria e splendore. Si potevano già sentire le prime avvisaglie della stagione. Non so se è sempre così Sembrava di nuovo di essere in un altro mondo, come nella spiaggia o nella grotta delle Creature. La sensazione era la stessa e presto mi parve che tutto diventasse come quella volta che trovai la grotta. Mi avvicinai a un fontanile e ci girai attorno, ascoltando lo scrosciare dell’acqua.    
Passai un po’di tempo a esplorare il giardino e poi mi accomodai sull’erba a godermi i raggi del sole. Mi parve quasi di sprofondare nel morbido tappeto erboso e le piante che mi solleticarono la pelle delle braccia scoperte dall’abito a mezze maniche. I fili d’erba parvero quasi abbracciarmi e intrecciarsi alle mie dita.
Chiusi gli occhi.
«Indicami la via». Mormorai.
Poi forse mi addormentai perché quando aprii gli occhi le nuvole avevano assunto una tinta arancione e rosea e il cielo ancora dipinto di quell’azzurro verde mare cominciava a risplendere di tocchi di giallo e fucsia che presto sarebbero sfociati in colori ancora più carichi e accesi come una fiamma e avrebbero lasciato il posto a un ultimo arcobaleno prima di scomparire oltre l’orizzonte. In un dolce sfumato che forse solo il pittore più abile sarebbe riuscito a immortalare e rendere su tela alla perfezione.   
Mi alzai di nuovo in piedi e salii su, in alto, fino a superare il tetto della Sesta. Oltrepassai la barriera e mi ritrovai ad osservare dall’alto le Dodici Case. Dodici come lo zodiaco.
E, improvvisamente, trovai una pista: la parola zodiaco derivava dal greco zōdiakòs a sua volta composta da zòon, l’animale, l’essere vivente e hodòs, cioè strada, percorso. Appena lo pensai le dodici costellazioni zodiacali comparvero attorno a me come se formassero un cerchio. E, tra le mie mani, apparve il Sole delle dimensioni di una sfera di fuoco grande quanto un pallone da pallavolo.
Poi alzai con una mano la sfera sopra la mia testa e quella rimase sospesa lì e, mi ritrovai a osservare i dodici settori in cui era divisa la cintura zodiacale. Mi girai su me stessa come a simulare il percorso annuale compiuto dal Sole attorno alla Terra e  vicino alla mia testa comparve la Luna e mi rammentai che le stelle della fascia zodiacale erano utilizzate dagli astronomi mesopotamici come punti di riferimento per registrare la posizione del Sole e della Luna. Improvvisamente Lo zodiaco si spostò in posizione verticale e scese davanti a me, come se fosse una sorta di mappa stellare. E, mi ricordai che, anticamente, molto più anticamente del Mulapin, la coppia di tavolette del Settecento a.C., vengono elencate diciassette stelle/costellazioni poste nel “Sentiero della Luna”. E, io avevo davanti a me questo sentiero. Anche se nel V secolo  con il perfezionarsi degli strumenti di osservazione, i babilonesi preferirono dividere lo zodiaco in dodici segmenti di trenta gradi ciascuno, assegnando convenzionalmente a ognuno il nome di una costellazione. Ma era diverso ancora: dovevo fare una distinzione tra zodiaco tropicale e zodiaco siderale. Perciò mossi le braccia di lato come aprire un portone e le costellazioni si illuminarono di una luce bianca e si sdoppiarono portando con sé le altre cinque costellazioni di troppo dalla mappa, ponendole altrove.
Strumenti di osservazione, astronomia e astrologia. Già, una volta queste due discipline erano un’unica grande disciplina. Una volta gli esseri umani guardavano al cielo con occhi diversi. Pieni di meraviglia e rispetto, forse soggezione. Forse, dovevo riscoprire anch’io questa meraviglia.
Forse era questo ciò che mi mancava e che mi aveva portato a cercare di rifuggire le stelle nella mia adolescenza. Non erano solo numeri e misurazioni di gas ed energia luminosa. Io non la vedevo così.
“Dov’è la via?” Mi domandai. “La via è nel mezzo”, fu la risposta che trovai.
Allora quello che dovevo fare per rinnovarla, altro non era che riscoprirla.
Ma come?
Sentivo che la cosa che dovevo fare era andare avanti, rispolverando le mie conoscenze.
Dodici costellazioni dalle coordinate longitudinali ora legate ai punti equinoziali, la cui posizione varia a causa della precessione degli equinozi. Ma quelli babilonesi erano ancorate alle costellazioni dello zodiaco. E la loro conoscenza di queste forniva le coordinate dei punti di inizio e di termine delle costellazioni babilonesi. Un’arte divinatoria per misurare uno degli elementi naturali, il Tempo. Sotto ai miei piedi apparve la sagoma di un orologio con le lancette in corrispondenza dei dodici segni. 
Mi chinai e quando feci per toccarla le mie dita si illuminarono di giallo. Con essa scrissi la formula di Huber per le coordinate babilonesi di quelle tropiche            

λ (B) = λ (T) + 3.08 + 0.013825 y
 
in cui y è l’anno in coordinate astronomiche. In pratica i due sistemi coincidevano circa nel Duecentoventidue a.C. Poi la formula andò a incastrarsi nel complicato disegno che stava sorgendo sotto ai miei piedi.
Astronomia e Astrologia unite alla radice da una base comune. Come avevo fatto a dimenticarlo?
Apparve la figura di mia madre davanti a me. «Mamma!» Esclamai sorpresa nel vedermela davanti. Aveva ancora il viso solcato dalle prime zampe di gallina e il collo era ancora magro. I capelli lunghi più dei miei, scuri come la notte e i vistosi orecchini a cerchio. Sembrava quasi un’apparizione divina.  «Tutto è collegato, bambina mia». Mi disse sorridendo prima di scomparire e al suo posto comparve di nuovo la mappa astrologica. Collegato, come gli elementi, come le stelle della costellazione di Saga. Ma le costellazioni erano raggruppamenti apparenti di stelle. Non erano veramente collegati. “Ma chi ha deciso che lo fossero?” Mi rispose una voce femminile che conoscevo, anche se non rammentavo dove l’avessi già sentita.  
La bocca mi si aprì da sola per ricalcare le parole della piccola omologa dei miei ricordi: «Perché deve essere per forza collegato? Perché non può esserci qualcosa di staccato?» 
Tornai a concentrarmi sulla mappa dello zodiaco e, tendendo una mano verso di esso, la spostai sotto ai miei piedi. Mi alzai di nuovo in volo e, muovendo le mani come ad ampliarlo, esso rispose al mio comando. E, in mezzo ad esso, comparve il Santuario con le Dodici Case. Case, settori, campi, come avevo fatto ad essere così cieca? Erano sinonimi! Sinonimi della suddivisione della carta natale di una persona. Rappresentavano il percorso del Sole e dei pianeti nell’arco di una giornata, dall’alba di un giorno alla successiva.
Appena comparvero anche i pianeti si andarono a disporre quasi sul fondale dell’immagine del Santuario.
Ma all’inizio non si chiamavano così le case. Nel Tetrabiblos di Tolomeo i loro nomi erano rispettivamente: Oroscopo, Il cancello dell’Ade, La dea sum, Imum Coeli, La buona sorte, La cattiva sorte, Occidente, Inizio della morte, Dio, Medium Coeli, Demone buono e Demone cattivo.   
Appena lo pensai sotto le figure dei segni zodiacali comparvero queste parole e io mi ritrovai a pensare che, in un certo senso, raffigurassero aspetti dei loro guardiani. Mur che a volte se ne usciva con commenti legati all’interlocutore come se fosse effettivamente una valutazione o il responso di un oroscopo. Mi ricordavo ancora di quella volta che disse a Death: «Quell’Armatura ti si addice veramente».
La Prima Casa rappresentava il modo di presentarsi agli altri, la prima impressione, la personalità immediata, l’indole, l’istinto e le informazioni sull’aspetto fisico. Mur e Kiki, infatti, si nascondevano dietro una maschera di calma. E Mur non aveva niente da invidiare a Death Mask in quanto macabrietà e sadismo. Erano gli esaminatori.
Il cancello dell’Ade, la fermezza di Aldebaran, il suo modo di combattere e la sua stazza che, effettivamente sbarravano la strada proprio come un cancello quasi invalicabile. Che però, si poteva aprire se si toccavano i punti giusti. 
La Seconda Casa rappresentava i valori concreti che abbiamo intorno a noi e su cui possiamo contare, un tempo identificabili con la terra, oggi con il denaro, i beni materiali e le necessità primarie come il cibo, la gelosia come possessività della persona amata, l'immediato futuro e la necessità di sopravvivenza e di sostentamento.
La dea sum, il Cosmo Doppio dei Gemelli, che li rendevano potenti quasi quanto Lady Isabel. Le due nature dell’essere umano, la dicotomia tra Bene e Male, il nous, la scintilla divina dentro la carne umana. Filosofia. Ma anche Dante, con la sua discesa nell’Altro Mondo. In questo momento eravamo ancora nella selva oscura. Letteratura. E, di nuovo Astronomia, con la notte. Il periodo d’osservazione delle stelle.  É l'ambiente circostante immediatamente vicino a noi e come lo viviamo, è la casa dei fratelli, dei cugini, degli amici più cari e dei colleghi di lavoro, della socievolezza e della curiosità verso quanto ci circonda, delle pubbliche relazioni, del nostro modo di esprimerci e di parlare. È anche la casa dei piccoli viaggi, degli studi adolescenziali. Allora se è così, io se, avessi dovuto farmi il tema natale, mi trovavo ancora nella Terza Casa.
«Tutto è collegato». Mormorai, persino io, ma in che modo?
Andai avanti e passai all’Imum Coeli. O Fondo Cielo, che indica la mezzanotte e la posizione della IV Casa, la sua cuspide o campo. I nati attorno alla mezzanotte hanno il Sole a Nord vicino all’Imum Coeli, all’opposto del Medium Coeli, cioè il mezzogiorno.
L’ambiente di origine e finale dell’esistenza del soggetto con il significato più ampio l’inizio e la fine degli accadimenti delle cose. Death non era solo il Custode delle anime dei morti, ne era il traghettatore. Non era una maschera, ne era uno dei suoi volti. Lui si prendeva i doni della vita. Era questa la malinconia che si respirava nella sua Casa. E, lui lo sapeva. I suoi vecchi deliri non erano così a vuoto, allora.
É la famiglia, l'ambiente di origine in cui siamo cresciuti, il focolare domestico, i genitori, la nostra infanzia e il modo in cui tutto questo ha condizionato il nostro essere, è la casa delle tradizioni e dei legami ancestrali, della memoria e del nostro modo di fermare il tempo, ad esempio collezionando qualcosa. Può esser interpretata come percezione soggettiva, mentre altre teorie sostengono che illustri la situazione oggettiva. Di fatto l'una condiziona l'altra.
Poi passai alla Quinta, cioè la Casa di Aiolia, che rappresentava La buona sorte. Lui che a vederlo splendeva come il Sole e che portava speranza scacciando le tenebre. Che inconsciamente tutti i Cavalieri rispondessero alle loro costellazioni zodiacali? La buona sorte asservita alla conoscenza, la conoscenza che sciaccia le tenebre. L’alba. Ma allora La cattiva sorte? L’ignoranza? Come se fosse una sorta di ruota che gira? No, non era così.  Non andavano contemplati in due modi differenti come credetti nella mia adolescenza, ma uno come specchio dell’altro.
Adesso vedevo gli errori di percorso che avevo compiuto nella mia scoperta, ed era ora di correggerli. In Astrologia la Quinta Casa è quella della voglia di vivere e divertirsi, del potenziale creativo e della capacità di lasciare un segno, un'opera letteraria o un'opera d'arte, ma anche senso creativo inteso come carica erotica e sessuale, procreazione e, per esteso, educazione dei propri figli. È anche la casa degli eccessi e dell'atteggiamento nei confronti dei rischi, come può essere il gioco d'azzardo. E la Sesta è il dovere, le regole da rispettare, la routine quotidiana e il modo di affrontarla, il lavoro di tutti i giorni, l'adattamento verso il quotidiano e le sue regole, la disciplina e il rispetto degli altri ma anche di noi stessi. Quindi è anche la cura che abbiamo del nostro corpo e la nostra salute, come curiamo i nostri malanni e il nostro aspetto, per esteso il nostro modo di abbigliarci. Indica le zie.
Tornai a concentrarmi su essa.
Luce e buio. Luce come sentimenti positivi, quanto di più bello c’era nella vita, Buio come sentimenti negativi. Perché altrimenti Aiolia, che tutto in lui ricordava il sole, il suo segno di fuoco lo emanava, allora era così cieco e negativo? E, perché un illuminato come Shaka era così ottuso nella sua illuminazione? Nella Luce ci sono le Tenebre e nelle Tenebre c’è la Luce. Non Luce e Buio veri, ma interiori. La sfera emotiva. Ying e Yang, non una ruota, una bilancia. Ma quand’è che questa Luce si offusca? Quando le accade qualcosa di brutto. Ad Aiolia cosa era successo per diventare così? E, perché a Shaka mancava la compassione, l’umiltà e l’umanità tutto tronfio e preso come fu ad asservire il suo compito di reincarnazione di Buddha? La Bilancia della Giustizia. La capacità di discernere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ecco cosa rappresentavano. Ma la Bilancia? Cioè l’Occidente?  Che senso aveva? Il luogo forse? Un momento, Tolomeo era egiziano. La Bilancia andava interpretata nel senso della sua gente. La Bilancia delle proprie colpe e l’Occidente era l’Al di là, forse l’ago dell’Equilibrio. Se non mi ricordavo male a Shiryu era toccato proprio il compito di sentenziare il mio verdetto. La Linea di confine. Il Discendente che inizia la sequenza delle Case al di sopra dell'orizzonte e i significati si contrappongono alle precedenti. La settima, opposta all'Io-ascendente è la Casa degli Altri, del nostro modo di legarci a loro, ad es. con una società per affari, è la casa della convivenza, delle scelte di responsabilità, dei contratti, incluso il matrimonio, è la collettività e il modo in cui viviamo le reazioni con il prossimo. Rapporti con sorelle.
E, dopo di ciò l’Inizio della morte, l’Ottava Casa. Il segno che più di tutti era collegato alla mitologia egizia in quanto sette scorpioni erano al servizio di Iside e uno scorpione punse Orione per la mitologia greca. Il giustiziere che dava una chance di redenzione. Come succedeva quando si moriva. O, almeno mi era parso dal momento che la morte non mi aveva neanche sfiorata, per quanto l’avessi desiderato. Colui che puniva e redimeva. La disciplina, ecco cosa simboleggiava. Ed era opposta alla seconda-denaro e avere, rappresenta il denaro che avremo, magari in eredità, come sapremo gestire la nostra situazione economica futura, quindi rappresenta anche il denaro nel senso di "dare": debiti, rate, mutui. È una casa misteriosa, profonda, occulta, è il sacrificio, il significato che diamo alla morte, ma è anche potenziale creativo, fascino, magnetismo, l'inconscio e l'attrazione per l'occulto, la realizzazione spirituale. Può essere vita o morte, sacrificio o indulgenza. Al negativo rappresenta la segretezza, gli amori nascosti, il mistero, la falsità.
Poi c’era Dio. Questo era il concetto più difficile. In senso Astrologico era opposta alla terza-ambiente circostante, rappresenta l'ambiente lontano, i lunghi viaggi, l'estero e il modo di relazionarci con le persone straniere. È anche la casa dei viaggi mentali e dell'evasione attraverso discipline filosofiche, dell'etica, degli studi superiori, del clero, degli ideali. Indica anche gli zii, cugini.
Chi è Dio? Cos’è? Il Sagittario in che modo è connesso a Dio? Qualcosa che non si spiega. Ma come si trova? Staccandosi dai luoghi che si conosce, che siano fisici o mentali. Il Sagittario era figlio di un Dio, una parte di lui, un’emanazione. Il Sagittario è la Mente nella sua complessità, la parte inferiore, cioè l’Es a forma di cavallo, per l’istinto. La parte superiore è l’Io cosciente. Ma il Super Io, la morale, dov’è? Dio cos’è? Poi ripensai al concetto di Dio in antichità, tramite i miti: personificazioni della forza della Natura come il fulmine. In effetti gli attacchi del Sagittario oltre che alle frecce erano legati al fulmine. Qual è il compito di un Dio? Aiutare l’umanità, infonderle speranza e guidarle verso la Luce, la pace. Il compito di Lady Isabel, forse era per questo che il Sagittario era uno dei Cavalieri più fedeli della Dea assieme al Capricorno. Ma, se, in questo caso, Dio, fosse Daimon? Era un concetto parecchio diverso ma Lady Isabel era la Dea, l’armatura del Sagittario aveva le ali quindi un messaggero tra i due mondi, proprio come un angelo e, secondo Platone era Eros questo messaggero. Se simboleggiasse l’amore? Dio come Amore. Ecco in che senso.
Ed era l’amore che poteva portare verso la luce del Medium Coeli, il mezzogiorno, la Vita. Forse non era un caso che la spada Excalibur fosse stata affidata proprio al Capricorno. Il momento del giorno al massimo del suo apice eppure a un passo della sua decadenza. Il massimo della forza e prossimo a calare al tempo stesso. Ma non era solo questo, era anche un segno di mezzo. Il segno di Pan, il Dio delle Foreste. La forza selvaggia della Natura. E, Shura la temeva ingiustamente. Prima o poi avrei dovuto farci una bella chiacchierata. Inizia dal Medium Coeli ed è opposta alla quarta-origini. Rappresenta la realizzazione professionale che avremo, la fuga dal nido di origine, il successo, l'indipendenza, i riconoscimenti che avremo o non avremo, l'ambizione e la decisione ad inseguire determinati obiettivi, la forza di abbattere gli ostacoli.
Poi il Demone buono. Cos’è il Demone Buono?  L’acquario, colui che versa l’acqua nella bocca del pesce. Colui che nutre il Demone Cattivo. Spiegherebbe le Rose Demoniache di Aphrodite. Già, il concetto di Angelo non esisteva nella popolazione egiziana. E l’Armatura dell’Acquario ricordava vagamente un demone, anche se dalle forme più dolci rispetto a quelle del Capricorno.
Ma non era solo questo. L’Undicesima era opposta alla quinta-eccessi è la casa dell'equilibrio, della moderazione, del controllo, di come ci muoviamo nel contesto sociale e delle amicizie che impariamo a coltivare, la nostra moderazione, la capacità di individuare progetti e portarli a compimento ingegnandoci. È associata anche alle nuove tecnologie e al modo in cui ci rapportiamo ad esse. E, la Dodicesima era quella che chiudeva il cerchio in quanto opposta alla sesta-regole e concretezza e rappresenta noi di fronte al mondo e alle difficoltà della vita, è il modo in cui riusciamo a gestire la nostra interiorità, i nostri sogni, la meditazione, la sensibilità, l'emotività, la solitudine, il sublime, l'insofferenza verso la routine e la materialità a favore della spiritualità. Ricapitolando avevamo i Pianeti disposti in una particolare posizione rispetto alla linea dell’orizzonte delimitata dall’asse orizzontale Ascendente-Discendente. La disegnai con una mano e con l’altra disegnai l’asse verticale Medium Coeli - Imum Coeli. Ma l’asse che m’interessava in questo momento era quello verticale che univa la Casa del Sagittario e la Casa del Cancro. Eros e Thanatos. Due forze al servizio della Guerra. In effetti erano questi i motivi per cui si lottava.
 Ma lottando si finisce per logorarsi, fino a morire o a marcire dov’era il tempo per rimettersi in sesto?
Cosa simboleggiavano queste Case nel loro insieme? Io ci avevo sempre visto una persona nel suo insieme, ma nel suo insieme era comunque incompleta. Mancava qualcosa, ma non capivo cosa fosse.
Tutto è collegato, ma allora cosa è andato perduto? Un Elemento? Non credo, nello zodiaco erano considerati solo i Quattro Elementi principali. Il Fulmine e il Legno e il Metallo non c’entravano niente, ma neanche il Tempo. Ci stavo ancora pensando quando sentii una voce dirmi: «Molto bene, hai fatto un enorme progresso, hai compreso la dualità delle forze, ora devi solo andare avanti». Mi guardai attorno e vidi di nuovo mia madre, che mi sorrideva. «Mamma.» mormorai.
Lei mi sorrise di rimando: «Bambina mia».
«Mamma!»
Le corsi incontro e l’abbracciai commossa. Poi mi incorniciò il viso tra le mani e disse: «Sei cambiata tantissimo, piccola mia, sono fiera di te».
«Mamma, io, mi dispiace, mi dispiace per quello che è successo, io...»
«Non ti preoccupare, io lo sapevo».
«Lo sapevi?» Domandai stupita. Mia mamma sorrise triste: «Da molto tempo sapevo che prima o poi sarebbe successo». 
«Tu sapevi? Perché non mi hai mai detto niente?»
«Perché non volevo vederti con quest’espressione triste, tesoro. Non l’avrei sopportato». Appena lo disse i ricordi delle nostre litigate della mia adolescenza tornarono a galla e si proiettarono attorno a noi come un film. Ma ora... era diverso, al ricordo di quei litigi mi sentii gli occhi pieni di lacrime e mi morsi il labbro per trattenere un singulto. Ora che ero adulta, alla luce di questi fatti, potevo vedere anche i suoi tentativi di proteggermi. Cielo, erano così evidenti da essere fraintesi. Che ragazzina sciocca e senza cervello che ero stata. Ero troppo presa a crescere, a commettere i miei errori da non vedere oltre il mio naso. L’abbracciai di nuovo e piansi apertamente: «Scusa mamma, se lo avessi saputo io...»
La mamma mi strinse a sé come faceva quando ero bambina e mi spaventavo per i fulmini. «Ssst, non piangere, va tutto bene, è tutto passato, stai tranquilla», disse carezzandomi la schiena. «La mia piccola stellina», mi chiamava allora e anche in quel momento mi chiamò di nuovo così. Mi tenne stretta a sé finché non mi sentii meglio. Anche se ormai le avevo lavato i vestiti con le mie lacrime. Mi passò un fazzoletto e mi asciugai le lacrime e mi soffiai il naso. «Hai ancora molta strada da fare, piccola mia. Ora va e torna a casa». Mi disse. Proprio allora sentii qualcuno chiamarmi e fui riattirata verso la terra, verso il mio corpo. Mia madre alzò il braccio in segno di saluto mentre io urlavo che non volevo lasciarla.
Quando aprii gli occhi, mi scoprii ancora nel morbido abbraccio del prato di Shun, a guardare il sole che stava tramontando.
Mi alzai a sedere con la sensazione che qualcosa in me era cambiato. Che avessi appena fatto una scoperta di cui ricordavo i particolari. Ma non era di quelle che mi aspettavo, era di quelle che coinvolgevano lo spirito e la mente.
Una scoperta la cui conseguenza potevo ammirarla sulla mia pelle. Infatti, quando mi guardai, mi accorsi di aver manifestato l’aura nera e cupa come l’oscurità più profonda che, come una fiamma danzante nasceva dalle mie membra. Ma il nero più s’innalzava più sfumava sul grigio, l’argento e il bianco e, dentro di esso volteggiavano bagliori fosforescenti come stelle in movimento. Allora non era la mia immaginazione l’altra volta. Mi aspettai di veder comparire anche le Armature ma non successe nulla. Stavo solo splendendo. Valeva questa parola anche nel mio caso? Mi guardai incuriosita nel riflesso della fontana che, grazie alla luce del tramonto, potevo ancora vedere. «Sì, certo che so dov’è». Disse la voce di Shun. «L’ho lasciata in giardino giusto qualche ora fa».
Appena sentii la voce di Shun mi ricordai di dove mi trovavo ed ebbi paura. Loro non sapevano dell’aura nera! Svelta mi andai a nascondere tra le piante.
Se qualcuno mi avesse vista all’interno del Santuario non volevo immaginare cosa sarebbe potuto succedere. Un’aura nera come questa poteva essere fonte di guai per me. Già molte persone non mi potevano soffrire, aggiungiamoci anche questo e sarebbe stato il colmo.
«Ma, nobile Shun, qui non c’è nessuno». Obiettò una voce maschile.
«Siete sicuri?» 
Scivolai tra le fronde di un cespuglio di caprifoglio e lì restai nascosta ringraziando l’oscurità crescente, che mi avrebbe concesso una protezione maggiore. “Ma che cazzate dico?” Sarebbe durata poco. Dovevo sbrigarmi a smettere di luccicare, altroché! luce nera non scomparve poi mi ricomposi e mi avviai dentro la Casa. Pensavo che sarei stata colta da un attacco di ansia, invece non successe niente. Mi sentivo calma, perfettamente calma. Semmai erano i servi ad essere in fermento. Perché un paio di miei colleghi stavano parlando con Shun. Li conoscevo di vista, se non erro erano Alessio e Mitanni: «Non avete visto dove può essere andata? L’abbiamo cercata dappertutto».
«No, purtroppo no, l’avevo lasciata in giardino ma non c’è più».
«Cosa? Di chi state parlando?» Domandai facendo il mio ingresso, stropicciandomi un occhio. I tre si voltarono verso di me e partì un coro di «Astrid» e dei, «Dov’eri finita? Ti abbiamo cercato dappertutto!» E, mi si avvicinarono.
«Ero in giardino, mi sono appisolata, scusate...» ma non feci in tempo a completare le scuse che  uno dei due mi agguantò per il polso e mi trascinarono via. «Vieni, sbrigati, dobbiamo correre alla Tredicesima». Disse il primo e, il secondo: «Grazie di tutto, Nobile Shun di Virgo». Poi ci seguì. 
«Cosa succede?»
«Ti abbiamo cercato dappertutto, sei sparita per due giorni!» Esclamò agitato Mitanni. Considerando che alla Tredicesima mi consideravano alla stregua di un ricordino di piccione da evitare, mi sorprendeva che anche la mia presenza fosse richiesta. «Sbrigati!» 
Fui immediatamente relegata in cucina. E, la prima cosa che mi dissero, dopo “lavati le mani” fu «Perché hai delle foglie nei capelli?» Foglie che mi affrettai a togliere e dare una mano in cucina. Non me la cavavo così male come Lythos. Anzi, in realtà io e l’arte culinaria andavamo molto d’accordo.
Le rivelazioni che avevo ricevuto mi resero disattenta. Mia madre mi aveva appena restituito un po’ di speranza. Aggiungiamoci anche il fatto che non sarei potuta andare al mio osservatorio personale ed era fatta. L’unica cosa da fare era lavorare e meditare insieme.
Feci un bel respiro profondo.
Dunque, dov’ero rimasta?
I segni zodiacali.
Avevo appena riscoperto le basi dell’Astrologia, ora non restava che andare avanti. Per mia madre, per me, per il Santuario. Non potevo lasciare che le informazioni che mi aveva lasciato cadessero nel vuoto. Non me lo sarei mai perdonato.
Le Dodici Case rappresentano aspetti della personalità di una persona. Ma perché sono così sconclusionate? Perché non c’è armonia tra i Dodici segni? Cosa è andato perduto? No, non potevo restare qui a preparare la cena, dovevo sapere.
Mi guardai attorno e mi assicurai che nessuno facesse caso a me, poi me la svignai senza dire una parola dalla cucina.  Purtroppo per Elsa, Mitanni e Mylock, non potevo trattenermi oltre come avrebbero desiderato. Avevo del lavoro da svolgere e non potevo permettermi di perdere tempo. Kanon era stato categorico.
Perciò mi recai di nuovo al giardino della Sesta Casa. Mi parve quasi che qualcuno mi chiamasse ma la voce non proveniva dalle mie spalle, bensì da davanti a me. Era la stessa voce di qualche mese fa, che mi aveva condotta alla grotta.  
Approdai nel giardino dopo averne aperto la porta e tornai a sedere sotto l’albero. Chiusi di nuovo gli occhi e ripresi la meditazione lasciandomi guidare dalla sensazione impellente. Ero sorpresa, non mi aveva abbandonato nonostante che fossero passate delle ore. Tanto meglio. I concetti erano ancora freschi e vivi nella mia mente.
Immaginai di nuovo di essere sospesa nel cielo e recuperai rapidamente lo zodiaco.
Le Case generalmente si potevano estendere sia su un solo segno zodiacale, su due (in maggioranza) e su tre (in misura minore) o più mano a mano che ci si avvicina ai circoli polari.
Si dividono in angolari, corrispondenti ai segni cardinali, succedanee corrispondenti ai segni fissi e in Cadenti corrispondenti ai segni mobili. Spezzai la meridiana a metà, facendola diventare una linea e poi la spezzai altre tre volte, ottenendo tre segmenti da quattro case.  
I segni cardinali sono segni zodiacali in cui si trova il Sole all’inizio di ciascuna stagione, cioè in Ariete, in Cancro, in Bilancia e in Capricorno. Cancro e Capricorno vengono anche chiamati segni solstiziali, mentre Ariete e Bilancia segni equinoziali. Disegnai sotto ciascuno di essi il simbolo di un sole o di una luna per distinguerli. Poi tracciai i rapporti con le case. Unii con una linea che creai con il movimento della mano l’Ariete con la Bilancia e il Cancro e il Capricorno, realizzando la “croce cardinale”.  Poi spostai questa croce e la rimisi al suo posto. E, passai alla contemplazione dei segni fissi o solidi. Cioè quelli in cui si trova il Sole nel pieno di ciascuna stagione. Toro, nel pieno della primavera, Leone nel pieno dell’estate, Scorpione, nel pieno dell’autunno, Aquario nel pieno dell’inverno. Unii il Toro allo Scorpione e il Leone all’Acquario realizzando la “croce fissa” e la unii alla “croce cardinale”. Infine passai ai segni mobili o bicorporei perché siti tra due stagioni, cioè Gemelli, Vergine, Sagittario e Pesci e la loro croce era definita “croce mobile”. Guardai la mia opera. Che cosa avevo ottenuto? Una suddivisione stagionale.
Una suddivisione stagionale di caldo e freddo, di secco e umidi, di Elementi! In Spagna gli Elementi venivano divisi così! Ecco cosa avevo ottenuto!
I tre segni corrispondevano a un Elemento Magico. Di nuovo i collegamenti! Eccoli! Tutto è collegato. Adesso stavo esplorando di nuovo il territorio della magia. E, se fosse stata davvero magia quella che dovevo operare per ripristinare il segno di Saga? E, io, cosa avevo fatto? Avevo usato il mio potere per seccare un segno che umido non era, lo avevo reso solido quando invece era mobile. Terra, quando invece era aria. Dovevo riportarlo alla sua costituzione originaria.
Ma come? Richiamai alla memoria il ricordo della sua cattura, avevo usato il mio potere in base a un’analogia basata sull’astronomia, ma l’avevo solidificato in base all’astrologia. Ma l’avevo fatto perché avevo avuto paura. Paura, blu, segni d’acqua. Il collegamento era evidente.
Ecco perché non c’era un manuale di istruzione per l’uso di questi poteri, li usavo inconsciamente in base alle mie conoscenze. Ma tratteggiai di fronte a me la costellazione dei gemelli e, con le mani, la richiusi su se stessa appena mi presi il pugno nell’altra mano. Chiuso, statico, come la Terra, o il Metallo. Appena aprii la mano e le separai, la costellazione tornò al suo posto. Aperto, in movimento, come l’Aria. 
Potevo usare anche le analogie astrologiche per sfruttare i miei poteri. Sorrisi mentre facevo ulteriori progressi. E, potevo farlo, solo usando le mie mani. Altro che Armature e Cosmo! Io avevo davvero il Potere delle Stelle! 
Adesso potevo farlo, adesso potevo davvero liberare Saga. E, appena giunsi a questa conclusione, mi sentii invadere da una nuova forza. Una forza che spazzò via tutta la tristezza e i dubbi provati finora e che si ritrasse su se stessa per assumere l’aspetto di una fiamma danzante all’altezza del mio petto. Una fiamma mandante forza, determinazione e anche una certezza così assoluta da toccare le vette del trionfo. Una carica che cresceva dentro di me, dalla parte più profonda della mia persona, aumentando la mia forza e facendomi sentire invincibile.
Subito un altro ricordo prese forma dentro di me. La prima volta che la sentii, d’inverno. Quando battei per la prima volta il mio maestro. Era Natale ed eravamo in Umbria dai miei nonni materni quando uscii a giocare in giardino. E il mio maestro mi raggiunse portandomi il bastone. «Adesso, maestro?» Domandai incerta.
«Adesso». E, dopo qualche infruttuoso tentativo sospirò e smise. Posò la punta del bastone in terra. «Gli esiti delle battaglie tra i Saint dipendono da quanto si brucia il Cosmo. Tu non sei ancora riuscita a risvegliare il tuo, a questo punto forse direi che è meglio lasciar perdere». Annunciò, sconsolato.
Sgranai gli occhi: cosa? Il maestro continuò: «Tu non sarai mai una Saint e io ho sprecato il mio tempo per nulla». E mi voltò le spalle. No, dopo tutto quello che era successo, non poteva finire così. E fu allora che sentii esplodere la rabbia dentro di me. Una rabbia ardente come non ne avevo mai sentita prima.  «Ehi, maestro». Dissi rialzandomi da terra. Lui si girò verso di me con un’espressione neutra in volto. «Non ho sentito la campana». Decretai con la mia vocetta da bambina, trapassandolo con gli occhi.  «Che?» Domandò confuso e per niente impressionato.
«Non - ho - sentito - la - campana.» scandii reprimendo la vergogna. Non era la stessa cosa la stessa frase di Rocky V. Detta da una bambina di otto anni, in effetti, sembrava una stupidaggine fatta e finita. Eppure dirlo non fece altro che incendiarmi ancora di più. L’energia sembrava esplodere da me increspando l’aria.  «Vuoi continuare?»
«Sì».
«Va bene». Sospirò. Poi si rimise in posizione. Ma per me non era più un gioco. Detti retta all’Acqua che la miko del tempio shintoista aveva rilevato in me. Mi fu molto facile credergli, quando si è piccoli è più facile credere alla magia che da adulti. E, se questo era il mio potere, allora era tempo di ascoltarlo. Asseconda i suoi movimenti. Mi sussurrò la voce dell’Elemento. E io lo feci parando e schivando. I colpi dei bastoni risuonavano tutto attorno a noi nel campo.
E ora avanti, più veloce. Ed io eseguii. Prendi la mia fluidità. Comandò ancora e le mie membra si rilassarono istantaneamente, come se si fossero spogliate della pesantezza.
Il mio corpo si fece più leggero e più sciolto, come acqua. Come quando ballavo. Come lui quando, muovendosi come un serpente per schivare i colpi, sembrava fatto di onde.
Senza che lo avesse premeditato roteai il bastone e lo colpii con l’Ichi Zuki, ossia la parte inferiore del manico con una finta che con la disciplina non c’entrava niente.
Per la prima volta da che lo conoscevo, il maestro sgranò gli occhi verdi sbalordito. Non ero mai riuscita a schivare tutti quegli attacchi e a colpirlo da quando mi aveva preso sotto la sua ala.
E, riuscii a portare la punta del bastone alla sua gola. Sgranai gli occhi, tornando in me e, sentii l’energia ardente di cui ero nucleo e che si espandeva attorno a me. Non ero mai stata più consapevole di ciò che mi circondavo. Percepivo ogni cosa con esattezza e la sentivo parte di me.     
«Che cos’è questo?»  Domandai sbalordita ritraendo il bastone dal suo collo mente le lingue di energia nera grigia, argentea e bianchissima mi avvolgevano. I bagliori fosforescenti che si muovevano tutto attorno a me e sentivo una melodia e una voce che permaneva ogni cosa in un dolce canto.  Lui mi sorrise, fiero e mi posò una mano sulla testa, mentre ansimavo per recuperare fiato: «Questo è il tuo Cosmo».
«Il mio Cosmo? Da come me ne avevate parlato io credevo…»
«Infatti, in realtà non lo usiamo così, ma sembra che tu, invece, sia riuscita a risvegliarlo senza doverlo per forza bruciare. Questa è una cosa che non si vede tutti i giorni».
«Ma quindi non è stato uno spreco di tempo?»
«No, non lo è stato».   
“Io ho un Cosmo”. Pensai stupita e, questo pensiero, mi accompagnò anche al risveglio.
Ma quella voce… Di chi era quella voce? Perché ero capace di sentirla? Un momento e se…
Aprii gli occhi mi ritrovai coperta d’umidità, distesa a terra, sull’erba rugiadosa e le membra infreddolite. Il cielo era dipinto con i colori dell’alba. Eppure anche così non smettevo di sentirmi parte del Tutto. Non pensavo di aver sprecato così tanto tempo. Aspetta, cos’era che stavo per ricordare? Mi sentivo a un passo da un’importante scoperta. Mi portai una mano alla fronte nel tentativo di spremermi le meningi. «Andiamo, cos’era?»
Poi sentii di nuovo quel canto e quella melodia. Mi guardai attorno ma non vidi nessuno e non percepii niente. Ma questo era reale, non potevo essermelo sognato. Non così. Ero più che sveglia, anche perché mi tirai pure un pizzicotto. Ma la melodia non scomparve.
Poi sentii la risata del sogno, stavolta più profonda e intervallata di note più alte, femminili. Una risata divertita, ma non di scherno. Una di incoraggiamento.  
Quella voce che mi aveva accompagnato finora, non era quella della mamma, apparteneva ai miei ricordi. Alzai la faccia al cielo mentre le stelle venivano cancellate dalla nascita del nuovo giorno.
Finalmente ci sei arrivata, eh? Mi chiese divertita, staccandosi dal canto corale.
Quella voce che mi aveva guidato nell’infanzia era la voce delle stelle. Io ero capace di ascoltare la voce delle stelle e di essere un tutt’uno con il Cosmo.
«Ah, l’alba.» dissi riavendomi dal mio stupore.
Mentre il sole sorgeva mi resi conto che parte dell’energia che mi pesava sul cuore fino a quel momento era scomparsa e che il dolore si era fatto più sordo. Mi sentivo un po’più forte. Non come all’inizio, ma sulla buona strada per accendere in me quella speranza che mi avrebbe guidato. Almeno, la strada l’avevo trovata.
Mi sentivo almeno un po’ diversa, adesso e, quella strada, adesso non mi intimoriva.
Ora non mi restava altro da fare che chiudere il rito. 
Mi alzai, mi spolverai sul sedere e sulla schiena e poi divaricai un po’ le gambe. “Laddove la notte cede il posto al giorno, io il sentiero tra le stelle troverò.” Pensai. Elevai le mani alte, sopra la mia testa e, le abbassai, prima una e poi l’altra, ai lati del mio corpo, per lasciarle ricadere e depositare a terra l’energia che si era raccolta a pochi centimetri dai miei palmi.
Poi tornai alla Tredicesima, passando, però dalla scalinata delle Dodici Case con ancora in mente quella musica. Shiryu e Milo non c’erano, Seiya dormì ancora della grossa. Tutti gli altri non si accorsero neanche di me.
Alla Tredicesima mi lavai e mi cambiai velocemente. Fu solo a quel punto che mi guardai di nuovo allo specchio: ero cambiata. Ero più bella, più agile e più scattante. Mantenevo la corporatura magra ma il cambiamento più grande era nei miei occhi. Rilucevano di una forza nuova e di una speranza che prima non c’erano. Era come se, in un certo senso, avessero catturato la luce del sole e fosse andata a sostituirsi alla luce originale, caricando il giallo delle iridi di nuova forza e vitalità.
Poi, andai in cucina per la colazione e a lavorare. Mylock, quando seppe che ero di nuovo qui, mi redarguì aspramente e mancò poco che mi sferrasse una bastonata a causa del sorriso che non abbandonava il mio viso. Però fu fermato dall’assistente di Kanon che mi cercava: «Dov’eri finita? É da ieri sera che ti cerchiamo!» Esclamò irritato. Cercai di recuperare un po’di contegno, non volevo che l’assistente di Kanon mi licenziasse. Lui sì che era davvero temibile in quanto occupava una posizione di poco inferiore a quella del Portavoce di Atena in terra, altro che Mylock. «Scusatemi, signore».
«Fa che non accada più».
«Non posso prometterlo». Mi sfuggì. L’uomo si volse di nuovo e, dopo avermi trapassata con gli occhi mi domandò, minaccioso: «Come scusa?» Repressi l’istinto di arretrare di un passo.
«Il Gran Sacerdote mi ha ordinato di liberare suo fratello, sto lavorando senza sosta a questo. Mi ha dato solo pochi giorni, ho pensato che se avessi cominciato subito…» Spiegai ma lui m’interruppe; «Non se è vero o no, ma ora sei attesa, spicciati».
Fu solo quando guardai Kanon negli occhi, quella mattina, che capii cosa mi era successo: adesso avevo lo sguardo deciso di un Saint. Ma nessuno parve accorgersene. 
A Shura prese un colpo quando mi vide, seduta di spalle sulla soglia della Decima a guardare Rodorio, quel pomeriggio stesso. «Astrid!» Esclamò. Ero venuta apposta per liberare il suo amico dalla gabbia. Volsi il viso verso di lui e gli sorrisi. «Buon pomeriggio».
Lui mi guardò perplesso. Potevo quasi intuire cosa stesse pensando quando mi domandò, preoccupato: «Stai bene?»
«Sì», risposi con un sorriso. «Dov’è Saga?» Chiesi poi.
«É in Casa, perché?»
«So come liberarlo». Annunciai, risoluta.
Lui sgranò gli occhi viola scuro: «Davvero?»
«Sì».
Mi seguì dentro mentre. La spostai su un cuscino del divano e m’inginocchiai di fronte a lui, che sonnecchiava ancora. Poi alzai le mani che subito presero a luccicare di quella luminescenza dorata dei Cosmi dei Gold. Anche la gabbia di Saga s’illuminò allo stesso modo, quasi che fosse una reazione a catena. E, per la prima volta sentii la materia di cui era composta risvegliarsi sotto la patina di metallo. Le stelle erano attente e pronte ad ascoltarmi. «La legge di Murphy…» mormorai e, un sorriso m’increspò le labbra mentre sentivo di nuovo di essere parte del Cosmo.
«Come?»
«Niente».
Si mise dall’altra parte del divano, le mani appoggiate sullo schienale.
Posai un pugno nel palmo di una mano e aprii le dita.
Le stelle della costellazione di Saga, presero a brillare più intensamente e si espansero.
Quando allontanai le mani l’une dalle altre, la gabbietta si aprì alla stregua di un bauletto. Alzai i palmi verso di essa e, con un movimento fluido, la spinsi indietro, liberando definitivamente il suo compagno d’arme.
La risistemai con la punta delle dita, di modo che riassumesse la sua forma originaria e, quando le mie dita smisero di brillare, anche la costellazione scomparve.
Proprio in quel momento Saga aprì gli occhi, batté le palpebre e domandò, trovandovi a fissarlo, Shura allibito e io sorridente. «Ho fatto qualcosa? Come mai mi state guardando a quel modo?»
Solo dopo realizzò di essere libero. La prima cosa che fece fu aprire le ali e alzarsi in volo, fare il giro della stanza e posarsi sulla spalla di Shura.
«E, non avete ancora visto niente». Dissi io, con un sorrisone. Mi guardarono con tanto d’occhi. «Cosa ti è successo?» Mi chiese poi Saga, confuso, dalla spalla di Shura.
Solo allora lo guardai con un mezzo sorriso e risposi: «Tutto».    

C’era un’espressione particolare che da piccola amavo e che non usavo più da tempo: “Non ho sentito la campana”.
Adesso, questa battuta ce l’avevo bene in testa. Come non mi capitava più da tempo quando il mio maestro mi spronava a rialzarmi e a combattere di nuovo o a provare gli esercizi un’altra volta. Era stato lui a insegnarmi a non arrendermi, instillandomi la tenacia. Ed era sempre stato lui a spianarmi la strada.
Non so cosa si provasse a ricordarsi della vita precedente. Non avevo mai sperimentato la sensazione. Neanche sapevo se avessi vissuto altre vite prima di questa. Quello che sapevo era che se ricordare era aggiungere dei pezzi alla mia identità, completare un puzzle lasciato incompleto troppo a lungo, allora era così. Adesso che i ricordi stavano tornando alla luce mi sentivo cambiare. Ma in meglio, mi sentivo più forte di prima. Avevo riscoperto la sensazione delle squame di Snakye sulla mia pelle, la naginata, le tecniche legate al Cosmo. E ciò che ne conseguiva.
D’un tratto realizzai. Se io ero capace di usare queste tecniche, allora avevo un Cosmo. Per forza era così. Altrimenti per ricucire le ferite e usare la Dark Resurrection, avrei dovuto usare la Magia Nera, andando contro il Rede. 
Ma non potevo raccontare niente di tutto questo ai miei amici. Non volevo che mi vedessero sotto una luce diversa ancora, anche se non volevo neanche essere sempre la damigella in pericolo. Stavolta volevo essere io quella che attaccava e si salvava da sola.
Avevo bisogno dell’aiuto di qualcun altro. Per questo andai alla ricerca delle persone che potevano aiutarmi, a perfezionare il mio stile di lotta e usare i miei poteri.
«Milady». S’inchinò il Black Saint.
«Avete detto che volevate aiutarmi, non è così?» Chiesi. Sapevo che erano tipi poco raccomandabili, ma se fossi riuscita a portarli dalla mia parte, senza che conquistassero niente, forse… Era rischioso e stupido, ma non avevo altra scelta. Non era neanche detto che dovessi utilizzare subito questa carta ma sperai di non farlo.
Contrariamente alle mie previsioni accettarono immediatamente, lasciandomi basita. «Sissignora».
«Allora aiutatemi ad allenarmi, ho degli arretrati da smaltire». Dissi io.
«Siete sicura, mia Signora?»
«Sì». Sentivo che era questa la strada giusta da prendere. E, mi dispiaceva per Kanon, la Tredicesima e il resto dei miei colleghi, ma io non ero una di loro. Non era nelle mie corde piegare la testa e sottostare agli ordini. Non quando adesso si era ridestato il fuoco che mi scorreva nelle vene, assieme all’energia.
Sapevo solo che la strada che dovevo percorrere era questa e che in fondo, sarei giunta a scoprire tutta la verità. «Siate i miei maestri, insegnatemi a lottare, affinché io possa sopravvivere, come un tempo fece Ikki di Phoenix». Come mi raccontò Shun.
«Come desiderate». La voce si era sparsa in fretta. Adesso tutti sapevano che mi allenavo con i Black Saints e, spesso, le persone venivano ad assistere. Per avere maggior libertà di movimento mi ero comprata delle tuniche più corte. Facevano tanto Dea Artemide secondo l’iconografia umana ma a me andava bene così.
In teoria non era vietato che i Saint richiedessero l’aiuto di paggi e ancelle per allenarsi. Era strano vedere me, farlo e di mia spontanea volontà. Adesso apertamente e, sotto le grida d’incitamento dei miei allievi della Palaestra.
A volte loro stessi partecipavano e, fu anche grazie a loro che cominciai a usare in modo diverso il Potere delle Stelle. «Non aver paura di attaccare, noi non cadiamo così facilmente!» M’incitò Kouga di Pegasus che aveva solo quattro anni più di me. Anche se non vidi mai i Gold Saint quando mi allenavo io assieme al gruppo dei Bronze, fu bello allenarsi così e vedere come Bronze e Black Saints fecero fronte comune fin da subito per insegnarmi a combattere al meglio delle mie possibilità. Probabilmente se avessi continuato su questa strada avrei trovato l’assassino dei Saint e avrei persino potuto provare a catturarlo. E questa possibilità non mi sembrava più al di fuori della mia portata. «Dunque sei tornata alla carica, eh?» Domandò la Bronze Saint di Indus quando raggiunsi gli spogliatoi per recuperare le mie cose. «Sì».
«Non so cosa tu abbia in mente, ma stai facendo una cazzata».
Girai la testa verso di lei, tuffando i miei occhi nei suoi, inespressivi della maschera. Lei s’irrigidì e, dentro di me sogghignai compiaciuta, ma continuai a mostrare la mia espressione determinata. «Questo è tutto da vedere». Ribattei determinata. Dopotutto, non avevo ancora sentito la campana.

Shiryu
Dopo aver dato la triste notizia non aveva saputo fare altro che andarsene. Avevi cercato di persuaderlo a rimanere. Eravate sempre stati abbastanza legati voi due. Ma lui aveva declinato l’offerta. Aveva detto: «Vado a realizzare le ultime volontà di Aida-san». C’avevi messo un po’per capire. Soprattutto quando Hyoga ti aveva chiamato tutto concitato, asserendo che un anonimo vi aveva denunciati tutti per complicità di rapimento.
Tu non avevi detto nulla. Se da un lato ti eri indignato per questa scelta, dall’altro aveva fatto la cosa giusta. Perciò tenesti per te l’identità dell’autore della soffiata.  Per essere precisi, tale soffiata aveva colpito soprattutto la Dea e voi cinque, gli altri si salvavano ancora un po’perché non avevano un cognome. Ma ormai la reputazione dei Saints di Atena si era macchiata.
Lady Isabel avrebbe dovuto spiegare tutto ciò in mondovisione. Adesso tu, Shun, Seiya, Ikki e Hyoga e i vostri fratelli rimanenti eravate indagati. Mentre la polizia italiana stava finalmente prendendo in considerazione il caso. «In realtà Astrid stava per denunciarci quando Aurel la rapì. Aveva deciso che sarebbe andata a denunciarci il giorno dopo». Disse Kiki, rispondendo alle tue domande quando vi recaste a Goro Ho.
«Non la biasimo di certo, a causa nostra la sua vita è cambiata drasticamente». Dicesti propendendo per la ragione. In quanto portatore della Cloth della Bilancia tu più di tutti sapevi che cosa volesse la giustizia. E questo era giusto, eppure un brivido di terrore ti risalì su per la schiena. «Adesso come faremo con Death Mask e Aphrodite?» Chiedesti.
«Pagheranno lo scotto anche loro immagino. Appena Kanon verrà a sapere della notizia e si inventerà qualcosa per insabbiare lo scandalo».
«Tu non hai intenzione di dirglielo, vero?»
«No». Restasti molto colpito. Nonostante che gli fosse fedele, era la prima volta che agiva contro di lei. Lo agguantasti per la spalla: «Non puoi farlo, Seiya! Tradiresti la Dea!»
«No, Shiryu, farei solo ciò che è giusto! Ma non ti rendi conto che abbiamo subito tutta una vita a causa di Alman di Thule e di Lady Isabel? Quante volte abbiamo piegato la testa e quanti dei nostri amici sono morti per soddisfare la volontà di questa Dea? Tutte le legnate che abbiamo preso e le volte in cui abbiamo rischiato di morire? Hai già dimenticato come siamo cresciuti prima che ci spedissero ad addestrarci a giro per il mondo? Amico mio, tu ci hai rimesso la vista, io sono stato ferito gravemente e ho perso anni della mia vita inchiodato su quella sedia a rotelle. Nessuna Cloth può valere il prezzo di tutta questa sofferenza e anche nessuna gloria». Restasti stupefatto nel sentire la sua spalla tremare e il suo gemito di pianto. L’avevi visto piangere prima ma questa era la prima volta dopo molto tempo: «La Dea stavolta si è spinta troppo oltre. Ha sbagliato».
«Ma Seiya…»
«Mi dispiace amico mio».
Capisti quello che provava. Avevi cercato di non pensarci per tutti questi anni, ma aveva ragione. Una parola dentro di te aveva preso forma nel corso del tempo e l’avevi scacciata. Adesso eccola qui, risvegliata dalle parole di Seiya e dai ricordi della vostra infanzia. Le bastonate di Tatsumi, l’indifferenza di Alman di Thule, il bullismo di Lady Isabel, l’abbandono da parte dei vostri genitori, la recinzione elettrificata. E adesso il reato di complicità di rapimento perché nessuno aveva pensato di avvisare la famiglia di Astrid. No. Era troppo anche per te, che eri il guerriero della giustizia per eccellenza. Sentivi anche tu da che parte pendeva la bilancia. «Fai come credi, Seiya, ma se permetti un consiglio…» bisbigliasti qualcosa all’orecchio del tuo miglior amico. Il quale, quando ti discostasti, rispose: «Grazie, amico». Poi l’avevi lasciato andare.

«Lo farà davvero?» Chiese Hyoga dall’altra parte del telefono. La sua rabbia sembrava essersi placata. Avevi chiamato gli altri tuoi amici per spiegargli la situazione. Non l’avevano presa bene. Soprattutto Hyoga e Shun che si erano rifatti delle vite all’infuori del Santuario.  Soprattutto Shun, che sarebbe stato sicuramente radiato dall’album dei medici. Anche se tutti vi eravate categoricamente rifiutati di portare il cognome del vostro genitore comune. I tuoi fratelli erano sopravvissuti all’attacco delle Creature a Tokyo ed erano riusciti a mettersi in salvo a loro volta. All’inizio non avevano capito che cosa avesse portato Seiya a prendere questa decisione. Solo dopo qualche minuto di riflessione c’erano arrivati e avevano smesso di polemizzare. «Sì».
«La fondazione Grado ci rimetterà». Considerò Hyoga.
«Sì». Eppure la cosa non ti faceva né caldo né freddo.
«Jabu ci farà a pezzi».
«É possibile». Rispondesti con calma.
«E ci toglieranno il Cloth». Continuò Hyoga. Inspiegabilmente ti scappò una risata piena di sollievo. Non ci avevi mai pensato, ma l’idea di perdere la Cloth non ti faceva così paura. «Possibile. Ma almeno avremo la nostra giustizia anche noi».
«Sempre che le autorità diano ascolto a Seiya». S’aggiunse Shun, preoccupato poi domandò come avrebbero fatto con le testimonianze se fossero stati chiamati in aula a deporre. Ammesso e non concesso che sia la Fondazione che il Santuario non lo bloccassero prima. Capisti immediatamente che si riferiva a Ikki, che tanto per cambiare era disperso un’altra volta. «Dici che ci dovremmo preparare a una tempesta mediatica?» Chiese poi Shun.
«É probabile. Per ora sono riuscito a fargli rimandare tutto alla fine di questa storia, altrimenti non ci sarà nessuno da denunciare». 
«Avresti dovuto persuaderlo a denunciare tutto subito». Ponderò Hyoga. Da quando era diventato padre era molto cambiata la sua visione della vita. Non avrebbe mai permesso che sua figlia patisse quello che voi avevate patito. Ancora adesso stava lottando con gli assistenti sociali per continuare a occuparsi della piccola Natasha. Se aveste perso la causa, lui avrebbe perso l’affidamento di sua figlia. La sua preoccupazione più grande era che tutti scoprissero i vostri scheletri nell’armadio. Era difficile d’accettare anche per lui la vostra vecchia condizione. E non era detto che gli avvocati riuscissero a dimostrare che non sapevate nulla di questo rapimento.   
 
Mur
Avevate aiutato la Dea e le avevate promesso di restare con lei. Ma adesso qualcun altro aveva bisogno di voi. Dov’era? La stavate cercando come ossessi ma non riuscivate a trovarla. Sapevate che era in pericolo.
Tu e Shaka eravate quelli che si stavano controllando di più in questa faccenda. Ma sapevi che la calma del tuo amico della Sesta era più apparente che reale. Gli posasti una mano sulla spalla coperta dalla Cloth e lo rassicurasti dicendo: «Vedrai, la troveremo».
«Lo spero, senza il suo Scettro non ce la può fare». Rispose lui guardando lo scettro che reggeva tra le mani. Lungo due metri col manico nero. All’altezza del ginocchio, la parte inferiore del bastone era infilata in una guaina dorata appuntita. Invece all’altezza della testa un’altra guaina inanellata lo adornava. Sull’anello superiore si allargavano i due omega ribaltati e i serpenti opposti ornamentali che fissavano le due ali di farfalla di smeraldo e oro che si aprivano a ventaglio ai lati della gemma. Al centro era fissato un grosso smeraldo romboidale che vi stava illuminando la strada.     
Poi avevate sentito il suo grido e vi eravate precipitati in quella direzione. Presto avevate visto quella luce che si era allargata. Ci eravate saltati dentro e avevate sentito un brivido come quando si spicca un balzo più alto del normale. E l’avevate vista riversa su un fianco. I lunghi capelli castani le coprivano il volto.
Gli Specter stavano per sopraffarla. Usasti lo Stardust Revolution e gli aggressori furono sbalzati indietro. La giovane Dea si mosse, si rialzò a sedere e si guardò attorno disorientata prima di alzare il volto e vedervi.
La riconoscesti all’istante. Quegli occhi castani non li avresti mai scordati. Non sembrava avere più di quindici anni. «Voi?» Esclamò riconoscendovi mentre i vostri cuori si allargavano per la gioia e il sollievo. Eravate arrivati in tempo. Poi tutto era diventato bianco e ti eri svegliato.
Questo sogno non ti aveva lasciato neanche quando ti eri svegliato quella mattina. Ti eri lavato, vestito, pettinato ma continuava a restare vivido. Non era un sogno qualsiasi, conoscevi a menadito la situazione nei sogni. Avevi sentito dire che riesci a distinguere i sogni dai ricordi perché nei ricordi c’è sempre una sottotrama che ti permette di intuire tutto.      
Lo studio nella Prima Casa sembrava una versione ridotta della vostra torre in Jamir. Con la differenza che aveva appeso al soffitto modellini di Cloth dipinti a mano. Tralasciando questo dettaglio e le porte era quasi uguale. L’odore ferroso del sangue permeava la stanza da sotto il profumo del detersivo alla lavanda. Ormai neanche un nebulizzatore sarebbe riuscito a toglierlo. Sparsi qui e là pezzi di oro, argento, oricalco e altri materiali ingombravano il pavimento.
I vari rotoli coi progetti delle Cloth che studiava e riparava erano appesi alle pareti. Aveva appreso varie arti della forgiatura nel corso della sua vita. Eri stupito dalla sua bravura. Era un piccolo genio, avevi sentito le sue prodezze nella guerra contro Mars e Pallas. Lui da solo riusciva a manipolare le Cloth. Un potere molto simile a quello di Astrid. A proposito della ragazza, un ritratto di lei su carboncino era appeso al muro davanti alla scrivania. Un sorriso divertito affiorò sul tuo volto. Ma a chi credeva di darla a bere? Si erano accorti anche i muri della sua cotta. Ma era per lei che aveva mandato in missione i suoi sottoposti oppure no? Kiki era un ragazzo molto giudizioso, sarebbe stata una cosa davvero strana se c’entrasse Astrid in questa faccenda.   
Non conoscevi bene i piani di Kiki. Trovavi assurdo che decidesse di mandare due Saint in una missione astrusa come questa. Per questo avevi deciso di accompagnarli.
Si era appisolato al tavolo del lavoro. Era proprio come diceva Raki: ultimamente era strano. Dormiva poco la notte, mangiava poco ed era sempre distratto e propenso a sospirare. Kiki non era un guerriero come te. Aveva conquistato il Settimo Senso però non aveva ereditato anche la voglia di combattere. Purtroppo quella non si poteva ereditare con la Cloth. Kiki era più un costruttore che un guerriero. Sin da piccolo aveva sempre preferito riparare le Cloth che combattere. Non era proprio portato, per questo eri molto stupito nel vedere che impegnandosi era riuscito a raggiungere questi risultati. Lo raggiungesti nel giardino dove stava insegnando a Raki a lottare col pensiero. Per voi Lemuriani anche questo era importante. Tu non ci avevi pensato a insegnarglielo quando eri ancora il suo maestro. Sotto questo punto di vista eri stato manchevole. Raki sembrava piuttosto in difficoltà a giudicare dalla faccia contratta, mentre Kiki era calmissimo. Sembrava quasi che dormisse.
Probabilmente l’idea gliela doveva aver data Astrid. Ti eri accorto anche tu che la ragazza aveva un eccellente controllo dei suoi pensieri in vostra presenza. Era come se fosse abituata a comunicare con terzi con la mente. Questa era una cosa che non si sentiva tutti i giorni.
Però sembrava essere migliorata moltissimo da quando era arrivata. Le sedute stavano cominciando a dare i loro frutti. Astrid stava lottando con tutta sé stessa per impedire all’ansia di divorarla e di isolarla. Ma non ci stava riuscendo. Erano i suoi stessi poteri a isolarla. Per te era chiara la paura dei civili e dei suoi colleghi nei suoi confronti. L’interesse a studiarla di Kanon, l’odio di Neera e di molti altri. Anche tu le riconoscevi una certa pericolosità. La riconosceva lei stessa e ne era spaventata. Il fatto che fosse riuscita a difendersi da sola da un’aggressione la diceva lunga su quanto si fidasse di voi. Non potevi biasimarla, il vostro rapporto era partito molto male. Quello tra voi della Prima non ne parliamo. Non si fidava più da quando Kiki si era lasciato sfuggire che leggesse nel pensiero. Ma tutti i Saint conoscevano quest’arte. Per ora era solo Raki ad avere la sua completa fiducia. Mentre Yoshino, Paradox e pochi altri avevano la sua amicizia. Kiki stava lottando con tutte le sue forze per riallacciare i rapporti da quando era tornata. Ma lei era diventata ancora più schiva.
Andasti in cucina a mangiare qualcosa. Mentre mangiavi riflettesti. Cominciavi a chiederti se tutto quello che stava succedendo non avesse a che fare con lei. Che cosa vi stavano nascondendo gli Dèi? Persino Miss Tomoe era strana. Le Creature avevano già cancellato buona parte di tutto ciò che c’era nell’universo presso cui prestavate servizio. Quella dimensione presto o tardi sarebbe morta definitivamente  e con lei anche l’Antipapa Aiolos e gli altri Gold Saint. Probabilmente dovevate aspettarvi qualcosa anche da loro. Lancelot lo sapeva per forza, ma non era interessato a parlarne. La sua mente era persino peggio di quella di Death Mask. A proposito, quanto ci voleva prima che portasse a termine il suo compito? Aveva solo salutato Astrid e se ne era andato. Aveva lasciato un messaggio alquanto strano che avevi recato tu stesso a Kanon. Che era in missione per conto della Dea dei Cavalieri della Speranza. Mah. Lì per lì avevi pensato si trattasse di Atena, ma da quando avevi avvertito quei Cosmi a Nord Est non ne eri più così sicuro. Quell’ondata aveva steso anche tu. E da allora non avevi fatto che fare questo sogno. Neanche ascoltare la radio o allenarti, riparare Cloth, ti aiutava. Avevi sempre in mente quella ragazza e il suo sguardo sorpreso. No, anzi, quella Dea che somigliava così tanto a Lady Isabel. 
Avevi cercato nei meandri della tua memoria ma oltre quel ricordo non eri ancora riuscito a recuperare altro. Ti domandasti se il Venerabile Shion ne sapesse qualcosa. Al momento la cosa non ti preoccupava troppo, ma avresti preferito parlarne prima con Shaka. Se solo avessi potuto stabilire un contatto telepatico con lui senza problemi l’avresti fatto. Ma questo significava usare il tuo Cosmo per bypassare il Velo che separava i Mondi. E le Creature non ti avrebbero lasciato scampo.
Ancora più angosciante era che non avvertivi più i Cosmi dei Bronze Saint che Kiki aveva mandato in missione ed eri preoccupato. Non sentivi neanche più i loro Cosmi ed eri sicuro che anche il tuo ex allievo se ne fosse accorto.
I due finirono di allenarsi verso l’una.
«Che cosa c’è, Kiki?» Gli chiedesti a pranzo. Raki non pranzò con voi, preferì andare a trovare Astrid. Era da un po’che non la vedevi e ti dispiaceva sapere che una ragazza così tranquilla e posata avesse un tale carattere attaccabrighe.
«A che vi riferite?»
«Non pensare che io non m sia accorto di cosa stia succedendo e che tu hai mandato quei Bronze in missione in Jamir». E gli domandasti perché. Lui giocherellò un po’ col cibo prima di rispondere «Ho deciso di condurre delle ricerche in Jamir».
«Perché?»
«L’altro giorno stavo leggendo un libro sulla nostra terra e mi son tornate in mente alcune leggende legate alla nostra regione. Mi sono reso conto che quella zona ha qualcosa che non va. Perché proprio lì ci siamo stabiliti? Perché abbiamo messo lì la nostra casa? É solo per le miniere di oricalco? Cosa stiamo custodendo davvero? Perché voglio studiare anch’io il Cosmo e voglio sapere se quello che sta succedendo si è già verificato in passato».
«Vuoi aiutare Astrid». Deducesti. Il tuo ex allievo arrossì come un peperone ma si limitò ad annuire. «Non ce la faccio a vederla così». Aggiunse parlando quasi più a sé stesso che a te.
«É molto nobile da parte tua».  
«Sarei andato anch’io se non fosse per Raki. Mi preoccupa il fatto che non sia ancora riuscita a conquistare il Settimo Senso». Spiegò. Era una mezza verità, era palese. Però non dicesti nulla.
«Capisco, vuoi che vada con loro?» Ti offristi e lui ti guardò stupito come a dire: “lo fareste davvero?” Mosse il capo in un cenno d’assenso.
Allora sorridesti, lo salutasti e raggiungesti i giovani Bronze Saints. Ti sarebbe bastato uscire dalla barriera per poter usare il teletrasporto. Avevi un limite di tempo di ventiquattro ore prima che scattasse la caccia all’uomo ma eri sicuro che ce l’avresti fatta in anche meno tempo.   
Uscisti dalla barriera e, una volta lontano da occhi indiscreti, ti teletrasportasti alle rovine in Jamir. Ti prendesti un momento per osservarle. Erano stati i Silver Saint a distruggerla e da allora non c’eravate più tornati. Chissà dove si erano addestrati Kiki e Raki.
Avvertisti dei passi alle tue spalle. Ti girasti e vedesti il capo degli spiriti del Cimitero dei Cloth venirti incontro. I brandelli di Cloth ancora attaccati alle sue ossa. «Nobile Mur». Esclamò con voce monocorde. Avendo perso i tessuti non poteva più dare la giusta intonazione alle sue parole. 
«É un piacere anche per me rivedervi». Salutasti con un cenno del capo, per nulla impressionato. Eri lieto di vedere che le Creature non li avessero distrutti. Dietro di lui gli altri guardiani del luogo. Li salutasti e una volta finiti i saluti, le domande e le risposte, chiedesti: «Avete visto i Bronze Saint che sono stati inviati qui?»
«Sì, ci hanno fatto un mucchio di domande astruse sull’oricalco, le sue vene e dopo aver sentito le nostre risposte si sono diretti a Nord Est».
Perché a Nord Est? Laggiù c’era solo il filone di oricalco ma niente di più. «Hanno detto che dovevano recuperare un tesoro e che era laggiù».
“Dev’essere la cosa di cui parlava Kiki”. Pensasti. La vostra regione era forse quella con più leggende di tutte le altre e molte erano legate alle Cloth e ai Saint stessi. A Nord Est, sulla prima vena di oricalco era situata l’antica forgia dei primi costruttori di Cloth. Se avevano portato con loro le Cloth era possibile che le Cloth stesse li avessero guidati fin laggiù.
«Andrò anch’io». Annunciasti.
«Anche voi vi metterete sulle tracce del tesoro della montagna?» Chiese uno degli scheletri. 
«Sì».
«Allora buona fortuna Gold Saint di Aries. Il guardiano non sarà così indulgente».
«Mi sapreste dire qualcosa di più su costui?» Chiedesti, che non ricordavi di averlo mai visto.
«É uno spettro come noi tuttavia non sappiamo che Cloth indossi, dicono che sia antico come queste terre e che da tempo immemore vegli su quelle lande. Probabilmente è pure impazzito a causa della solitudine e del suo compito. Fate molta attenzione, Sommo Mur. Non è uno spirito da sottovalutare. Si dice che fosse molto abile con il lancio dei coltelli e che fosse molto veloce e silenzioso come un’ombra».
Uno spirito antico? «Lo terrò a mente. Vi ringrazio».
«State in guardia». Si raccomandarono un’ultima volta prima di lasciarti andare.
Ti avviasti a Nord Est. In tanti anni queste zone erano cambiate moltissimo, c’era solo meno neve di quanta ricordassi. Anche la posizione di certe rocce che usavi come punto di riferimento erano cambiate. Come se un lemuriano le avesse spostate. C’erano anche alcuni crepacci come se in quel punto il terreno fosse franato. Ma nulla che non potevi superare con un salto.
Tu degli spettri non avevi mai avuto paura. Erano solo ombre di un passato antico. Le uniche ombre che meritavano davvero la tua attenzione erano le Creature. Ma mai prima d’ora avesti la sensazione che un’ombra ti seguisse. Non lo vedevi che con la coda dell’occhio, ma era una sagoma nera che saltava di roccia in roccia.
Probabilmente era il custode. Decidesti di fargli credere di non esserti accorto di lui.     
Appena raggiungesti la montagna dell’oricalco sgranasti gli occhi e ti affrettasti a nasconderti dietro una sporgenza. Le Creature stavano sciamando proprio poco più in là. Il cuore prese a martellarti in petto e un brivido freddo ti corse lungo la schiena. Cosa ci facevano qui? Che cos’era successo? Azzerasti immediatamente il Cosmo. Maledizione. Se loro erano qui significava che qualcuno doveva aver usato il Cosmo. E non era sopravvissuto. Forse era per questo che non riuscivi a percepire i Cosmi dei Bronze Saint. Non avevi bisogno di sbirciare per sapere che era così. Eri arrivato troppo tardi.
Aspettasti che le Creature se ne andassero e solo allora raggiungesti ciò che restava dei due Saint. Avevi già visto altre vittime delle Creature ma era la prima volta che ti sentivi toccato così da vicino. Non provavi più tanto terrore da quando affrontasti gli Specter per la prima volta.
Stavi osservando i cadaveri carbonizzati quando il vento prese a soffiare, smuovendoti i capelli. Non avevi gli stessi poteri rigenerativi di Astrid. Per un momento considerasti l’idea di andare a prenderla e tornare subito, ma la scartasti. Già si fidava poco di voi, non potevi anche metterla in pericolo. C’era uno spettro qui e per quanto lei fosse potente non era addestrata.  Se non altro potevi offrire degna sepoltura ai caduti.    
T’inginocchiasti tra i due corpi e cominciasti a usare la telecinesi per raccogliere le ceneri prima che le disperdesse il vento.
Avevi appena cominciato a usare i tuoi poteri quando qualcosa ti sibilò vicino all’orecchio sinistro e spostò le tue ciocche. Non era un colpo di vento. Apristi gli occhi e spostasti lo sguardo in quella direzione. Il custode.
Tornasti a far finta di niente. I muscoli in tensione e pronto a balzare in qualsiasi momento. Le orecchie tese. Chiudesti gli occhi e sentisti i sibili. Balzasti indietro e tra le ciglia scorgesti tre coltelli neri conficcarsi nella roccia prima di sparire. La fenditura nel terreno era della stessa dimensione di quella che avevi visto sotto i mucchietti quando avevi usato la telecinesi.
Percepisti altri sibili e ancora una volta balzasti per schivare. Ormai lo avevi scoperto, perciò il guardiano urlò: «Shadow knifes!» Ma ancora una volta lo evitasti. Non potevi permettere che le Creature accorressero di nuovo.
Ancora peggio fu ritrovarsi sotto al fuoco incrociato. Accidenti, questo non l’avevi preventivato. Il custode era davvero molto veloce. Sembrava essere in due posti diversi contemporaneamente.
Ma non era di queste ombre che dovevi temere. Avevi combattuto molte persone ma era la prima volta che incontravi un avversario capace di controllarle. Era la prima volta che avevi a che fare con un guerriero del genere. Il tuo primo istinto fu quello di riflettere. Non potevi mostrarti un nemico e non potevi usare il Cosmo. Dovevi essere cauto.  Perciò lo chiamasti. «Guardiano della Montagna, so che siete qui». E la tua voce rimbalzò sulle rocce.
Lo spettro non rispose e tu gli comandasti di mostrarsi, che non volevi combattere contro di lui. Gli dicesti che eri giunto qui per il tesoro ma che non eri intenzionato a impossessartene con la forza: «Vi chiedo il permesso di prenderlo». Concludesti e attendesti. Qualche secondo dopo una voce incolore piovve dall’alto dietro di te. «Noi spettri non concediamo i nostri tesori tanto facilmente».
«Lo so bene, per favore, mostratevi e parliamone faccia a faccia». Ribattesti.
«Quando i tempi si fanno disperati spesso cadono le illusioni del Velo di Maya e ciò che li ha tenuti in piedi finora». Ribatté enigmatico, dopodiché sentisti anche il rumore dei passi. Sollevasti la testa nella sua direzione e presto vedesti il lanciatore di coltelli. Era uno scheletro come quelli del cimitero delle Cloth. Indossava ancora i brandelli della sua Cloth ma non ricordavi di averne mai vista una di questa foggia particolare. Non riuscivi a capire chi fosse, la Cloth era troppo danneggiata per comprenderlo e quel poco che vedevi copriva solo diagonalmente il suo proprietario. Era alto più o meno quanto te ed era molo meno massiccio degli altri spettri. 
«Con chi ho l’onore di parlare?» Chiedesti educato. Con questi spettri avevi passato così tanto tempo da non avere paura alcuna di loro. Neanche questo era diverso. Qualcuno vedendovi avrebbe detto che eravate finiti nel video di Seven Nation Army dei The White Stripes ma per te era la normalità. 
Ti accorgesti di una presenza alle tue spalle e, sulla roccia, vedesti la sagoma nera di prima. Strabuzzasti gli occhi quando ti rendesti conto che non aveva un volto definito, giusto i lineamenti appena abbozzati se girava la testa di profilo. Altro non era che un’ombra.
Fu la voce del custode dinanzi a te a farti spostare lo sguardo: «Io sono Rodorio, lo spettro della Cloth dei Capretti. Semmai dovrei essere io a riporvi la stessa domanda, se la vista non m’inganna voi dovreste essere sparito da queste lande trentatré anni fa».  
«Corretto, mi dispiace non esserci mai incontrati prima».
«Prima non eravate venuto qui con l’intenzione di impossessarvi del sacro tesoro». Rispose ancora la voce.
Dunque questo custode si attiva soltanto se si minaccia il suo tesoro. Deducesti ancora. 
“Rodorio della Cloth dei Capretti?” Pensasti guardingo. Non avevi mai sentito parlare di questa costellazione e del suo Saint. Ancora meno immaginavi che si chiamasse come la cittadina ai piedi del Santuario. Ma era capacissimo che fosse una tua lacuna. Essendo che il tuo addestramento era finito molto prima, non ti ricordavi che il tuo maestro te ne avesse mai parlato. A dirla tutta era raro che i Gold Saint conoscessero tutti i membri dell’esercito di Atena o le costellazioni. Ignoravi che solo due secoli prima fossero molte di più. Adesso ti spiegavi perché tutte quelle Cloth nel cimitero. L’avevi sempre viste, ti eri sempre chiesto chi fossero stati ma pensavi fossero solo dei caduti delle Guerre Sacre. Ma questo solo dopo che Aiolia venne da te per resuscitare la Cloth del Leone. Prima eri troppo piccolo e spaventato per pensarci. E dopo eri stato troppo impegnato a tirare su e addestrare Kiki.
«Dovete perdonarmi ma non vi ho mai visto prima». Ti scusasti mentre con la coda dell’occhio tenevi d’occhio la sua ombra. Avevi visto anche tu che aveva una posa diversa da quella del corpo materiale. Se infondeva il Cosmo nell’ombra non potevi fare molto.
«Certo che non mi avete mai visto. Da quando ho ricevuto il sacro compito di vegliare su questa montagna non mi sono mai staccato da qui neanche una volta». Replicò il guardiano, poi ti chiese se anche tu avessi voluto tentare la prova.
«Certamente. Ma ditemi, posso sapere che cosa custodiscono le viscere di queste rocce?»
Il guardiano ti accontentò. «Il segreto dell’arte dei primi fabbri lemuriani al servizio della Dea della Guerra». Sgranasti gli occhi, sorpreso. Se era così erano documenti importantissimi ed estremamente delicati. Sarebbe stato un lavoraccio estrarli. Avevi sentito dire che certi oggetti o mummie abituate a un dato clima, spesso si dissolvono anche al primo colpo di vento. Così era stato per alcune mummie delle necropoli etrusche, che erano sopravvissute intatte fino a quel momento. Perciò anche se fosti riuscito nell’impresa, la vera impresa sarebbe stata conservare quei documenti.
«Desiderate tentare?» Chiese educatamente.      
«Sì».
«É piuttosto semplice in realtà: dovete distruggere la montagna». Ribatté l’ombra del custode invece sua incrociando le braccia.
«Ma se la distruggo distruggerò il tesoro». Obiettasti.
L’ombra scrollò le spalle. «Sono sicuro che un Saint del vostro calibro riuscirà nell’impresa».
Facile a dirsi per lui. Probabilmente i Bronze Saint non c’erano neanche arrivati fino a questo punto.
Pregasti mentalmente la Dea di infonderti la saggezza. Come si estraeva qualcosa senza romperlo? Non ne avevi gli strumenti ma avevi i tuoi poteri. Ed erano basati sul cristallo. Forse avresti potuto cristallizzare la montagna, almeno per capire dove si trovasse lo scrigno e quanto in profondità dovevi lavorare. Forse dovresti ascoltare anche me di tanto in tanto, sai? Ma tu m’ignorasti.
Non avevi mai provato una tecnica del genere prima ma vedesti ogni roccia sfumare fino a diventare trasparente e rivelare i filoni di oricalco tutto attorno allo scrigno d’oro.
Bene, e ora che cosa avevi risolto? Non molto a dir la verità. Dopodiché provasti a replicare il Crystal Vortex di Kiki per aprirti un pertugio nella montagna. Ma la tecnica s’infranse sul cristallo senza successo e fosti costretto a proteggerti la faccia con le braccia. Tossisti per il polverone che avevi sollevato. L’impatto di respinsione fu talmente forte che ti ritrovasti sbalzato indietro tu stesso.  
Ti rialzasti a sedere dolorante e ti detergesti un rivolo di saliva che ti era colato, sul mento. In bocca sentivi il sapore del sangue. Credevi che fosse la tecnica giusta. Invece non era cambiato nulla. Forse perché non reagiva al tuo tipo di potere. “Come?”
Non è evidente? Chiunque abbia lanciato quest’incantesimo era più forte di te. Forse soltanto un potere altrettanto forte potrebbe scioglierlo. Probabilmente era pure la stessa persona che aveva condannato questo spettro alla solitudine. Non dirmi che non te ne sei accorto anche tu. Andiamo, una persona che comunica con la propria ombra? Che le da tutte le forme che vuole? Non è solo dimostrazione di forza. C’è dietro una tristezza intrinseca che tu non potresti mai capire. “Perché non posso?” Perché il tuo fu un esilio volontario a cui poi ponesti rimedio prendendo Kiki con te. “Continuo a non capire”. Non è difficile, vedi? Questo spettro combatte con le ombre, lui stesso è un’ombra, davvero non riesci a capirlo? Le ombre per esistere hanno bisogno di luce. Una volta anche costui doveva avere la sua luce.
Appena lo dissi ti tornò in mente quella ragazzina del tuo sogno. E poi le sue mani ingioiellate materializzare tante piccole scintille verdi. Improvvisamente sentisti il calore in mezzo al petto.
Non può esistere la luce senza l’ombra e l’ombra non può esistere senza la luce. E avesti la visuale di quella piccola scintilla di luce verde nel buio.
“Ho capito!” Pensasti e la sentisti risplendere dentro di te. 
Proprio allora il custode e la sua ombra ti affiancarono. Guardasti lo scheletro. «Mi dispiace», «Tempo scaduto, Gold Saint». Aggiunse l’ombra, poi colpì.
Ridagli la sua luce.
Avresti potuto parare il colpo, ma apristi la mano e la luce verde che brillò sopra il tuo palmo lo fermò. Nello stesso momento avesti anche una visione. Vedesti la Dea alzare il braccio e cristallizzare la montagna. Poi la Divinità bianco vestita si girò e si avviò verso di te guardando un’ultima volta le rocce.
La visione scomparve e ti rendesti conto che Rodorio non ti aveva neanche sfiorato. Ma anzi, era caduto in ginocchio. La sua ombra era scomparsa.  «Somma Asia?» Domandò incredulo continuando a fissare il tuo palmo, la mascella tremante mentre cercava di formulare la frase.
La luce verde regredì fino alle dimensioni di una scintilla e restò sospesa sopra la tua mano. Poi, tornasti a guardare il fantasma. «Come? É questo il suo nome? La conoscete?» Chiedesti perplesso.
«Certo che la conosco, tutti i Saint della Dea Atena la conoscono. Era da molto tempo che non La sentivo più». Allungò le dita scheletriche verso la scintilla come se avesse voluto sfiorarla. Dalle sue orbite vuote percepivi il suo sguardo commosso e speranzoso. Sentivi che era perso nei suoi ricordi. «Ma è passato tanto tempo, credevo che non l’avrei sentita mai più. Lei mi ha affidato questo compito». A pochi centimetri dalla stella ritrasse le dita.
«Lei è una Dea minore al servizio di Atena, non è così?» Chiedesti a mezza voce dopo qualche secondo. Era la prima volta che parlavi così piano.
«Sì». Rispose lo spettro senza muovere la mascella. Adesso capisci dove volevo arrivare? Ti rendi conto del piccolo parallelismo tra il tuo allievo e questo spettro?
«Non siete in collera con lei?» Domandasti incuriosito. Ma sei anche consapevole di star giocando col fuoco? “In che senso?” Stiamo parlano della Divinità che l’ha confinato qui, non pensi che sia controproducente per te rammentargliela? Voglio dire, non sai come potrebbero essersi evoluti i suoi sentimenti. “Sentimenti? Puoi stare tranquilla, il rapporto tra una Dea e il suo accolito resta sempre invariato qualsiasi cosa succeda”. Sarà, ma per me tu sei cieco. “In che senso?” Ma stavolta non ti risposi più. Era inutile parlare con te di queste cose, tu non sapevi neanche che cosa si provasse.
Checché io ne dicessi era proprio perché questo scheletro non era come Dokho che ti sentivi di poter osare. Di solito non t’interessavano le faccende amorose dei Saint. Né di chiedere del loro rapporto con la Dea, ma era interessante. «No, Lei fu la mia luce per molto tempo. Sono morto per Lei e se fosse necessario morirei ancora e ancora». Dichiarò poi.
«Chi è la Somma Asia?»
Lo Spettro spostò la testa verso di te: «Non lo sapete? É la Somma Dea Gran Sacerdotessa e fondatrice dell’ordine dei Saint, la Dea che invochiamo quando dichiariamo di essere Cavalieri della Speranza. I Cavalieri della Speranza combattono per lei e solo per lei».
Questa sì che era una sorpresa: «E Atena?»
«La Somma Asia ci ha creati per aiutare la Dea della Guerra, ma noi rispondiamo soprattutto alla Divina Asia. Tutti noi». Rispose ancora lo spettro.
No. Ti portasti la mano alla bocca mentre le tue certezze crollavano come un castello di carte.
Eri sconvolto. Non immaginavi che questo fosse il segreto dietro il vostro ordine. Quella formula che credevi avessero inventato i Bronze era il modo di ricordare le vostre vere origini. Ecco perché eravate quasi un’autogestione rispetto all’autorità della Dea. Inconsciamente lo sapevate che lei non era… No. Era impossibile. Avevi perso la vita per questo? Eri stato resuscitato per una menzogna? Lo spettro stava mentendo? Dunque la ragazza coi capelli striati d’argento era Lei?
«Dimmi di Lei. L’hai vista?» Chiese angosciato artigliandoti le spalle e scuotendoti. Per essere un morto ne aveva di forza in quelle ossa.   
«Non di recente». Ammettesti dispiaciuto di non potergli dire di più. Ti lasciò andare e ti chiese di descrivertela. L’accontentasti. «Oh, è proprio come me la ricordavo». Costatò sorpreso e sollevato, anche se era difficile dirlo visto che la sua voce non aveva particolari inflessioni. Poi sollevò la testa verso di te e disse: «Questa scintilla è un segno, la prova che voi siete destinato a prendere il tesoro. Vi concedo un altro tentativo».
Si scostò e ti lasciò di nuovo spazio.
Ti rialzasti e ti spolverasti i vestiti. Ti guardasti attorno circospetto per vedere se le Creature si avvicinavano ma non c’erano. Non si vedevano neanche all’orizzonte. Nonostante ciò non ti fidasti. Tornasti a guardare la parete di cristallo.
Eri partito bene prima, ma non dovevi perforarla dovevi semplicemente toglierla. Improvvisamente capisti: era una teca e come tale la dovevi sollevare. Ma come? Il tuo Cosmo da solo non bastava.
Come aveva fatto la Divina Asia? Ti faceva ancora strano pensarlo ma ricacciasti indietro il pensiero. Ora non era importante. Avresti potuto usare la telecinesi ma non eri così forte da sollevare una montagna intera. Frantumarla sì ma a pugni e non potevi rischiare tanto.  Improvvisamente ti tornò in mente la voce della Dea. Guardasti di nuovo la tua mano chiusa a pugno.  La sollevasti e l’apristi di nuovo. La scintilla era ancora lì a mezz’aria sul tuo palmo. Forse valeva la stessa cosa per le Cloth, forse questa scintilla poteva esserti utile. 
Non avevi le stesse capacità di Kiki ma riuscivi lo stesso a capire dov’era la crepa che avresti dovuto intaccare se avessi voluto dissolvere la roccia.
Gonfiasti il Cosmo e lo facesti confluire nella luce. Tendesti la mano verso la roccia
Provasti a usare quella combinandola alla tecnica e la montagna rispose davvero. Avevi sentito le parole che aveva usato. Provasti a emulare la sua posa e concentrasti il Cosmo sulla stella che assunse sfumature più calde.
Sentisti l’oricalco dentro la montagna rispondere al tuo potere e il cristallo stesso cominciò a tremare e riempirsi di crepe. La terra emise un boato e prese a tremare ancora più violentemente. Numerose faglie si aprirono sotto ai tuoi piedi. La polvere si sollevò e ti andò negli occhi ma neanche così desistesti. Poi s’infranse e le schegge e i pezzi ascesero al cielo e si polverizzarono cadendo come polvere ai tuoi piedi. Poi la terra si placò e tu perdesti l’equilibrio e cadesti bocconi per terra. Tossisti e ti sfregasti gli occhi lacrimanti. La luce del sole ti sembrava più intensa e ti sembrava che ci fosse più vento di prima. Alla fine avevi davvero distrutto la montagna. Lo scrigno!
Trasalisti, ti raddrizzasti e ti inerpicasti su per il cratere immenso e guardasti giù, nella buca. Non avevi mai visto tanto oricalco in vita tua, sì e in mezzo c’era anche lo scrigno d’oro che risplendeva al sole.
Scendesti dall’altura facendo attenzione a non perdere l’equilibrio e ruzzolare nella polvere di cristallo e oricalco. Sbattesti anche contro qualche roccia di cristallo ma neanche questo ti fermò.
Arrivasti davanti allo scrigno e lì lo spettro ti raggiunse. Lo sentisti dal rumore dei suoi passi sulla polvere e il ghiaino. Attendesti il verdetto.
«Avete dimostrato grande prontezza e ingegno. Prendeteli, i progetti sono vostri». Rispose con voce sorridente. Una voce diversa da quella che accomunava tutti gli spettri del cimitero delle Cloth. Questa era viva, aveva di nuovo un timbro e un colore.  
Lo ringraziasti e prendesti lo scrigno d’oro scoprendolo più leggero di quanto ti aspettassi. Solo allora ti voltasti verso di lui, tenendo lo scrigno sotto braccio e lo guardasti stupito.
«Che cosa farete adesso?» Lo spettro sorrise divertito. Tutto ti saresti aspettato fuorché questo. Non te ne eri accorto ma aveva ritrovato le sue membra, come se una donna delle ossa avesse cantato su di lui per riportarlo alla vita. Aveva recuperato ogni singola goccia di sangue e capello. Lo sentivi che era ancora uno spettro, ma non immaginavi che avesse quest’aspetto.
Era un giovane dai lunghi capelli ricci neri e gli occhi scuri con la carnagione abbronzata. I vestiti integri sotto la Cloth dei Capretti. Era più grande di te di soli quattro anni ma il suo volto esprimeva furbizia, allegria. La Cloth aveva un elmo a diadema come quello dei Bronze Saint. Il busto e le spalle erano protetti dagli spallacci a forma di teste di capretti. Ai fianchi una sorta di gonnellino di metallo. Gli schinieri e i gambali risplendevano d’argento nella luce. La Cloth aveva rifiniture nere come gli occhi del suo proprietario. Ma l’ombra che faceva eco alle sue parole non c’era più.
Scrollò le spalle: «Il mio compito è terminato, finalmente posso andarmene» Sorrise commosso reclinando il capo all’indietro, lasciando che i raggi del sole baciassero la sua pelle.
«Allora arrivederci, Saint dei Capretti». Il Cavaliere ti sorrise un’ultima volta, poi si librò in aria e scomparve in un lampo di luce.
Anche tu te ne andasti.
Con la telecinesi riuscisti a recuperare i resti dei Bronze Saints e offristi loro degna sepoltura. Per le Cloth purtroppo non c’era nulla da fare. Dopodiché ti teletrasportasti di nuovo al Santuario.
Lì trovasti Kiki assopito sul divano. Lo svegliasti scrollandolo leggermente e poi gli passasti lo scrigno. «Maestro, ci siete riuscito, ma… dove sono…?»
«Sono morti. Mi dispiace, Kiki». Il giovane abbassò gli occhi. «Ah, e io che speravo che ce l’avessero fatta».
«Le probabilità di riuscita erano molto scarse, anch’io ce l’ho fatta per miracolo». Raccolse lo scrigno e disse: «Grazie mille per esservi preso questo disturbo, maestro».  
«Cosa contiene quello scrigno?»
«L’unica cosa che mi permetterà di fare qualcosa di straordinario». Rispose Kiki enigmatico. Ma tu capisti. «Astrid?» Da un lato l’avevi immaginato, ma dall’altro non l’avevi proprio considerato. Ti sentisti di rimproverarlo per questa cavolata. Aveva mandato i suoi uomini al macello per uno scrigno d’oro da dare alla ragazza che amava? Ma sul serio? Poi però ti ricordasti che tu avevi fatto di peggio e te ne stesti zitto. In nome della Dea anche tu avevi fatto cose orribili. Su questo non ci pioveva, come mandare dei ragazzini al massacro, pur sapendo che le riparazioni alle Cloth non sarebbero bastate.

Hades
Erano passati dei mesi dall’ultima volta che avevi ricevuto notizie degli Specter. Per la precisione da quando il Gold Saint di Cancer era sceso nel tuo territorio a combattere contro i Black Saints ribelli del passato. Un ghigno increspò la tua bocca. E così gli Azoni erano sopravvissuti, eh? “Buono a sapersi”.  Pensasti ironico. E dire che pensavate di esservi liberati del dominio di Saga con la sua morte. Dunque la Grande Volontà non si era estinta come avevate creduto tutti.
Probabilmente erano sopravvissuti anche tutti gli altri, non solo la potente Azona senza Wing. Così sapevi che si chiamasse. Ma tu guarda che coincidenze alle volte. 
Tu saresti stato quello che avrebbe dovuto bloccare la loro definitiva avanzata, avevi già architettato tutto. Adesso, attendevi notizie in proposito. Ma finora c’era stato solo un preoccupante silenzio radio. Non potevi usare i poteri del Cosmo di Shun perché non ti apparteneva e non eravate una cosa sola. E non potevi neanche usare il tuo perché se no quel cretino del Cavaliere di Leo sarebbe scattato come una molla. Accidenti al Patto che avevi contratto con Atena.  
Non ti eri più fatto sentire dallo scontro con Eris. Ovvio che ti eri accorto dello zampino della Dea della Discordia, ma se non eri intervenuto era perché non t’importava.
Avresti voluto tornare subito alla tua dimora e al tuo vero corpo mitologico, quasi pronto nell’Elisio, ma non potevi. Il tuo spirito non poteva sopravvivere se ti fossi allontanato da Shun. Il Saint che, pur temendoti, aveva mostrato pietà nei tuoi confronti al punto che ti salvò dalla scomparsa dell’Elisio. Mentre fuggivano ti aveva visto ridotto a un  bagliore dai colori scuri adagiato sulla terra tremante. Ti aveva raccolto, portandoti con sè. Così, aveva salvato il Signore dell’Oltretomba di nascosto anche se sapeva che negli Inferi la gratitudine non esisteva e che non avrebbe dovuto farlo, a meno che non avesse voluto morire. Ma il suo stucchevole buon cuore aveva preso il sopravvento sulla ragione, forse nella speranza che potessi rivelargli come salvare il fratellastro.
Appena giunti in superficie, la luce del sole ti aveva ferito gli occhi: «La luce…» Avevi sibilato tra le sue mani a coppa. Mentre chiudeva la fila di persone che scendevano dalla collina. Odiavi la luce del Sole. Per un attimo avevi pensato che volesse annientarti così, invece lui ti spostò in una mano per schermarti con l’altra. Tu lo osservasti, colpito dal suo gesto.
Che una parte di te fosse rimasta in lui o quel Saint misericordioso era troppo idiota per non accorgersi di quello che aveva fatto?
Atena per fuggire vi aveva teletrasportati tutti su una collina e, adesso, i fratelli del Saint di Pegasus piangevano assieme alla Dea qualche metro più in là rispetto a voi. Anche Shun avrebbe voluto piangere, aveva già il volto rigato di lacrime, ma con te tra le mani non ci riusciva. 
«Sì, questa è la luce del Sole». Aveva detto con voce rotta mentre i raggi dell’astro scaldavano la sua pelle. Sentendoti a disagio avevi lasciato vagare lo sguardo sul paesaggio circostante senza dire niente, nell’attesa che la smettesse di frignare.  
«Perché mi hai portato qui?» Gli domandasti quando ti riconobbe. Ti aveva salvato senza sapere che eri tu: «Non eri forse tu che più di tutti, mi volevi morto per aver parassitato il tuo corpo, Shun di Andromeda? Incarnazione traditrice, proprio come la principessa di cui porti fieramente il nome?»
«Sì, però non me la sono sentita di lasciarti lì. Non so cosa è stato ma sentivo di non poterlo fare». Spiegò cercando di smettere di frignare.
«Umano, dovresti sapere che non esiste la riconoscenza negli Inferi». Lo rimbeccasti.
«Ma qui non siamo negli Inferi». Ribadì e tu tacesti, lasciandolo piangere.
Era passata una settimana, prima che Atena scoprisse che eri ancora vivo. Sebbene avessi continuato a essere un bagliore tascabile. Anche se preferivi il palmo di una mano o un cuscino.
Nello stesso arco di tempo erano cominciati i problemi con le anime. Ti eri accorto anche tu dell’aria di tensione che si respirava e delle numerose presenze che infestavano ogni luogo. Poltergeist, maniaci, ladri, assassini, stupratori, passavano accanto ai Vivi, disturbandoli o ferendoli senza ritegno. E il mondo si stava avviando verso la sovrappopolazione. Neanche i malati terminali morivano più, costretti a subire l’agonia eterna.  
Era stato allora che Shun aveva capito. Poteva anche essere un ragazzino di diciassette anni, ma non era stupido. E, con le Gold Cloth distrutte e andate perdute nell’Elisio poi, sarebbe stato quasi impossibile anche solo cercare di rimediare al danno.  
Sulle prime avevano pensato che fosse una cosa buona. Ma quando le anime avevano cominciato a lottare con gli esseri umani per possederli si erano ricreduti. Neanche Atena riusciva a comprendere tutto ciò mentre cercavano di limitare il problema ponendosi a guardia del Santuario e di Seiya, all’epoca ancora sotto i ferri.
Atena sembrava distrutta. I suoi occhi erano vacui, quasi spenti e passava tutto il tempo in ospedale, in attesa di notizie. Non sapevi neanche da quanto tempo non mangiasse o non dormisse. Il Suo Cosmo Divino non avrebbe potuto supportarla ancora a lungo. Per quello che ti importava ci godevi. Così imparava a distruggere i tuoi domini e le tue legioni senza ritegno.
Appena accumulasti un po’ di potere, richiamasti a te i tre Giudici Infernali. E, proprio in quel momento sopraggiunse anche Shun, in pigiama, roso dalla paura, vi aveva visto e aveva urlato qualcosa che aveva fatto voltare i tuoi tre fedelissimi. «Andatevene immediatamente!» Poi si era avvicinato, talmente sconvolto da non aver neanche chiamato a sè la tua Armatura. 
Se non lo avevano attaccato era stato solo per il tuo tempestivo ordine: «Aspettate, fermi! Shun ti chiedo di calmarti, li ho convocati io stesso qui, ma non possono toccarmi. Le loro anime umane non sono abbastanza forti per toccarmi come invece può fare Pandora o un altro Cavaliere d’Oro. Inoltre, se mi allontanassero dal tuo Cosmo, io finirei per morire veramente».
«Il nostro Signore ha ragione, umano. Le nostre mani non sono degne di toccarlo ». Aveva replicato lo Specter della Viverna con voce incolore incrociando le braccia. «Perché dovrei credervi? Voi non sapete neanche cosa sia la riconoscenza». Aveva ribattuto il Saint di Andromeda.
«Ma qui non siamo negli Inferi». Aveva rilevato Minos scrutandolo da sotto la zazzera bianca, zittendolo.
A quel punto eri intervenuto: «Giacché sei qui penso che ti interesserà sapere quello che avverrà e, ritieniti fortunato, di solito non condivido informazioni con nessuno, neanche con i miei collaboratori più fidati o la Sacerdotessa Pandora. I miei sudditi mi stavano riferendo che presto gli Dèi muoveranno battaglia contro Atena per ristabilire l’onore di noi Divinità sopraffatte. Anche se ridotto in questo umiliante, disdicevole, stato pietoso, resto sempre una Divinità. C’è un motivo se esiste l’Aldilà e non è per soddisfare la mia sete di potere e di dominio sul mondo intero. No, anche se può essere usato per questo scopo come hai notato e come progettano altri miei colleghi sovrani del Regno dei Morti. L’Aldilà esiste come luogo a sé stante per regolare il controllo delle anime e delle pulsioni umane. Senza la minaccia dell’Inferno non ci sarebbe la paura e la promessa del Paradiso non allevierebbe i loro tormenti. La paura non spingerebbe mai gli esseri umani a essere migliori ad ambire alla pace e la gloria del Paradiso e il mondo cadrebbe nel Caos già più di quanto non sia. Per non parlare poi del ciclo delle reincarnazioni. Le anime che vanno altrove senza neanche essere purificate dai loro peccati, che si reincarnano apposta per vivere e sollazzarsi negli stessi piaceri che le hanno ingrassate e condotte alla perdizione? Per non parlare di quelle persone che si approfittano di loro solo perché possiedono una briciola di potere affine al Mondo dei Morti. Quali disastri può provocare chi controllandole può usarle per i propri scopi? E, se questi scopi non fossero benevoli? Cosa accadrebbe? Comprendi, umano? Adesso che non esiste più l’Inferno, le anime vagano indisturbate provocando il Caos. E se qualcun altro degli altri sovrani infernali rovesciasse addirittura il Tartaro nel Mondo dei Vivi? Hai mai paventato questa possibilità? Oh, non fare quella faccia, non dirmi che pensavi davvero che io fossi l’unico Signore incontrastato dell’Oltretomba. Secondo te qual è la funzione principale dei miei centootto Specter? E perché in ogni esercito divino che si rispetti esistono dei soldati che hanno il controllo sulle anime, anche in quello della tua amata Dea, come i Cavalieri del Cancro e della Vergine? Ti sei mai domandato perché? No? Te lo spiego io: per impedirgli di fuggire e per continuare a far sì che la ruota della Vita e della Morte continui a girare. C’è sempre bisogno di qualcuno tra le varie fila che se ne occupi, non solo tra i civili. Quello che finora sta accadendo altro non è che solo un piccolo assaggio di una catastrofe ancora più grande».
«Sei serio?» Ti chiese stupefatto. Prima di allora non aveva mai pensato all’Aldilà in quest’ottica e, finalmente, comprese appieno.
«Ehi!» Era intervenuto il Garuda, avanzando di un passo: «Porta rispetto al nostro Signore, Saint di Atena. Non rivolgerti a Lui con questa famigliarità, tu non sei nessuno». Lo ammonì con ferocia ma non fece altro. La stanza era piombata nel silenzio finché non aveva domandato. «Dunque cosa volete che faccia? Perché me lo state dicendo?»
«Il motivo lo puoi anche immaginare». Sogghignasti. E lui aveva capito.
«Non giocare con la mia pazienza, Hades. Non voglio farti del male ma se mi costringi non esiterò a colpirti». Lo avevi avvisato, sorprendendoti della tua stessa ferocia e della tua malvagità. Ma che ti era preso? Neanche negli scontri precedenti ti era mai successo.
I tre Giudici Infernali lo avevano guardato stupefatti, ma lui non ci aveva fatto caso, la sua attenzione era tutta per te. «Io ti ho avvisato, umano». Avevi ribattuto compiaciuto.
Da quel giorno avevi preso il vizio di portarti dappertutto, infilato in una tasca alla stregua di una moneta. Se non fosse stato per la tua negatività, quasi non avrebbe fatto caso a te, silenzioso com’eri.
Potevi persino indovinare i suoi pensieri. Si sentiva quasi in colpa per aver salvato un individuo che, per di più, si stava riorganizzando sotto i suoi occhi. Se suo fratello avesse saputo… non osava nemmeno pensarci.     
Poi, esattamente come avevi previsto, il Caos era andato intensificandosi e si erano succedute le Guerre Sacre con le altre Divinità. Fu allora che ti rivelasti un prezioso alleato. Eri riuscito a recuperare una piccola parte del tuo esercito, l’avevi riorganizzato e avevi contribuito ad arginare il Caos fino a farlo scomparire. Lui ti aveva chiesto se sapevi quello che facevi e avevi ribattuto sempre in tono compiaciuto e al tempo stesso ammonitore: «Non sottovalutare mai le milizie Infernali, umano». Al contrario delle sue nefaste previsioni, si erano rivelati altamente capaci ed efficienti, una volta rimessi in riga. Avevi lasciato Shun ad assistere a tutte le volte che manovravi i tuoi uomini. Per la prima volta vide gli Specter con occhi diversi e percepì il timore riverenziale che essi stessi emanavano e dovevano avere, quando non erano pronti a lanciarsi in battaglia. Sfruttando la loro condizione, i tuoi uomini erano riusciti ad aiutare i Saint senza che nessuno se ne accorgesse. Persino Hypnos e Thanatos avevano risposto al Tuo richiamo. Dapprincipio avevano guardato il tuo ospite con sospetto, ma se questa era la tua volontà, non avevano voce in capitolo.
Quando il Caos si placò decidesti di rivelare la verità a Lady Isabel.
Shun l’aveva fatta accomodare prima di vuotare il sacco. La ragazza lo aveva ascoltato senza parole, forse incredula. E, come prova, il ragazzo ti estrasse dal taschino della camicia. Lei si era portata le mani alla bocca per trattenere un grido.
«Cosa hai, fatto, Shun!» Aveva esclamato inorridita. Il Saint di Andromeda era riuscito a convincerla a lasciarti lì. Anche perché, si era accorto che stavi morendo comunque, troppo anche soltanto per fluttuare. Anzi, stavi proprio per tirare le cuoia. Ammesso che uno spirito potesse morire. A quel punto eri intervenuto: «Atena ascoltami. Non ho chiesto io di essere salvato e, ti posso garantire che la rabbia che provo nei tuoi confronti supera ogni tua immaginazione. Ma, allo stato attuale delle cose, posso ancora avvertirti. Uccidendomi hai infranto l’Ordine Naturale delle Cose. Posso avvertire chiaramente il turbamento che si è venuto a creare nell’Aldilà con la scomparsa dei miei domini. Stavolta hai superato il limite consentito, anche per te. Zeus non te la farà passare tanto liscia».
«Cosa dobbiamo fare, allora?» Aveva domandato sconfitta.
«Lasciami ripristinare l’Ordine nel Cosmo. Sai anche tu che è la cosa più saggia da fare. Se non credi alle mie parole, credi almeno ai fatti: se l’Inferno e l’Elisio tornassero, allora avresti qualche possibilità in più di salvare i tuoi amati Cavalieri d’Oro». La Dea aveva sgranato gli occhi: «Come sai che…?»
«Devo davvero dirtelo?» Aveva domandato, retorico, l’altro.
«No».
«Bene».
«Puoi davvero ripristinare tutto?» Aveva chiesto l’umano.
«Allo stato attuale no, ma se potessi avere un corpo fisico in cui è rimasta anche una minima parte del mio Cosmo, potrei». La Dea ti aveva guardato orripilata. Poi si era rivolta a te, luce adagiata sul palmo del ragazzo: «Dunque è questo il tuo piano? Approfittarti del corpo giovane e incorrotto di Shun per riprendere il tuo piano di conquista della Terra? No. Non te lo permetterò mai!» Ed era scattata in piedi, colma di rabbia. Lei, che questa parola non sarebbe neanche dovuta esistere nel suo vocabolario. Il tuo ospite, spaventato, aveva cercato di ripararti anche con l’altra mano, portandoti al suo petto come se tu fossi un animaletto spaurito da proteggere invece che il Sovrano dell’Averno. Tu ti facesti una bella risata, prima di ammonirla: «Quanto sei ingenua, Atena. Non capisci che ti sto invece, proponendo un patto molto più equo di quello che mi hai propinato tu durante la Guerra? Hai un bel coraggio a darmi del traditore quando tu stessa non avevi nessun’intenzione di mantenere la tua parola. No, allo stato attuale delle cose io non ci guadagno proprio niente a impossessarmi di un corpo refrattario alla Mia presenza. Normalmente neanche lo chiederei, dal momento che avevo risvegliato il mio corpo mitologico e, tu sai bene quanto me di chi è la colpa per la fine che ha fatto. Però, sai anche che i miei poteri sono molto più deboli, se ridotto così. Pensaci bene, vuoi davvero giocarti anche la più piccola possibilità di salvare i tuoi amati Cavalieri?» Domandasti mellifluo.
«Non osare neanche nominarli». Sibilò l’altra.
«E chi ne ha l’intenzione? Ho una proposta molto più interessante, invece: tu mi lasci incarnare in un ospite puro di cuore, io ristabilisco l’Ordine Naturale delle Cose e, forse Zeus si convincerà ad ascoltare le tue ragioni». Atena tacque a lungo soppesando la tua proposta e cercando una scappatoia. Alla fine i suoi occhi si velarono di tristezza e sospirò prima di cedere: «Immagino che tu abbia già scelto il candidato, giusto?»
«Certo, ed è l’unico che ancora risponde ai requisiti necessari. E lo sa anche lui ». Disse il Dio con voce trionfante.
«Shun?» Chiamò la Dea, in pena per te. Lui la guardò prima di annuire a malincuore. Non avrebbe mai voluto ospitarti di nuovo, come tu non avresti voluto tornare a dimorare in quell’umano.
Sfoderasti l’asso che avrebbe sancito il patto. «La scelta è solo tua, dipende da te».
Ma la Dea aveva scosso il capo, tenendo gli occhi chiari bassi e aveva detto: «Non è mia la scelta». 
Il frignone s’imbarazzò nel proferire queste parole: «Io, credo di aver già deciso da un po’, Milady». Proferì con occhi pieni di lacrime. Lady Isabel aveva girato il viso contratto in una smorfia da un’altra parte. Poi vi aveva guardati di nuovo e aveva detto: «Va bene, allora ho anch’io delle condizioni da apporre al patto».
«Sentiamo».
«Voglio che i vecchi rancori siano dimenticati, che i nostri domini e i nostri sudditi siano in pace tra loro. Che ci sia sempre uno spirito di collaborazione fra di noi e tra i nostri sudditi e che non si uccidano a vicenda. Ma, soprattutto, tu non possegga mai il corpo di Shun per i tuoi loschi scopi e, la vostra convivenza non deve in alcun modo alterare la pace o interferire con i suoi doveri di Cavaliere d’Oro e, gli permetterai di continuare a vivere qui sulla Terra».
Avevi saggiato la sua proposta prima di rispondere: «D’accordo». Poi avevate spiegato a Shun come riaccoglierti.
Perciò, si era fatto forza e ti aveva ingoiato aiutandoti con un bicchiere d’acqua neanche fossi stato un medicinale. Aveva avuto paura soprattutto quando ti sentì espanderti e infilarti nelle sue membra. Adesso sapeva cosa doveva provare un guanto o un calzino e, non era una sensazione piacevole. Esultasti trionfante prima di tornare serio e gli riferisti il primo di una lunga serie di messaggi per la Dea. «Dille da parte mia che la ringrazio. Ora, come promesso, ristabilirò l’equilibrio». Riferì.
Poi, come offerta di pace, quando i processi terminarono, una tua controparte di un altro universo riportò alla vita sia alcuni dei loro compagni sia parte del tuo esercito. Purtroppo non disponevi ancora di energia sufficiente per fare molto altro. Quella sarebbe tornata con il tempo.
Con l’aiuto dei poteri telecinetici di Kiki dell’Ariete, ricostruisti Castel Heinstein in Germania. Per fortuna i tuoi  sottoposti avevano provveduto a ripulire lo scempio lasciato dai fanatici delle sette nere che, percependo l’energia dell’Oltretomba, avevano eletto quel luogo loro santuario. La tua rabbia era stata grande. Talmente grande che per poco non contagiava anche il tuo ospite. Ma come potevi restare impassibile di fronte a quella profanazione? “Insulsi umani! come osate insozzare i miei domini?” Ululasti nella tua testa. Provocandogli una serie di fitte come se avesse indossato una corona di spine.  
Pandora si era spaventata quando ti aveva visto. Temeva che l’avresti punita per il suo tradimento. Eri tentato, in effetti, ma quell’idiota del tuo ospite ti aveva trattenuto con la sua  pietà, di fronte a quegli occhi violacei pieni di paura.
Perciò ti eri limitato a legarla ancor più strettamente agli Inferi di prima. Adesso ci sarebbe davvero voluta l’eternità per lei, per liberarsi del tuo giogo.
Con il tempo il tuo potere si ristabilì e riportasti alla vita altre persone. E, stando al patto, Aquarius, Virgo e tutti quelli che avevano già un erede erano rimasti nell’Oltretomba in qualità di Guardiani di determinate zone. A parte Leo. Al posto suo si era offerto il fratello maggiore del tuo ospite per poter meglio sorvegliare eventuali fughe di anime fuggiasche. In quanto ex Bronze della Fenice, era molto più adatto di lui per questo compito. Le ragioni erano diverse e non tutte condivisibili, però erano le loro scelte e le avevi rispettate. Tornasti al presente, a quella bella giornata di sole che ti stavi godendo. «Hai avuto le risposte che cercavi?» Ti chiese Shun mentre riposavate sul terrazzo di Villa Thule.
«Non ancora». Rispondesti al tuo ospite.
«Almeno spiegami perché tutto questo interesse nei confronti di Astrid. Che cosa dovrebbe essere, lei?» Domandò.
«Se è quello che penso, la risposta ai nostri problemi». Mormorasti pensoso, in uno dei tuoi rarissimi slanci di generosità, rari come un raggio di sole dopo mesi di pioggia incessante. Batté le palpebre sorpreso: «Cosa?»
«Chiama subito Pandora». Gli ordinasti invece cambiando discorso. Sospirò ed eseguì ringraziando che non fossi telefono dipendente. La voce della tua Sacerdotessa trillò dalla cornetta. «Mio Signore».
«Che notizie dal Regno dei Morti?» Domandasti prendendo possesso delle corde vocali e del corpo del suo proprietario, relegandolo in un angolino del suo stesso essere. 
In realtà ogni notte, mentre il tuo ospite dormiva, prendevi possesso del suo corpo per qualche minuto. Il tempo necessario per monitorare la guerra civile negli Inferi. Ovvio che sapevi cosa succedeva nei tuoi possedimenti. Potevano farti fesso due volte, alla terza per forza che stavi allerta. E dopo addirittura tre patacche di corpi non desideravi altro che tornare negli Inferi.
Ma non ci avresti rimesso piede come ShunHades, solo come Hades, una volta che la Giudecca fosse stata riconquistata.
Hypnos e Thanatos avevano quasi finito di assemblare il tuo corpo mitologico e provvedevano affinché nei Campi Elisi i Black Saints e Don Avido non mettessero mai piede.
Se non fosse stato per la loro sorella maggiore Ker, la stessa che aveva fatto sì che Saga fosse posseduto dalla nascita, a quest’ora avresti perso anche loro. Poi si era unita a loro nella lotta contro i Black Saint. I quali, a lungo andare, si erano fatti l’idea che avvicinarsi al Muro del Lamento fosse ormai sinonimo di morte. 
Ma adesso attendevate soltanto il momento giusto per stringere Don Avido nella morsa. Pandora e gli Specter dai lati, loro da dietro e il Cavaliere di Cancer da davanti. «Abbiamo recuperato alcuni degli Specter che erano scampati alla precedente ondata, ma sono sempre meno a causa delle Creature. Le nostre spie mi dicono che hanno cominciato a invadere il nostro Regno. Sempre più Skeleton e Specter le hanno avvistate».  
A quanto pare le precauzioni sviluppate durante la Guerra Sacra con Artemide non avevano più effetto. Questa non ci voleva. Anche perché avevi scoperto di non essere capace di resuscitarli. Potevi influire sulla vita e sulla morte, ma l’esistenza era un’altra cosa. Cancellare completamente ogni traccia di una vita, questo andava oltre ogni tuo potere e immaginazione. E anche oltre il potere del Cavaliere di Virgo.
Se poi foste stati in Guerra tu e Atena ti saresti divertito ad aspettare che i suoi Saint morissero da soli a causa dell’influsso delle Creature, primo tra tutti Seiya, che sentivi più provato degli altri, anche se fingeva il contrario.  Alla fine, quando la congedasti, lei si raccomandò: «Mio signore, vi prego, siate prudente».
Ti lasciasti passare queste parole da un orecchio all’altro. L’unico motivo per cui l’avevi resuscitata era perché era il tuo braccio destro. Sebbene avesse cominciato a spezzare le catene karmiche che la legavano a te, aveva ancora molta strada da fare prima di liberarsi definitivamente del tuo giogo. Avevi sottovalutato la giovane vita che scorreva in lei e la sua brama di libertà. Avresti dovuto immaginarlo che una sedicenne del XX secolo non sarebbe mai stata adatta a guidare il Regno dei Morti e le tue armate. A malapena Atena stessa riusciva a gestire le sue stesse fila. Anzi, mancava poco che si autogestissero per conto proprio.
Anche se eri irato avevi avvertito in lei il pentimento, la paura, e il suo attaccamento alla vita, oltre che il bisogno di vivere, di assaporare e toccare con mano quei colori che la tua rinascita le aveva sottratto. Quelle emozioni che sono proprio degli esseri umani, ecco.
Questa Pandora era molto diversa dalla Sacerdotessa che guidò le tue armate nel millesettecento. Forse era stato questo il tuo errore più grande: non conoscevi bene tua sorella maggiore. Altrimenti avresti compreso di cosa aveva davvero bisogno. Persino Eris viveva in uno splendido Eden, ricco di vita e pace. Odiavi ammetterlo, però stavi imparando tantissimo dal tuo giovane ospite. Al punto che a volte sentivi la necessità di prendere possesso del suo corpo e viverli in prima persona. Sentivi persino il richiamo della carne per il gentil sesso, cosa che, non sentivi più da quando avevi cominciato questa sanguinosa serie di guerre con Atena.
Comprendevi cosa avesse spinto la tua Sacerdotessa a tradirti. E, questa comprensione ti aveva aperto un mondo. “Grazie a te ho ricordato che il mondo non è grigio, il cielo è azzurro, l’erba è verde e il sangue è rosso”. E, che nell’Inferno, questi colori erano assenti. Che queste parole non erano che la punta dell’iceberg di una mancanza che divorava l’anima. Un’anima che bramava di assaporarli anche con gli altri quattro sensi, non solo con la vista. L’erba aveva anche un odore, il cielo aveva un sapore quando pioveva, e il sangue aveva una densità che sembrava quasi dolce al tatto.
Persino quelli dell’Elisio non erano niente perché tu non eri rimasto a goderteli. Solo perché? Per aiutare un amico in difficoltà ai tempi del mito. Invece che mandarlo a quel paese come avresti dovuto fare. Questo però non l’avresti mai confessato ad anima viva, neanche a Shun, che pure era la persona a te più vicina in assoluto. Non era bene che quell’umano si immischiasse negli affari di una Divinità. Ancora adesso che erano passati molti anni, però non ti fidavi più completamente di lei. Invece, ora che erano tornati a militare tutti e tre nelle tue fila, avevi parlato ai tuoi luogotenenti di Astrid e stavi cominciando a maturare un piano. Ciò che all’inizio ti sembrava pura fantasia, adesso andava concretizzandosi nella tua testa. Grazie soprattutto ai recenti avvenimenti. Ti eri proprio dovuto ricredere: più ricordava più si rivelava capace. 
Il problema era attuarlo; la ragazza non era mai da sola e, ridotta a uno straccio com’era, non ti serviva. 
Siccome Hypnos e Thanatos non usavano i telefoni e, anche se li avessero avuti non avrebbero avuto campo nell’Elisio, avevi chiesto ai due, tramite Pandora, di condurre una serie di esperimenti su Astrid per verificare il suo potere. Era stato anche grazie al loro intervento che era riuscita a raggiungere i compagni di Shun sulla Luna, perché, a rigor di logica, nessun vivo abbandona mai la Terra di sua spontanea volontà per recarsi altrove. Le anime hanno sempre una vaga paura di abbandonare il pianeta, quando incarnate. Pertanto ti eri raccomandato con Thanatos e Ker di non ucciderla, ti serviva viva.
Atena a forza di incarnarsi ripetutamente si stava dimenticando quello che tu avevi capito fin dall’inizio. Ossia il segreto della Luce Ombrosa. Sì, la Luce Ombrosa avrebbe giocato un ruolo chiave se tu fossi riuscito a spedirla sul campo di battaglia.
Chi l’avrebbe mai detto che questa leggenda potesse essere reale. Restituisti il corpo a Shun. Secondo i patti non dovevi interferire con la sua vita e il suo dovere, ma non avevate mai accennato al prendere in prestito il suo corpo per comunicare con le tue schiere. Di norma non t’importava moltissimo di loro, però se un nemico esterno le minacciava e le decimava t’importava. Dopo la Guerra Sacra non avresti mai più permesso a chicchessia di entrare nei tuoi domini tanto facilmente. Avresti atteso di avere altre informazioni, poi avresti deciso tu stesso il da farsi. Ma per ora avresti atteso un altro po’. La giovane Luce Ombrosa faceva proprio al caso tuo.
Per questo, quando la sentisti chiamare il tuo nome, prendesti a prestito le energie da Shun per aprire le porte con cui scrutava i mondi e mandare un messaggio telepatico alla Luce Ombrosa. In breve tempo copristi la distanza che vi separava e toccasti la sua mente con la tua. La sentisti sussultare ma le parlasti: “Luce Ombrosa”. “Sì?” Chiese guardinga.
“Sono il Dio Hades, il Signore dell’Oltretomba e degli Specter”. Ti presentasti e da lei ti arrivò un moto di paura. “Sto per morire?” Chiese intimorita.  
“No. La tua ora è ancora lontana.” La rassicurasti. Si rasserenò un poco ma poi tornò a domandarti: “Allora mi avete sentito”. 
“Sì”. Confermasti ma le lasciasti intendere che fosse una cosa rara. La Luce Ombrosa ti chiese se potesse farti una domanda e tu glielo concedesti. “Mia madre è negli Inferi?” Fosti tentato dal dirle una bugia ma conoscevi già l’odio che provava per le schiere di Atena e i bugiardi. Shun l’aveva avvertito molte volte. Perciò le dicesti di no e aggiungesti che eri venuto da lei per chiederle un favore. “Ho bisogno della tua forza. Sei l’unica a cui posso rivolgere una richiesta simile. Saresti disposta a raggiungere le mie schiere negli Inferi e combattere contro i rivoltosi? In cambio ti darò qualsiasi cosa tu desideri”.
“Scusate se ve lo chiedo così, ma perché dovrei?” Le spiegasti di nuovo che lei era l’unica persona che potesse combattere anche con le Creature. Come se non bastasse che fosse riuscita a esorcizzare due posseduti e combattere contro Mordred. “L’avete mandato voi, non è così?” Intuì con un guizzo di rabbia. Era più sveglia di quanto immaginassi ma ciò non fece che colpirti ancor più positivamente. Eri troppo abituato agli incapaci e ai rintronati dei tuoi sottoposti. Una mente fresca come la sua avrebbe dato sicuramente una svolta a questa guerra. Avrebbe persino potuto ribaltare le sorti del conflitto.  
“Mi dispiace molto di averti causato dei problemi ma avevo bisogno di capire quanto fossi forte e non sono affatto deluso”. Ti scusasti. Se da un lato percepisti che era lusingata, dall’altro sentisti anche la sua rabbia, ma l’ignorasti. Le spiegasti in che situazione vertevano gli Inferi e che se lei non avesse contribuito allora i nemici avrebbero vinto e per tutti voi sarebbe stata la fine. Le spiegasti anche che tu eri potente, e che non ti pesava per nulla concederle ciò che avrebbe desiderato. A questo punto restasti abbastanza sorpreso quando lei disse: “Vi ringrazio dell’offerta, ma è impossibile anche per voi, la persona che vorrei rivedere si è suicidata e non si trova negli Inferi o nei Campi Elisi”. Tuttavia lo sentivi anche tu che stava fremendo dal chiederti qualcosa. Attendesti. Poi alla fine ti richiamò e rispondesti. Meditò un po’ sulla tua richiesta.
Sembrò giungere a una conclusione perché domandò: “Se accetto, voi scioglierete il sigillo sulla mia memoria?”
Niente di più facile.
Ti scappò un mezzo sorriso divertito per la sua umiltà. Eri un Dio avresti potuto fare molto di più di così, ma gliene fosti grato lo stesso. Voi Dèi non avevate mai pensato ai mortali come inferiori, anzi, portavate un grande rispetto per loro. Se non ti fosse importato, poi, non avresti mai cercato schiere umane o lavorato per aiutare gli umani a spurgare i loro peccati. “E se dirai di sì avrai piena libertà di movimento in quanto risponderai a me e me soltanto”. Una posizione così elevata non ce l’aveva neanche Pandora e neppure i tre Giudici Infernali. E percepivi da lei l’ambizione. Era tentata, si sentiva.
Sorridesti soddisfatto, mancava pochissimo.
Lo sentivi che a lei non importava nulla di quello che stava succedendo in Grecia. Che aveva voglia di combattere, menare le mani, vendicarsi su tutto e tutti. Che avrebbe messo i suoi problemi da parte per sfogarsi un po’. Lo sapeva che era una sorta di patto col Diavolo, non era stupida. Che di macchiarsi di peccati non le importava. Come sapevi anche che aveva già un’opinione migliore di te che dei Saint della Dea della Guerra e della Sapienza. Almeno tu glielo stavi chiedendo e mica a tutti è concessa un’avventura come quella di Orfeo, Enea o Dante.
“D’accordo”. Decretò alla fine, “rimuovete il sigillo e io verrò. Anche se prima avrei un’ultima cosa da fare”.
“E sarebbe?”
“Smascherare un impostore”. Avevi già capito a chi si riferisse.
“Va bene”. E poiché eri misericordioso, le insegnasti come fare per chiamarti qualora riuscisse nell’intento. Le sarebbe bastato solo pensare il tuo nome. “Me ne ricorderò”. Promise, poi tu ti accomiatasti.     

La giovane Luce Ombrosa si mise subito all’opera. Il giorno dopo, infatti, la terra tremò. Non era un fenomeno esclusivamente naturale, lo sentivi. Era il pianeta intero che tremava. Non c’era niente che un Dio non potesse riconoscere o fare, perciò materializzasti a te lo specchio di Pandora, approfittando del sonno di Shun. E gli ordinasti di mostrarti la giovane Luce Ombrosa e il terremoto. Se avevi visto giusto c’era lei dietro tutto questo.  
La scena si mostrò al momento della scossa. Avesti una panoramica dell’arena. Vedesti la Saint di Indus affrontare Astrid davanti a tutti i soldati radunati lì sugli spalti. Quella ragazza aveva qualcosa che non ti convinceva, ti ricordava qualcuno. Non era uno scontro alla pari, in nessun senso. La Luce Ombrosa non indossava neanche degli abiti che le permettessero un’ampia libertà di movimento. Non riusciva neanche ad attaccare decentemente, ogni suo colpo veniva parato senza problemi. L’avversaria se la rideva e, più di una volta la buttò al tappeto sotto le risa degli spettatori.
Poi mentre la Luce Ombrosa si rialzava a fatica, la Saint raccolse un sasso e glielo tirò. La centrò in testa facendola di nuovo svenire. «Potremmo anche lapidarla, lei è la causa di tutte le nostre disgrazie». Propose la Saint e le sue compagne le dettero corda. Raccolsero i sassi. Nessuno l’avrebbe protetta. Ti sbagliavi perché le pietre si fermarono tutte a mezz’aria. «Raki!» Esclamò la giovane mentre la piccola lemuriana e il nuovo Gold Saint di Aries la raggiungevano e l’aiutava a rimettersi in piedi. «Cosa stai facendo? Non è un comportamento degno di un Cavaliere di Atena!»  La rimbrottò Kiki mentre Raki soccorreva Astrid, tremante e dolorante. Lo spavento e la rabbia incendiavano il suo sguardo. Le Saint chiesero perdono.
Le aguzzine desisterono subito. Maestro e allieva fecero per portarla via ma lei s’impuntò e richiamò la capobanda con voce lamentosa. «Aspetta». La Saint di Indus si fermò. Anche i due lemuriani cercarono di richiamare la ferita. Che cosa voleva fare? Perché voleva buttare al vento i loro sforzi? «Non ti è bastata la lezione, stupida serva? Te ne devo dare ancora per insegnarti a non impicciarti degli affari altrui?» Rispose la mora con aria annoiata.  
«Io non sono una serva.» replicò la bionda mentre si staccava da Raki. Eri sbigottito, non pensavi che fosse tanto forte. Quel colpo avrebbe ucciso chiunque ed eri più che sicuro che non avesse usato alcuna tecnica rigenerativa. Eppure, il fuoco che le ardeva dentro lo vedevi anche tu. L’aria vibrava attorno alla sua persona. «Credi di farmi paura? Credi di riuscire a sopraffarmi? Quelli come te sono destinati a scomparire». E queste parole fecero trasalire tutti.
«Cosa? Come ti permetti?»
«Chi si vanta di essere il più forte, il più potente o il più pericoloso prima o poi sparisce da sé». Specificò. Poi aggiunse: «É la regola di quelli come me. E, le tue stelle, stanno già scomparendo con te e presto le seguirai». Decretò alzando l’indice verso di lei come se stesse lanciandole una maledizione.
«Astrid, adesso basta!» Le urlò Raki in coro allo «Stai zitta!» di Neera.
«Le vedo, sono così deboli…»
«Stai zitta!» La colpì di nuovo, mandandola lunga, distesa sulla sabbia dell’arena. Ma neanche così si arrese. Era viva e dolorante, la sabbia doveva averle portato via almeno la parte superiore della sua epidermide. Invece, con tuo grande sconcerto, la scopristi illesa e sghignazzante.
Si rialzò e con un movimento del polso materializzò dal niente un bastone da naginata di Cosmo dorato. Cosmo? Dove lo aveva trovato?
«Che c’è? Che c’è da ridere?» Le domandò fingendo una spavalderia che in realtà stava andando incrinandosi. Astrid rise sguaiatamente e la sua risata si propagò per tutta l’arena, ormai ammutolita. Poi manifestò il suo Cosmo in tutta la sua gloria. Non assomigliava a niente che avessi mai visto prima. Era una fiamma nera come la notte che, innalzandosi assumevano sfumature più chiare fino ad arrivare al bianco. Al suo interno stelle fosforescenti di varie dimensioni brillavano e si muovevano seguendo un percorso tutto loro. Quell’inquietante Cosmo silente si espanse fino a coprire un raggio di cinque metri. A quel punto solo una piccola parte degli spettatori non urlava per il terrore. Era come guardare un rogo, solo che la strega al suo interno non ne veniva intaccata. Era così alto che superò persino le mura dell’arena e spostò l’aria e fece tremare il suolo. 
«Astrid!» Esclamò Shiryu percependo tutto.
«Che le succede?» Urlò qualcuno spaventato mentre Shura cominciò a urlare alla folla di stare indietro.
La ragazza ignorò tutti mentre continuava a ridere reclinando il capo all’indietro. Smise a poco a poco. Raddrizzò il viso e guardò la Silver. Si terse un occhio annebbiato dalle lacrime e, reggendosi al bastone barcollò verso di lei. La Saint spaventata cominciò ad arretrare, intimandole di stare lontana, gonfiando il proprio Cosmo. Ma in confronto a quello di Astrid somigliò a una macchia fioca. Qualcuno le urlò di fermarsi. Astrid continuò la sua claudicante avanzata verso la Saint.
Il suo bersaglio cercò di attaccarla ma il Cosmo nero di Astrid la protesse assorbendo tutti i colpi.
Arrivata a meno di un metro dall’avversaria, lasciò il bastone, che si dissolse e lei incespicò. Tese le mani verso di lei e le artigliò le spalle per reggersi in piedi, quasi le cascò addosso. Come se tutto ciò le fosse costato un’enorme fatica.
Neera trattenne il fiato rumorosamente e cercò di scostarsi ma Astrid non la lasciò andare.
Il suo Cosmo cominciò a placarsi e affievolirsi.
Erano tutti pietrificati. Persino tu eri turbato.
La bionda reggendosi a lei riuscì a rimettersi dritta, alzare la testa e sorriderle: «Le vedo, oh, sì, le vedo. Sono così deboli che paiono scintille. Volendo potrei cancellarle persino io stessa». E ne era in grado. La terra prese a tremare più violentemente.
«Lasciami stare!» Urlò Neera mentre Aiolia la colpiva alle spalle con un colpo di taglio e la faceva svenire. Il suo Cosmo scomparve e gli elementi si placarono mentre il Gold Saint di Leo la sorreggeva. «Astrid!» Urlò il Saint di Aries. Avevi visto abbastanza. Recidesti la tecnica e poi rimandasti lo specchio da Pandora.   

Camus
«Milady!» Chiamasti allarmato volgendo la testa di scatto verso di lei.
L’energia andava condensandosi tutta in un punto solo. In Grecia, al Santuario, nell’Arena. Poi  esplose e tornò a invadere e pervadere ogni cosa. Tanto era forte spostò le massi nuvolose sulle vostre teste, scoprendo i raggi del sole, che vi costrinsero a battere le palpebre e schermarvi gli occhi con le mani o le braccia.
Cosa stava succedendo?
Lady Asia volse il volto verso il cielo sopra di voi. «Sì è svegliata, alla fine».
«Che cosa si è svegliato?»
«La Luce Ombrosa». Dichiarò con un sorriso e si rialzò a sedere. Gli occhi brillanti. Sembrava che avesse ritrovato improvvisamente tutta la sua forza. Ma non ne eri per nulla sicuro. Vi eravate teletrasportati grazie al suo potere in un ambulatorio e lì la Dea si era fatta medicare. Come sapeva che era un ospedale affiliato al Santuario per te era ancora un mistero. Ma se aveva a che fare con voi allora qualcosa doveva per forza sapere. Si era fatta ricucire una ferita abbastanza importante sul fianco, che il suo Ichor particolare avrebbe fatto il resto.

 

Stavi camminando con lo sguardo basso, perso nei tuoi pensieri.
Il tempo è relativo, soprattutto quando ti immergi nei ricordi. I confini spazio temporali si annebbiano e se ti concentri è quasi come rivivere un film. Un film costellato di momenti no, però. Tu eri un soldato, non avrebbe dovuto importartene niente. Tu eri parte dell’èlite del Santuario. Allora perché ti sentivi una recluta alle prime armi? Perché? Perché questa sensazione di fallimento non andava via?
Poco più avanti, Shaka e Lady Asia stavano studiando un piano d’azione quando a un certo punto la sentisti camminare vicino a te e parlarti: «Non sono ancora cieca, me ne accorgo che tu sei ancora più demoralizzato del tuo compagno».
La guardasti, non ti eri minimamente accorto del suo spostamento, poi, raddrizzasti il volto e vedesti Shaka camminare avanti a voi, apparentemente ignaro di ciò che succedeva alle sue spalle.
«No, sul serio, non è niente, è…» Ma lei non ti lasciò continuare. Anzi, fermò Shaka e gli disse: «Scusa un momento, devo dire una cosa al tuo compagno, in privato». Non potesti fare a meno di guardarla sorpreso. Non era mai successo che una Dea ti prendesse in disparte anche solo per questo. Era un gesto così umano che non c’eri abituato.
Il biondo indiano annuì e restò di guardia.
Vi allontanaste di tre metri, lei sospingendo dolcemente te, tenendoti una mano sulle scapole. Poi ti fermò e spostò quella mano sul tuo braccio. Cosa ancora più inusuale, per te, ti guardò dritto negli occhi. Con quei caldi occhi dello stesso colore del cioccolato fondente, che alla luce cangiarono su una tonalità molto più chiara e morbida, color cioccolato al latte. Occhi seri, eppure incredibilmente dolci. Anche la sua voce lo era, quando ti parlò. «Camus, io non sono Atena, anche se sono una Dea, sono un soldato, tanto quanto voi, o forse meno, ma riesco a capire quando un mio compagno è giù di morale a causa di uno smacco».
Cosa non da te. Nella vita avevi subito tanti di quegli smacchi e di quelle sconfitte e non ti eri mai arreso. Il fatto che il Drago Rosso avesse preso suo fratello per la collottola e l’avesse spedito a calci nel culo alla Casa di Urano, era solo un altro paio di maniche. Se potevi evitare di combattere evitavi, ma se combattevi, allora dovevi andare fino in fondo. Tu, che i sentimenti li reprimesti, adesso ti ritrovavi ad ammettere che non ti avevano mai abbandonato. Ma che anzi, ti avevano guidato dal mostro nero. Soprattutto la paura per Hyoga. E adesso non era un po’ la stessa cosa, Camus? Ma per chi avevi paura, stavolta?
«Mi dispiace». Sussurrasti.
«Di cosa?»
«Di non avervi saputo proteggere, di aver lasciato che questo posto avesse la meglio su di me». Confessasti rammaricato. Un sospiro doloroso eruppe dalle tue labbra. Chinasti il capo, più per nasconderle i tuoi occhi afflitti e lucidi che per altro.
Lei se ne restò in silenzio per un po’. Poi ti sfiorò il braccio destro e, con un gesto più impacciato, ti strinse il bicipite. Se tu non avessi avuto indosso il Cloth, probabilmente ti avrebbe stretto la spalla. Guardasti quella mano e poi incontrasti il suo sguardo, carico di speranza, di malinconia e di dolcezza. «Ti capisco, credimi, ti capisco. Ieri sera ti ho detto che questo posto è foriero di dolore per me, no? Ho dimenticato di dirti come faccio a sopravvivere».
La guardasti incuriosito, speranzoso che stesse per elargirti un appiglio. «Come?»
«Mi focalizzo su qualcos’altro, qualcosa che per me è foriero di gioia. Una canzone, nel mio caso: Fields of gold, di Sting». Ti rivelò e il suo sorriso si espanse, divertito. «La stavo cantando tra me e me ieri sera per tenermi sveglia». T’ informò.
Non eri molto ferrato in musica e non ti sembrava neanche di conoscere questo gruppo.
Le uniche volte che ci avevi avuto a che fare erano state anche quelle in cui ti eri recato al Santuario per assistere alle esibizioni del Silver Saint della Lyra. Come riusciva a togliere lui gli affanni e addolcire anche i cuori più malvagi, come quello di Death Mask o di Arles, era un mistero. 
Lei scorse il tuo sguardo smarrito e riprese il filo: «Bè, non importa. É vero che la mia vita non è facile, ma si arriva a un punto in cui si sceglie se continuare a scegliere di vedere solo le cose negative o se vedere anche cose positive. Io ho scelto di vedere le cose positive. É così che faccio io. É quasi come fare un pellegrinaggio che ti porta da qualche parte e poi, torni alla tua vita di sempre. Solo che qualcosa dentro ti resta e, poi, queste cose belle le porti con te, al pari dei tuoi demoni personali. Solo che non si mescoleranno mai. E così, ritrovi un po’ di serenità».
«Capisco». Le dicesti.
Lei ti sorrise e ti dette un buffetto affettuoso sulla guancia. Ti trattenesti dal lanciarle un’occhiataccia, solo in virtù del suo status. 
«Io i miei campi d’oro li ho trovati, ora tocca a te trovare i tuoi». Ti guardò, in attesa che tu ti calmassi un po’.
Effettivamente non ci avevi mai pensato prima. Non avevi mai pensato a qualcos’altro. Non che ti fossi martoriato, non eri autolesionista psicologico, eri solo troppo sensibile. La verità era che sotto lo strato di ghiaccio, nascondevi un cuore capace di amore. Un amore sconfinato che ti portava a essere generoso e, che, ti portò ad amare come dei figli i tuoi allievi. Altrimenti, non ti saresti mai sacrificato per amor di Hyoga. Trovando così un buon compromesso tra il tuo istinto che ti urlava di volerlo proteggere ancora e il mostro nero che ti condusse alla morte. «Poi, non dimenticare, che abbiamo trovato il Matto e l’abbiamo piegato a noi, proprio grazie a te».
Ma poteva essere un buon suggerimento. Allora, visto che tutte le tue scelte finora si erano rivelate deleterie, perché non provare a cambiare strada? Che volevi che ti succedesse ancora? Dopotutto tu eri già morto.
Ti sorrise un’ultima volta. Poi si allontanò. «Riprendiamo la marcia». Comandò.
Shaka lasciò che la superasse e poi la seguì, tu facesti altrettanto, riflettendo sulle sue parole.
E poi lo percepisti anche tu. «Milady!» Chiamò Shaka.
«Ci siamo!» Disse Lady Asia e, poi, corse nella direzione da cui proveniva a gran velocità.
Voi due la seguiste e per un momento, solo uno, la perdeste di vista, solo per rivederla qualche metro più in là. Doveva essere scattata.
In poche falcate la raggiungeste e vedeste un uomo uscire da una casupola.  Era sulla trentina. Era alto e slanciato. Sembrava un modello di una qualche pubblicità di vestiti, solo più sporco.
Aveva le guance scavate, il naso lungo, i capelli biondi lunghi fino alla nuca ricci e scompigliati color miele ma dalla radice castana. Gli occhi erano color nocciola e aveva la carnagione punteggiata di lentiggini dorate. Indossava una camicia azzurra, jeans strappati sul ginocchio e scarpe da tennis e vi guardava sorpreso. Immobilizzato come un coniglio di fronte ai fari di una macchina. Ma la sua espressione di terrorizzata aveva ben poco. Perché poi vi fulminò con lo sguardo. «Sì?» Chiese guardingo.
«Astronauta?» Domandò Lady Asia e questi confermò con un cenno del capo. 
«Sì?» Chiese di nuovo.
«Devi venire con noi». Disse la giovane dopo aver tirato un sospiro di sollievo. «Sono Asia degli Azoni e sto radunando i Guardiani delle Case degli Astri».    
«Perché?»
«Perché è arrivato il momento, non sai cosa succede?»
«Sì e non m’importa. Piuttosto, avete visto mio fratello? Prima ho percepito una battaglia e a un certo punto è arrivato persino il Drago Rosso e poi più niente».
«Eravamo noi».
«Adesso i miei fratelli dove sono?»
«In viaggio verso le Case degli Astri, se parti adesso sei ancora in tempo per raggiungerli».
L’Astronauta alzò gli occhi al cielo e sbuffò: «Che noia». Lady Asia sgranò gli occhi, mentre voi due assumeste la posizione difensiva. Personaggi come questo potevano rivelarsi molto insidiosi. «Come?» Domandò lei.
«Gli esseri umani sono così noiosi, conoscine uno e li conoscerai tutti. Tutti con gli stessi bisogni, gli stessi pensieri, persino gli stessi movimenti e le stesse reazioni». Spiegò l’Astronauta scompigliandosi la zazzera con la ricrescita. «E gli Dèi, oh, per favore, quelli non sono certo meglio! Per capirli basta soltanto esasperare quei tratti degli esseri umani, soprattutto i difetti, ed ecco fatto. Non mi sorprende che tu abbia deciso di incarnarti, dev’essere una tale noia vivere nel Mondo Celeste».
«Non ti sto chiedendo di tornare a casa ma di tornare alla Casa di Urano e presiederla in attesa della Luce Ombrosa!» Specificò la giovane dai capelli striati d’argento.
«Ho sentito, non sono sordo e la mia risposta non cambia, avrei solo a che fare con un altro patetico essere umano uguale a miliardi di miliardi di altri. Ti dirò di più, a me non dispiace che tutto stia finendo, è sempre meglio della noia mortale». 
«La Luce Ombrosa è diversa!» Ribatté Lady Asia.
«Se anche fosse a me cosa me ne frega? Le tue belle parole non mi convinceranno mai». 
«Ma devi andare! É il tuo sacro dovere!» Al solo udire quelle parole si volse di scatto, cambiando completamente espressione. Gli occhi brillavano come fanali innaturali, risaltati dal trucco nero. I denti sembravano più aguzzi di prima: «Il mio sacro dovere?» Ruggì con tutta la sua potenza di polmoni, facendovi accigliare ancor di più per il fischio nelle orecchie.
La figlia del Drago Rosso trasalì e arretrò di un passo, mentre voi serraste ancor più la difesa.
Intanto l’aura che circondava l’Astronauta divenne rossa come il sangue e i suoi tratti si affilarono. Alcune ciocche si appuntirono in sei corna ai lati del capo, le sue basette si allungarono fino a sfiorare il collo e la barba gli crebbe fino a cingergli le mascelle squadrate, lasciando libero il mento. Gli occhi divennero completamente bianchi.
Il suo corpo s’ingrandì e si espansero dei tatuaggi informi che andarono ad annerire alcune zone della sua pelle. I brandelli dei suoi vestiti pendevano dal suo corpo peloso e muscoloso.
Se il Matto Celeste vi aveva terrorizzati, questo fu persino peggio. «Il mio sacro dovere? Hai una vaga idea di quello che stai dicendo, scherzo della natura? Cosa ne sai tu della sacralità e del dovere? Io non ho niente di sacro da rispettare! Per quel che mi riguarda potete anche estinguervi tutti, non devo né a te né agli Dèi servigi che non sono richiesti! Io non muoverò neanche un dito per quella feccia che mi ha demonizzato!»
«Non costringermi». L’avvisò.
«Voglio proprio vedere. Tempesta Radiante!» Urlò lui e l’energia vi si scagliò addosso. Shaka cercò di opporgli il Kān ma il suo attacco fu polverizzato in un istante. Lady Asia parò il colpo opponendo la sua spada di piatto. E quando si era mossa?
«Lady Asia!», «Asia!» Esclamaste sorpresi. Gli smeraldi nel pomolo e nell’elsa emisero una luce verde che, crescendo repentinamente, andò a scontrarsi con quella gialla dell’Astronauta e la respinse, proteggendovi. «Uh, hai usato i poteri del Tempo». Commentò divertito l’entità davanti a voi.
In un lampo entrambe le luci si estinsero.
«Ma guarda, allora non sei indifesa come credevo. Peccato che non resisterai a questo, Onda d’Urto!» Alzò il braccio, vi concentrò una sfera di Cosmo e ve la lanciò. In breve la sfera esplose trasformandosi in una tempesta di vento che vi catturò immediatamente e vi staccò da terra.
Se non volaste via fu grazie ad Asia, la quale vi recuperò materializzando delle corde smeraldine e vi ritirò a terra. Il vento cessò e le corde rientrarono nelle tre gemme della sua spada.
«Hai usato Tamerlane apposta come ancora!» Esplose il Guardiano.
«Precisamente. E ho decelerato il tempo di modo che potessimo combattere senza temere l’arrivo delle Creature». Spiegò lei.
«Furba». Si complimentò lo zio. «Ma non abbastanza».
Improvvisamente Lady Asia si sentì mancare e, vedeste un anello d’energia attorno alla sua gola. «Togli questo se ci riesci».
«Ora basta così». Comandò Shaka, beccandosi l’occhiata riprovevole del Guardiano. «E tu che cosa vuoi?» Chiese, infastidito. Shaka, non rispose subito, si limitò a espandere il suo Cosmo. 
«Misero insetto, cosa credi di fare? Il tuo Cosmo non è niente, hai capito? Niente!» Shaka non rispose mentre l’altro continuò a inveire e a schernirlo.
Ma in quel momento la Dea si frappose davanti a voi in ginocchio, tendendo le braccia verso di lui ed entrambi sgranaste gli occhi. Come conosceva questa posa? «Usate il vostro Cosmo alla piena potenza e unitelo al mio!» Comandò la Dea nella posa dell’Atena Exclamation. Voi l’imitaste e liberaste la vostra energia tutta in una volta, che colpì il Guardiano.
Distruggendo così anche il collare che le impediva il respiro, ma non debellandolo. Il Guardiano, infatti, aveva solo le punte dei capelli affumicate ma niente di più. E poi rideva divertito. 
«Non è possibile, non gli abbiamo fatto niente!» Esclamasti tu.
Invece, il biondo indiano fu più pragmatico e passò immediatamente all’azione. «Per la tua presunzione ti toglierò i sensi a uno a uno, a cominciare dalla vista. Tenbu Hōrin». Comandò, togliendo così i sensi al vostro avversario. Il quale sgranò gli occhi e la sua espressione cambiò di colpo per la sorpresa. «No, Shaka! Sei impazzito?»
«Milady, state indietro per favore, adesso l’udito». E il Guardiano si piegò in due gemendo di dolore. 
«Fermo!» Strillò la Dea e si parò davanti allo zio a braccia spalancate.
«Lady Asia!» Urlasti e Shaka ti fece eco, spaventato, fermandosi appena in tempo, prima di piegare la faccia in una smorfia di rimprovero. Aprì bocca per dirle di togliersi ma lei urlò, anticipandolo:
«É come con me! Non è un umano! Non lo annienterai mai togliendogli i sensi!» Tu sgranasti gli occhi e Shaka sussultò.
«Che vuol dire?» Chiedesti tu.
Come a sottolineare le sue parole, il Guardiano, piegato in due, le braccia penzoloni, cominciò a ridere malefico.
Asia sussultò e si girò verso di lui. Che adesso era circonfuso di un alone rosso come il sangue. I suoi occhi erano diventati bianchi. «Peccato che tu sia una guastafeste, mi hai rovinato la sorpresa». Improvvisamente il suo Cosmo cominciò a crescere a dismisura, superando persino quello della Vostra Dea. Raddrizzò il volto dai tratti ancora delineati da delle righe nere e guardò la Dea. «E, visto che hai decelerato il tempo, posso scatenarmi in tutta tranquillità». Ciò detto, dalla sua schiena si ersero delle ali d’aquila immense e rosse.
«Significa che più sensi gli toglierai, più lo costringerai a rivelare la sua vera natura. É come se tu togliessi le briglie a un cavallo imbizzarrito. O come se tu lasciasti entrare uno squalo affamato nella tua gabbia». Spiegò rapidamente lei.
I capelli del Guardiano crebbero fino all’ombelico e s’ispessirono, si lisciarono e divennero neri a eccezione delle punte, che restarono bionde. Il nero che aveva delimitato i suoi occhi si ramificò a formare delle vene e il tatuaggio di un drago ad ali spiegate che si alzava dal suo petto fino a raggiungere con il capo la sua guancia sinistra. La muscolatura si gonfiò, stracciando così i vestiti. Dal suo corpo emersero degli ispessimenti che poi si separarono dalla carne andando a trasformarsi in un’armatura che rivestiva la sua figura, mentre i brandelli della maglia e della camicia cadevano ai fianchi, trattenuti dalla cintura. Poi anche questi si ricucirono andando a formare un drappo che fasciò l’Armatura come una tunica.
I brandelli ai polsi si trasformarono in polsiere e nastri lunghissimi, dello stesso tipo che portava anche al collo e ai capelli che, nel frattempo si erano lateralmente accresciuti e un nastro era andato a legarglieli in una coda dietro la testa.    
Il suo Cosmo splendette di rosso prima di cangiare sui colori di un tramonto estivo. Nonostante questo, non riuscisti a reprimere un brivido di terrore. Quella creatura cosa diavolo era? Anche la sua voce era cambiata, si era fatta più virile e ancora più profonda. Il suo sorriso era una chiostra di denti argentei e affilati.
Poi si lanciò addosso alla Dea ma Shaka fu più veloce e la spinse via. Il Guardiano l’atterrò e si volse immediatamente, ricevendo una pomolata in piena faccia dalla Dea. La cui figura era circonfusa da un alone bianco.
Intanto tu, con il tuo Cosmo, stavi cercando di congelare dall’interno le membra del Guardiano, ma il suo calore interno stava mettendo a dura prova le tue capacità. Avevi capito che gli attacchi diretti coi Guardiani erano inutili, perciò stavi provando questo, indiretto.
Peccato solo che lui se ne accorse e con una sventagliata del suo Cosmo ti mandò a sbattere contro una roccia e, con degli anelli di energia t’immobilizzò. Tu cominciasti a lottare per liberarti e Shaka attaccò, ma l’avversario non si lasciò distrarre. Afferrò il tuo compagno per il collo e lo lanciò in aria. Alzò il braccio e caricò un colpo ma Asia urlò: «No!» E si lanciò contro di lui, deviando il colpo. Il raggio d’energia andò a colpire la cima di un albero, incendiandola.
«E levati!» Sbottò infastidito il guerriero scrollandosela di dosso come se non pesasse niente. 
Shaka ricadde al suolo aprendo un piccolo cratere a causa dell’impatto. «Shaka!» Esclamaste entrambi ma percepiste entrambi il suo Cosmo. Era vivo, solo un po’ stordito.
Riprendesti a concentrare il tuo Cosmo e cercare di far esplodere gli anelli d’energia. Cercasti di usare il koliso e poi espandere il Cosmo per distruggere entrambe le tecniche. Se ci riuscisti fu solo perché Lady Asia lanciò un pugnale verde verso di te. La piccola lama toccò l’anello d’energia che t’imprigionava e lo distrusse. Vedesti l’energia solidificarsi e poi, mentre il pugnale cadeva a terra, finalmente riuscisti a espandere il tuo Cosmo e a congelare almeno due metri di terreno attorno a te.
«Il famoso segreto di Tamerlane». Mormorò il Guardiano mentre Asia recuperava il piccolo pugnale e lo ricongiungeva all’elsa.
«Lascia stare i miei protetti, Guardiano». Sbottò lei mentre lui blaterava qualcosa a proposito dell’utilità della sua mossa di riunire spada e pugnale.
Il petto che si alzava e si abbassava repentinamente per lo sforzo, gli abiti inzaccherati e stracciati in più punti.  
«Ah, non ti permetterò mai di chiamare a te la tua Wing!» Esclamò il Guardiano senza dare cenni di aver sentito il colpo.
«Non commetterò un’altra volta lo stesso sbaglio». Ribatté lei e il biancore sfumò rapidamente sul verde. Lo zio le afferrò il collo con una mano. Lei sgranò gli occhi, il bagliore del suo Cosmo si spense e, annaspò in cerca d’aria. Gli occhi sgranati. Ma decisa a non arrendersi.
«Non impari mai, eh? Sei ancora in piedi, piccola patetica Dea?» La canzonò divertito l’avversario.
«No! No! Lasciatela stare! Lasciatela andare!» Cominciò a gridare il tuo compagno della Sesta, dimenandosi con una foga inaspettata. Cosa che fece scoppiare a ridere di gusto l’Astronauta.
«Lasciate stare Lady Asia! Lasciatela!»
«Fate male a me, piuttosto!» Supplicò a gran voce l’indiano cercando di opporsi all’immenso potere del vostro avversario. Ma la sua preghiera rimase inascoltata.
«Ma sentilo, fa del male a me, piuttosto. Vi ho già detto che non nutro alcun interesse, per voi, per quel che mi riguarda potreste anche andarvene. Mi sorprende invece che non l’abbiate già fatto. Tenete così tanto a questa stronzetta? Strano, visto che la conoscete da neanche pochi giorni!» Vi canzonò.
Shaka continuò a strepitare: «Lasciatela! Non fatele del male! Asia!» Urlò più forte che mai il tuo collega quando lei lanciò uno strillo di dolore a causa di un’improvvisa ferita che gli procurò il suo aguzzino.
Il nome di lei, divenne un ululato angosciato e straziante che ti fece sgranare gli occhi per lo spavento e guardarlo. Anche se solo per un secondo. 
Con uno sforzo sovrumano pure per voi, cominciò a muoversi, nonostante il blocco degli atomi impresso sulle vostre membra. Le radiazioni erano veramente il suo pane quotidiano. La sua faccia era rossa, le vene e i muscoli in rilievo per via dello sforzo cui si stava sottoponendo. Gemiti bestiali gli uscivano di bocca per lo sforzo, assieme alle lacrime di dolore perché il Guardiano aumentava il blocco su di voi a ogni vostro movimento. Vi avrebbe potuto spezzare le ossa. Anche da spiriti. Il terreno sotto di lui iniziò a cedere sotto al suo peso.
Anche tu cercasti di lottare.
Dovevate agire in fretta. 
«Ti prego…» Lo supplicò la Dea cercando di allentare la stretta. Ma era come cercare di allontanare un carrarmato per una persona normale.
L’astronauta sorrise malefico. «É da un po’che non lo faccio, per la precisione da quando mi sigillaste.» fece distogliendo lo sguardo da lei, che annaspava e scalciava nel vano tentativo di liberarsi. Il colore che il suo volto stava assumendo fece montare in voi il panico. Dovevate sbrigarvi!
Il biondo mosse le dita una per una. Indice, medio, anulare e mignolo, sollevandole e riabbassandole una per una e una dopo l’altra, con una grazia che non vi aspettavate. «chissà se ne sono ancora in grado». La Dea, mentre lottava con tutte le sue forze per non svenire, i lineamenti deformati dal panico, prese a supplicarlo: «No, ti prego…»
Poi la disgregò in miriadi di atomi.
«No! Asia! Asia!» Urlò Shaka, rialzandosi improvvisamente e correndo, incespicando da loro. Ma ormai lei si era polverizzata e il suo pulviscolo era entrato a far parte di questi luoghi.
«Spostati, bamboccio». Ordinò l’Astronauta e, con un semplice movimento del braccio, lo scagliò via.
«Shaka!» Esclamasti.   
«Bene. Te non ti tocco neanche, lo vedo da lontano che non sei più nemmeno capace di alzare il capo». Commentò sprezzante.
Il tuo collega più potente era stato sconfitto come il più debole dei soldati. Lui, che, ricordavi, da solo, tenne testa a te, a Shura e a Saga durante la Guerra Sacra contro Hades. Che dovette usare quella stessa tecnica disonorevole, per sconfiggerlo e mandarlo nel Regno dei Morti. Anche se fu soprattutto una sua decisione.
«No!» Lo sentisti esclamare, con voce stentorea, rialzandosi a sedere con fatica. Un rivolo di sangue gli colava sul mento. L’elmo perso chissà dove. 
Il vostro avversario sollevò le sopracciglia. «No?»
«Ti sbagli su tutto. Lei non può essere morta. Non così facilmente, ho già provato a ucciderla io stesso, prima di decidere di seguirla, non l’abbandonerò certo adesso. Anche se hai annientato le sue spoglie fisiche Lei è ancora qui, da qualche parte». Esclamò con più convinzione, a voce più alta, cercando di darsi coraggio con le sue stesse parole. Il volto bagnato di lacrime in netto contrasto con la sua espressione determinata. Era la seconda volta che lo vedevi piangere. Anche se stavolta, non era per commozione. «E voi dovreste proteggere gli Dèi e gli esseri umani, non cercare di ucciderli». Lo rimbeccò ritrovando il suo solito tono da guru spirituale.
«Ti ricordo che noi Guardiani siamo stati banditi, non dobbiamo più niente né agli Dèi né all’umanità».
«Eppure avete bisogno di noi e non esitate a distruggerci. Cosa state cercando davvero? Volete distruggere voi stessi, oppure gli Dèi? É forse perché non riuscite a sopportare l’onta di non essere riusciti a proteggerli molto tempo fa?»
L’uomo con i capelli biondo miele lo trafisse con lo sguardo e gli urlò, adirato: «Non parlare così alla leggera di cose che non ti riguardano!» Poi lo colpì con il proprio Cosmo, ma Shaka gli oppose il Kān con tutta la sua forza respingendolo, sebbene con uno sforzo sovrumano.
Non avevi mai visto Shaka così.
Alla fine però l’attacco dell’Astronauta ebbe la meglio. Shaka si spostò usando la velocità della luce e, quando lo vedesti di nuovo, ti accorgesti che la sua espressione era di nuovo neutra; come la sua voce. «É inutile che provi ad attaccarmi. In questo momento sei stanco, mentre io ho potuto recuperare un po’d’energia». Disse.
«Quale energia? Io traggo nutrimento dalle radiazioni di questo posto. La mia fonte è inesauribile».
«Tutto, prima o poi finisce». Ribatté caustico il tuo compagno.
Ti domandasti come fosse possibile. Da dove la prendeva tutta questa speranza? Che fosse l’amore evidente che provava per Asia a spronarlo a combattere, anche solo per vendetta? Era impossibile, ma era così che appariva. «Cerchi forse di fare qualcosa, Cavaliere della Vergine?» Domandò il Guardiano compatendolo.
«Non puoi averla sconfitta così facilmente, Lei non è così indifesa. Esclamò, assumendo con fatica la posizione del loto. La sua posizione da combattimento.
Come faceva ad aggrapparsi ancora alla speranza?
L’Astronauta gli lanciò uno sguardo e un sorriso pieni di pietà. «Osi forse insinuare che mi sia sfuggita? Non senti che il suo Cosmo è scomparso? Oppure», ampliò il sorriso, che assunse una piega di sadismo. Le sue iridi lanciarono un innaturale brillio divertito, che persino tu riuscisti a scorgere, «stai cercando un pretesto per scagliarti contro di me, solo perché ho ammazzato la donna che amavi? Credi che io sia scemo? Che non mi sia accorto di come urlavi e hai cercato di proteggerla? Qui siamo ben oltre un rapporto di Cavaliere e Divinità, Virgo. L’unico che pensa che il tuo sia un segreto sei proprio tu».
«Le tue parole sono irrilevanti per me e non combatterò con di te. Non macchierò le mie mani del tuo sangue». Dichiarò lapidario.
«Ah, no?» Ribatté l’altro ghignando, a metà strada tra un incredulo: “non ho capito bene” e uno scettico “sei serio?”    
«Qui c’è qualcuno di più adatto di me per sconfiggerti». Decretò. Poi scomparve, teletrasportandosi altrove. Lasciandovi soli.
Shaka aveva parlato bene, ma come poteva non essersi accorto del suo errore? Tu non eri affatto all’altezza della situazione. Come si può chiedere a uno sconfitto di sconfiggere qualcun altro? Perché non si era accorto che eri impotente? 
Chinasti il capo, abbattuto.
Il volto contratto in una smorfia di pianto mentre le lacrime sgorgavano copiose dai tuoi occhi, scuotendoti. Affondasti le dita nel terreno, scavandoci dei solchi e trattenesti un gemito di dolore.
«Atena». Implorasti con voce rotta.
Non poteva essere. Di nuovo. Ancora una volta non eri riuscito a rendere onore alle tue Sacre Vestigia e a proteggere la Dea. Anche se non era l’Atena che conoscevate voi era pur sempre colei che le sarebbe succeduta. E, peggio ancora, non eravate riusciti a fermare l’Astronauta dal distruggerla. Lei non sarebbe tornata in vita come Lithia.
Morta la Dea anche voi eravate inutili.
Il Guardiano della Casa di Urano si accorse dei tuoi gemiti e si volse a guardarti: «Piangi, Cavaliere di Aquarius? Perché? Dopotutto quella là non la conoscevi nemmeno e il tuo collega un vigliacco della peggior specie». Domandò perplesso. Ma neanche adesso rialzasti la testa. Invece stringesti i pugni, raccogliendo manciate di terra con le dita.   
“Mi dispiace, Lady Asia, mi dispiace!” Pensasti sconfitto e disperato. Ci avevi provato con tutto te stesso. No, ci avevate provato con tutti voi stessi. Avevate fatto il massimo e non era bastato. E ora? Il mondo sarebbe precipitato nel Caos e il Guardiano avrebbe fatto scempio della Terra. Chi se ne importava di voi e del Drago Rosso dopo quello che avevate appena perso?
Voi eravate i difensori del domani e, ancora una volta, non eravate riusciti a difendere nessuno. 
Il Drago Rosso aveva ragione, non eravate davvero capaci di proteggere la Dea da un altro Guardiano. Perché eravate solo dei semplici esseri umani.
Questo non era un gioco come, realizzasti appieno, erano state finora le Guerre Sacre. Sì, adesso riuscivi a vedere tutto con gli occhi del Drago Rosso e anche di una Dea. Le Guerre Sacre erano un gioco.
Questa che avevate appena perso era solo un assaggio delle vere Guerre Sacre tra Divinità ed Esseri Supremi. E voi, tutti voi, anche facendo evolvere le Cloth, non sareste mai riusciti a sostenere. Questo andava davvero oltre le vostre possibilità.
Queste, erano le battaglie degli Dèi. E voi non eravate affatto preparati a sostenere scontri tra esseri ancora più forti delle Divinità stesse. Come potevate voi, se neanche una Azona ci era riuscita? Quanti altri ne esistevano oltre questi? Quante minacce si sarebbero mai rivelate?
Eravate solo dei semplici umani.
«Atena…» Piangesti stringendo i pugni. Altre lacrime piovvero a terra. Perché non smettevi di disperarti così? Shaka ti aveva dato un compito perché si fidava di te. Ma come potevi? Anche il tuo Cosmo d’Oro era esaurito.
«Bè, se non hai intenzione di fare qualcosa, io me ne posso anche andare. Ci si vede in giro». Ti salutò.
Poi ti volse le spalle e andò a raccogliere la spada, piantata in profondità nel terreno.
Eppure, non riuscì a estrarla. Lo sentisti borbottare, dapprima divertito e poi, a mano a mano che continuava a fallire, sempre più infastidito e irritato.
«Perdonatemi, perdonatemi, Atena». Mormorasti tra un gemito e l’altro. “Ancora una volta vi ho delusa”. La colpa di chi era per questo? Per il tuo dolore? Per le parole aspre del padre di Lady Asia? Oppure, più semplicemente, era questo posto a farti stare così male? A renderti così poco reattivo? 
Appena lo pensasti qualcosa, dentro di te, si ribellò.
Stringesti il pugno avvolto nella cloth dorata e ti tornò in mente il bel volto della Dea. La stessa Dea che dette l’Ichor per voi pur essendo Lei stessa in grave pericolo di vita. Per far evolvere tutte e dodici le Armature d’Oro. Anche se avevate a disposizione un solo colpo a testa e tutti sacrificaste la vostra vita. Anche qui sarebbe stato necessario? Ma così saresti morto davvero. Che senso aveva avuto il suo sacrificio, a quei tempi, se ora ti arrendevi così?
«Puoi farcela». La sentisti dire.
Alzasti la testa, sorpreso e la vedesti, circonfusa di luce, sorriderti. Una splendida apparizione come quel giorno. Era riuscita a sentirti anche qui? Anche così? «Atena…» Mormorasti sorpreso ma lieto di vederla. La prima cosa bella dopo tante disgrazie.
Lei ti sorrise con una dolcezza che non credevi fosse capace. Tu avevi perso la vista, il tatto, l’olfatto e il gusto quando fosti al suo cospetto. Ti rimase soltanto l’udito. Non sapevi neanche tu come facevi a essere ancora in piedi. Oh, se solo tu avessi potuto vederla quella notte. Un suo solo sorriso sarebbe valso come ricompensa per il tuo dolore. «Puoi farcela, mio Gold Saint, io sono sempre vicino a te e lo sarò per sempre».
No, voi eravate dei guerrieri. E neanche dei semplici guerrieri. Ti dicesti. Tu eri un Gold Saint. Il Cavaliere dell’Acquario della Dea Atena.
Poi, una seconda figura ci si aggiunse, o meglio, soppiantò la prima e, vedesti Lady Asia, intrappolata, che, cantava. Non una melodia senza senso, ma una con testo. Una voce d’oro che ti fece palpitare il cuore e riaccese in te la speranza. “É ancora viva!” 
«Cosa?» Esclamò l’Astronauta smettendo di lottare con la spada.  
Fu allora che ti tornarono in mente le parole di Lady Asia. Trova i tuoi campi d’oro. E tu avesti l’illuminazione. Sì, il problema era questo posto. Ma i ricordi più belli che avevi erano legati a Hyoga, alla tua nipotina Natasha, ad Isaac e alla Siberia, oltre che a Milo.
Tu non avevi campi d’oro scolpiti nella memoria, l’oro per te aveva un significato diverso.
Ma qualcosa che a essi potevi paragonare ce l’avevi. Qualcosa di freddo sia al tatto che alla vista, con il tenue dell’azzurro ghiaccio delle giornate più terse. Lo stesso colore che poteva raggiungere la stessa gradazione degli occhi Milo e superare il cobalto del mare siberiano. Un blu così scuro da sembrare nero, che faceva risaltare come non mai quel niveo candore capace di spellare nelle giornate di sole, se non mettevi la crema solare. 
Tu e il ghiaccio, la tua casa.
I tuoi campi non erano d’oro. Non avrebbero mai ondeggiato al vento e, non sarebbero mai proliferati come il grano, ma, ai tuoi occhi così risplendevano. Anche se erano di ghiaccio. Mai come adesso ti sembrarono molto più accoglienti di questo posto. Bastò il loro ricordo a scacciare le tue paure. Che furono soppiantate da un senso di fede, speranza e felicità che andò ad alimentare il tuo Cosmo. Lo sentisti pulsare dentro di te e comprendesti cosa dovevi fare.
Sì, tu sapevi cosa fare e il Guardiano stesso avrebbe imparato a non scherzare con un Santo d’Oro della Dea Atena. Soprattutto con l’Uomo dello Zero Assoluto o quasi.
Sentisti di nuovo l’energia pronta a rispondere al tuo volere, ancora una volta.
La temperatura attorno a voi si abbassò di colpo e, dalle nubi di tempesta, cominciarono a discendere lievi, i fiocchi di neve.
«Neve?» Domandò l’Astronauta, perplesso guardandosi attorno. Tese una mano dagli artigli di metallo per raccoglierne uno, come se farlo avesse potuto confermare la veridicità della visione. Come se non fossero bastate le nuvolette di fiato condensato che uscivano dalle vostre bocche e la pelle d’oca che sicuramente doveva avere. 
Tenesti lo sguardo basso, puntato alla terra che andava congelandosi progressivamente sotto di te. Precipitando in un nuovo inverno, quel tanto che bastò a te per modificare il paesaggio circostante e inglobare tutto nel ghiaccio. Come il falso Megres XIII inglobò la foresta delle Ninfe Stigie con le sue gemme. Facendo somigliare quel posto un po’di più alla tua casa.
Il fratello del padre di Asia rise lì per lì: «E questa nevicata fuori stagione dovrebbe spaventarmi?» Poi usò di nuovo il suo potere ma il vento caldo non riuscì a sciogliere la neve.
Abbassasti ancor più la temperatura, adesso chiunque avrebbe battuto i denti, ma questa temperatura a te non diceva niente, era a malapena una dolce brezza in confronto al gelo che potevi davvero evocare. Avevi un legame, dopotutto, con una certa parte di Inferi, allora perché non sfruttarlo? Te ne bastava solo una parte. 
Il vento gelido rispose al tuo comando e soffiò su di voi. Ma non l’avevi evocato con tutta questa potenza. Era come se gli Elementi avessero deciso di aiutarti e il Cocito stesso, non avesse che atteso il tuo ordine. Pronto a piegarsi a te come un servo fedele in attesa di disposizioni.     
Ti rialzasti proprio mentre il ghiaccio si ispessiva attorno a ogni cosa, trasformando il paesaggio in una landa ghiacciata, il tuo territorio.
«Cos’è questo Cosmo enorme?» Domandò il Guardiano, tra lo stupito e l’intimorito. Poi sussultò: «Non mi dire che sei tu, Gold Saint di Aquarius».
Per tutta risposta, alzasti le mani e il ghiaccio rispose al tuo comando, sommergendo completamente la foresta. Non avevi mai usato appieno il tuo potere di Redivivo. Quello che ti aveva raccontato Milo, di quella volta che l’avevi usato sotto l’influsso dell’Antipapa, ti aveva turbato. Mentre Černobyl’ invece… Ma ora non avevi più paura, se non potevi vedere quello che ti intimoriva, allora non c’era problema. E, sì, era un’azione da Saint, come cavarsi gli occhi per evitare di essere pietrificati dallo sguardo di Medusa. Questo ghiaccio erano le tue bende per contrastare i tuoi demoni personali, proteggere la Dea e la pace sulla Terra al meglio delle tue possibilità.
Perché tu eri il Gold Saint di Aquarius, custode dell’Undicesima Casa del Tempio di Atena, ed era l’ora di ricordarlo anche a te stesso.
Guardasti il Guardiano, ritrovando la tua impassibilità. Mentre il tuo avversario, che dovette balzare via per evitare di finire inglobato nel ghiaccio, sembrò perdere tutta la sua baldanza.
Però restò sospeso a mezz’aria grazie alle ali che dispiegandosi cambiarono colore diventando d’oro fatte di polveri di nebulose che mandavano bagliori candidi. Come se fossero costituite da minuscoli brillantini che, muovendosi, luccicavano.
“Accidenti”. Non avevi calcolato che potesse levitare.
L’altro si guardò ai piedi mentre il ghiaccio continuava a crescere ed espandersi. «Com’è possibile? Credevo che non ti fosse più rimasto neanche un briciolo di Cosmo, da dove la prendi quest’energia?»
«Per molto tempo…» Mormorasti, mentre il tuo Cosmo aureo risplendeva attorno a te, come alimentato dalla voce di Asia. Certo che era la sua, solo lei poteva mettersi a cantare in una situazione simile. Il suo canto risvegliò qualcosa nella tua memoria, era come se ti fosti aspettato che lei l’avrebbe fatto. Come se tu l’avessi già conosciuta prima, così bene, da riuscire a prevedere ogni sua mossa. Almeno, era così a livello inconscio.
Sì, conoscevi questa voce, solleticava la tua memoria e ti ricordava un periodo di stasi e di pace. Non sapevi dire se era un sogno o no, ma di quel canto tu ne avevi avuto bisogno come un fiore del Sole. Ora capivi, capivi davvero il significato dei campi d’oro. Con quelle parole intendeva dire: “Succede a tutti di smarrire sé stessi, l’importante è ritrovarsi. Fai un respiro profondo e riprendi a lottare”. E tu a quelle parole desti ascolto. E quel respiro profondo lo facesti davvero, scrollandoti di dosso, come per magia, tutto quanto.  Permettendo al tuo Cosmo di espandersi ancora, facendo sgranare gli occhi al tuo avversario. «Come?»
«Per molto tempo ho lasciato che i fantasmi del mio passato mi tormentassero. Asgard e ora anche qui. In nome di questi fantasmi e dei debiti che credevo di avere, ho tradito la Dea una volta. Non la tradirò una seconda. Risplendi mio Cosmo!» Urlasti facendo evolvere la Gold Cloth. E il tuo Cosmo esplose, sollevandoti il mantello e i capelli, mentre le punte del tuo elmo si allungavano ancora di più ai lati della testa e dalla tua Armatura si allargavano dei teli dorati, che simulavano le acque del tuo segno zodiacale. Gli spallacci della tua Armatura si duplicarono e i copribicipiti s’ingrandirono, così come le protezioni ai fianchi.
Improvvisamente non ti importò più delle Creature. Saresti riuscito a finirlo prima del loro arrivo effettivo.  Avevi già fatto questo una volta, era il momento di farlo ancora.
Spiccasti un balzo e restasti sospeso in aria grazie alla forza del tuo Cosmo, che riluceva come una bolla d’energia dorata attorno a te. Da lì, richiamasti a te i ghiacci del Cocito. I quali risposero facendo tremare la terra e spaccare il ghiaccio per innalzarsi in picchi di gelo acuminato attorno a te, come i petali di un fiore. Sebbene dalle fattezze di gigantesche dita scheletriche.
Nuvole nere si addensarono sopra di te, cancellando completamente i raggi del sole e la neve e il vento s’infittirono. La corrente cominciò a ululare con una forza che questi luoghi non avevano mai conosciuto, facendo piazza pulita di ciò che avevi temuto e spostando anche l’Astronauta. Il quale, non riuscì a opporre resistenza e si ritrovò sbalzato via.
Ma non ti bastava e lasciasti che buona parte del Cocito arrivasse da te, plasmandosi alla tua volontà in un’immensa Armatura di ghiaccio che ti avvolse. Impenetrabile persino alla cuspide scarlatta di Milo, nonostante la sua fredda trasparenza.
Urlasti, dandoti la carica per muoverla con il Cosmo.
Il gigante di ghiaccio ruggì a sua volta e, come foste una cosa sola attaccaste.
L’Astronauta batté le ali e le trasformò in due flussi energetici che andarono a sbattere contro i pettorali del gigante, fermandolo con gran fatica, ma avevi ancora le braccia libere. Cercasti di acchiapparlo. Il Guardiano smise di attaccarti percependo il freddo tagliente su di sé e si scostò prontamente rotolando di lato. Non fece però in tempo a rialzarsi che fu sbalzato via da una stalagmite di ghiaccio che sorse prontamente dal suolo ai tuoi piedi.
«Credi che questo possa bastare? Che il Cocito possa avere qualche effetto su di me? Ti sbagli, Tempesta di fuoco!» E, chiamò a sé il calore più intenso che riuscì a evocare, avendo come effetto di sciogliere la tua creazione e di ritrovarti bagnato fradicio. Ma solo quella.
Ti guardasti rapidamente attorno mentre il gigante di ghiaccio si scioglieva e la distanza tra te e il terreno diminuiva drasticamente. Vedesti un tetto di un palazzo condominiale.
Prendesti una breve rincorsa e saltasti. Dopo un volo di qualche secondo atterrasti sul tetto e riprendesti immediatamente il controllo del ghiaccio.
Quello che aveva sciolto, dopotutto era pur sempre il Cocito, no? Bene. Il ghiaccio e la neve risposero al tuo volere e l’acqua smise di scorrere per congelarsi nuovamente e risalire rapidamente il palazzo e raggiungerti, come una pianta di edera si arrampica sul suo sostegno. Poi dirigesti i fusti di ghiaccio di modo che si scontrassero con il tornado infuocato e i pezzi, che tu mantenesti allo stato solido, si mescolarono al tornado che cadde finalmente al suolo, ritrovandoti nell’occhio del ciclone. Ma non riuscì a scalfirti perché tu condensasti di nuovo l’acqua e il vapore e la trasformasti nella tempesta di neve perfetta. Che ti protesse da quel calore insopportabile. Poi, tendesti il braccio e gli ghiacciasti le fiamme e il calore.
«É inutile che provi ad attaccarmi, io riuscirò sempre a congelare ogni tuo attacco, qualunque esso sia». 
«No!»
Tu urlasti un’altra volta e, espandesti la tempesta con violenza con tutta la forza di cui eri capace. E oltre ancora, sprigionando ancora più energia di quanto ti aspettasti. La stessa energia che non avevi mai sentito così intensa. Era così forte che faceva male persino a te, dentro le vene e nelle ossa, benché tu fossi uno spirito. Ma non potevi fermarti ora che il ghiaccio era qui.
Il tornado di fuoco si spense.  
Il Guardiano si ritrovò sballottato qui e là prima di raddrizzarsi e urlare, «Non mi lascerò battere da un umano!» Ebbe il tempo di dire solo questo che i frammenti acuminati lo colpirono, sospinti dalla forza dei venti artici, che avevano risposto, richiamati dalla forza del Cocito e dal vero potere dell’Acquario. Non immaginavi che il pieno potere della tua costellazione fosse questo.
Dal suo Cosmo riuscisti solo a capire che era rimasto ferito in più punti, compreso al lato sinistro della testa. Eppure, anche così non si arrese.
Provò ad attaccarti lanciandoti la sua energia ma il tuo Cosmo e la bufera erano talmente forti che non riuscirono a penetrarli. Alimentati dalla tua sola forza di volontà, tu, eri pronto a giocarti il tutto e per tutto. Per Shaka e per Atena.
Non ci fu neanche bisogno dell’Aurora Execution. Il ghiaccio con cui avevi avvolto la foresta si sciolse, subito soppiantato da una nuova coltre, che s’innalzò in alte volute verso di te e si andò a trasformare in un mostro sotto al tuo completo controllo.
Ma questo non spaventò il Guardiano. Il quale, pur essendo ferito e sconvolto, non intendeva affatto arrendersi. «Credi che questa piccola bufera possa farmi qualcosa?» Espanse di nuovo il suo Cosmo ma non distrusse il ghiaccio. Anzi, il ghiaccio assorbì la sua energia per irrobustirsi ancora di più. La prendesti come un’occasione per congelare ancora di più gli atomi attorno a lui e piegare il Cocito al tuo volere. Non ti eri mai sentito un tutt’uno con il tuo elemento prima d’ora. Neanche in vita.
Per la prima volta in vita tua, scatenasti il tuo potere distruttivo in tutta la sua piena potenza, come non avevi fatto ad Asgard contro Surt. Riuscendo persino a superare la potenza che avevi avuto all’epoca. 
Adesso era il momento buono.
Ti mettesti in posizione per sferrare il tuo colpo più potente. Per Atena, per Hyoga e per la tua nipotina. I loro volti comparvero per un momento davanti a te, come a darti la forza necessaria.
E, nella bufera del ghiaccio infero, gli spiriti che lo abitavano, anime congelate, si unirono a te e, insieme al gelo della loro prigione, formarono un immenso drago nel bel mezzo dell’Aurora Execution. Che, impennandosi verso il cielo, lanciò un ruggito assordante.
«Credi di farmi paura? Ah!» E, con un urlo, gli scagliò una bomba di calore. L’impatto sollevò una cortina di fumo e di vapore. Ma subito il sorriso del tuo avversario venne cancellato, nel notare il drago e te, ancora in piedi. Il drago, infuriato come te di una rabbia lucida che non avevi mai provato, s’innalzò ancora più minaccioso.
Adesso il Guardiano non rideva più.     
«Aurora…» Il drago s’inarcò. «Execution!» Urlasti e il drago attaccò spalancando le fauci e abbattendosi su di lui. Con il potere del ghiaccio gli impedisti ogni via di fuga e cominciasti a congelare i suoi muscoli, costringendolo all’immobilità. Il tuo ghiaccio era così forte che il suo calore non bastò per scioglierlo, anzi, sollevò solo una coltre di vapore che venne spazzata via dal vento della bufera. 
Il Guardiano urlò e cercò di fuggire ma il drago lo raggiunse e, con un salto, ti ponesti davanti all’animale per sferrasti il tuo colpo migliore che arse tutto come in un incendio di ghiaccio. «No!» Urlò l’Astronauta ferito mentre cercava di rialzarsi.
E l’Aurora colpì.
«Basta così!» Esclamò la voce della Azona. Improvvisamente udisti il rumore di una lastra di vetro che si rompe e tutto attorno a voi si propagarono delle crepe luminescenti. Tutto si cristallizzò. Come se qualcun altro avesse usato il tuo stesso potere congelante su una zona ancora più ampia. Sgranaste gli occhi per la sorpresa e vi guardaste intorno per quel poco che poteste muovervi.
Eppure non s’era aggiunto altro ghiaccio al tuo. 
Aggrottasti le sopracciglia. L’intero tuo corpo s’immobilizzò e, per quanta forza tu ci mettessi, non riuscisti ad avanzare.
Provasti ad attaccare ma non riuscisti a muoverti neanche di un millimetro. Il Guardiano ti guardò spaventato tamponandosi una ferita iridescente sulla spalla.
Eppure anche così riuscì a cadere in terra, sulla schiena e rialzarsi a sedere per arretrare spaventato e gemere per le ferite importanti che eri riuscito a procurargli, imbrattando l’azzurro scivoloso del ghiaccio. «Non lo vedi che è ferito?» Ti chiese la voce femminile con dolcezza all’orecchio destro. «Rewind». Comandò poi.
E foste catapultati all’indietro nell’immediato. Con vostro grande stupore vedeste ogni cosa regredire come quando si pigiava il tasto del rewind dei videoregistratori. Vedendo tutto questo non riuscivi a credere di essere stato tu a liberare tutta quella potenza. E, tornaste indietro, rivivendo ogni cosa, parlando, pensando al contrario, vedendo ogni vostro colpo rientrare in voi e nella Terra da dove l’avevate evocati, fino al momento in cui lo incontraste. Se pensavi che fosse finita lì ti sbagliavi. Vi sentiste entrambi afferrare per le spalle e strattonare all’indietro da una forza travolgente. Foste catapultati a terra, abbattendovi al suolo sulla schiena, con una forza tale che vi fece male nonostante le corazze.
Solo allora il tempo ripartì e stravolti dal peso, sprofondaste di cinque centimetri al suolo. 
Vi rialzaste entrambi sui gomiti con fatica. Avevate i muscoli tirati e l’adrenalina ancora in circolo. Sui vostri corpi, però, non c’era più alcuna traccia delle ferite e dei colpi che vi eravate scambiati.
Vi guardaste attorno. Tutto era immacolato, come se non fosse mai successo niente. Il sole splendeva e gli uccellini cantavano allegri in quella parte di foresta, incuranti della vostra presenza. Persino la casupola del Guardiano era ancora in piedi. Eri sbalordito, dunque era così grande il potere di un’Azona? Ora capivi perché gli Dèi temessero tanto queste Divinità minori.
Vi rialzaste a sedere, doloranti e ti massaggiasti la testa, usando il tuo Cosmo per raffreddare il livido sulla nuca.
Sentisti dei passi alle tue spalle. Ti girasti e vedesti la Dea illesa, avanzare verso di voi.
«Lady Asia!» Esclamasti sollevato e felice di rivederla sana e salva. Poi, il turbamento si fece posto dentro di te, andando a mescolarsi con la felicità per sfociare nel dubbio. Allora tutto quello che avevi fatto era stato reale? Era solo un sogno? Come c’era riuscita?
Scorgesti una persona alle sue spalle. Spalancasti gli occhi e trattenesti il fiato rumorosamente per l’incredulità, riconoscendolo. «Shaka!» Il tuo commilitone, era sano e salvo. Anche lui ti raggiunse, un vago sorriso dipinto in faccia. Tese la mano e tu l’afferrasti, sgranando ancor più gli occhi. Era reale, era tutto reale, anche loro, non solo il paesaggio. Il tuo compagno ti aiutò a rimetterti in piedi.  
La Dea vi superò e si rivolse al Guardiano. «Ti è bastata la lezione, Astronauta?»
«Tu! Mi hai preso in giro? Come hai potuto? Non ti perdonerò mai!» Gonfiò il suo Cosmo, che assunse la colorazione rossastra.
Entrambi scattaste a proteggere Asia, anche se tu eri ancora dolorante e barcollante. Ma la Dea vi bloccò sollevando un braccio. Non per dirvi di lasciarla sola, bensì perché non c’era bisogno. Per quanto il vostro avversario cercasse di ritrasformarsi, arrivato a un certo punto, la sua trasformazione regrediva fino a scomparire.
Il Guardiano della Casa di Urano si guardò le mani sgomento e poi rialzò lo sguardo. La indicò, accusatorio: «Tu! Che cosa hai fatto?» Lei non rispose e il Guardiano cercò di trapassarla con un fiotto d’energia che gli uscì dal dito ma lei scomparve e l’energia bucò il terreno dove prima c’eri tu.
Degli uccelli si alzarono in volo, spaventati.
Se non fosse stato per Shaka, che ti aveva spostato, quel raggio ti avrebbe bucato una gamba.
Lady Asia invece riapparve alla vostra destra a tre metri di distanza da voi; la stessa espressione seria. Le braccia conserte, come se il Guardiano non l’avesse mai attaccata.
«No, com’è possibile?» Esclamò quest’ultimo. «Tu non puoi fermare il Tempo!»
«Infatti non l’ho fatto, ho usato il Paradosso di Zenone fin dall’inizio». Rispose la Dea.
Aggrottasti la fronte. Il Paradosso di Zenone? Ma non era quello secondo cui se Achille e la Tartaruga si sfidavano vinceva la tartaruga perché lei partiva per prima e faceva sempre un passetto più avanti di Achille?
«Il paradosso di Zenone?» Ripeté suo zio, poi spalancò gli occhi, capendo: «Brutta…»
La figlia del Drago Rosso sollevò le sopracciglia un momento e domandò: «Credevi davvero che mi sarei battuta con te, senza prendere le dovute precauzioni fin dall’inizio, soprattutto ora che ho dei compagni di viaggio?»
«Asia…» Mormorasti tu, sorpreso, mentre il Guardiano della Casa di Urano ringhiava furente, «Allora che cos’era quella cosa che ho ucciso?»
«Una bambola creata con le Sabbie del Tempo e un’illusione solidificata. Io mi sono limitata a seguire la scena da lontano fin da quando abbiamo affrontato Il Matto». Rivelò lei. Le Sabbie le volteggiarono attorno in un piccolo mulinello, prima di posarsi sul suo palmo e scomparirvi. Poi l’abbassò e disse, come se se lo fosse ricordato solo in quel momento: «Oh, e avete combattuto tutto il tempo in una tasca temporale, perciò, tutto quello che è accaduto lì dentro non ha avuto ripercussioni sull’esterno. Scusa l’irruenza ma ho ritenuto necessario bloccare il tuo Cosmo per evitare di attirare le Creature. In quella forma non sei poi così potente, eh?»  Lo compatì. Le braccia incrociate.
«Quindi non siete mai morta?» Le domandasti, sentendo un grosso peso sollevarsi dal tuo cuore, nonostante lo stupore e il dubbio. Non pensavi che avesse messo su un piano. 
La tua superiore ti guardò da sopra una spalla e ti sorrise: «No. Il Cavaliere di Virgo a un certo punto se ne è accorto. Temevo che avrebbe fatto saltare la mia copertura ma è stato bravo, ha recitato divinamente». Si complimentò.
Se solo avesse saputo che Shaka non stava recitando… Guardasti il tuo compagno, che restò impassibile. A eccezione del pomo di Adamo che si mosse su e giù, segno che stava inghiottendo, probabilmente parole che avrebbero potuto sfuggirgli e tradirlo.
«Non puoi farmi questo, io sono il Guardiano della Casa di Urano!» Protestò lo sconfitto.      
«Tecnicamente tu sei solo un reietto», rilevò la vera vincitrice per niente impressionata, poi sciolse la stretta, «non hai più diritto di essere chiamato Guardiano e di essere rispettato come tale, sei un’onta vivente, un ricercato. Ma c’è una buona notizia per te, gli Dèi sono disposti a perdonarti per i tuoi sbagli e a restituirti i tuoi pieni poteri e la tua carica, se tornerai ai tuoi sacri doveri e presiederai alla Casa di Urano ancora una volta». Annunciò, spalancando le braccia e tendendole verso di lui, come per accoglierlo. «D’altronde, non è questo che hai sempre voluto, al di là del tuo desiderio di divertirti? Dovresti esserti divertito abbastanza per sconfiggere tutti i secoli di noia trascorsi».
Il Guardiano cercò una soluzione, lo vedesti da come e distolse lo sguardo, stringendo i denti. Poi li digrignò, frustrato e la guardò con astio. «E sia». Si arrese e tornò completamente dritto, ma il fastidio non abbandonò i suoi tratti. Nonostante questo tese una mano verso di lei, con un sorriso arrogante. Mano che lei strinse.
L’Astronauta disse: «Dovremmo rifarlo qualche volta, è stato abbastanza divertente».
«Abbastanza?» Replicò l’altra, scettica e vagamente offesa. 
«Ora non darti delle arie, ragazzina». La stretta si sciolse e il Guardiano le passò accanto, cacciandosi le mani in tasca. «Ci vediamo».
Lei non gli dette le spalle ma anzi, lo accompagnò con sguardo serio e determinato, guardingo.
Il fratello del Drago Rosso vi oltrepassò senza degnarvi neanche di un’occhiata. Poi si girò, sfilò una mano dalla tasca e le puntò l’indice contro. Sempre con quel sorriso soddisfatto stampato in faccia: «Guarda che ci conto che ci sfideremo ancora».
«Vedremo, ma solo noi due e nessun altro». Concesse con la stessa prudenza del Re Sole.
L’altro le sorrise. «Ovviamente». Dopodiché le fece l’occhiolino e il saluto militare, prima di girarsi un’altra volta e scomparire nel nulla.
Solo allora lei si rilassò.
«Come state? Siete tutti interi?» Vi chiese, guardandovi preoccupata.
«Sì, Lady Asia, grazie per l’interessamento». Rispose Shaka, il fantasma di un vago sorriso sulle labbra sottili.
Lei annuì rassicurata. «Bene. E tu, Camus?» Domandò rivolgendo lo sguardo su di te.
Ti accorgesti di guardarla ancora senza parole. Dentro di te non sapevi cosa provare. Sconcerto per la sua furbizia, paura per la forza e il carisma che aveva dimostrato? Oppure offesa per avervi manipolati come giocattoli per soddisfare il desiderio di azione di un Guardiano annoiato? Anzi no, anche il Guardiano era stato manipolato allo stesso modo. Allora era questo il vero potere degli Azoni? Era così che scrivevano la Storia? Ora capivi perché erano tanto temuti persino dagli Dèi Maggiori come Lady Isabel. Lady Asia, di Lady Isabel, aveva solo una somiglianza fisica, ma era completamente diversa da lei.
Camus.
Il tuo nome, pronunciato da lei, che ti guardava con quell’espressione sinceramente preoccupata, non fece altro che alimentare il tuo fastidio. Che ne sapevate voi che non vi stesse manipolando anche adesso? «Sto bene, grazie, Lady Asia». Dicesti, con voce gelida. Poi ti rialzasti a tua volta. Non avevi bisogno del suo aiuto, ce la facevi anche da solo. 
«Adesso possiamo anche andarcene da qui».
«Non c’è nessun altro?»
Lei confermò: «No, qui non c’è nessun altro».          

Shaka
Chissà quale Divinità a te sconosciuta dovevi ringraziare per aver fatto sì che lei non si fosse accorta di nulla, eh? «Prossima tappa, Milady?» Chiedesti ossequioso, cercando di nascondere il tuo imbarazzo. Non pensavi che fosse tanto evidente. «Prossima tappa ci troviamo un albergo e ci rifocilliamo un po’, sono a pezzi».
Ripensasti a tutte le cose che avevi urlato quando avevi creduto che fosse morta e arrossisti come un peperone. Ma tanto non potevano vederti perché vi eravate rimessi in marcia. Non avevi mai urlato cose del genere prima, era strano anche per te. Come erano strani i flash che avevi da un pezzo a questa parte. Flash di lei quindicenne avvolta nel tuo mantello e appoggiata a te. Era ferita, lo intuivi, ma non voleva che tu vedessi la ferita. Doveva essere tanto brutta?
La cosa che davvero ti sorprendeva era che più che lei, ricordavi giusto la voce. E la sua preghiera di non aprire mai gli occhi.
Ma il profumo di gardenie, oh, quello te lo ricordavi benissimo. Mascherato sotto al profumo di loto. Ricordavi di esserti divertito insieme a lei. Ricordavi schiamazzi e grida di gioia, ma anche la consistenza della pelle del suo volto sotto le tue dita. E il tocco della sua mano sulla tua faccia. Più la preghiera di non aprire gli occhi.
Ricordavi di aver colto delle gardenie per Lei e di avergliele offerte. Che l’avevi ospitata e che la sua stanza nel tuo tempietto diroccato in India profumava di gardenie.
E tu gli occhi li avevi tenuti chiusi, finché non aveva cantato e ti eri girato a guardarla. Era stato allora che avevi scoperto il suo volto e che era una Dea. Erano ricordi strani e anomali eppure sentivi che ti appartenevano. Ma oltre ai sentimenti non ben identificati che provavi per lei, ti accorgesti di rilevare anche somiglianze di potere. Aveva decelerato il tempo fin quasi a cristallizzarlo, riusciva a muoversi ancor più velocemente di voi. Solo per dirne alcune. Il suo potere era qualcosa di spaventoso. Come anche il suo lato manipolatorio e calcolatore. E tu non eri un tipo facilmente impressionabile.
Eppure, ripensandoci, una parte di te voleva farle le tue scuse per aver sottovalutato le sue parole. Ti dispiaceva non averle dato retta. Alla fine aveva ragione, vi eravate rivelati un fardello e se eravate vivi lo dovevate solo all’album che custodivi.
Avresti dovuto ridarglielo e lasciarla andare ma l’idea ti faceva orrore. E poi che cos’era davvero questa Dea? Cosa facevano davvero gli Azoni? Lo scambio di battute tra lei e l’Astronauta era ancora ben vivido nella tua testa. Che collegamento c’era tra tutti loro, la Cerca e la Luce Ombrosa? Che cos’erano davvero quelle Creature? E perché provavi quelle sensazioni e quei ricordi riguardo a Lady Asia?

Milo
Un Cosmo.
Se ci pensavi non ci credevi. Ma era logico, ogni essere vivente l’ha in sé. Le Creature puntavano soprattutto a questo e voi Saint e guerrieri devoti a una Divinità eravate come piatti preferiti di un buffet per affamati. Ma sapere che anche lei ne aveva uno così sviluppato era una novità assoluta. Anche tu dall’Ottava avevi visto quella colonna nera che si era innalzata dall’arena dei combattimenti, arrivando quasi a sfiorare il cielo plumbeo, eri rimasto sbigottito.
Ancora di più quando avevi saputo a chi apparteneva.
Questa pasqua era destinata a essere piena di sorprese, non solo per il contesto. Ma perché una cosa Astrid l’aveva azzeccata: la lettera che avevi affidato al corvo di Jamian non era mai arrivata a destinazione. Lo stesso Jamian era venuto da te a dirti che cosa era accaduto. E a te questa storia aveva cominciato a puzzare di bruciato. E se quello che era accaduto nelle piantagioni sul finire di aprile non fosse stato che un diversivo? Il Bronze Saint di Serpens aveva detto che i serpenti erano stati chiamati da qualcuno. Odysseus sicuramente. Era lui che vi aspettavate che attaccasse. Ma lui, sempre stando agli ex Bronze, non si serviva di fischietti a ultrasuoni per chiamare a sé i suoi squamosi servitori. E se Astrid non fosse stata paranoica? Se nella sua disperazione avesse scoperto effettivamente qualcosa? Non era il tipo di ragazza che impazziva senza un motivo, anche se eri sicuro che il lutto c’entrasse qualcosa.
«E se fosse posseduta da una Divinità?» Domandasti pensieroso al gattaccio della Quinta che quella sera si era fermato a bere con te ad Atene. A volte le Creature e tutte le disgrazie sembravano così lontane.
«Impossibile. Se così fosse avrebbe manifestato gli stessi sintomi di Saga quando era sotto l’influsso di Ares, oppure di Kyoko quando era posseduta da Eris». Decretò Aiolia, stranamente tranquillo, nonostante il casino. Ti domandasti se avesse fatto bene a prendere la Saint di Indus sotto la sua ala protettrice. D’accordo che spesso e volentieri le fanciulle s’affidavano a lui però Neera non era indifesa. Quanto sarebbe occorso al micio per accorgersene?
«Hai ragione».
Posasti la penna e accartocciasti il secondo foglio su cui stavi scribacchiando. Te l’eri fatto dare dal barista con la scusa di scribacchiare un numero di telefono.  
«Credevo che tu e Camus foste migliori amici». Commentò il tuo amico, accigliandosi.
«No, in realtà non è esattamente così. In realtà il rapporto d’amicizia tra me e lui sta nascendo ora». Rivelasti grattandoti il capo.
«Allora perché spesso porti fiori alla sua tomba e vai a trovare il suo corpo nella bara di cristallo ai sotterranei della Tredicesima?» Ti chiese, confuso.
«Per non scordarmi il suo viso. Per associare quelle parole, quelle lettere a un volto, ancora. I fiori, beh, mi sembra scontato presentarmi a casa di qualcuno senza un presente, anche se, in questo caso, stiamo parlando di una tomba. Non posso certo portarci una bottiglia di ouzo». Sospirasti e ti stiracchiasti sulla sedia prima di spiegargli. «Tutti avete avuto quest’impressione perché da piccoli ci costringevano a studiare in gruppi, quando d’estate ci riunivano per darci un’istruzione base, ricordi?»
«Poco».
«Beh, a me sarebbe piaciuto studiare insieme a te, che mi somigli un po’, per affinità elettiva e caratteriale, diciamo. Invece il nostro maestro ci accorpò perché Camus era più serio e più portato per lo studio, rispetto a me. Credeva che la sua presenza mi avrebbe influenzato positivamente, magari che saremmo diventati amici. L’unica cosa che io e Camus abbiamo in comune da allora, è il ricordo di un’amicizia». Ti piegasti sulle ginocchia, pensieroso. Cercasti le parole giuste per esprimere questi concetti. «Non so come spiegartelo, è una bella cosa, è come quando rivedi una persona che in passato ti aiutò molto e, che, ora che non c’è più bisogno, che stai bene quella persona sta lì e tu ti senti inadeguato perché lei improvvisamente è diventata inutile. Eppure, quando la guardi, quella persona dice che non c’è bisogno di preoccuparsi per lui, che se la caverà. Ma tu sai che se avesse bisogno di una mano, tu gliela darai, in nome di questo ricordo. E, fidati che non è un ricordo legato all’infanzia, io facevo di tutto per scappare da quelle tediose lezioni, Camus credeva che fossi un cretino già allora, io per contro, lo trovavo noioso».
Il gattaccio ti guardò completamente spiazzato. E tu inarcasti un sopracciglio, perplesso. Perché ti guardava così? Alla fine lo vedesti aprire bocca e uscirsene con un: «Noi credevamo che…»
«Che?»
«Che ci fosse qualcosa tra voi».
«Qualcosa cosa?»
«Non lo so, qualcosa». Ammise arrossendo.
«Avete percepito la stessa cosa che abbiamo sentito io e lui, a volte le persone riescono davvero a vedere un effettivo legame». Alzasti le spalle e continuasti: «se ci pensi bene, io e Camus da vivi avremmo scambiato almeno quattro parole in croce. Ora non si può più neanche parlare con qualcuno che tutti pensano che stiamo insieme. Da parte mia, anche se sono logorroico e lo dimostro male, ho sempre nutrito un gran rispetto per Camus».
«Ma allora Hyoga…».
«Veglio su di lui perché mi ha confermato i nostri dubbi su Atena e perché, da quel poco che so di Camus, so che teneva moltissimo a lui, proprio come se fosse suo figlio, dovresti saperlo anche tu, se ti ricordi di Černobyl’. Io gli ho solo dato una mano ad alleviare i suoi tormenti».
«Perché tu?»
«Non so, pena, immagino, oppure perché in un certo senso speravo di non perdere un punto fisso della mia infanzia. E poi siamo compagni di battaglia, se non ci sosteniamo tra di noi, chi altri può farlo?» Chiedesti guardandolo.
«Allora ad Asgard…»
«Non pensavo d’imbattermi proprio in lui e, sicuramente, non così. Per il resto sai anche tu che ho un carattere fumantino, gattaccio».
«Sì, lo so bene, artropode».
«Sai, scrivendoci adesso, mi fa sentire la sua mancanza e mi fa sentire in colpa».
«Perché?»
«Perché sto imparando a conoscerlo solo ora che è morto e, più lo conosco, più mi do dell’imbecille per non averlo fatto quando era vivo».
«E Astrid, allora?»
«Astrid? É… eh, è difficile da spiegare». Distogliesti lo sguardo. «Non è Camus, su questo non ci piove e non è neanche Shoko o Kyoko. Non sono così scemo da non essermi accorto che lei divenne la Saintia del Cavallino solo perché incontrò me ed ebbi pietà di lei e della sua sfortunata sorella. É una persona completamente diversa. Mi diverto a punzecchiarla e lei si diverte a ricambiare, tutto qui. Mi rendo conto che non è onorevole per un Gold del mio calibro, ma abbiamo così poche distrazioni che non ti dovresti sorprendere, se ogni tanto scoppio anch’io. A non tutti basta una seduta d’allenamento in arena o un nuovo addestramento per sfogarsi». Ultimamente poi, ti sembrava che più ti avvicinavi a lei, più assimilavi qualcosa di lei, più lei prendeva qualcosa da te. Non te la ricordavi tanto coraggiosa e determinata prima. O forse era solo perché fino a poco tempo prima pensava di essere normale. Ma la sua normalità era la normalità di un Saint.

Mentre eravate sulle scale delle Dodici Case Aiolia ti chiese: «Tu credi che lei possa essere legata in qualche modo al Cavaliere di Ophiuchus?» Non aveva più toccato l’argomento per il resto della serata, dopo che gli avevi spiegato il tuo rapporto con Astrid.
«Le prove che abbiamo sembrerebbero puntare in quella direzione. E sai cosa significa».
Sfortuna. Se dietro c’era davvero il Gold Saint di Ophiuchus c’era solo da fare gli scongiuri. Oh, sì, non c’era margine di errore. Se evitavate gli orpelli e guardavate alla sostanza, davanti a voi non c’era una civile, bensì un Saint e di quelli più potenti, per giunta. La tredicesima costellazione dello zodiaco era rientrata nell’ellittica ancora una volta.
Erano gli unici momenti in cui, secondo la leggenda, il Santo d’Oro di Ophiuchus resuscitava e gli era concesso di combattere insieme a tutti gli altri dodici. La profezia risaliva al tempo della maledizione di Odysseus, quando si diceva che i suoi capelli fossero ancora biondi come il grano e non bianchi come la neve.
«Però noi un Santo di Ophiuchus ce l’abbiamo già». Obiettò Aiolia.
«Sì, è vero».
«Mettiamo caso che non sia ad Astrid che sta puntando, ma che sia Shaina. Dopotutto è una Silver Saint ed è infinitamente più esperta di Astrid; se davvero ci fosse un’Apocalisse o una Guerra Santa, Shaina sarebbe una candidata ideale a vestire le sacre vestigia di Ophiuchus. Astrid invece che cos’è?» Disse il fratello minore di Aiolos.
«Astrid non è niente, se guardiamo ai fatti. Ha del potenziale, ma non ha un’Armatura. Il massimo che mi viene in mente quando penso a lei è che è un’atleta».
«Ma se invece la profezia puntasse su Astrid?»
«Sai anche tu a cosa si va incontro». Shaina e Astrid si sarebbero dovute eliminare vicendevolmente. O una o l’altra, non potevano coesistere due Saint protetti dalla stessa costellazione. Quella di Aiolia era un’eccezione in quanto Ikki aveva momentaneamente rinunciato al titolo di Cavaliere di Leo, riprendendo a indossare la Bronze Cloth della Fenice.
Come conoscevate anche voi la scappatoia che c’era in questi casi. O Shaina o Astrid. Il tutte e due e il suo contrario non erano ammissibili. Questo era il mondo dei Saint. E già una volta avevi sbagliato a lasciare in vita una creatura nata sotto una stella sfortunata. Non era colpa tua se Eris si era impossessata di Kyoko e, ancora non te lo perdonavi. Adesso il Gold Saint di Ophiuchus. «Oh, Astrid». Sospirasti.
Salutasti Aiolia e poi scendesti in infermeria. Dovevi fare qualcosa.     

Bussasti sullo stipite della porta e Kiki si girò verso di te. «Oh, Milo, sei venuto a trovarla?» Chiese distogliendo lo sguardo dall’amata per guardarti. Tendesti le labbra in un sorriso divertito. A volte la sua cecità era veramente spassosa. Come faceva a non essersi accorto di essere innamorato lo sapeva solo lui. «Sì. Come sta?» Accennasti con il mento alla ragazza febbricitante e addormentata.
«Non si è ancora svegliata. Le ferite erano più gravi del previsto, fortunatamente la Dark Resurrection in questi casi è molto utile». Rispose.
«Sì».
Il rosso assottigliò gli occhi e domandò: «Stai bene, Milo?»
«Sì, è che… fa strano vederla così, lei così combattiva…» Mormorasti, guardandola. Ancora non ci credevi. Ma sentivi che era la cosa più giusta da fare.
«Lo capisco, anche per me è lo stesso».
«Quando glielo dirai?» Domandasti cacciandoti le mani nella tasca della giacca di pelle.
«Che cosa?»
«Oh, andiamo, non fare il finto tonto, lo sai cosa». Il giovane lemuriano ti guardò spiazzato.
«No, davvero, non capisco a cosa tu ti riferisca».
«Vabbè, fa conto che non abbia detto niente, d’accordo?» Se voleva restare con il paraocchi erano cavoli suoi, non avevi niente da obiettare.
Il giovane Aries si stiracchiò la schiena, facendo scricchiolare le vertebre e si alzò dalla sedia dove era rimasto accomodato finora. «Allora vuoi restare un po’ con lei? Così vado a prendere qualcosa da bere, che ho una sete…»
«Buona idea, prendi qualcosa anche per me».
«Certo, vuoi qualcosa in particolare?»
«No, scegli tu».
Guardasti Astrid che giaceva nel letto, profondamente addormentata. Avevi detto la verità al tuo collega della Quinta, ma gli avevi taciuto di come mutava il vostro rapporto, dal giorno alla notte.
Perché gli avevi detto così? Perché non lo avevi mandato direttamente a casa? Perché si sarebbe insospettito, ecco perché. Ma si sarebbe insospettito comunque, dal momento che ufficialmente voi due non vi sopportavate. E Kiki non era così maligno da leggere nella mente altrui senza senso.
Allora cos’era che ti aveva fatto dire così? Paura? No, no di certo. Neanche l’idea di affrontare Death Mask, Aphrodite, Shiryu e Shun ti impensieriva. Kanon lo sapeva quanto te che Astrid poteva essere pericolosa. Presto avresti sfoderato la cuspide scarlatta e... E… il pensiero ti riempì di tristezza e di pietà. Ti tornò in mente la prima notte che avevate condiviso le vostre conoscenze. Non l’avevi mai vista tanto felice. Neanche tu lo eri mai stato.  
Presto avresti posto fine alla sua vita. Dovevi farlo, era tuo dovere. Per il Santuario e per la Dea.
Il mondo si reggeva su equilibri ancora più precari di quanto credevano. Ma che cosa stavi facendo?
Lei era una tua amica, volevi davvero farle questo? Non c’era scelta, se volevi salvare tutti avresti dovuto farlo. Ma se tu l’avessi fatto il Santuario ne avrebbe perso in forza. E tu ti saresti trasformato in un secondo Shura. A vegliare su Yoshino in vece di Astrid. No, non volevi diventare lui e tu, soprattutto, non eri sotto l’influsso di nessun Genro Mao Ken. Tu potevi ancora avere possibilità di scelta.
Solo in quel momento ti accorgesti di avere il volto rigato di lacrime di rabbia, tristezza e ingiustizia. Non era giusto. Quello che stavi per fare non era giusto. Lei non l’avrebbe voluto. L’avresti privata per sempre delle stelle che tanto amava e che stava condividendo con te. Non avevi mai condiviso qualcosa con qualcuno prima. Non così. 
Per questo, quando la guardasti, tu scegliesti ancora di seguire il tuo cuore. Quel tuo cuore che risparmio Shoko di Equuleus, lo stesso che sancì la redenzione del vostro Papa. Riusciva sempre ad avere la meglio. E adesso ti pesava come un macigno nel petto, sì tanto che ti portò a cadere bocconi del letto e a piangere, nascondendo il volto tra le mani. Non eri riuscito a farlo. Con che coraggio avevi anche avuto questo pensiero. Lei non era infetta, non si meritava tutto ciò.  
La profezia diceva che la rinascita del Tredicesimo Cavaliere avrebbe portato solo morte e distruzione per il Santuario e la Dea Atena. Astrid aveva le carte in regola per essere quella reincarnazione. Tu che a queste cose non ci credevi, non avevi dubbi. E piangesti, piangesti per quello che stavi per fare. Stringesti la sua mano tra le tue. «Perdonami, Astrid, perdonami io… perdonami, non so cosa mi sia preso, perdonami». 
«Sapevo che non l’avresti fatto». Disse la voce di Kiki, alle tue spalle. Sussultasti e lo guardasti spaventato. «Kiki!»
Il Gold Saint di Aries ti guardò serio. Le braccia conserte e l’espressione neutra. «Credevi seriamente che non avessi capito per quale motivo eri qui? Ce l’avevi scritto in faccia. Se tu avessi anche solo provato a gonfiare il tuo Cosmo ti avrei spedito sull’Himalaya o nel profondo degli abissi senza pensarci due volte.» Rivelò calmissimo e qualcosa ti disse che l’avrebbe fatto davvero. Si avvicinò e ti porse un fazzoletto. Ti ripulisti il volto mentre Kiki, in piedi accanto a te, ti guardava. «Il Venerabile Shion mi ha parlato della Profezia del Tredicesimo Cavaliere quando mi addestrò. Per nostra fortuna pare che Kanon la ritenga una stupidaggine». Aggiunse dopo un po’.
«Anche Kanon lo pensa?» Domandasti stupito. «No ma lui non è legato a queste superstizioni, lo sai».
«Ma molti altri sì». Commentasti tu, guardando di nuovo la giovane addormentata.       
«Capisco la tua posizione, ed è proprio per questo che noi Gold che siamo dalla sua parte la proteggiamo anche ora. Noi siamo d’accordo con Kanon, non crediamo che lei sia la reincarnazione di Odysseus e non è neanche detto che sia il Gold Saint di Ophiuchus della profezia».
«Come fai a esserne sicuro?»
«Il potere delle Stelle, dei Tarocchi, la Luce Ombrosa, la chiromanzia. Più che a un Gold Saint somiglia a Kanon».
Ok, adesso ti eri perso. «Cioè?»
«Kanon è l’ex Dragone di Mare e l’ex Cavaliere di Gemini, riunisce in sé le tecniche di entrambi, un po’ come Astrid. Questi due sono più simili di quanto pensano. So che vuoi bene ad Astrid anche tu, mi sono accorto anch’io di quello che hai fatto per lei, poco tempo fa e ti ringrazio».
«Perché se sapevi che soffriva non ci sei andato tu?»
Un lampo di dispiacere brillò nelle sue iridi: «Perché probabilmente non mi avrebbe ascoltato. Io non sono bravo a esprimermi e poi, ho anche altri problemi».                   

Kiki
Avevi mentito bene a Milo. La verità era che eri spaventato all’idea che lei potesse non farcela.
«Dite che si riprenderà?» Chiedesti mentre i medici visitavano Astrid. Le avevano dato dei sedativi. Anche il più piccolo avvenimento come la febbre, bastava a farle avere delle crisi, certe volte. Lei non lo avrebbe mai ammesso, ma anche il ciclo a volte le scatenava. I motivi più stupidi erano i peggiori. Combinandosi poi a tutti i problemi che l’avevano assalita ti domandavi quanto ancora avrebbe sopportato prima di spezzarsi.
Era quasi passato un anno, aveva quasi imparato a controllare l’ansia. Però non poteva controllare i traumi.
«Ha ancora la febbre, non è mica in fin di vita. Un trentasette e otto, ma niente di grave o incurabile». Dichiarò il medico cercando di tranquillizzarti.
Restasti con Astrid tutto il pomeriggio.
Quando si svegliò verso l’ora di cena, ti accorgesti che piangeva nel sonno. Anche a te era successo qualche volta, solo che lei non stava piangendo di dolore. Solo dopo avvertisti l’influsso: “Hades?” Pensasti orripilato. “Una promessa è una promessa. Adesso rompo il sigillo”. Vedesti il Cosmo del Dio brillare da lei e poi scomparire. Cos’era successo? Che cosa le aveva fatto? Astrid contrasse il volto in una smorfia di dolore Non avresti dovuto farlo, ma eri troppo curioso. Inoltre se fosse stata una trappola di Hypnos non te lo saresti mai perdonato. Così le leggesti nella mente.
La vedesti precipitare in un baratro oscuro da cui provenne una profonda voce maschile che non avevi mai sentito: «Ricorda».
“Sì, io devo ricordare. Io devo ricordare, io ricordo!” Disse lei. E, con questa formula precipitò. Le immagini riempirono immediatamente il buio, arrestando la sua caduta.
E vi ritrovaste in un ospedale. Degli adulti parlavano tra di loro e una donna ancora col camice d’ospedale indosso piangeva disperata tra le braccia del marito. «Il medico dice che non ce la farà. La mia bambina, oh, la mia bambina».
«Non è detto, amore». Cercò di rassicurarla lui ma lei era inconsolabile.
Guardasti di fronte a te e vedesti una Astrid di appena pochi mesi, nella sua culla. Sudava copiosamente ed era attaccata a un respiratore. Improvvisamente, sulla sedia accanto al letto comparve l’uomo della volta scorsa. “Dev’essere il primissimo ricordo di Astrid!” Pensasti.
Ti avvicinasti anche tu alla culla per capire di cosa si trattasse e quasi facesti un balzo indietro. Era rachitica. Non avevi mai visto un neonato messo così male.
La diagnosi dei medici era sangue marcio.
“Astrid ha rischiato di morire a causa della sua stessa forza a una così tenera età?” Pensasti sorpreso, poi guardasti nuovamente la bambina.  La sua figura si illuminava a tratti, dei colori e dei bagliori del suo Cosmo.
«Il tuo sangue non riesce a sostenere la tua forza e la tua forza ti sta logorando». Dichiarò l’uomo, ma la bambina addormentata non lo sentì. E, anche se avesse potuto sentirlo, non avrebbe potuto capirlo. Eppure, con la manina, strinse forte il dito di Odysseus appena lo avvicinò alle sue, piccolissime. «Se andrai avanti di questo passo morirai. Hai bisogno di midollo osseo, il mio dovrebbe essere sufficiente».
La scena si spostò in ospedale dove dei dottori stavano parlando fuori della porta con i genitori della bambina e la tata della medesima, vegliata dallo spirito.
«L’operazione di trapianto di midollo osseo è andata bene, adesso non resta che trovare anche il donatore compatibile per debellare la malattia di vostra figlia». Stava dicendo.
«E quanto ci vorrà?»
«Non temete, stanno preparando il necessario in questo stesso momento».
Vedesti lo spirito di Astrid girovagare incuriosita per l’ospedale. Era strano che una bambina così piccola non avesse paura di un posto come questo. Neppure tu eri mai stato così coraggioso alla sua età. E, sì che in fatto di orrido anche il tuo maestro se la cavava benissimo. Ti ricordavi ancora bene la volta che ti rispedì Shiryu dallo Jamir in una bara.
Invece, la piccola sembrava divertita. Forse perché dovevano essere passati mesi dall’ultima volta che aveva potuto giocare. Il suo sorriso non scomparve finché non giunse nella stanza delle trasfusioni e vide l’uomo dai capelli d’argento scambiare qualche parola con i medici: «Ma il mio sangue d’Oro è universale, è zero, ma ha numerose proprietà, credimi, può salvare quella bambina».
«Io vorrei tanto aiutarti, amico mio, ma…»
«Qual è il problema? Che non sono un donatore ufficiale? Cos’è più importante per te? Il fatto che io non abbia mai donato sangue a questo ospedale prima, o la vita di quella bambina?»
«Non è questo, è che ho esaminato il tuo sangue ed è risultato strano, ho rilevato la presenza di enzimi e corpi estranei che potrebbero ucciderla».
«Sciocchezze. Paracelsius, mi conosci da tanto tempo, dovresti sapere anche tu che se dico una cosa ti puoi fidare. Io non ho mai creduto a quella profezia, perché dovresti crederci tu, che con il Santuario hai poco o niente a che vedere? Sai bene quanto me che il mio sangue è l’unica cosa che può renderle una vita normale. Te lo chiedo come amico, lascia che lei riceva il mio sangue. É vero, c’è il sangue di Medusa, ma anche quello dell’Ichor del Divino Apollo, che ho ereditato in quanto reincarnazione di Asclepius. Se non vuoi farlo neanche in nome della nostra amicizia, allora fallo per il giuramento di Ippocrate».
«É questo che mi preoccupa e se il tuo sangue le aprisse anche il Nono senso? E se le Divinità poi la cercassero? L’avrai messa in pericolo per tutta la vita».
«Lei non sarà mai in pericolo». Giurò con convinzione il Gold Saint Maledetto.
«E se diventasse il mostro di cui parlano?»
«Non lo diventerà, io glielo impedirò».
«Ah, amico mio. Va bene, ma giurami che non lo stai facendo per usarla per i tuoi scopi personali».
«Lo giuro».   
«D’accordo, preparati. L’operazione richiederà un po’ di tempo».
«Lo so».
La bimba osservò la scena con la testolina inclinata di lato. Poi, dei fuochi fatui le si avventarono addosso. Urlò terrorizzata e si ritrovò di nuovo nel suo corpicino.
La scena cambiò. 
Lo spirito che l’aveva vegliata fino a quel momento le pose una mano sulla fronte e subito si illuminò del suo cosmo dorato. I suoi occhi si accesero di un giallo talmente intenso da risplendere nella penombra. Poi la tolse e lei tornò normale e anche gli occhi dell’uomo si spensero. Guardasti Astrid e vedesti che adesso non sudava più e il respiro era tornato regolare. Fece un respiro profondo e si rannicchiò meglio sotto le coperte. Il viso disteso. Lo sconosciuto sorrise, poi si alzò dalla sedia e se ne andò.
La scena cambiò di nuovo.
La piccola omologa di sei anni di Astrid, ormai guarita, era seduta al tavolo a fare i compiti quando si alzò e andò in corridoio, forse diretta in bagno. Lì per la prima volta, vide l’uomo. Trasalì spaventata. «Non avere paura, Astrid». E tu provasti un moto d’imbarazzo per lui. Non era che fosse partito proprio benissimo, te ne rendevi conto anche tu.
«Tu chi sei?»
«Sono il tuo maestro». Rispose questi, sorridendo. Lei non si fidò neanche un po’: «Ho già delle maestre, non me ne serve un altro e il papà e la mamma mi hanno detto di non parlare con gli sconosciuti. Dimmi chi sei, cosa vuoi!» Esclamò usando il libro come se fosse uno scudo.
L’altro si abbassò alla sua altezza, per nulla intimorito, e le disse: «Voglio guidarti lungo le vie della conoscenza, vie che non ti insegneranno mai a scuola».
«Davvero?» Domandò la piccola, diffidente, sempre in tedesco. 
«Sì».
Ti ritrovasti in un’ampia stanza luminosa che, in un certo senso, ti ricordò Villa Thule. La differenza era che i pavimenti erano di parquet e che era arredata con preziosi, antichi mobili. Vedesti anche immagini di pregevoli cornici abbellire le pareti, assieme ad affreschi, arazzi e candide tende. 
Sul tappeto persiano davanti ai tuoi piedi vedesti Astrid che sfogliava un libro e s’impegnava a leggere, compitando le parole con il ditino. Seduto accanto a lei il suo precettore (?) Non poteva essere suo padre, lo avevi visto e conosciuto. Costui era piuttosto alto e prestante, ma appariva sfocato in confronto ad Odysseus. Che invece appariva più che chiaramente in ogni più piccolo particolare. Dalla lunghissima, spettinata chioma argentea agli occhi erano verdi e truccati con ombretto blu e un trucco egiziano.
Poi la scena cambiò e vedesti Astrid davanti alla libreria. L’uomo sfocato la osservava arrampicarsi sulla sedia e prendere un altro libro. E poi, sentisti due voci, una maschile e una femminile litigare come iene dall’altra parte. «Tu non mi capisci!» Strepitava quella femminile.
«Cosa?! Cosa c’è da capire? Quello che fai è illegale, ti costerà una multa o peggio! Cristo; e se qualcuno ti chiedesse delle profezie di morte? Ti rendi conto di quello che fai? Potrebbero toglierti la bambina! Potrebbero arrestarti per complicità in omicidio!» Rispose la voce e, sentisti che erano in vivavoce e che quella era una telefonata.
Astrid trasalì e lasciò cadere il libro. Non poteva capire di cosa parlassero, sapeva solo che sua madre stava litigando qualcuno. Anche l’uomo assieme a lei voltò la testa verso la porta.
«Mi credi davvero così stupida da fornire certe profezie? Non sono la Saponificatrice di Correggio!» Sbottò la donna.
La bambina scese dalla sedia e sgambettò in punta di piedi verso la porta con aria preoccupata.
Poi la vedesti fermarsi di botto e stringere la boccuccia. Gli occhioni gialli si riempirono di lacrime. Lasciò il libro e andò a sbirciare e vide sua madre e la tata al tavolo. La tata di cui la tua amica ti aveva tanto parlato, era seduta al tavolo, quasi in disparte, come se fosse indecisa se concedere un po’ di privacy alla madre di Astrid o se restare e supportare l’amica.
Anche se ti dava le spalle, potesti vedere la gonna del suo abito lillà e violetto e i suoi lunghi capelli neri, quasi uguali a quelli della donna che stava sbraitando. La faccia paonazza di rabbia e bagnata di lacrime. Probabilmente era sua sorella.
«Gesù, Aida…» Sospirò la voce maschile dall’altra parte. «Ti ho solo telefonato per metterci d’accordo per il prossimo viaggio da fare con Astrid. Perché ogni volta che ci sentiamo devi sempre provocare questi litigi?»  
Astrid si morse il labbro con più forza e si sforzò di restarsene di non piangere. Non capiva quello che stava succedendo, ma sapeva che era qualcosa di grave. 
L’uomo sfocato l’affiancò e le mise una mano sulla testa. La bambina lo guardò e poi tese le braccina verso di lui, in una muta richiesta d’aiuto. L’adulto la prese in braccio e la portò via,   
La scena cambiò di nuovo.
Già da piccola Astrid dimostrò il suo caratterino. Fomentato e incoraggiato dall’uomo sfocato che era sempre con lei e che lei chiamava “papà”. Ciò non faceva che causare dissapori tra lo sfocato e l’Ophiuchus. «Certo che la stai educando bene». Disse un giorno quest’ultimo.
L’altro ridacchiò divertito: «Faccio solo del mio meglio». Come no, mancava solo che si divertisse a pestare le persone e poi lo sfocato avrebbe cresciuto una bulletta in piena regola. “Ma i genitori di Astrid a che cosa pensavano quando l’hanno educata?” Ti ritrovasti a pensare.
Salvo quelle volte che le capitava qualcosa di brutto, ogni volta che lo incontrava lei lo canzonava. Soprattutto sui suoi capelli: «Hai litigato con il parrucchiere?» Era il suo insulto preferito. Cosa trattenesse il suo salvatore dallo zittirla a suon di sculacciate non lo sapevi neanche tu. E sì, che tu non eri neanche un tipo violento, ma Astrid da piccola avrebbe fatto saltare la mosca al naso anche a te. 
Un giorno, forse Natale, la ragazzina gli rifece il solito verso, ma si vedeva che era stufa di ripeterglielo e che lui fosse sull’orlo dell’esasperazione. «No, perché?» Rispose alla fine.
«Da quant’è che non vedi una spazzola?» Il poveraccio la guardò senza capire a cosa si stesse riferendo. «Scusa?» Chiese inarcando le sopracciglia.
«Aspetta». Corse in bagno e quando tornò gli ficcò in mano la spazzola e fece le presentazioni più astruse che avesti mai sentito: «Ecco, maestro, questa è la spazzola, spazzola, questo è il mio maestro. Ah, dimenticavo, buon Natale». Infine se ne tornò in salotto dalla tata e dalla madre, lasciandolo basito e con la spazzola in mano.
La situazione tra loro cambiò quando arrivò Pasqua e le tre donne ricevettero la visita dei parenti per trascorrere insieme quella festa.
I nonni di Astrid vivevano in campagna e, la bambina, approfittando del sole e della bella giornata andò a scorrazzare nel campo vicino. Stava inseguendo una farfalla quando, questa si posò su un fiore. La bambina stava per toccarla quando sentì qualcosa strisciarle vicino e sibilare.
S’immobilizzò, raggelata. Abbassando lo sguardo notò che era una vipera. La nonna le aveva insegnato a distinguerle, per questo lo sapeva. La lingua dell’animale le lambiva la caviglia a ogni sibilo.
Astrid restò immobile, spaventata. Ma non poté impedirsi di cominciare a tremare. Serrò le palpebre, preparandosi al peggio. Ma, prima che succedesse, sentì una ventata passarle accanto e poi la voce maschile che conosceva bene: «Adesso va tutto bene, puoi aprire gli occhi». Lei obbedì, seguì la direzione della voce e trovò il suo maestro in piedi che la guardava e la vipera non c’era più. La bambina scoppiò a piangere, si alzò e corse ad abbracciarlo. Lui si chinò e le pose le mani sulle scapole e l’altra spalla mormorando rassicurazioni. La scena cambiò di nuovo.
Adesso era estate. Eravate in un bosco sconosciuto e Astrid giocava con un aquilone mentre il suo maestro, poco distante la osservava. A un tratto la bambina volse la testa verso di lui e disse: «Non racconti più niente?»
«Vedo che non mi ascolti».
«Ma io ti ascolto sempre».
«Davvero? Dov’eravamo rimasti?» La sfidò bonariamente con un sorrisetto.
«Alla Prima Guerra Sacra, dove Atena e i primi Cavalieri combatterono contro Poseidone».
Ti prese un colpo solo a sentirla nominare. Quell’uomo gli stava narrando la storia del Santuario? Allora era da lì che provenivano tutti i suoi ricordi?
Avevi capito che non era una persona normale, ma così no! Chi era davvero quell’uomo? Un Saint? Poteva darsi. Altrimenti non ti spiegavi come mai ne parlasse con cognizione di causa. Come infatti si rivelò. «Poi che successe a quei ragazzi?» Chiese la bambina.
«Divennero i primi Saint di Atena». Ribatté l’uomo e tu sgranasti gli occhi. Allora era davvero un Saint. Ma tu li conoscevi tutti e negli anni dell’infanzia di Astrid tu eri già in servizio da un po’.
«Tu sei uno di loro?»
«Sì».
«Quale?»
«Io sono l’Ophiuchus». L’Ophiuchus? Non era possibile. L’Ophiuchus era Shaina. Ma questo qui allora chi era? Perché stava mentendo? Lo guardasti in faccia e vedesti che era sincero. Il Saint dell’Ophiuchus? Aspetta un attimo, l’unico Saint uomo dell’Ophiucus che conoscevi era… Trattenesti il fiato rumorosamente per lo stupore.
La bambina tirò giù l’aquilone e dichiarò, tutta entusiasta. «Voglio essere anch’io una di loro». “Astrid voleva essere una di noi?” Ti domandasti ancora più sconvolto.
L’uomo sorrise benevolo e declinò la sua richiesta dicendo: «Per diventarlo bisogna sottoporsi per anni a un duro addestramento mortale. Molti ci rimettono la vita nel tentativo».
La piccola gli abbracciò le gambe e prese a supplicarlo: «Ma io sono all’altezza, maestro, sono pronta per superare qualsiasi prova. Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego».
«Qualsiasi?» Domandò canzonandola dolcemente.
«Sì». Dichiarò lei risoluta staccandosi dalla sua gamba, tutta trepidante.
Per un momento temesti il peggio: gli addestramenti dei Saint non erano acqua di rose.
«Bene, allora va a prendere il libro delle vacanze e fai tutti gli esercizi». Decretò l’uomo puntando un dito in direzione del sentiero. Tu sospirasti di sollievo.
La piccola emise un lamento, poi tornò all’attacco: «Per favore. I compiti posso farli dopo. Per favore, per favore».
«L’hai detto tu, qualsiasi cosa, no? Allora va a studiare, poi, quando avrai finito i compiti vedremo di fare qualcosa».
Lei lo lasciò andare dopo avergli scoccato un’occhiataccia e si avviò al sentiero borbottando «Uffa», accompagnata dallo sguardo dell’adulto a braccia incrociate. «Ehi, l’aquilone». La richiamò.
«Lascia stare, tanto se lo dico alla tata ci pensa lei a recuperarlo». Ribatté la bambina cacciandosi le mani nelle tasche della salopette, mollando un calcio a un sasso.
La scena seguente vedesti Astrid e quell’uomo. Lui aveva le mani avanti e lei le sue strette in pugni come un piccolo pugile. L’altro si fermò subito e le disse di tirare fuori i pollici dal palmo, altrimenti se li sarebbe fratturati. La ragazzina eseguì immediatamente. Poi il maestro la istruì: «Concentra il peso nella parte del corpo, così, vedrai che sarà molto più potente. Hai capito?»
Astrid annuì e fece come gli aveva detto. 
«Bene, adesso colpisci».
La bambina obbedì ma l’uomo si scostò e lei, per lo slancio cascò a terra, sull’erba, sulla pancia. Dove scoppiò a piangere: «Cattivo, ti sei spostato!» Lo accusò rialzandosi a carponi. Il visetto paffuto bagnato di lacrime.
«Non ho mai detto che non l’avrei fatto». Si giustificò l’altro reprimendo un sorrisetto divertito.
La versione bambina della tua amica si mise seduta, con le mani a coprire il volto in lacrime. «Sei cattivo, non vale!» Continuò a frignare.
Vedesti questa scena ripetersi altre volte. Finché, un giorno, che Astrid indossava un vestito verde con i fiorellini gialli, non cascò di nuovo. «È inutile, sono una frana!» E stavolta, pianse disperata, quasi urlando. Il poveraccio, a disagio, si inginocchiò sul ginocchio destro e cercò di consolarla. Le aveva appena posato una mano sui capelli che lei smise di piangere e, rapidamente, gli mollò un pugno sotto la cintura. Facendolo piegare in due e gemere di dolore.
Per evitare di cascarle addosso, riuscì a voltarsi su un fianco e accasciarsi al suolo. Anche tu sibilasti tra i denti. Cavaliere o no, un colpo sotto la cintura è sempre un colpo sotto la cintura.
Lei sgranò gli occhi e domandò, preoccupata: «Maestro, stai bene? Ti ho fatto male?» 
«No, non è niente. Io e te dobbiamo fare un discorsetto sui colpi sleali e la lealtà». Disse poi con la voce parzialmente normale, quando si mise a sedere e si fu riavuto un po’.
La bambina si tamponò gli occhi con un palmo e tirò su con il naso: «D’accordo, ma stai bene?»
«Mai stato meglio». Mentì il poveraccio mentre tu soffrivi assieme a lui. Neanche Raki era stata così discola. La piccola gli posò le manine sulle spalle e cercò di guardarlo in volto.
«Allora adesso mi insegni a diventare un Saint come d’accordo?» Fece tutta gioiosa mentre alle sue spalle la voce maschile dello sfocato se la rideva divertito.
«Sì, va bene, dammi solo cinque minuti», la implorò con la faccia semi piantata in terra per evitare che lo vedesse sofferente. Anche se ti dava le spalle, riuscivi a intuire perfettamente la sua espressione dolorante. E, lei prese a esultare e balzare in aria tutta contenta riempiendo la campagna della sua risata argentina. Poi gettò le braccina al collo dell’altro, che si era quasi raddrizzato e, quasi lo buttò a terra, con il rischio di mollargli un altro colpo. Ma un secondo gemito di dolore di lui la fece staccare di botto come se si fosse scottata: «Ti ho fatto di nuovo male?» Chiese preoccupata con gli occhioni gialli sgranati.
L’altro scosse il capo. Lo sforzo di tenere un tono di voce normale ben evidente: «No, ora no».
Improvvisamente ci fu un boato e poi un vuoto.
La scena ci mise qualche minuto per riformarsi. Che cos’era successo? Stavolta, sempre lo stesso bosco, ma il cielo era coperto da un sottile strato di nubi bianche. Astrid, vestita con un canottiera viola con le spalline di perline colorate e pantaloncini giallo ocra, con un bastone in mano.
Il suo maestro inginocchiato di fronte a lei, che le spiegava il naginata. Anche lui con un bastone di legno in mano che aveva tanto l’aria di essere il manico di una scopa privo della saggina. A un certo punto, per spiegarle le mosse le disse: «Fa come faccio io». E, prese a muovere il bastone di fronte a sé, nello spiazzo tra i due, che era di circa due metri. La distanza ideale tra due combattenti. Astrid lo imitò rossa come un peperone.
Lui s’inginocchiò e mise l’arma alla propria sinistra. Lei lo imitò.
Odysseus pose la mano destra vicino la sommità del bastone e l’altra un po’ più indietro con una lieve torsione del busto.  Poi si alzarono in piedi, tenendolo alto con la mano all’altezza della vita. «Questo è il saluto».
Poi passarono ai movimenti basilari.
Dopo un po’, lei gli domandò, con la faccia ormai viola per la vergogna: «Ma ne sei proprio sicuro?» mentre cercava di imitare, come in uno specchio, i suoi movimenti.
Lui si sciolse dalla posa del joge buri (ossia il colpo verticale dall’alto verso il basso) e la piccola lo imitò, un po’rigida e sudata. «Lo stretching non va più bene?» Continuò. E, da quelle parole ne percepisti già tutto l’odio che provava per il riscaldamento. 
«Visto che sei ancora rigida come un tronco di legno non ho altra scelta». Sospirò il poveraccio.
Dovesti ammettere che questo Saint ci stava andando piuttosto leggero con lei. Alla sua età ne avevi buscate già tante, troppe che ne avevi perso il conto.  
Poi vedesti Astrid a otto anni con il grembiule e i capelli legati, nell’aula insegnanti, per aver pestato a sangue un ragazzino che aveva osato prenderla in giro. Lei aveva solo qualche graffio, mentre il bambino (decisamente più grosso e massiccio di lei, nonostante la giovane età) frignante, seduto accanto a lei, aveva la faccia tumefatta, gli mancavano i denti davanti ed esibiva un braccio parzialmente steccato. Invece la tua amica aveva solo qualche graffio e un’espressione trionfante.
Maestro e allieva si trovavano nella cucina della villa che avevi visto all’inizio. A un certo punto, la bambina si tagliò un dito con un coltellino. Le sue spalle furono scosse da un sussulto e trattenne un gemito di dolore tra i denti. Non era una ferita profonda, era solo un buchetto su cui si stava già formando una stilla rossa come un lampone. Tuttavia i suoi occhi gialli erano pieni di lacrime.
«Adesso, maestro?» Domandò con voce tremante.
«Adesso richiudilo come ti ho insegnato».
«Ma brucia».
«Lo so, però è un dolore buono, come quando la mamma ti toglie una spina da un dito». Spiegò lui e lei mosse la testa in un cenno d’assenso. «Forza, fa un bel respiro profondo e rigeneralo. Tu sei come me, ce la puoi fare».
La piccola annuì e chiuse gli occhi, concentrandosi. Il dito si illuminò di luce dorata e quando smise di brillare la ferita era scomparsa. 
Restasti di stucco, riconoscendo la tecnica di rigenerazione. “Aveva imparato a usare i suoi poteri già allora?”
La scena cambiò di nuovo. Vedesti la bambina di nove anni camminare accanto all’uomo, lo zainetto in spalla e la faccia imbronciata. A un certo punto alzò lo sguardo verso di lui e lo chiamò. «Maestro».
«Dimmi».
«Si può essere più cose insieme?»
«Che intendi con più cose insieme?»
«I miei amici a scuola mi prendono in giro perché sono sotto il segno dell’Ophiuco e dicono che invece io sono del Sagittario. Mamma mi da ragione mentre per il mio papà sono solo cavolate e poi dice che mi sto applicando molto meno in astronomia. Ma non posso dirgli che sto imparando questo da te. Non so più cosa fare». L’uomo si fermò e, dopo averci pensato un po’, le domandò: «Dimmi, Astrid, tu cosa sei?»
«Io? Sono una bambina». Rispose un po’spaesata, quando ne comprese il senso.
«E poi?»
«Sono… un essere umano».
«E per me?»
«La tua apprendista?» Tentò.
L’uomo annuì. «E per i tuoi maestri?» Domandò ancora.
«Un’alunna».
«E per tua nonna?»
«Sua nipote». Disse incerta, ma ancora ben lungi dal capire.
«Per tua mamma e tuo papà?»
«La loro bambina». Un’occhiata eloquente dell’altro la corresse: «Una figlia». 
Soddisfatto le domandò di nuovo: «E, per i tuoi compagni?»
«Un’amica?»
«Ecco, vedi quante cose sei?»
Astrid ci pensò un po’su prima di illuminarsi e annuire. «Allora, posso essere sia un Sagittario sia un Serpentario?»
«Certo che puoi, piccolina».
Adesso Astrid aveva dieci anni ed era seduta nella posizione del loto. Tra le mani rifulgevano brillii fosforescenti, ma, non appena aprì gli occhi, scomparvero. «Non ci riesco». 
«Proviamo di nuovo». Disse l’uomo, paziente.
Proprio in quel momento un gruppo di Skeleton uscì dalla boscaglia e si lanciò addosso alla bambina. “Skeleton? Cosa ci fanno qui, nel mondo dei vivi? Un momento, ma quel mausoleo è… Non è possibile!” Quello era il mausoleo del Castello degli Heinstein in Germania! Allora era lì che Astrid trascorreva le vacanze?  
«Astrid!» Gridasti. Ma lei non poteva sentirti. Provò persino a usare i suoi poteri per difendersi ma erano talmente flebili che i soldati di Hades non ci fecero neanche caso. La piccola andò nel pallone e la luce nera che aveva cominciato a balenare sulla sua pelle si spense. “Cos’è quella roba?” Ti domandasti.
I soldati l’attaccarono e tu spalancasti gli occhi: «Astrid!» Urlasti di nuovo. Facesti per lanciarti in suo soccorso ma il suo maestro fu più veloce e la protesse. I suoi occhi divennero gialli con la pupilla verticale, come quelli di un serpente.
Proprio allora Astrid venne acciuffata per la collottola e sollevata in aria da uno Skeleton. «E, tu dove scappi?»
«No, mettimi giù! No! No!»
La bambina lo guardò con occhi pieni di lacrime mentre l’uomo percepiva l’avvicinarsi di un Cosmo. Vi giraste entrambi e vedeste un Cosmo violaceo, pregno di una maledizione. Poi, una Gold Cloth comparve dal nulla che rivestì la figura del maestro di Astrid da capo a piedi. «Un Gold Saint!» Esclamò uno dei nemici, sorpreso.
«Vattene tu, se non vuoi fare la sua stessa fine!» Minacciò un altro.
«Restituitemi la mia allieva e io me ne andrò». Negoziò il Saint Maledetto.
«Questa mocciosa ha violato i sacri confini, deve essere punita».
«No! No, maestro!» Implorò Astrid dimenandosi per liberarsi dalla presa del soldato. Il Saint li guardò e cercò di negoziare la sua liberazione ma gli Skeleton non vollero ascoltarlo, così disse: «Dunque non avete intenzione di lasciarla andare? Devo dedurre che la vita vi stia così poco a cuore?»
Affrontò i nemici e li sconfisse poi sopraggiunse una voce femminile: «Astrid!»
«Tata!» Una donna dai capelli neri con le iridi di un dolce viola chiaro e un vestito bianco sbucò dai cespugli e la raggiunse trafelata. “Chi è, quella?” Ti domandasti mentre la donna l’abbracciava e la prendeva in braccio. «Ti ho detto cento volte di non allontanarti che è pericoloso!»
«Scusa, scusa». Piagnucolò, il volto nascosto nella sua spalla. 
«Non fa niente, l’importante è che tu stia bene». Poi la bambina si rivolse al (sgranasti nuovamente gli occhi) Gold Saint Maledetto d’Ophiuchus! Riconoscevi l’Armatura perché l’avevi vista sui libri di storia alla biblioteca della Palestra del Santuario durante il tuo soggiorno in Grecia, prima della tua fuga in Jamir. Quello era il Leggendario Odysseus? Cosa ci faceva lì? Non era morto e sepolto? Come avevi fatto a non arrivarci prima?
Astrid si accorse che l’uomo se ne stava andando e urlò, tendendo una manina verso di lui: «Aspetta! Aspetta! Maestro!»
«É tutto passato, Astrid. È tutto passato». La bambina però continuava a piangere a dirotto tra le sue braccia.
La scena sfumò e si riformò. Era notte e Astrid correva a per di fiato per la boscaglia della proprietà della villa, illuminandosi la via con una torcia. «Sei sicuro che sia qui, Snakye?» Domandò guardando per un attimo in terra, tra l’erba. Ove vedesti un serpente strisciare rapidamente accanto a lei.
«Sicurissimo, Astrid. L’ultima volta che l’ho veduto si stava dirigendo da queste parti».
«Altolà!» Esclamò una voce maschile e i due si fermarono sussultando.
Ti guardasti intorno anche tu ma non vedesti niente. Astrid puntò la pila a terra e illuminò le spire di un serpente che si alzò come un cobra e sibilò: «Non vi è concesso procedere oltre».
«Samael!» Esclamò Astrid riconoscendolo, «Dov’è? Dimmi dov’è, ti prego, potrebbe essere nei guai!»
«Anche se fosse non permetteremo mai che voi, la sua sacra allieva, vi cacciate nei guai per salvare lui. Tornatevene indietro, il Gold Saint di Ophiuchus è capace di occuparsi da solo della faccenda».
Ma la bambina si impuntò: «No! Se tu sei qui significa che lui è vicino! Dimmi dov’è!» Ordinò.
Si trovava in una cantina e l’uomo aveva le braccia fasciate. Astrid osservava quelle bende preoccupata, ma cercando di non piangere a dirotto. «Sei venuta a cercarmi lo stesso, perché non hai dato retta a Samael?»
«Ero preoccupata per te, maestro. Ma, tu sanguini!» Esclamò accennando alle numerose fasciature sporche sulle braccia, la testa e il collo del maestro.
«Non preoccuparti per me, le bende sono solo sporche, è solo che non ho ancora avuto occasione di cambiarle e di farmi un bagno. Ricordi cosa ti ho sempre detto? Possiamo rigenerarci all’infinito se lo desideriamo, ma questa non è una buona scusa per cominciare a tagliarsi. D’accordo?»
Lei lo guardò spaventata alla sola idea. «No, no!»
L’uomo sorrise e le scompigliò i capelli con una mano. «Su, da brava, adesso lasciami riposare».      
La scena sfumò per ricomporsi di nuovo e la vedesti passeggiare nello stesso grandissimo giardino, in compagnia del capellone. Era cresciuta, dimostrava già dieci anni e, quella persona di cui tu non riuscivi a scorgere il viso le stava parlando del mito di Asclepio. Notasti che le braccia di Astrid erano completamente incerottate.
«C’è qualcosa che vuoi dirmi, Astrid?»
«Mia mamma non vuole che io ti parli, dice che devo starti lontano, che tu vuoi farmi del male».
«Tua madre dice questo?» Lei si fermò e lo guardò, stava per mettersi a piangere: «Ti prego, dimmi che mia mamma si sbaglia». Odysseus (di nuovo nella sua Cloth) stava combattendo contro alcuni Dryad quando una di queste riuscì ad afferrare Astrid che prese a gridare per il terrore.
Odysseus si girò, tese una mano verso di lei e gridò: «Non toccarla!»
La Dryad rise e lo provocò: «Vediamo se hai il coraggio di colpire la tua apprendista, Cavaliere».
«Non dovresti sottovalutare mai i tuoi avversari, mostro, potrebbe essere il tuo errore più grande». Gli occhi del Saint si accesero di giallo, le pupille si assottigliarono fino a diventare due tagli verticali e gli occhi si sottolinearono di una minacciosa riga arancione.
Il cielo si fece tempestoso e i suoi capelli presero ad agitarsi esattamente come le serpi della Gorgone Medusa.
La Dryad smise di ridere e si guardò attorno, guardinga e spaventata. Poi riportò l’attenzione sul Saint e, così facendo, privò la nemica dei cinque sensi per mezzo dell’Anesthesia.
Astrid cadde a terra e lui urlò: «Corri via!» per scappare via mentre l’uomo dava il colpo di grazia alla nemica. Ma, presto si ritrovò circondato da altri Ghost Saint e se ne liberò evocando decine e decine di serpenti che morsero e uccisero i nemici.
Alla fine, in piedi restò soltanto lui. Il Cosmo violaceo che danzava attorno alla sua figura.
Poi, mentre i lamenti dei nemici si alzavano dal suolo, alzò entrambe le braccia e, tramite la forza immensa del suo Cosmo riuscì ad aprire un portale sulla dimensione delle moire. E da lì, fuoriuscirono delle catene dorate che si diressero in massa verso gli avversari circondati da serpenti.
«Maestro, basta!» Urlò lei ma l’altro non l’ascoltò. «Basta!» Urlò di nuovo a pieni polmoni e i serpenti cominciarono a sibilare, come se qualcosa li stesse infastidendo.
Il Cavaliere non se ne accorse. Ma tu sì, con tua grande sorpresa, vedesti Astrid. I capelli sciolti agitati dalla brezza e i vestiti sporchi che lo chiamava. Poi, nella poca luce tutto attorno a loro, cominciò a delinearsi una fiamma nera attorno alla personcina di Astrid. Ma era talmente rapida che non riuscivi a capire cosa fosse. Fatto sta che i serpenti cominciarono ad arretrare. Quei pochi che provavano ad attaccare subito si ritraevano come scottati.
Lei spalancò le braccia e il cerchio attorno a lei si fece ancora più ampio fino a inglobare quasi tutti i nemici. Improvvisamente dal cielo cominciarono a manifestarsi i bagliori fosforescenti i quali, fluttuando, andarono a impedire alle catene di raggiungere le vittime agonizzanti. Dietro Astrid vedesti comparire un uccello rapace che non faceva parte delle vostre costellazioni. 
Il Cavaliere si accorse finalmente che qualcosa non andava e urlò alla fonte del disturbo di farsi vedere. Proprio allora Astrid saltò fuori del suo nascondiglio e urlò: «Maestro!»
L’uomo si volse verso di lei e strabuzzò gli occhi, spaventato nel realizzare cosa stava per fare. Ritrasse il bastone di Asclepius e la rimbrottò: «Astrid! Vattene via, è pericoloso, non puoi stare qui!»
«Adesso basta! Maestro, basta! Basta!» Urlò invece la bambina, i piccoli pugni contratti e le braccia rigide lungo i fianchi. Poi gli afferrò una mano e cercò di trascinarlo in direzione della villa: «Smettila, maestro! Andiamo via, torniamo a casa!»
L’uomo ritrasse la mano con uno strattone e le ordinò: «Vai via, Astrid!»
«Non senza di te!» Ribatté ostinata afferrandogli il mantello sbrindellato. L’uomo fece per replicare quando una catena si gettò addosso a lei. La bambina non fece in tempo a schivarla.
«Attenta!» Urlasti. Il Gold Saint bloccò il suo colpo per rispedirlo addosso a un Ghost Saint che andava rialzandosi, il quale finì trafitto. Appena fatta la sua vittima, le catene si ritrassero e il portale si richiuse.
Improvvisamente Astrid parve rendersi conto di ciò che stava succedendo e andò nel pallone.
I bagliori e le ombre svanirono, mentre lei cadeva a terra, sul prato. La faccia contratta in una smorfia di sofferenza e tossiva incessantemente. Odysseus evocò rapidamente la Fiamma dell’Ade per fare piazza pulita dei nemici. Dietro di lui Astrid cominciò ad avere una crisi di panico.
Il Saint si girò e le diede un colpo di taglio con la mano tra capo e collo che la tramortì, poi l’afferrò prima che cadesse a terra. Le posò una mano sul petto e il respiro della ragazzina si regolò istantaneamente. Infine le guarì le ferite, la prese in braccio e la portò vicina alla villa.
L’adagiò ai piedi di un castagno e restò a contemplarla per un po’, mentre cercava qualcosa da dirle: «Ho fatto male a coinvolgerti nel mio mondo. Credevo che standoti vicino e insegnarti a usare la tua forza potesse aiutarti, potesse darti una solida base cui aggrapparti e sostenerti, per scongiurare la profezia, ma ho sbagliato tutto. Le tue lacrime nere ne sono la prova». Si scusò carezzandole la fronte. «D’ora in poi, sarà meglio per te dimenticarmi. Addio e che Atena ti protegga». Mormorò, ma si vedeva che dispiaceva anche a lui abbandonarla.
Poi si alzò e se ne andò, passandoti accanto.
Tu restasti a guardare la scena allibito per due motivi. Il primo che non avresti mai pensato che una tale blasfemia potesse uscire da quella bocca. Il secondo, che i suoi occhi erano ancora gialli.  
Era di nuovo notte e Astrid correva affannata per il bosco. «Maestro! Maestro dove sei?» Urlava. Torcia elettrica alla mano, per trovarlo.   
«Astrid?» Le domandasti, confuso, vedendola così. A differenza delle altre volte, stavolta lei ti udì e fece un salto per lo spavento. Poi si volse e ti vide.
Si stava svegliando.
Allora le andasti incontro, le mani tese verso di lei. «É tutto a posto, Astrid. Va  tutto bene».  Cercasti di dirle.
«Kiki!» Esclamò, riconoscendoti.
«Astrid».
«Kiki!» Gridò e ti corse incontro tendendo le mani verso di te, crescendo a ogni passo fino a raggiungere di nuovo l’età che le conoscevi. Poi ti gettò le braccia al collo e l’impatto del suo corpo sul suo fu molto più realistico di quanto ti aspettassi. Sentivi il suo corpo adulto premuto contro il tuo, i suoi gemiti di pianto al tuo orecchio sinistro e le lacrime di lei bagnarti la spalla.
Apristi gli occhi e vedesti la tua amica osservarti, con la faccia rigata di lacrime. Poi
si discostò, per guardarti in faccia, continuando ad avvolgerti in un abbraccio. Trasalisti per la sorpresa nel ritrovartela così vicino.
Arrossisti come un peperone. 
«Ho ricordato. Io ho ricordato». Gemette sorridendo. Il suo sguardo era mutato. Non c’era più quell’insicurezza e quell’indecisione di fondo che le conoscevi. La sua fragilità si era attenuata, adesso, dalla consapevolezza e dall’incredulità.  
«Ricordato cosa?» Domandasti mentre ricambiavi la stretta. Le tue braccia ti parvero pesanti come il piombo, o forse era solo quel poco d’imbarazzo che ti restava a fartele sentire così. In cuor tuo lo sapevi già. Avevi pregato che fosse solo un sogno. Che Milo si fosse sbagliato. Ma non era stato così. Aveva ragione e tu ti eri aggrappato alla speranza che si sbagliasse con tutte le tue forze. Come ora ti aggrappavi a lei. Come se temessi che potesse esserti strappata via da un momento all’altro.
«Tutto, io ho ricordato tutto».
«Tutto? Che significa tutto?» Domandasti confuso. Tu pensavi che fosse un sogno, anzi, no, speravi con tutto te stesso che fosse un sogno.
«Il perché conosco la naginata, il Cosmo, perché conosco così bene il Grande Tempio, perché conosco le vostre leggende e la vostra storia. La Dark Resurrection, l’Anesthesia, la Legge del Risveglio, l’Hypnotherapy e… e… tutto il resto. Snakye, i Driadi di Eris e gli Specter di Hades. L’uomo che mi ha aperto la via della conoscenza, il mio maestro». Elencò lei staccandosi da te e tamponandosi un occhio con una mano, accompagnando il gesto con una risatina nervosa. L’altra ancora sulla tua spalla. «Come ho potuto essere così cieca? Come ho potuto dimenticarmene? Come ho potuto dimenticare chi sono?» Tirò su col naso ben poco educatamente.
Tu non avevi la più pallida idea di cosa fare. Ma, da come ne parlava, dal rispetto che traspariva dalla sua voce, ne sentisti la stima e il profondo affetto e la gioia per averlo ritrovato, ritrovasti lo stesso tono che usavi tu per riferirti al tuo maestro. 
«Era così facile, così logico, ha senso». Disse. Sì, un senso ce l’aveva. Il senso era che adesso sapevi il suo segreto più grande e, ora, sapevi anche che i vostri sospetti sull’intruso erano fondati. Aiolia aveva avuto ragione fin dall’inizio senza saperlo.
E, ora che era rientrata in possesso dei suoi ricordi, Astrid ti sembrò un’estranea. 
«Di cosa stai parlando?» Le chiedesti a quel punto, togliendo le mani dalle sue scapole. 
La guardasti in faccia e vedesti che stava cercando di trovare le parole giuste per spiegare tutto quello che aveva appena ricordato e vissuto «Io sono l’apprendista del Gold Saint d’Ophiuchus». Dichiarò stupefatta, come se non ci credesse neanche lei, guardandoti dritto negli occhi.

   
 
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