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Autore: pattydcm    09/01/2019    2 recensioni
Sherlock si risveglia ferito in un luogo sconosciuto. Si rende conto ben presto che colei che lo ha tratto in salvo non è del tutto sana di mente. Dovrà far fronte ai modi bruschi e violenti di lei e tentare di sopravvivere ai suoi sbalzi d'umore e alle sue differenti personalità. Nessuno sa dove si trovi. Può solo sperare che qualcuno si attivi per cercarlo. Chiunque, ma non John Watson. Del dottore, infatti, non vuole saperne più nulla...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Buonasera a tutti!
Ok, ok è già la seconda volta che vi dico ‘ci vediamo domenica’ e poi, a tradimento, posto un altro pezzo. Vogliatemi bene lo stesso, però, soprattutto oggi che compio un anno qui su EFP!
Quattro mesi esatti dopo essermi iscritta, ho postato il primo capitolo di ‘Hasta la verdad, siempre!’ (il numero 9 deve essere importante nella mia vita, perché me lo ritrovo spesso associato agli eventi importanti….), long che mi ha dato grandi soddisfazioni! Come vi dicevo, questa breve storia che sto pubblicando mi è stata utile in un momento di blocco durante la stesura della long. Mi è sembrato giusto, quindi, regalarvi per festeggiare questo anno insieme quello che è il capitolo, o meglio la giornata, che mi è piaciuto di più scrivere. Chi di voi ha letto la long ci troverà delle similitudini e spero che questo non vi appesantisca la lettura. A mio avviso, però, benchè nasca dalla costola di un blocco dello scrittore per una storia più grande e complessa (decisamente più complessa!!), questa petit è di un genere e di un’atmosfera del tutto diversi e che a me piace un sacco! Spero piaccia anche a voi.
È stato un anno davvero interessante ed è stato un piacere offrirvi queste storie.
Buona lettura
Questa volta, davvero posterò quel che resta domenica.
 
Patty
 
1 dicembre
 
John annusa l’aria. È la prima cosa che è solito fare Sherlock quando giungono su una nuova scena del crimine. Entra, si guarda attorno e annusa l’aria. È capace di elencare uno per uno gli odori che percepisce e dare ad ognuno di loro il suo esatto senso d’essere, come un segugio. John trova sia l’ennesima fantastica dote del geniale uomo col quale ha l’onore di vivere e che ora cerca di emulare.
Hanno fatto irruzione in casa di Mary a mezzanotte da poco passata. L’hanno trovata avvolta in un vecchio scialle, confusa dalla loro presenza. John ha lasciato che Hataway facesse il suo dovere arrestandola e lui si è fiondato in casa, seguito da Mycroft, alla ricerca di Sherlock.
Sente in lontananza il tono remissivo della voce della donna, che si difende dicendo di non capire il perché la stiano arrestando, e deve fare uno sforzo per chiuderla fuori dalla sua mente e concentrarsi sulle indagini, anziché saltarle alla gola.
Nell’aria, l’odore di legna bruciata e lavanda si mescola con quello di brodo di pollo e quello agre di disinfettante. C’è qualcosa in questa casa che gli mette i brividi. Il mobilio è vecchio, ma ben tenuto e la carta da parati verde acido è una scelta d’arredo molto opinabile. Non è quello, però, a inquietarlo. È fin troppo ordinata e pulita. Asettica, si potrebbe dire. Proprio come un ospedale.
<< Questi segni sulla moquette >> dice Mycroft indicando i gradini delle scale. John non ascolta oltre e segue quanto indicato dal fratello del consulente investigativo. Sente appena la donna domandare all’ispettore perché i due londinesi stiano prendendosi simili libertà in casa sua e lui lasciarla ai suoi uomini (si è portato dietro quasi tutto il comando) per seguirli al piano superiore.
<< Sembra anche a te che qualcosa sia stato trascinato su questa moquette, Myc? >> gli domanda, tenendo lo sguardo fisso sulle diverse piste che si incrociano ben evidenti sulla moquette e che pare proprio siano state causate dal trascinamento di qualcosa di pesante.
<< Sì >> annuisce Mycroft che segue i segni sulla seconda rampa di scale.
<< Do un’occhiata nelle stanze di questo piano, Capitano >> lo informa Hataway, che, da quando il coroner ha detto loro che tra i 40 corpi ritrovati nella fossa c’erano anche quelli dei quattro fratelli e della madre della donna, lasciati morire di stenti a seguito di percosse violente, si è fatto più arrendevole alle sue richieste. L’ultimo corpo che questa donna ha gettato nella fossa è stato quello della madre poco più di un anno prima. Da allora sembra non ne siano stati portati lì altri.
“Ammesso che non li abbia sotterrati nei terreni di sua proprietà” pensa John rabbrividendo.
Il dottore si limita ad annuire all’ispettore, senza dare troppo peso alle sue parole. Segue la pista sulla moquette, che dalle scale sembra dividersi in due direzioni: una porta al bagno del piano, l’altra ad una porta chiusa.
<< Le stanze sono tutte vuote, Capitano >> gli dice Hataway, mentre John osserva il bagno dalla porta. << Il vecchio Liland le usava per i degenti. Sembrano tutte camerette da ospedale, in effetti. Era un tipo metodico ed organizzato, come le dicevo >> aggiunge, grattandosi la testa visibilmente a disagio. Non deve aver vissuto casi più complicati di una morte accidentale o di incidenti stradali, questo ispettore di provincia e scoprire che una delle donne con le quali ha parlottato spesso è una pazza assassina lo ha visibilmente turbato.
<< Lo sente questo forte odore di disinfettante, ispettore? >> gli chiede entrando nel bagno.
<< Sarebbe impossibile fare altrimenti >> risponde arricciando il naso.
<< Esatto >> annuisce esaminando un pappagallo e delle bacinelle dai quali si espande intenso il puzzo di disinfettante. << Proviene, però, solo da due stanze. Questa e quella >> dice indicando l’altra porta chiusa. << E, casualmente, i solchi sulla moquette conducono proprio a queste >> aggiunge, uscendo dal bagno per portarsi alla porta chiusa. Afferra la maniglia, ma la porta è chiusa a chiave. Il legno è molto rovinato, come avesse subito violenti attacchi. Il cuore di John batte forte all’idea che Sherlock possa trovarsi là dentro e, senza pensarci due volte, la apre con una spallata (cosa che, benché abbia usato la destra, poco piace alla sua spalla sinistra, ma sono dettagli trascurabili, al momento).
Quello che scopre essere uno stanzino, però, contiene solo una serie di scatole accatastante le une sulle altre.
<< Non c’è niente qui dentro! >> esclama Hataway facendo capolino alle sue spalle.
<< Questo non vuol dire che non ci sia stato >> ribatte John, trovando davvero idiota il commento di quest’uomo. << L’odore di ammoniaca qui è ancora più forte. E’ stato pulito di recente, questo posto, e con cura >>.
Accende la lampadina dall’interruttore posto all’esterno e osserva il pavimento. Solo così nota la presenza di graffi nella parte interna della porta.
<< Oddio! >> esclama, catturando l’attenzione dell’ispettore, che si abbandona a una colorita imprecazione quando vede i solchi sul legno, sicuramente lasciati da unghie umane.
<< John, vieni qui! >>.
Mycroft lo chiama dal piano di sopra e lui ci mette un attimo a riprendersi da quanto ha scoperto e ordinare alle sue gambe di raggiungerlo. Lo trova sulla soglia di una delle stanze presenti sul piano.
<< Questa camera è stata non solo pulita, ma disinfettata da poco >> gli dice Mycroft arricciando il naso all’intenso odore di ammoniaca. << Il materasso è più lasso di quello delle altre stanze, segno che ha ospitato qualcuno per molto tempo e il camino è stato spento da poco >>.
<< Nello stanzino al piano di sotto ho trovato dei graffi nella parte interna della porta. Anche lì sono state fatte grandi e meticolose pulizie >> lo informa John, stringendo i pugni.
<< La conferma della presenza di mio fratello in questa casa, però, la si ottiene da due oggetti che ho trovato qui. Uno è questo >> dice Mycroft, mettendogli sotto il naso la custodia di un violino. << Doveva essere da molto tempo che nessuno la apriva, le cerniere sono arrugginite >> spiega con una strana stanchezza nella voce. << E’ stato, però, suonato di recente e… guarda qui >> gli dice indicando l’attaccatura delle corde alla cordiera. << Nell’accordarlo una corda deve essere sfuggita dalla cordiera e lui l’ha messa a posto annodandola nel modo che si è inventato e che è, a suo dire, più resistente >>.
John ricorda bene la dettagliata spiegazione che gli fece una sera, mentre cambiava le corde al violino. Dopo un po’ si era perso e aveva preso ad annuire senza seguirlo più di tanto. Quante leggerezze si è preso anche lui nei suoi confronti. Non riusciva, però, a stargli dietro. Non riuscirebbe mai a stare al suo passo.
<< Inoltre, sotto ad un mobile posto vicino al camino, ho trovato questo >> gli dice mostrandogli un pezzo di tessuto blu cobalto bruciacchiato.
La sciarpa di Sherlock. La bella sciarpa blu che tante volte gli ha visto annodare e togliere dal collo pallido e lungo. Il collo sul quale ha affondato i denti più volte quel sabato notte, lasciandogli segni che è probabile abbia ancora adesso. Perché è vivo. Non è lì, dove era più che sicuro lo avrebbero trovato, ma lui sente che è ancora vivo.
Furioso all’idea che possano essere arrivati tardi, John scende svelto le scale e si porta come una furia dinanzi al donnone.
<< Dove lo hai portato? >> le chiede, cercando di vincere l’istinto di afferrarla per il bavero della camicia di flanella che sbuca da sotto lo scialle.
<< Di chi sta parlando? >> ribatte questa stupita.
<< Di chi sto parlando? >> ripete lui ridendo. << Sto parlando della persona che hai tenuto prigioniera nello stanzino su al primo piano. Di quella che ha suonato per te il violino nella stanza al secondo piano. Sto parlando del proprietario di quella che un tempo era una sciarpa blu >> dice sbattendole sotto il naso il brandello di tessuto.
La donna vacilla dinanzi alla sua furia e sembra stare per ribattere qualcosa, ma si blocca del tutto, come le era successo davanti all’emporio di Jo.
<< Capitano, temo ci siate andato giù pesante. Se esplode furiosa non basteranno tutti gli uomini qui presenti per tenerla a bada >> sussurra Hataway, lo sguardo preoccupato fisso sulla donna.
<< Non mi importa, ispettore. Potrebbe essersi liberata di lui da poco, l’odore di ammoniaca è terribilmente forte e quindi recente. Non ho intenzione di perdere altro tempo >>.
Fa per scuotere la donna che, però, si ridesta da sé. Lo guarda con occhi diversi. Più sinceri e piccoli, come quelli di una bambina.
<< Io non volevo >> sussurra con voce rotta. << Ho tentato di fermarla, ma non mi ha dato retta >> aggiunge e grosse lacrime luccicanti si sganciano dagli occhi e le rotolano sulle guance. << L’ho convinta a lasciargli una coperta, così forse ce la fa >>.
Tutti i presenti trattengono il respiro dinanzi a quelle parole prive di senso, ma dal significato terribilmente chiaro.
<< Dove lo ha portato, Mary? >> le domanda John sentendo l’urgenza impadronirsi di lui.
<< Alla fossa >> ammette lei strizzando gli occhi.
<< Quando? >> la incalza con tanta enfasi da spaventarla.
<< Io… non lo so… mi ha detto di pulire tutto quando è tornata >> risponde stringendosi nelle spalle.
John non ha bisogno di sentire altro. Corre fuori senza pensarci due volte. Sente appena Hataway richiamarlo, mentre mette in modo l’auto. Scorge l’ispettore e alcuni dei suoi uomini correre verso di lui, che sta già guidando fuori da quella casa infernale.
“Ti prego, resta vivo!” pensa stringendo il volante. “Resta vivo!” ripete sfrecciando sulla strada appena spazzata dalla neve, contro la quale le catene fissate alle ruote cigolano, producendo un suono spettrale.
 
***
 
Sherlock osserva se stesso tremare avvolto nella coperta che lo copre da capo a piedi. Un bozzolo di un rosa-grigio scolorito gettato in una fossa da poco ripulita. Ha risolto anche questo caso. Non crede, però, che riuscirà a vantarsene, questa volta.
Il grido di una donna lo coglie di sorpresa e si volta nella direzione dalla quale proviene. Scorge un cancello in lontananza. Un’auto ferma a pochi metri da questo. Un corpo senza vita equidistante da entrambi.
Si trova immediatamente vicino a questo corpo. Giace riverso sulla schiena, lo sguardo vitreo fisso al cielo e un’espressione di congelato stupore sul volto. Colpito al petto da un colpo di pistola. Dritto al cuore, senza scampo.
“Perché sono finito qui?” si chiede stringendo i pugni.
“Perché stai per morire, Sherlock” gli dice Moriarty, comparendo alle sue spalle. “Si dice che ognuno di noi riviva la sua vita prima di morire. Tu sei tornato qui, dove il tuo problema ha avuto inizio”.
La donna grida di nuovo, uno strillo più acuto e disperato questa volta.
“Sì, devo ammettere che in questo caso sei stato una vittima innocente” dice il criminale battendogli la mano sulla spalla. “Sei stato preso in mezzo da una situazione più grande di te. Che ne dici, era un bell’uomo?” gli chiede toccando appena con la punta delle scarpe di pelle pregiata il corpo esanime.
Sherlock gli rivolge appena uno sguardo.
“Suvvia, non la starai mica condannando? Tutti cercano il loro amore. ‘All you need is love’, lo dicevano anche i Beatles. Oh, già, non sai neppure chi siano i Beatles, dico bene?” gli chiede e lui scuote appena il capo. “Già” ribatte James schioccando le labbra. “Tuo padre era il tipo di persona con la quale avrei collaborato molto volentieri. Più freddo di tuo fratello. Il re degli uomini ghiaccio” dice soddisfatto. “Questo esserino anonimo deve averle dato il calore che da lui non riceveva. Chissà, forse quello che non sapeva neppure esistesse. Era una matematica, dico bene?” gli chiede e lui annuisce. “Perfetto. Numeri e sentimenti viaggiano su binari opposti. Deve essere stata una vera scoperta per lei. Chissà, forse questo qui l’avrebbe resa felice. Voleva portarti con sé, quindi in qualche modo a te ci teneva. Chissà come sarebbe stato crescere con loro, lontano dalla casa degli avi? Scommetto che ogni tanto ci hai pensato” lo sprona dandogli di gomito.
Sherlock, però, non reagisce. Fissa il cancello spalancato che da sul sentiero. Le grida hanno smesso di arrivare al suo orecchio da un po’ di tempo, ormai.
“Una brutta morte” dice Moriarty in tono greve. “Espressione strana, non trovi? Presuppone che ci sia una morte bella. Assurdo” ride del tutto privo di rispetto per il suo turbamento. “Dovremmo dedurne che la tua morte è tra quelle che possono dirsi belle, dal momento che tra poco ti addormenterai. E sentendo anche un piacevole tepore. Il primo uomo sepolto nel proprio Mind Palace” recita teatrale accompagnando queste ultime parole con gesti ampi delle braccia. “Voglio tu sappia che mi mancherai. Davvero” ammette portando la mano al petto. “Avrei voluto avere io il piacere di ucciderti. A quanto pare, però, una pazza psicopatica e pure un po’ scema è arrivata prima di me. pazienza” fa spallucce.
<< Non è scema >> sussurra prendendo finalmente parola. Moriarty si avvicina incuriosito. << Mary non è scema >> ripete guardandolo in viso. << Ha avuto una famiglia terribile, ma avendola eliminata passerà lei per la pazza e sanguinaria omicida. Nessuno si fermerà a pensare che ha subito gli abusi peggiori ogni giorno, ogni notte. Che se si è creata personalità diverse lo ha fatto solo per tentare di sopravvivere. La vedranno per quello che appare: una gigantesca donna inquietante. La tenerezza disarmante che ha dentro non farà notizia. La voce cristallina con la quale canta non è interessante, così come la sua risata. Meglio sottolineare il mostro, descrivere tutti i particolari più macabri dei suoi omicidi. Che poi sia stata umiliata, segregata, schiavizzata e stuprata a chi importa! >> conclude a denti stretti.
Moriarty lo osserva incuriosito, accarezzando piano il mento ben rasato.
“Sai, mi sto chiedendo se la tua sia sindrome di Stoccolma[1] o se, in qualche modo, ti rivedi in lei” osserva, ridacchiando. “Io penso solo che se sei tornato qui prima di trapassare sia perché questa donna ha permesso si chiudesse il cerchio aperto da quell’altra donna. Qui, a causa del comportamento riprovevole di tua madre, sei stato quasi ucciso da tuo padre” dice mostrandogli la mano sinistra. “Lì, a causa del comportamento altrettanto riprovevole del tuo dottorino, hai permesso a Mary di ucciderti” dice mostrandogli la mano destra. “Tutto qui” conclude, unendo le mani. “Ecco chiuso il cerchio. Una donna frustrata ha creato il problema e un’altra donna frustrata lo ha risolto. Facile no?”.
<< Per niente >> dice e questa volta è lui a ridacchiare. << Questa storia è tutto tranne che facile. Il ‘problema finale’, come ti piace chiamarlo, può anche essere stato creato da mia, madre ma non ne è lei la causa >>.
“Oh” esclama James colto da illuminazione. “E tuo padre, quindi! È lui il problema finale da risolvere. Sì, in effetti tutto fila. John ti ha fatto sentire una puttana e Mister Holmes è stato il primo ad averti dato della puttana, dico bene?”.
Queste parole gli stringono lo stomaco così forte da portarlo a fare i salti mortali per trattenersi dal vomitare.
“Non tenerlo dentro, Sherlock?”. Mycroft compare al suo fianco, cogliendolo di sorpresa. “Sputalo fuori. Ti sentirai più leggero, dopo, fratellino” gli dice abbozzando un sorriso.
Quel sorriso, così insolito da trovare sul viso di suo fratello, ne cattura l’attenzione. Quasi per caso si rende conto di come la scena sia cambiata attorno a loro. Si trovano in una stanza, adesso. una stanza che conosce fin troppo bene.
Si volta e rivede se stesso vent’enne fermo davanti ad una grande scrivania in mogano. Dalla poltrona in pelle pregiata suo padre lo osserva severo. I gomiti appoggiati sui braccioli, le dita delle mani unite all’altezza del torace. In piedi al suo fianco, un Mycroft più giovane fa viaggiare lo sguardo dal padre al fratello. Invisibili gocce di sudore gli imperlano la fronte, tradendone la tensione.
<< Tuo fratello mi ha detto di essere preoccupato per te, William >> gli sente dire e vorrebbe scappare via da quanto sta per accadere. << Asserisce tu faccia uso di droghe da qualche tempo. Cocaina, nello specifico. Teme tu ne sia diventato dipendente >>.
<< Non ne sono dipendente, ne faccio uso >> sente se stesso ribattere e prova tenerezza per quel ragazzino disperato che cerca di trovare il coraggio di restare lì, in piedi, dinanzi a quel tribunale spietato che lo ha già condannato.
<< Ah >> ribatte suo padre. << E questo cosa vorrebbe dire? >>.
<< Mi aiuta a gestire la mia mente. Lei… va troppo veloce >>.
<< Troppo veloce >> ripete lui serio. << Quindi è questo quello che dovrei spiegare a chi dovesse chiedermi il perché del comportamento di mio figlio? Dirgli che non è un tossicodipendente, ma che fa solo uso di cocaina per fermare la sua mente troppo veloce? >> tuona, battendo le mani sulla scrivania, impatto che crea un suono sordo, cupo, che Sherlock sente ancora adesso risuonargli nel petto.
<< Sì, perché è questa la verità >> ribatte cercando di mantenere vivo il coraggio.
<< Hai sentito, Mycroft? Questa è la verità >> lo schernisce il padre, che, però, non trova l’appoggio del figlio maggiore alla sua risata. << Te la dico io qual è la verità! >> esplode, scattando in piedi, questa volta, prima di battere le mani sul legno pregiato. << La verità è che avrei dovuto ucciderti quando ne ho avuto l’occasione. Non mi ritroverei ora ad avere un figlio che continua a gettare fango sul buon nome della mia famiglia e che sperpera i miei soldi acquistando droghe per ‘fermare la sua mente troppo veloce’! Come se già non fosse bastato lo scandalo che avete messo su tu e quel Trevor quattro anni fa’ >> aggiunge battendo un altro colpo che gli vibra, anche questo, nel petto. << Da oggi non riceverai più nulla da me, William, nulla! Penso tu sia benissimo in grado, d’altronde, di procurarti da te quanto ti occorre per quel veleno da infima feccia. D’altra parte, ho sempre pensato tu lo fossi, quindi, cercherò di non prendermela più di tanto quando mi diranno che il mio secondogenito si prostituisce. Cosa potevo aspettarmi, infondo da te? Sei anche tu una puttana, proprio come tua madre >>.
Lo stomaco di Sherlock si contrae al punto da farlo piegare in due dal dolore. Si ritrova a terra, carponi, vicino al bozzolo nel quale è nascosto il suo corpo. Non lo vede più tremare.
<< No! >> esclama tentando di afferrarlo, ma le sue mani lo attraversano senza toccarlo. << Oddio no, questo no! >> grida portando le mani alla testa. << Io non voglio morire >> grida rimettendosi in piedi. << Non voglio morire! >> ripete guardandosi attorno alla disperata ricerca di qualcuno. Nel buio fitto di questa notte senza luna, però, ci sono solo lui e il bozzolo.
“Ora ti riconosco!” applaude Moriarty, comparendo alle sue spalle. “Peccato sia troppo tardi, Sherlock. Hai di nuovo sbagliato i tempi, amico mio”.
Ha sbagliato i tempi. Come con John. Come con suo padre.
<< Io non sono una puttana e nemmeno lei lo era, maledetto assassino! >> aveva gridato fuori di sé, facendo esplodere l’ira del suo folle genitore. Si era ritrovato nuovamente inseguito da lui lungo i corridoi di quella vecchia e lugubre casa. Era riuscito, però, a sfuggirgli quella volta, a trovare la via di fuga per le campagne innevate. Era iniziato così il suo esilio, la sua lenta caduta nel tunnel della dipendenza vera e propria.
<< No, non lo sono stato mai. Neppure quando mi sarebbe convenuto esserlo >> sussurra fissando il bozzolo inerte.
“Come hai detto tu stesso, le persone vedono solo quello che fa loro comodo nell’altro” dice Moriarty, facendo spallucce. “Per gli agenti di Scotland Yard sei un freak, per tuo fratello un caso senza speranza, per tuo padre eri una puttana, per me una succulenta sfida…”.
… ma solo per uno sei fantastico. Incredibile. Strabiliante”.
Una voce femminile lo coglie di sorpresa. Si volta e la scopre provenire da una donna che da molto tempo non vedeva.
“Non voglio che ti resti dentro l’idea che l’amore possa solo uccidere, Sherlock” gli dice avvicinandosi a lui. Un dolce calore si propaga da lei. Piacevole e invitante.
<< Con te lo ha fatto, però. Ti ha uccisa >>.
“No, non è stato l’amore a porre fine alla mia esistenza terrena, ma l’orgoglio e quel maledetto senso dell’onore, figlio mio”.
Sherlock riflette su queste parole. Riflette su quanto l’orgoglio e l’onore abbiano dettato legge anche tra lui e John. I lunghi silenzi a seguito dei litigi. Quel non volere nessuno dei due chinare il capo per primo, cercando un dialogo, una vicinanza. Non è stato il suo ‘ti amo’ a rovinare tutto e neppure il discorso strampalato di John. E’ stato l’ostinato silenzio che ne è seguito. Il suo chiudersi in bagno e il lasciare l’appartamento da parte dell’altro. Avrebbero potuto parlarne, benchè sembrasse sciocco e inutile farlo e, invece, hanno preferito entrambi quell’aggressività passiva, il rifugio dei vigliacchi.
<< Mi dispiace >> sussurra sciogliendosi in lacrime. Lacrime calde, che diffondono un piacevole calore sul suo viso. Le asciuga con le dita e anche queste iniziano a scaldarsi. È inebriante questo fuoco buono che sente propagarsi lentamente dentro di sé. << E’ tardi, ormai >> dice sereno volgendo lo sguardo a sua madre.
<< Sei tu quello che sbaglia sempre i tempi, Sherlock, non lui >> gli sorride lei. La osserva stranito, incapace di comprendere le sue parole. << L’amore non uccide, figlio mio. L’amore salva >>.
Sua madre solleva la mano ad indicare un punto alle sue spalle. Sherlock ne segue la traiettoria e percepisce appena il suono di un motore, il clangore di catene contro l’asfalto, il bagliore di due fari fendere il nero della notte.
 
 

[1] Particolare condizione psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale, psicologica. Il soggetto affetto dalla sindrome, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice. È un caso particolare del fenomeno più ampio dei legami traumatici, ovvero quei legami fra due persone delle quali una gode di una posizione di potere nei confronti dell’altra che diviene vittima di atteggiamenti aggressivi o di altri tipi di violenza.
   
 
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