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Autore: SirioR98    08/01/2019    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e bentornati! Il brano di oggi è The Walker, di Christine and the Queens. Nonostante il nome, non si tratta di un gruppo, ma di un progetto solista. Ebbene sì, Christine and the Queens è il nome d'arte della francese Héloïse Letissier, anche conosciuta semplicemente come Chris. The Walker è il singolo del suo nuovo album, Chris, uscito insieme a un drastico cambiamento nell'aspetto. La cantante androgina, nel suo disco, propone sia la versione francese che quella inglese di quasi tutte le canzoni, per un sound generale che ricorda molto il Michael Jackson di Dangerous, eccezion fatta per questa canzone.
Come sempre, vi auguro una buona lettura e vi lascio a questo cameo speciale.


Capitolo 16
 
 
Quando il sole spunta da dietro l'edificio della stazione, io sto già mettendo piede sul primo bus della mattina per Evanston, Wyoming. Sono le sette e mezza.
Dopo essere scappato di casa, ho pensato di nascondermi fino al mattino tra la folla che usciva dall'Area 51,il locale notturno vicino Pioneer Park. Lo so, non un grande nascondiglio, visto e considerato che non ci sarei nemmeno potuto entrare nel caso fossero venuti a cercarmi là, però volevo rimanere in zona, così da non perdere il bus.
In queste ore, ho pensato bene alla mia meta: Las Vegas, nel Nevada, è sempre stata una delle città messe in considerazione per una fuga… proprio per questo l'ho eliminata subito. Alex lo sa benissimo, l'avevamo scelta insieme.
Di rimanere nello Utah non se ne parla: qui mi conoscono tutti a causa di quei video. Vedendo come si è sviluppata la situazione, sarebbe stato meglio se, quel giorno, avessi buttato a terra il cellulare di Alex.
No, mi serviva una città a cui non avevo mai pensato, che fosse in un altro Stato, facile e veloce da raggiungere. Quindi, quale scelta migliore di Evanston, la prima città fuori dallo Utah, a circa un'ora e mezza di strada, con un bus in partenza alle prime ore del mattino?
L'uomo alla cassa stava per riconoscermi, fortuna che ho comprato il biglietto all'apertura, quando riuscivo a intravedere ancora le pieghe del cuscino sulla sua faccia.
Il bus va in direzione Cheyenne, ma fa una fermata a Evanston. Purtroppo per me, e per la mia asocialità, questo vuol dire posti quasi pieni.
Sono costretto a sedermi accanto a un ragazzo, messo scomposto con le gambe poggiate al finestrino. Si aggiusta immediatamente per farmi posto, riprendendo il suo zaino e posandolo sotto il sedile.
Non faccio in tempo a sedermi, che noto due figure fin troppo familiari passare accanto al bus. Mi calo quanto più possibile per non essere visto dal basso, attirando l'attenzione del ragazzo.
Questo osserva confuso prima me, poi i due uomini fuori dal finestrino, quindi poggia la schiena sul vetro, gettando un'ombra fino ai sedili adiacenti.
Pur essendo abbastanza esile, riesce a occupare la superficie giusta per nascondermi.
“Stai comodo là sotto?” Domanda con un sorriso.
“Comodissimo, grazie.” Rispondo sarcastico, cercando di non piegare troppo il collo.
“Puoi anche uscire da lì, sai?”
Scuoto un dito.
“Preferisco stare così per…”
L'autobus parte e il ragazzo alza un sopracciglio. Aspetto che il mezzo giri l'angolo, prima di sistemarmi sul sedile.
“Meglio?” Domanda, sedendosi composto.
Annuisco, sorridendo imbarazzato.
“Sta tranquillo. Non chiedo, sono affari tuoi.” Afferma, prendendo un libro dallo zaino e aprendolo.
“Perché mi hai aiutato, allora?”
Il ragazzo si stringe nelle spalle.
“Perché volevo.” È la sua risposta.
Non approfondisce, semplicemente si mette a leggere.
“Grazie.” Sussurro.
Annuisce, facendomi capire di aver sentito.
Il mio telefono inizia a squillare. Chiamata in arrivo da Winterfield.
Rifiuto la chiamata e cerco una distrazione.
“Scusa se te lo chiedo…” Mi giro verso di lui, il cellulare abbandonato sulle gambe.
“Dimmi pure.” Risponde, voltando la pagina del suo libro.
“Tu perché stai lasciando lo Utah?” Chiedo senza mezzi termini.
Non so da dove provenga questa domanda, se pura curiosità o un moto di cortesia. Dovremo passare un paio di ore seduti l'uno accanto all'altro, tanto vale fare conversazione.
“Vado all’Università del Wyoming.” Il ragazzo non si scompone, continua a leggere il suo volume, che solo ora noto essere un libro di testo.
Chi leggerebbe di propria volontà un mattone scritto a caratteri minuscoli, fornito di note a fondo pagina e appunti scritti a matita di lato? Per non contare le frasi sottolineate in evidenziatore verde. Va bene, potrebbe anche essere una storia interessante, uno di quei romanzi russi di autori dai nomi ugualmente impronunciabili… ma chiunque evidenzi un libro da leggere, non meriterebbe di averlo a portata di mano.
Poi sarei io il criminale?
“Davvero? Come mai non sei rimasto a Salt Lake City?”
Il ragazzo scrolla le spalle.
“Costava meno e… non sono di qua.” Ribatte, aggiustandosi sul sedile per illuminare meglio la pagina che sta leggendo.
“Perché eri a Salt Lake City?” Domando, preso in contropiede.
“Visitavo parenti.” Risponde, noncurante del mio tono inquisitorio.
“Ah… E poi, non pensi che risparmiare sulla tua educazione sia controproducente? Cosa studi?”
“Filosofia.”
Serro le labbra, cercando di non farmi scappare un commento poco gentile.
“… forse hai fatto bene a risparmiare.”
Trattenermi non è mai stato il mio forte.
Il ragazzo mette il segnalibro fra le pagine e chiude il volume, voltandosi con tutto il busto a guardarmi.
“Stai dicendo che è un vicolo cieco, che la mia laurea non mi darà da vivere?” Domanda, alzando un sopracciglio.
Come fa un solo muscolo a essere così espressivo?
“… no?” Tento, allontanandomi impercettibilmente da lui.
“È una domanda o una risposta?” Rincara, alzando ancora di più, se possibile, quella striscia di ansia.
“Quale opzione mi può salvare da una situazione imbarazzante?” Chiedo tutto d'un fiato.
Abbassa leggermente il capo, guardandomi dal basso verso l'alto.
Non so se l'aria inquietante sia causata dal sorriso, dal sopracciglio o dalla posizione della testa. Insomma… che scelga un solo elemento!
“Nessuna delle due, tanto vale essere sinceri.”
Esito ancora, cercando di capire se sia una trappola.
“Allora: non proprio con quelle esatte parole, ma il senso è quello. Ci rimani male se lo penso?”
Il ragazzo si ricompone e alza le spalle.
“Perché? Hai perfettamente ragione.” Risponde, riaprendo il libro.
Le sue parole mi spiazzano.
“Aspetta! Quindi, se sai di non avere possibilità di lavoro, perché pagare quel corso di studi? Che ne guadagni?” Domando allibito, squadrandolo dalla testa ai piedi.
“La capacità di pensare.”
… non ho capito.
“Come, scusa? In che senso?” Chiedo confuso.
“Nel senso che le persone hanno perso l'abilità di pensare. Crede di saperlo fare, ma in realtà gratta solo la superficie. Il nostro cervello è anestetizzato, siamo così abituati ad avere tutte le risposte subito, che non proviamo nemmeno l'impulso di arrivarci con le nostre forze. Abbiamo dimenticato come si pensa,  quindi ho deciso di impararlo da capo. È più facile di quanto si creda, in realtà, basta riservarsi qualche minuto per farlo. Di base, tuttavia, non abbiamo il tempo né la voglia di fare neanche quello. L'uomo medio moderno non sa più pensare e nemmeno ne ha voglia.”
Mentre parla, continua a gesticolare con il libro, come se quelle pagine possano dare enfasi al suo discorso. Mi perdo a guardare le sue mani agitarsi di qua e di là, smettendo di ascoltare a metà invettiva.
Quando finisce di parlare, gli rivolgo uno sguardo smarrito per qualche secondo.
“Non ti seguo.” Ammetto alla fine, serio in viso.
Il ragazzo stringe le labbra, come se le mie parole validassero il suo pensiero.
“Appunto.” Ribatte secco, tornando a leggere il suo libro.
Fatemi capire: questo giovane uomo sta pagando migliaia di dollari per seguire un corso di studi che sa non avere sbocco professionale?
Questo è di famiglia ricca, non c'è altra spiegazione. Scommetto che i suoi genitori possiedono un'attività a cui lui potrà prendere parte. Vedo già una scrivania in mogano con il suo nome, che ancora non conosco,
stampato in lettere dorate sopra una placca.
Quanto dev’essere ricca una persona per sprecare i propri soldi in questo modo?
“Tu perché te ne vai dallo Utah?” Mi domanda senza alzare gli occhi dalle pagine, riportandomi alla realtà.
Impiego qualche secondo a formulare una risposta che non le faccia chiamare la polizia. Se la prima persona che incontro durante la mia fuga scoprisse che sono un fuggitivo, penso che al riformatorio mi prenderebbero in giro fino al mio rilascio.
E facendomi scoprire si perderebbe il senso di questa mia decisione forse non ben ponderata: non farmi arrestare.
Meglio rimanere sul vago.
“Devo.” Rispondo, sperando capisca che non sono in vena di approfondire.
Il ragazzo sorride, spostando lo sguardo su di me.
“Cosa devi fare di così importante da avere un tono tanto grave?” Mi domanda, con un accenno di giocosa presa in giro.
Mi mordo la guancia. O meglio, quel pezzo di pelle che collega l'angolo delle labbra alla guancia, che sono sicuro abbia un nome scientifico di nessun interesse pratico, se non spiegare quale parte della mia bocca ho deciso oggi di torturare.
“Andarmene. Devo abbandonare lo Utah.” Replico in un sussurro, guardando il cellulare in grembo.
“Devi o vuoi?”
Tre parole formano una domanda semplice, implicano però una risposta articolata che non sono disposto a dare.
Devo.” Enfatizzo il verbo come se l'avessi detto in corsivo.
Il ragazzo ridacchia alla mia serietà.
“E chi l'ha stabilito? Sei stato esiliato?”
“No…”
Non proprio.
Fa nuovamente spallucce.
“Allora hai scelto di andartene.”
Il mio cellulare vibra e s’illumina, mostrando il blocca schermo: una foto di me e Alex spalla contro spalla, che aveva scattato Audrie con il suo telefonino. Mi è arrivato un messaggio, stanno cercando di contattarmi su messenger, visto che non rispondo alle chiamate.
“No, me ne devo andare. Non posso rimanere nello Utah.”
Il ragazzo non ride più. Mi squadra e scuote la testa, come se con un'occhiata avesse capito vita, morte e miracoli. O reati, nel mio caso.
“Hai fatto qualcosa che non dovevi fare, vero?” Mormora, ancora con un sorriso comprensivo nascosto dietro le iridi.
Lentamente, abbasso lo sguardo e faccio spallucce.
Il cellulare vibra e s'illumina nuovamente. Forse dovrei spegnerlo.
“E la tua soluzione è scappare. Stai scappando anche da quella persona?” Domanda, indicando il cellulare.
Blocco il dispositivo, oscurando il volto di Alex.
“No. Quella è stata una separazione forzata… è complicato.” Ribatto vago, posando il cellulare in tasca.
“È complicato solo se tu decidi che lo sia.” Replica con il sorriso di chi crede profondamente in quello che dice.
“Chi è quella persona?”
Scuoto la testa, guardando fuori dal finestrino.
“Qualcuno a cui tengo. Ormai fa parte del mio passato.”
Il paesaggio montagnoso ha preso il posto degli edifici. Questa è l'attrazione migliore dello Utah, a mio avviso. Anche perché non c’è tanto altro da fare, oltre a osservare quella parte del Grand Canyon a est e le montagne nel resto del territorio.
O sei un amante della natura, o un fervente religioso… o sei solo di passaggio. Ecco le tre categorie di turisti che ho avuto il piacere d'incontrare in questa mia breve esistenza.
“Ne sei sicuro?”
Alzo le spalle, tornando in quel bus poco illuminato.
“Credo. Non lo so… spero di sbagliarmi.”
“Se hai ancora la sua foto sul cellulare, non pensi faccia parte in qualche modo del tuo presente?”
Mi stringo nelle spalle a questa sua osservazione che presenta, ancora una volta, un cenno di filosofia. Quando si parla di deformazione professionale…
“Non proprio. Almeno, non come vorrei. Però, ormai, questa è la realtà, me ne devo fare una ragione e andare avanti.”

“Non è incredibile?”
“Cosa?”
Rimuovo l'auricolare destro, in attesa che il ragazzo ripeta cos'ha detto.
Poco dopo la nostra breve, ma intensa, conversazione, ho deciso di riposarmi ascoltando un po' di musica. Telefono ovviamente messo in modalità aereo, così da non essere rintracciabile, e musica rigorosamente scaricata, perché i soldi non crescono sugli alberi.
“La natura umana, dico. La nostra capacità innata di adattarci a quasi ogni situazione è incredibile.” Mentre parla, guarda attentamente fuori dal finestrino.
Noto con piacere di non riconoscere il paesaggio: a destra e a sinistra vedo solo campagna, dobbiamo essere già entrati nel Wyoming.
“Già. Ma credo sia comune a tutti gli animali.”
Il mio commento lo fa girare.
“Davvero?” Chiede pensieroso.
Annuisco.
“Ah. Allora la natura è formidabile. Insomma, cosa ci spinge ad andare avanti?”
Aggrotto le sopracciglia, sorpreso che non sappia la risposta.
“Istinto di sopravvivenza.” Spiego, cercando di non sottolineare l'ovvietà.
“E da dove viene?” Ribatte lui, esigendo qualcosa di più profondo che francamente non ho voglia di trovare.
I discorsi filosofici sull'esistenza e la realtà non sono il mio forte. Ora come ora, anche il solo pensiero mi infastidisce.
“Non lo so. Penso che sia una di quelle cose che esiste e basta.”
Il ragazzo, non soddisfatto della risposta, alza gli occhi al cielo.
“Eppure, deve avere un'origine! La voglia di vivere? Di perpetuare il nostro patrimonio genetico? Non riesco a capirlo.”
Mi massaggio la tempia, provando a rimettermi l'auricolare.
“Non so nemmeno come tu sia arrivato a un pensiero del genere…”
E onestamente non m'interessa, però questo lo tengo per me.
“Stavo pensando a quello di cui abbiamo discusso prima.” Spiega, tornando a guardare il paesaggio.
“Cosa c'entra con quello che stavano dicendo?” Domando stranito, non trovando la connessione logica.
“C'entra. C'entra eccome. La nostra capacità di andare avanti ci porta a cambiare il significato di tutto ciò che esiste. Lo stesso avvenimento, vissuto dalla stessa persona con due atteggiamenti diversi, risulterà fondamentalmente diverso.”
“Non penso fondamentalmente sia l'aggettivo giusto.” Mormoro tra me e me senza pensare.
“Sì, invece. Fondamentalmente, perché muta nell'essenza.”
Sbuffo. Ormai mi ha trascinato di forza dentro il discorso, tanto vale difendere la mia posizione.
“Ma l'essenza non può mutare.”
“Ti dico che può. Siamo noi a definire l'essenza di un avvenimento. Lo stesso accaduto ha tante essenze quante persone lo vivono. E se capitasse una seconda volta, ne avrebbe altrettanti diversi, perché tutto è in mutamento.” Controbatte argomentando.
È questo che si prova nelle gare di dibattito? Non lo so, non vi ho mai partecipato.
“Secondo questa logica, allora, l'oggettività non esisterebbe.”
“L'oggettività è un costrutto umano. Nulla è puramente oggettivo, può rispondere solo a caratteristiche condivise da un gruppo di persone, ma nulla più. L'esistenza a cui siamo abituati è solo un artificio di una creatura a cui servono regole e principi per vivere tranquillamente. Ti pare che gli animali si interroghino sulla natura dell’oggettività quando cercano cibo?”
Ok, questa l'ha letta dal libro che ha in grembo.
“Mi stai facendo venire il mal di testa. È necessaria tutta questa filosofia?” Chiedo, tornando a massaggiarmi le tempie.
“La filosofia è sempre necessaria. Non avrà finalità immediatamente pratiche, ma interrogarci è ciò che ci distingue dal resto degli esseri viventi,  insieme all'immaginazione e alla capacità creativa, che non sono sinonimi. È questa non è filosofia, ma sociologia.”
“Perché, c’è differenza?” Domando confuso.
Ad essere sincero, è la prima volta che sento parlare di sociologia.
Il ragazzo si ferma un attimo a pensare. Un suo sguardo mi fa capire che ha raggiunto una conclusione piacevole.
“No, immagino di no.” Risponde sorridendo, senza spiegare il perché di quel sorriso che definirei affettuoso, carico di tenerezza, come se avesse inteso la mia ignoranza quale visione semplicistica.
“Comunque, noi non definiamo l'essenza di qualcosa, ma il suo significato.” Metto in chiaro, grattandomi la nuca a disagio.
Il suo sorriso si allarga ancor di più.
“Perché, c’è differenza?” Domanda con una risata negli occhi.
Mi stringo nelle spalle, pensandoci bene.
“No, immagino di no.”
Solo quando il silenzio cala fra noi mi accorgo che la musica nelle cuffie è andata avanti. Sblocco il cellulare per tornare alla canzone che stavo ascoltando prima di riprendere a parlare.
“Quella foto sul tuo cellulare…” Inizia lui, guardando il dispositivo.
“Il mio blocca schermo?” Specifico, premendo il simbolo ‘pausa'.
“Sì. Che significato ha per te?”
Guardo ancora una volta il volto di Alex.
“Abbandono.” Rispondo in un sussurro.
“E che significato aveva prima?”
Indugio ancora qualche secondo nella nostalgia, nel ricordo di quella giornata e delle emozioni che provavo. Sembra passata un'eternità.
“Famiglia.”
“E che significato avrà domani?”
Stringo le labbra, guardando i sorrisi in bianco e nero.
“Siamo noi a scegliere cosa certe foto rappresentino. Non lasciare che domani la risposta sia uguale a oggi, fai la scelta giusta, non è mai troppo tardi.”
Il ragazzo riapre il libro, lasciandomi con questo pensiero su cui rimuginare.

 
  
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