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Autore: maybeitsadream    11/01/2019    0 recensioni
1944, Barcellona.
Ognuno ricorda, ognuno sa cos'ha sepolto sotto la cenere. Liam ha seppellito suo fratello, Zayn la sua personalità.
Importante: i familiari dei protagonisti, a eccezione della mamma di Liam, avranno nomi diversi da quelli reali.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Liam Payne, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Al quarto giorno, la signora Serrano mi svegliò con una tazza di caffè e un sorriso accennato ma sincero. Nonostante continuasse a non parlare, Liam stava meglio: era meno pallido, i lividi che disturbavano la bellezza del suo viso erano ora più coperti dal ritorno del suo solito colore.

Io ero rimasto lì per tutto il tempo, rannicchiato su una sedia in legno che in genere rimaneva all'angolo della stanza, per lasciare a sua madre il giusto spazio da condividere con lui. Lo accarezzava, gli pettinava i capelli e all'orecchio gli cantava le stesse ninne nanne della sua infanzia. 

Mi ero allontanato solo una volta, e per poco tempo: avevo percorso in un baleno la strada che separava casa sua dalla pensione e, dopo aver acchiappato i fogli su cui lavoravo da un po' di tempo, avevo fatto ritorno da lui. Volevo stargli vicino come non avevo saputo e potuto fare quella notte, volevo tentare di curare le sue nuove ferite con la mia vicinanza, col mio affetto. Se non tutte, almeno una parte.

I suoi genitori sapevano tutto. Lo avevo scoperto sentendoli parlare con il signor Martínez, che aveva appreso la notizia da un suo conoscente, qualcuno che, evidentemente, quella notte era lì vicino e aveva assistito all'arrivo dei tre poliziotti. Eppure, nonostante sapessero, non avevano mai nemmeno accennato a mandarmi via. La cosa mi aveva lasciato molto stupito e in parte tranquillo, anche se avevo paura che, una volta rimessosi Liam, non avrebbero esitato un solo istante a invitarmi - gentilmente o meno - a non farmi vedere mai più. 

«Grazie», le dissi dopo essermi schiarito la voce.

Mi rispose con un sospiro stanco, più eloquente di qualsiasi parola. Poi mi invitò a seguirla in cucina, dove suo marito, già vestito e con un'espressione indecifrabile, consumava la sua semplice colazione. Gli rivolsi un saluto intimorito al quale rispose con un'occhiata veloce.

Mi sentii a disagio. Volevo andare via da lì, dai loro occhi fintamente distratti, dai loro respiri quasi studiati, da quel silenzio attento e opprimente. Sapevo che stava per accadere qualcosa, e temevo che non mi sarebbe piaciuto affatto.

«Siediti, Zayn, vorrei farti qualche domanda», mi informò, infatti, dopo qualche secondo il signor Serrano.

Ubbidii con il respiro incastrato alla gola, ripetendomi mentalmente di non fare sciocchezze. L'avvertimento mi riportò a quella notte, alla sensazione di terrore provata di fronte alla consapevolezza di essere stati scoperti, e cominciai a sudare freddo. 

Il signor Serrano, l'uomo che mi reputava intelligente e con cui era piacevole discutere di politica, di ideali e di altrettante cose importanti, mi guardava con occhi inquisitori, come a volermi spogliare di una verità che già conosceva ma che voleva comunque sentirsi dire. Ne fui spaventato.

«Era con te, non è vero?»

Sarebbe stato da stupidi rispondere con un'altra domanda circa il soggetto interessato o il momento a cui si faceva riferimento, e io, in quel momento, sentivo di non essere uno stupido. Perciò annuii soltanto. Avevo già fatto troppo male a Liam: non meritava che gliene facessi dell'altro mentendo a suo padre o omettendogli dettagli di cui era, ad ogni modo, a conoscenza.

Non aspettai che mi ponesse degli altri interrogativi: forte di un'improvvisa ondata di coraggio, esposi i fatti per filo e per segno. Non tralasciai nulla, nemmeno la spinta dell'uomo ubriaco che ci diceva di voler stare da solo. Gli dissi che i tre poliziotti erano arrivati davanti a noi mentre stavamo soltanto sorridendo, che non avevamo colpe, che Liam non aveva colpe e che, una volta arrivati al commissariato, ci avevano portato in stanze separate e che quindi ci eravamo persi di vista. Liberai la paura provata in quei minuti mescolandola a quella nuova, fresca, che mi agitava la voce sotto i suoi occhi attenti e pronti a non perdersi nulla; gli feci sapere che, quando avevo rimesso piede fuori insieme a don Federico, il mio primo pensiero era stato suo figlio, che non ero stato capace di salvare.

Parlai così tanto e così velocemente che mi si seccò la gola, ma non mi importava. Volevo solo che i genitori di Liam conoscessero ogni cosa e che non mi cacciassero a calci, che mi consentissero di stare accanto al loro figlio in quel momento e per sempre. Sapevo di chiedere troppo, ma era esattamente ciò che desideravo.

Nella mia testa si proiettavano le immagini della storia mia e di Liam in condizioni normali: non entrambi uomini, non invertiti, liberi di amarci alla luce del sole e lontani dai rischi di imbatterci in poliziotti e carcerati pronti a farci del male. Rimpiansi il momento della mia nascita, credendolo il mio primo errore e la causa della presente sofferenza di Liam e della sua famiglia: sei io non fossi mai nato e cresciuto credendo in determinati ideali e se non fossi mai sbarcato a Barcellona, se non avessi perso la battaglia contro la dittatura, se non fossi finito in carcere, in strada e poi sotto la protezione di don Federico, Liam non mi avrebbe mai incontrato e non sarebbe stato arrestato, maltrattato. Invece era successo, e riconducevo ogni sfortuna alla mia venuta al mondo.

Decisi di finirla lì, di pensare e di parlare, e aspettai che i genitori di Liam mi rispondessero, mi insultassero, mi mandassero via, mi minacciassero di consegnarmi alla Guardia Civil. Passò qualche minuto, però, e a farmi compagnia c'era solo il silenzio. Il signor Serrano mi guardava senza parlare, mentre sua moglie, alle mie spalle, singhiozzava sommessamente; avrei voluto voltarmi e darle un po' di conforto tra il calore delle mie braccia, lì dove suo figlio amava addormentarsi o trascorrere i minuti senza fare niente se non ascoltare il mio cuore.

«D'accordo», sentii dire, poi.

Lo fissai senza capire, mentre si metteva in piedi e spariva dalla mia visuale, lasciandomi solo insieme a un pianto da calmare. Puntai i miei occhi sulla donna alle mie spalle e la vidi così indifesa e impaurita che non mi trattenni: le circondai il busto con le braccia e le permisi di piangere sul mio petto, di sfogarsi addosso a me.

Dopo essersi calmata un poco, si asciugò le guance arrossate e bagnate e sparì anche lei, senza dirmi una parola. Ero confuso: non capivo cosa avesse voluto dirmi il signor Serrano, mi sorprendeva il fatto che stessi ancora in piedi sulle mie gambe e che nessuno mi avesse ancora intimato di andarmene di mia spontanea volontà o a forza di percosse. Decisi di ignorare tutti i dubbi e di sfruttare quel momento per tornare da Liam e accarezzarlo, stringergli le mani e bearmi della sua vicinanza.

Lo trovai ancora perso nel sonno, gli occhi chiusi e la bocca un poco aperta. Portai la sedia vicino al letto e mi sedetti lì, al suo fianco, aspettando che si svegliasse per godere della bellezza dei suoi occhi. Mi accontentò quasi subito, forse stuzzicato dai movimenti circolari del mio pollice sulla sua mano.

«Ciao», gli sussurrai.

Mi sorrise debolmente e capii che non avrebbe detto una parola neanche quel giorno, eppure mi sorprese pronunciando un Buongiorno rauco e stanco. Fu il mio turno di sorridere, perché non aveva parlato per tre giorni e aveva ricominciato a farlo con me, rivolgendosi a me.

Mi ricordai della prima notte trascorsa insieme, quando tutto era ancora lontano e noi eravamo già così noi, solo un po' più timidi, e sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Gli strinsi la mano e me la portai alla bocca per baciarla con tutta la grazia che le era stata precedentemente negata.

Mi disse che voleva parlarmi e, dopo qualche minuto di silenzio preparatorio, lo fece.

«Ho sentito cosa ha detto il medico: se fossi stato più debole, sarei morto. Forse lì, in quella cella, tra i corpi sudici di quegli uomini che-», un singhiozzo lo interruppe: cominciò a piangere e lo pregai di smetterla, ché non volevo sapere nulla, perché mi interessava solo che ora stesse bene. «A te è capitato?»

Annuii. Mi mancava il fiato per parlare.

«Io non- non lo credevo possibile. Quando il poliziotto mi ha spinto dentro la cella, non riuscivo a respirare. Ha detto che potevano farmi quello che volevano, e io avevo così paura che mi sono aggrappato alla speranza di morire.»

Parlava lentamente, come se ogni respiro gli costasse fatica e dolore, quello che stava confessando di aver provato. A nulla valsero i miei tentativi di farlo smettere: raccontò ogni cosa, con una tristezza lucida che mi fece paura, con gli occhi colmi di lacrime e persi nel vuoto, nel buio in cui era finito.

Disse che i detenuti erano sette in quella cella, tutti uomini di una certa stazza che superavano i trentacinque anni di età. Disse che ridevano del suo timore, del suo tremore, e che inizialmente gli avevano soltanto accarezzato le guance, accerchiandolo. Poi qualcuno - non aveva avuto il coraggio di capire chi - gli aveva tolto il cappotto dicendo che non gli sarebbe servito; tutti insieme avevano cominciato ad appesantire i tocchi delle mani sulla sua pelle, fino a quando era arrivato il primo pugno, allo stomaco. Aveva perso il conto di tutti quelli che si erano succeduti per l'intera notte già al sesto, quando gli avevano assestato un colpo troppo forte che lo aveva fatto finire completamente a terra. Ma quelli avevano continuato e lui aveva chiuso gli occhi, cercando di parlare ad Andrés per distrarsi. Poi di colpo gli avevano sbattuto il viso a terra e calato i pantaloni. A turno lo avevano violentato per diverse ore.

Disse che aveva sentito male in tutto il corpo, che si era sentito sporco, violato nella sua dignità di uomo, seppur invertito. E aveva pianto lacrime silenziose e pregato un Dio che forse gli stava voltando le spalle. Ma non aveva reagito: non ne aveva avuto le forze, completamente risucchiato da quella violenza ingiustificata che gli si scaricava addosso.

Aveva voluto morire. Perché, se fosse sopravvissuto, avrebbe ricordato per sempre quel dolore e quella sensazione di impotenza, la certezza di essere una nullità nelle mani di usurpatori. Aveva chiesto ad Andrés di prenderlo per mano e di guidarlo lungo la via che lo avrebbe condotto alla pace fatale, di salvarlo dall'orrore che si stava consumando tra le sue carni; era stravolto al punto di credere che suo fratello, morto sei anni prima, lo avesse davvero afferrato per la mano. Aveva sentito il calore della sua presenza accanto a lui e, rincuorato dalla sola speranza di ricongiungersi a lui, aveva chiuso gli occhi, perdendo i sensi.

Non ricordava del poliziotto che apriva la cella e lo trascinava fuori, né dell'auto che lo lasciava per strada all'alba, coperto di stracci e ferito nella parte più profonda di sé.

Invano cercai di calmarlo e di calmarmi: piangevamo entrambi, sull'orlo della disperazione più totale. Liam era stato violentato e aveva voluto di morire per non sentire più dolore; io avevo ascoltato il suo racconto e ogni parola mi aveva fatto lo stesso male che quegli uomini avevano fatto a lui quella notte. Fummo vicini nel dolore e tentammo di curarci a vicenda con il nostro amore, ignorando il futuro, l'avvenire, la possibilità che capitasse ancora. 

Gli accarezzai i capelli e gli dissi che ero felice che Andrés non l'avesse portato con sé.

«Ho paura», mi confidò. E io annuii soltanto, perché non avrei potuto dirgli niente, perché avevo paura anch'io. Forse, se l'avessimo avuta insieme, sarebbe stata meno pesante da affrontare. 

Io volevo vivere insieme a Liam, perché mi aveva restituito tutto ciò che credevo di aver perso, disseminato tra strade, carceri e gallerie del metrò. E da egoista - com'ero sempre stato - volevo che anche lui avesse il mio stesso desiderio. Nonostante tutto, nonostante la realtà dei fatti.

Restammo in silenzio per un po'. Poi, di colpo, Liam mi disse che voleva farmi vedere il volto di Andrés. Mi chiese di aprire l'ultimo cassetto del suo comodino e di cercare tra la biancheria, ché avrei trovato una sua fotografia.

Feci quanto richiesto e la trovai subito, avvicinandola al mio viso per valutare quanto si somigliassero. Ma il respiro, ancora una volta, mi si incastrò alla gola, e ricordai.

Percorrevo in fretta le gallerie del metrò, dando indicazioni alla popolazione civile affinché nessuno si facesse male. Poco dopo uscivo all'aria aperta, sotto il cielo coperto della notte più buia della mia vita; lì incontravo un ragazzino che cercava disperatamente sua madre: aveva il volto rigato di lacrime e urlava a squarciagola nella speranza di ricongiungersi alla sua famiglia. Mi avvicinavo piano, per non spaventarlo, con la certezza assoluta di non svegliarmi mai più. 

«Dov'è la mia mamma?», mi domandava singhiozzando.

Non facevo in tempo a rispondergli: la bomba veniva sganciata a una distanza troppo breve da lì, scagliata contro un palazzo che si disfaceva come cenere. Urlavo mentre venivo scaraventato a qualche metro di distanza. Quando riaprivo gli occhi, il ragazzino non era accanto a me.

«Liam», lo chiamai con voce tremante, «ho ricordato, i-io ho ricordato.»

«Cosa?»

«Il ragazzino che non sono riuscito a salvare la notte tra il 17 e il 18 Marzo del 1938, durante il bombardamento. Era Andrés, quel ragazzino era tuo fratello.»

   
 
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