Serie TV > Star Trek
Segui la storia  |       
Autore: Parmandil    12/01/2019    0 recensioni
Tre storie. Tre viaggi. Tre ricerche che confluiscono nella battaglia più tragica della storia federale.
Quando l’ISS Enterprise dell’Impero Terrestre attacca la Federazione, già provata da anni di conflitto, solo una nave può tenerle testa: la sua gemella federale. Il Capitano Chase dovrà dar fondo alle sue abilità strategiche per sconfiggere il suo alter-ego dello Specchio, prima che s’impadronisca dell’arma più pericolosa e distrugga la nascente alleanza coi Romulani.
Nel frattempo, quattro improbabili eroi incontrano un naufrago del tempo e s’incaricano di recuperare la sua più grande invenzione, il Tox Uthat, salvandolo dai pirati temporali. Nelle mani giuste, l’Uthat sarà l’arma finale contro le Sfere; in quelle sbagliate condannerà definitivamente la Federazione.
Ma la più grande minaccia sarà svelata dai tre ufficiali dell’Enterprise che indagano sui nuovi alleati del Fronte Temporale. Dalle giungle soffocanti al fondo dell’oceano di Vorgon, fino agli abissi di un pianeta oscuro e morente, scopriranno il vero volto del nemico. Una specie antica, nemica della luce, pronta a riprendere il dominio della Galassia.
Stavolta le difese della Terra non basteranno. Stavolta le speranze andranno infrante. E tutto finirà tra le fiamme.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Berlinghoff Rasmussen, Nuovo Personaggio, Romulani
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

-Capitolo 1: Le strade si dividono

Data stellare 2553.046

Luogo: Terra (Sol III)

 

   «Salve, amici olospettatori. Qui è Vaus Liin, che vi parla dall’Accademia della Flotta Stellare a San Francisco. Il Capitano Chase ha appena tenuto il suo controverso discorso ai cadetti, suscitando le reazioni già anticipate nei giorni scorsi». L’olocamera, che mostrava il giornalista in primo piano, allargò di molto l’inquadratura. Si alzò a mostrare il palazzo dell’Accademia e spaziò poi nei giardini circostanti, affollati di cadetti che protestavano.

   «Per chi non avesse seguito il Federal News in questi giorni – e sappiamo quanto sia difficile, con le anomalie – facciamo un breve riepilogo degli eventi» spiegò il giornalista. «Due giorni fa, l’Enterprise è tornata in orbita terrestre, richiamata dal Comando di Flotta. Al Capitano Chase era stato chiesto di tenere una conferenza all’Accademia, per riferire ai cadetti dei suoi incontri coi Tuteriani e i loro alleati. Era opinione del Comando che la sua esperienza potesse giovare agli ufficiali di domani.

   Ma la reazione delle associazioni studentesche è stata dura. I cadetti hanno firmato una petizione per chiedere che l’invito di Chase fosse cancellato, a causa delle sue posizioni oltranziste. Un istruttore dell’Accademia, che chiede di restare anonimo, ci ha ricordato poco fa che la petizione non era stata autorizzata dal Consiglio Accademico ed è perciò da considerarsi illegale. Il Capitano Chase, infatti, ha tenuto ugualmente il suo discorso. Ma molti cadetti lo hanno disertato e continuano tuttora le proteste. Anche fra i presenti in sala non è mancato chi ha fatto sentire il suo dissenso. Vi mostriamo ora alcuni estratti della conferenza».

   Su miliardi di oloschermi e di visori immersivi apparve l’immagine di Chase sul palco. Attorno a lui, seduti in poltrona a semicerchio, vi erano parecchi istruttori dell’Accademia. Chase parlava ad alta voce e il microfono amplificava le sue parole, perché fossero intese da tutti nel vasto salone ellittico. Ma nemmeno gli architetti dell’aula conferenze avevano previsto contestazioni così violente. I cadetti – che erano pochi, per un salone così grande – esibivano striscioni olografici e strillavano slogan come “teniamo i Discorsi d’Odio fuori dall’Accademia”. Molti di loro si dimenavano come ossessi e lanciavano insulti, i volti congestionati dalla rabbia. C’era chi si strappava i capelli, chi tempestava di pugni il seggio su cui sedeva, chi pestava i piedi in terra.

   «Intervistiamo ora il promotore della petizione: il cadetto Okuz, iscritto all’ultimo anno d’Accademia» disse il giornalista, e l’olocamera tornò a inquadrarlo. Accanto a lui c’era adesso un ragazzone grassoccio, con un accenno di barba. Era Umano, ma portava l’elaborato orecchino dei Bajoriani che simboleggiava la fede nei Profeti.

   «Mi dica, cadetto: come giustifica la sua iniziativa e le altre proteste?» chiese il reporter.

   «Io e i miei compagni d’Accademia riteniamo che siano le azioni di Chase a giudicarsi da sole» rispose prontamente il cadetto. «Quel guerrafondaio non dovrebbe neanche trovarsi nella Flotta Stellare. Noi riteniamo che Alexander Chase debba essere processato per Discorsi d’Odio, terrorismo psicologico e xenofobia. Accusando i Tuteriani d’essere causa della guerra, lui cerca di prolungarla. Oltre che d’ostacolare le indagini sul suo operato. È possibile che, a un anno dall’olocausto di Khitomer, quell’uomo sia ancora al comando dell’Enterprise? Siamo atterriti dall’incapacità della Flotta d’accertare le responsabilità di Chase nello scoppio della guerra e nella distruzione di Khitomer!». Nel parlare il giovane si era agitato sempre più, ma ora si sfiorò l’orecchino, cercando di calmarsi.

   «La ringrazio per la sua testimonianza» disse Liin. «E ora, amici spettatori, vi mostreremo le reazioni degli altri cadetti, per trasmettervi un quadro completo di questa giornata». La sua immagine svanì dagli oloschermi, lasciando il posto a un serrato repertorio di cadetti che dicevano la loro, o erano semplicemente filmati nel bel mezzo delle loro reazioni. Alcuni si dicevano scioccati e traumatizzati dalla visita di Chase.

   «Credevo che non avrei più visto nulla di terrificante come la distruzione di Khitomer, ma mi sbagliavo. Che i Discorsi d’Odio entrino nell’Accademia avrà conseguenze molto più gravi...».

   «Uno spettacolo grottesco. Il momento più assurdo è stato quando Chase ha detto che bisogna ricacciare i Tuteriani nel loro spazio. Mi sono sentita davvero in pericolo, al pensiero che quell’Umano comanda l’Enterprise, e tanti altri come me hanno avuto la stessa sensazione...».

   «Il problema non sono i Tuteriani, ma i guerrafondai come Chase! I loro discorsi xenofobi hanno creato il conflitto. Sono loro che obbligano i Costruttori di Sfere a difendersi! Viva i Costruttori!».

   «Diciamo le cose come stanno: a Chase non interessa la nostra sicurezza. A lui importa solo la Supremazia Umana nella Flotta Stellare...».

   «Come vedete, amici spettatori, i nostri ragazzi in uniforme si sono formati un’opinione critica e non temono di affermarla» concluse Vaus Liin, soddisfatto. «Ma coloro che non se la sono sentita di assistere alla conferenza hanno trovato rifugio negli Spazi Sicuri. Visitiamone uno!».

   Il giornalista e il cadetto grassoccio percorsero un viottolo di ghiaia bianca, contornato di siepi ben potate, ed entrarono in una delle strutture dell’Accademia, seguiti dal drone-olocamera che li filmava. Sbucarono in una sala vasta, divisa in settori da sporgenze nei muri poste a intervalli regolari. Lì si erano rifugiati molti cadetti, e parecchi c’erano ancora, sebbene la conferenza fosse conclusa. Il drone-olocamera, simile a una grossa libellula, ronzò in giro, per offrire agli spettatori varie inquadrature dello Spazio Sicuro. Sembrava l’interno di un asilo, con pareti color pastello, tavoli e sedie di plastica dai bordi smussati. I cadetti – tutti maggiorenni – potevano fare disegni, giocare con pupazzi e plastilina, guardare video di cuccioli. Alcuni parlavano dei loro “disagi” e “sofferenze psicologiche” con rinomati Consiglieri. Tutte queste attività erano condite da musichette rilassanti emesse dagli altoparlanti, vere ninne-nanne.

   «Usate spesso questi spazi?» chiese il reporter.

   «Certo!» rispose Okuz. «Gli Spazi Sicuri sono essenziali per creare un clima di comprensione e dialogo. Non credo sia possibile liberarsi dai pregiudizi militaristi e umano-centrici senza trascorrere del tempo qui dentro. Voglio dire, non mi fiderei mai di un ufficiale della Flotta che non li abbia frequentati... come Chase, ad esempio. Quand’era cadetto lui erano meno diffusi, ma ho sentito che non c’è mai entrato, neanche una volta. Da pazzi! Ci credo che è mentalmente instabile» sospirò, giocherellando con un pezzo di plastilina colorata.

   «Bene, con questo ci avviamo alla conclusione del nostro servizio» disse Vaus Liin. «C’è un’ultima dichiarazione che vuol fare, per riassumere il senso di questa giornata?».

   «Certo. Tutti gli abitanti della Federazione devono ignorare chi, come Chase, cerca di diffondere la paura» dichiarò Okuz, fissando dritto nella telecamera. «Perché la paura porta all’odio, alle divisioni, e ci rende i peggiori nemici di noi stessi. Ecco perché diciamo no alla paura, no all’odio!» gridò, attirando l’attenzione degli altri cadetti in sala, che subito gli si raccolsero attorno. «Diciamo alla pace, all’amore!» proseguì Okuz, battendo le mani e muovendo qualche passo di danza. I suoi compagni lo imitarono prontamente, improvvisando una coreografia.

   «No alla paura, no all’odio! Sì alla pace, sì all’amore!» urlarono in coro, dimenando le braccia come polpi ubriachi.

   «Bravi, così! Sapete che mi è venuto in mente? Organizzeremo un grande ballo collettivo, nei giardini dell’Accademia, per esprimere la nostra contrarietà alla guerra!» gongolò Okuz. Era visibilmente emozionato e inorgoglito da questa sua pensata. «Lei ci sarà, vero? A filmarci col drone. Tutta la Federazione deve vederci, è importante!» disse in tono perentorio.

   «Certo, con molto piacere» sorrise Liin. «Come vedete, amici spettatori, l’Accademia della Flotta Stellare è ancora un luogo sano, capace di produrre valori positivi. Da Vaus Liin è tutto, arrivederci al prossimo servizio».

 

   L’Enterprise era in orbita geostazionaria su San Francisco. Navette cargo e Work Bee l’attorniavano come uno sciame d’insetti attorno a un pachiderma. L’ammiraglia doveva essere rifornita un po’ di tutto. C’erano piccole riparazioni in corso e anche parte del personale sarebbe stato sostituito. All’interno la frenesia era anche maggiore; squadre tecniche si aggiravano per ogni dove, trasportando materiali e sostituendo le parti logore o danneggiate. Era da un anno che l’astronave non era tanto affollata: da quando l’inasprirsi della guerra aveva indotto quasi tutti i civili ad abbandonarla. Da allora l’Enterprise sembrava vuota, triste e persino un po’ sinistra: i quartieri civili erano deserti, le aree ricreative fuori servizio. Terry, l’Intelligenza Artificiale di bordo, vi teneva spente le luci, a meno che qualcuno dell’equipaggio passasse di lì. Anche così, c’era qualcosa di spettrale nel vedere le luci che si accendevano al proprio passaggio, solo per spegnersi alle spalle, facendo ripiombare interi ponti nel buio. Molti marinai sostenevano di sentire strani echi, che li rendevano nervosi e irritabili. Solo l’impegno costante del Capitano e degli ufficiali superori manteneva la disciplina a bordo.

   «A che si deve questa convocazione urgente?» chiese il dottor Korris, incrociando l’Ingegnere Capo Grenk in un corridoio. Tutti e due si dirigevano in sala tattica di gran carriera.

   «E lo chiede a me? Che ne so?» grugnì il Tellarita. «Sono stato convocato un attimo fa, come lei».

   «Lo sapevo che non saremmo rimasti a lungo sulla Terra» sospirò Korris. «Chissà dove ci chiameranno stavolta. Forse verso il confine romulano. Ultimamente c’è un gran trambusto da quelle parti, vero?».

   «C’è casino dappertutto, ultimamente» bofonchiò Grenk, richiamando il turboascensore con le dita tozze e pelose.

   «Beh, non qui sulla Terra» commentò Korris. «Qui sembra che la vita non sia cambiata».

   «Non ancora» disse Grenk, cupo. Lui e il dottore entrarono nel turboascensore e rimasero in silenzio per il resto del tragitto verso la sala tattica.

 

   «Lieto di rivedervi» disse il Capitano Chase in tono sbrigativo, quando furono tutti riuniti.

   «Capitano, com’è andata la conferenza?» chiese Korris. Se ne pentì immediatamente.

   «Non siamo qui per quella» rispose Chase, fulminandolo con lo sguardo. «Poche ore fa c’è stato un attacco contro il convoglio umanitario in partenza da Bajor. Sapete, quello che avrebbe dovuto soccorrere gli Angosiani. Le navi sono state saccheggiate e distrutte. Molte imbarcavano volontari civili. Si contano diecimila morti ed è solo una stima provvisoria. Il risultato è che Bajor ha chiuso le frontiere e non autorizzerà più missioni del genere, se la Flotta non garantisce di scortarle a dovere. E in ogni caso non possiamo più aspettarci che i Bajoriani siano così soccorrevoli, dopo questa catastrofe. Intanto Angosia III continua a essere flagellata e i suoi abitanti muoiono a milioni» concluse, il volto duro come pietra.

   «Quindi andremo noi ad Angosia?» chiese Korris, presagendo la peggior catastrofe umanitaria della sua carriera. L’Enterprise era spaziosa, ora che i civili l’avevano abbandonata in massa. Ma non poteva evacuare un intero pianeta, o anche solo una grande città.

   «No» disse Chase inaspettatamente. «Il Capitano Foley sta conducendo una task-force in zona. Cercheranno di distruggere qualche Sfera, per dare tregua ad Angosia, mentre aspettano l’arrivo di un nuovo convoglio umanitario. La nostra missione sarà diversa».

   «Andremo a caccia dei bastardi che hanno attaccato il convoglio?» chiese Lantora, l’Ufficiale Tattico.

   «Precisamente; il nemico deve sapere che un simile attacco non resterà impunito» annuì Chase. L’Umano e lo Xindi si scambiarono un’occhiata d’intesa. Condividevano la stessa, feroce determinazione. «Inoltre serve una classe Universe per questa particolare minaccia» aggiunse Chase.

   «Perché, chi li ha attaccati?» volle sapere Lantora. «Tuteriani, Krenim o una forza congiunta?».

   «Né gli uni né gli altri» rispose il Capitano, suscitando ancora più sorpresa. Un mormorio nervoso corse tutt’attorno alla tavola rotonda.

   «Vuol dire che c’è una nuova fazione?» chiese lentamente lo Xindi. «Qualche pianeta-canaglia, forse?».

   «Direi di no» rispose Chase. C’era un’estrema gravità in lui, ma sembrava stranamente reticente a vuotare il sacco. Digitò alcuni comandi sull’interfaccia LCARS davanti a lui. «Questa registrazione è stata fatta da una nave del convoglio attaccato. Ci è giunta pochi minuti fa» disse.

   Gli ufficiali trattennero il fiato mentre l’oloproiettore al centro del tavolo si attivava. E videro l’Enterprise-J che apriva il fuoco contro le navi bajoriane, distruggendole una dopo l’altra. Il gelo scese in sala. La scena durò mezzo minuto, poi l’Enterprise sparò verso la nave che effettuava le riprese. L’immagine crepitò, si distorse e infine svanì. Le luci, che si erano abbassate durante la proiezione, tornarono al livello consueto. I presenti si guardarono l’un l’altro, frastornati. Ciascuno sperava di aver avuto le traveggole, ma leggeva negli occhi altrui che non era così.

   «Era un’altra nave di classe Universe, o...» cominciò Ilia Dax, il Primo Ufficiale.

   «No, era proprio l’Enterprise» sospirò Chase.

   «Le mie analisi del filmato lo confermano» aggiunse Terry. «Il nome e il numero di registro sono i miei». Richiamò un fotogramma della registrazione e zoomò sulla parte dello scafo in cui campeggiava il nome Enterprise. La ripulì dai disturbi con qualche algoritmo, aumentando il dettaglio, finché la scritta divenne inequivocabile.

   «Ma è assurdo!» esplose Lantora. «Negli ultimi due giorni siamo rimasti in orbita terrestre. E c’è sempre stato un via vai di personale da qui alla superficie. Nessuno ha rubato l’Enterprise!».

   «Tecnologia olografica» disse Ilia. «Quella nave è equipaggiata con proiettori che le permettono di assumere l’aspetto voluto. Così può ingannarci e metterci uno contro l’altro. Ricordo che i Romulani fecero qualcosa del genere, quattrocento anni fa».

   «Anch’io in un primo momento ho formulato quest’ipotesi, ma l’analisi dettagliata del filmato mi porta a escluderla» intervenne Terry, con quella prontezza che era preziosa per la nave, ma talvolta molesta per i colleghi. «La nave attaccante ha sfoggiato un armamento che corrisponde perfettamente al nostro. Non può essere un’altra nave camuffata».

   «Ma allora che diavolo...» cominciò Lantora, grattandosi la tempia. Si bloccò e si girò con lentezza verso Grenk e T’Vala, che fino a quel momento erano rimasti silenziosi. Nel caso del Tellarita, era un fenomeno più unico che raro. L’Ingegnere Capo si fissava le mani raccolte in grembo e non sembrava intenzionato a dire alcunché.

   «L’attacco al convoglio ha una sola spiegazione logica» disse T’Vala, rivolgendosi al Capitano. «Quella nave è l’ISS Enterprise, che io e Grenk visitammo l’anno scorso, nell’Universo dello Specchio. Evidentemente non è stata distrutta». Nella sala tattica scese un silenzio di tomba.

   «Ho letto i vostri rapporti» disse infine Chase. «E ricordo i vostri alter-ego dello Specchio. Mi basta per sapere in che pericolo si trova la Federazione. Se l’Impero Terrestre ha scoperto come trasferire le sue forze nel nostro universo, ci troviamo di fronte a una minaccia senza precedenti. Un nemico con le nostre stesse tecnologie, ma animato da una brutale volontà di conquista. Non mi stupirebbe se il mio... doppione dello Specchio si alleasse coi Tuteriani, per approfittare del caos in cui versa la Federazione» ammise sconfortato.

   «Sappiamo come hanno raggiunto il nostro universo?» chiese Grenk, riscuotendosi. «Io e T’Vala sfruttammo il Tunnel Spaziale per tornare qui. Se l’ISS Enterprise ha attaccato presso Bajor, immagino che abbia fatto lo stesso».

   «Sì, nei rapporti si afferma chiaramente che la nave è uscita dal Tunnel» confermò Chase. «Per questo la Flotta Stellare ha deciso di minarlo. Niente deve più entrare o uscire da lì, finché la crisi non sarà risolta».

   «Minare il Tunnel Spaziale?! Ma l’ultima volta è stato fatto...» cominciò Korris.

   «... nella Guerra del Dominio, centottanta anni fa» concluse il Capitano. «Conosco la storia. Ora se ne stanno occupando i Bajoriani, con l’aiuto di Cardassiani e Ferengi».

   «Spero che le mine non siano di fabbricazione Ferengi, altrimenti potrebbero non esplodere. I nostri amici dalle grandi orecchie dicono che sono troppo costose per sprecarle così» commentò Lantora, sarcastico.

   «Oltre a quelle, ci saranno anche piattaforme difensive» disse Chase, ignorando il commento. «Qualunque cosa esca, sarà distrutta all’istante. Naturalmente hanno spedito boe d’avvertimento dall’altra parte del Tunnel, per evitare che qualche nave del Quadrante Gamma faccia una brutta fine».

   «Non possono isolare New Bajor a lungo» mormorò Korris, preoccupato. «Sarebbe una tentazione troppo forte per il Dominio».

   «Ogni cosa a suo tempo» tagliò corto Chase. «La nostra missione è dare la caccia all’ISS Enterprise, prima che faccia altri danni. Siamo autorizzati a distruggerla».

   «Non sarà facile da trovare» ammise Lantora. «Ha l’occultamento, vero?».

   «Sì, ma non saprei dire se sia avanzato come il nostro» rispose Grenk. «Quand’ero a bordo non ho avuto tempo di studiare tutti i sistemi».

   «Capitano, anche se riuscissimo a scovare l’Enterprise dello Specchio, resta il fatto che abbiamo la stessa potenza di fuoco» fece notare T’Vala. «La logica dice che otterremo solo di annientarci a vicenda».

   «Spero che la nostra maggiore conoscenza del territorio e delle anomalie ci darà un vantaggio» rispose Chase. «Ma sì, è una sfida dura. Chiederò al Comando di Flotta di fornirci qualche nave di supporto, prima della partenza... ma non contateci troppo».

   Il Capitano si alzò, imitato dai suoi ufficiali. «Tutti ai propri posti, ora. L’Enterprise lascerà l’orbita terrestre fra dodici ore».

 

   «Frell, questa non ci voleva!» imprecò Grenk, entrando come una furia nell’hangar 5.

   «Che succede, capo?» chiese un giovane ingegnere Umano. Lui e i Bynari, gli alieni dediti alla matematica che lavoravano sempre in coppia, erano affaccendati intorno alla Phoenix. Quel prototipo di navetta temporale era il progetto più ambizioso di Grenk: vi si era dedicato prima su Plutone, per conto della Sezione 31, e poi sull’Enterprise. Era stato un incidente di collaudo con quella navetta a spedire lui e T’Vala nell’Universo dello Specchio.

   «Succede che fra meno di dodici ore saremo nello spazio profondo, diretti verso la missione più pericolosa!» sbottò Grenk. «Possiamo scordarci il nuovo test».

   «Ma capo, è assurdo!» protestò l’Umano. «Qui è tutto pronto, possiamo fare il test anche adesso!».

   «Mi hai sentito? L’Enterprise sta per partire e il Capitano non autorizzerà un’altra prova in un momento così concitato».

   «Signore, lavoro con lei alla navetta da un anno, e sono stati sempre momenti concitati» protestò il giovane. «Un giorno sono i Tuteriani, un altro i Krenim, un altro ancora le anomalie. Se ci fermiamo ogni volta, non progrediremo mai. Ma dobbiamo farlo, perché i nostri nemici sono terribilmente avanti nello studio del tempo. Possiamo distruggere Sfere ogni giorno, ma non servirà a niente, se non li battiamo sul loro terreno. Questo progetto... questa navetta... è la risorsa più importante della Flotta Stellare. Lei lo sa, signore; l’ha costruita. Ed è il momento del test decisivo. Andremo indietro nel tempo non di qualche misero minuto, ma di secoli! Mi faccia condurre il test, signore» disse, quasi supplicando. «Non la deluderò, quant’è vero che mi chiamo Berlinghoff Rasmussen!».

   «Giovanotto, ammiro il tuo entusiasmo» sospirò Grenk. «Anch’io mi sentivo così, un anno fa. Ma il mio primo volo è stato un disastro. Se non fossi finito sull’Enterprise dello Specchio, quella maledetta nave non mi avrebbe seguito fin qui. E ora non saccheggerebbe i nostri convogli!» disse, quasi urlando.

   «Oh, questo è... sconveniente» ammise Rasmussen. «Ma è una ragione più per acquisire il vantaggio tecnologico. La Phoenix ci permetterà di sapere in anticipo dove passerà l’altra Enterprise e di aspettarla al varco. Mi faccia condurre quel test! Posso partire immediatamente e tornare... ancor prima di essermene andato!» disse, esaltandosi.

   «Niente da fare. Non farò più esperimenti improvvisati, l’ho promesso al Capitano» disse Grenk, scuotendo la grossa testa porcina. «Ora fa’ il bravo e spegni il nucleo temporale. I Bynari ti aiuteranno».

   «Sì, signore... mi scusi» disse Rasmussen, mortificato.

   «Io vado in sala macchine; appena finite raggiungetemi lì. C’è molto da fare, se vogliamo partire in orario» disse il Tellarita. «E mi raccomando, sigillate quest’hangar! Nessuno deve metterci piede, finché la caccia all’altra Enterprise non sarà conclusa».

   «Agli ordini…».

   «… signore». Come di consueto, i Bynari si completavano le frasi. Quando Grenk fu uscito, entrarono nella piccola navetta, simile a un cristallo dai riflessi iridescenti. Rasmussen li seguì, meditabondo. Restò a osservarli da dietro, mentre i piccoli alieni dai testoni calvi parlottavano fra loro e armeggiavano con i comandi. Un piano disperato stava prendendo forma nella sua mente. Da un lato lo spaventava, ma dall’altro era elettrizzante.

   «Mi occupo io del nucleo temporale» disse, aprendo uno scomparto sul pavimento. «Potete passarmi la chiave isolineare? E anche un misuratore di tachioni, per cortesia. Voglio fare un’ultima scansione, prima di mettere a nanna la Phoenix» aggiunse.

   «Subito» dissero in coro i Bynari, uscendo dalla navetta. Rasmussen sapeva che, per prendere gli strumenti richiesti, avrebbero dovuto raggiungere i container dalla parte opposta dell’hangar. Ciò gli dava quei pochi secondi che gli erano necessari. Richiuse il pannello sul pavimento e si fiondò al posto del pilota. Attivati i comandi olografici, per prima cosa chiuse la porta sul retro della navetta.

   Il sibilo attirò l’attenzione dei Bynari. Gli alieni si voltarono, con movimenti sincronizzati, e capirono cosa stava per succedere. Si precipitarono verso la Phoenix, ma era troppo tardi. Rasmussen aveva avviato la sequenza di lancio e la navetta temporale era chiusa ermeticamente.

   «Bynari a Rasmussen...».

   «... si fermi immediatamente!» dissero gli alieni, premendosi i comunicatori. Non ebbero risposta. Dentro la Phoenix il loro collega, con la fronte sudata, stava digitando la sequenza finale.

   «E fu così che Berlinghoff Rasmussen entrò nella Storia!» mormorò. «Quattro secoli nel passato... vedrò l’alba della Federazione».

   «Attenzione, il nucleo temporale ha raggiunto il potenziale di cascata» avvertì il computer di bordo.

   «S-spero solo che, dopo essere entrato nella Storia, riuscirò anche a uscirne!» balbettò Rasmussen. Chiuse gli occhi e premette l’avvio. La Phoenix si dissolse davanti agli occhi dei Bynari.

   «Umani... sono incorreggibili» disse il Bynario 0.

   «Le conseguenze possono essere gravissime» aggiunse il Bynario 1.

   Restarono in silenzio per parecchi secondi, fissando il punto in cui era svanita la Phoenix.

   «Non c’è ragione per cui non debba impostare il ritorno a pochi secondi dopo la partenza» commentò 0.

   «Concordo» annuì 1.

   «Il suo ritardo mi fa ipotizzare che abbia incontrato delle difficoltà».

   «Concordo».

   «Dobbiamo considerare l’eventualità che il nostro collega non torni mai più».

   «Concordo anche su questo».

   «Dovresti informare l’Ingegnere Capo di questo sfortunato evento».

   «Non concordo. Vacci tu!» disse 1. Il suo gregario lo guardò meravigliato: era rarissimo che i loro pensieri non fossero allineati. In quella la Phoenix riapparve. I Bynari emisero un sospiro di sollievo, il massimo consentito alla loro specie, aliena alle emozioni violente.

   «Radiazioni tachioniche nella norma» commentò 0, analizzandola con il suo strumento.

   «Lo scafo non mostra segni di cedimento» aggiunse 1, studiando la superficie di tritanio plastificato.

   «Entriamo, allora». Il Bynario 0 posò la mano sulla griglia azzurra del lettore di DNA, sul retro della navetta. Riconoscendolo, il computer materializzò l’ingresso al centro della sezione esagonale.

   «Oh, questo è... sconveniente» disse 0, scrutando all’interno della navetta.

   «Molto sconveniente» gli fece eco 1. Perché la Phoenix, di ritorno dal suo viaggio nel tempo, era vuota.

 

   «È assurdo! Non potete togliermi il Primo Ufficiale e l’Ufficiale Tattico, alla vigilia della battaglia con l’altra Enterprise!» protestò Chase. Si aggirava nel suo ufficio come un leone in gabbia, quasi ignorando l’Ammiraglio Nelscott, seduto sul divanetto.

   «Non è una decisione presa alla leggera, Alexander» disse l’Ammiraglio. «Ma i servizi segreti ci dicono che i Tuteriani stanno trattando con altre specie. Presto la lista dei nemici potrebbe allungarsi, senza nemmeno dover tirare in ballo lo Specchio. Ci servono informazioni più dettagliate, e ci servono subito».

   «Perché proprio i miei ufficiali?» insisté Chase, fronteggiando l’Ammiraglio. «Questo è un lavoro per la Sezione 31».

   «La Sezione 31 non se la passa bene, ultimamente» spiegò Nelscott a malincuore. «I Tuteriani hanno colpito diverse sue installazioni. Ci sono inchieste, ai massimi livelli della Flotta, che vogliono fare chiarezza sul suo operato. Persino il Direttore Sheev è indagato».

   «Oh, riuscirà a cavarsela. Come sempre» commentò Chase.

   «È probabile, ma al momento non può lanciarsi in operazioni troppo ardite. Preferisce tenere un profilo basso, finché passerà la burrasca».

   «E si aspetta che i miei ufficiali facciano il suo lavoro?!» s’indignò il Capitano. «Quell’Andoriano ha esagerato con la birra!».

   «Alexander, sono solo due ufficiali...» insisté l’Ammiraglio.

   «Sappiamo entrambi che Ilia Dax e Lantora non sono due ufficiali qualunque» ribatté Chase, sedendosi finalmente a fianco del superiore.

   «No, infatti; la Sezione 31 li ha selezionati fra migliaia di candidati» ammise Nelscott. «L’esperienza di Dax è insostituibile. E Lantora è uno Xindi: la loro tecnologia organica somiglia a quella che incontrerà in missione, sul pianeta Vorgon. Entrambi, inoltre, sono esperti nelle tecniche di sopravvivenza in ambienti selvaggi. Non fraintendermi, non li spediremo laggiù da soli. Con loro ci saranno agenti scelti della Sezione 31. Considerala una partnership» disse, con un sorriso conciliante.

   Chase esitò. La richiesta dell’Ammiraglio non era eccentrica come poteva sembrare. La Sezione 31 non aveva mai esitato a reclutare personale dalle altre branche della Flotta, quando le faceva comodo. Né era strano che, per quella missione, avesse selezionato Ilia e Lantora. Gli ufficiali in gamba come loro scarseggiavano, purtroppo.

   Chase l’aveva sempre saputo, ma l’ultimo anno di guerra glielo aveva reso ancor più evidente: c’era una cronica carenza di preparazione nel personale di Flotta. Gli ufficiali della Sicurezza spesso si facevano prendere dal panico e fuggivano, anche quand’erano in superiorità numerica. Era successo persino che, scappando, abbandonassero le armi sul campo, permettendo al nemico d’impossessarsene. Ciò dipendeva dal fatto che i requisiti psico-fisici erano stati enormemente abbassati, rispetto ai vecchi tempi, per non discriminare nessuno e per sopperire alla “crisi delle vocazioni”.

   Il problema era palpabile anche nelle altre sezioni. Quante volte Grenk si era lamentato che i suoi ingegneri non capivano le loro stesse macchine! Ormai la tecnologia era così progredita che pochi riuscivano a comprenderla. Intere astronavi erano state distrutte perché piccoli danni non erano stati riparati in tempo. Idem per i medici, costretti a operare con strumenti quasi incomprensibili a loro stessi. E gli ufficiali al comando? Quanti errori madornali avevano commesso nell’ultimo anno! Si ritiravano quando potevano vincere, o lasciavano fuggire il nemico, o addirittura credevano di poter intavolare trattative e si facevano rapire. Poi naturalmente cedevano sotto tortura, rivelando informazioni sensibili; e come ricompensa erano giustiziati dai Tuteriani.

   «Allora, posso dire al tuo amico azzurro che accetti?» chiese Nelscott, vedendo che Chase era titubante.

   «Mi attengo ai suoi ordini, Ammiraglio.  O preferisce che l’operazione resti ufficiosa?» chiese il Capitano.

   «Vedo che hai colto il punto. Vorrei davvero che la gestissimo nella massima discrezione, Alexander» sorrise Nelscott.

   «Mi faccia indovinare... se io aiuto Sheev, lui mi dovrà un favore» sospirò Chase, che detestava questo atteggiamento della Sezione 31.

   «Non è la prima volta che vi scambiate favori» ricordò Nelscott. «L’anno scorso ti ha permesso di tenere a bordo quel prototipo di crono-navetta. E prima ancora, durante la crisi dei Parassiti Neurali, ti fornì quella scienziata Andoriana... la Bacia-Blatte» ridacchiò. «Ti è stata utile, no?».

   «Altroché» annuì Chase. La prima volta che aveva incontrato la dottoressa Neelah, gli era parsa fredda e scostante ai limiti della sociopatia, per quanto fosse geniale come scienziata. Ma già la prima missione nella Macchia di Rovi gli aveva fatto intravedere qualcos’altro. E dopo i primi due anni a bordo, durante i quali si erano tenuti prudentemente a distanza, tutto era cambiato. Chase aveva scoperto che sotto i ghiacci di Andoria batteva un cuore caldo. Alla fine, si somigliavano: erano così concentrati sul lavoro che avevano sempre trascurato gli affetti, non accorgendosi nemmeno di quanto ne avessero bisogno. Ma ora, finalmente, lo avevano capito. La loro relazione durava ormai da un anno, anche se era portata avanti così discretamente che pochi a bordo ne erano consapevoli. «Terry, attiva il protocollo Lambda-17, per cortesia» ordinò Chase, alzandosi. «Ricerca focalizzata sull’Ammiraglio Nelscott».

   «Ricevuto, Capitano». L’Intelligenza Artificiale si materializzò di fianco all’Ammiraglio e lo afferrò per un braccio. Prese a sondarlo con un tricorder.

   «Ehi, che sta facendo? Mi lasci subito!» protestò Nelscott. Ma non c’era modo di sfuggire alla presa d’acciaio della proiezione isomorfa. «E lei, Capitano, cosa crede di fare? Cos’è il protocollo Lambda-17?!».

   «Ricerca conclusa. L’Ammiraglio Nelscott risulta attualmente a Parigi, per un incontro con il Presidente Ektius» disse Terry. «I miei sensori rilevano che questo individuo sfrutta un camuffamento olografico».

   «Questo risponde alla sua domanda... Sheev, dico bene?» fece il Capitano, avvicinandosi con aria minacciosa.

   «Lei sta rischiando la corte marziale!» minacciò l’Ammiraglio, furibondo.

   «È lei quello sotto indagine, Direttore. E a giudicare dalla sua messinscena, ha proprio l’acqua alla gola» disse Chase. «Allora, dove vuole andare? In infermeria per l’esame del DNA, o direttamente in cella?».

   «Signore, è certo che sia proprio lui?» chiese Terry, esitante.

   «Abbastanza» rispose il Capitano. Studiò il prigioniero, osservandogli in particolare la testa, dai cortissimi capelli neri. E scattò ad afferrare qualcosa d’invisibile, pochi centimetri sopra il suo cranio.

   «Ahio! Dannato pellerosa!» gemette l’impostore.

   «Disattivi l’ologramma, o giuro che le strappo l’antenna!» minacciò il Capitano. Per dimostrare che faceva sul serio gliela torse brutalmente, strappandogli un gemito di dolore.

   «Va bene, ha vinto!» si arrese l’impostore. Con la mano libera premette tre volte sul comunicatore, in rapida sequenza, e si trasformò sotto gli occhi dei due ufficiali. Ora aveva la pelle di un blu intenso, capelli più lunghi e bianchi come la neve, e due antenne che fuoriuscivano dal cranio. Quella di sinistra era in mano a Chase, che la lasciò andare, continuando però a scrutare l’Andoriano, con truce soddisfazione.

   «Nessuno mi aveva mai preso per un’antenna!» protestò Sheev, tastandosi la parte dolorante. «Quando ha capito che ero io?».

   «Il sospetto ce l’avevo fin dall’inizio. Quando parliamo della guerra, l’Ammiraglio mi chiama col mio grado o per cognome; mai per nome» spiegò Chase. «Ma la conferma l’ho avuta quando ha chiamato Neelah col nomignolo Bacia-Blatte. Solo in quel laboratorio su Plutone la chiamavano così».

   «Ottimo spirito d’osservazione» riconobbe Sheev. «Ma la missione su Vorgon resta da farsi. Se necessario manderò altri agenti. Speravo però che lei ne cogliesse l’importanza. Se i Tuteriani trovano nuovi alleati nel Quadrante Beta, dobbiamo saperlo prima di trovarci davanti le loro navi».

   «Conosco il problema dei Vorgon» disse Chase. «Sono ancora un enigma: sappiamo così poco della cultura, della tecnologia...».

   «Il loro pianeta natale è sempre stato off-limits. Fino a poco tempo fa non sapevamo nemmeno dove fosse di preciso» rincarò Sheev. «Ma ora i miei agenti l’hanno localizzato. Abbiamo persino immagini dettagliate della superficie. Ci serve solo una squadra che vada sul posto per raccogliere ulteriori dati. Una nave occultata porterà gli agenti fin là. Sappiamo dove sbarcarli e abbiamo un piano di estrazione. A terra si affideranno all’occultamento individuale».

   «Il tempo è così essenziale? Non potete aspettare che staniamo l’ISS Enterprise?» domandò Chase.

   «Sa bene che potrebbe essere una caccia lunga» rispose Sheev. «E noi abbiamo captato indizi di un conto alla rovescia. Qualcosa di grosso si muove, su quel pianeta, e dobbiamo saperne di più».

   «Temo che abbia sprecato il suo tempo, venendo qui» disse Chase. «Se me l’avesse chiesto in un altro momento l’avrei preso in considerazione, ma...».

   «Mandi me» intervenne Terry.

   «Cosa? Non se ne parla!» protestò Chase.

   «Le mie subroutine tattiche indicano che la mia partecipazione alla missione incrementerebbe in modo rilevante le probabilità di successo» insisté l’IA. «Inoltre, inviando una mia proiezione munita di Emettitore Autonomo, non verrei a mancarle durante la nostra missione principale».

   «Buona idea» riconobbe Sheev. «Naturalmente dovremo prendere precauzioni... non possiamo permettere che il suo database finisca in mano al nemico, se le cose andassero male».

   «Eliminerò le informazioni sensibili dalla memoria dell’Emettitore» promise Terry. «E se verrò catturata, cancellerò del tutto il mio programma» aggiunse come se niente fosse.

   «Se lo scordi. Non la manderò dietro la Cortina di Ferro con una pillola di cianuro!» si adombrò Chase.

   «Un’analogia storica interessante, Capitano» sorrise Terry. «Ma la cancellazione di una mia proiezione non mi ucciderà. Il mio processore centrale resterà a bordo dell’Enterprise. Continuerò a funzionare regolarmente».

   «Ascolti, lei è abituata ad avere molte proiezioni attive simultaneamente» disse Chase. «Quando non ne ha più bisogno, vengono... reintegrate nel processore centrale, giusto?».

   «Corretto».

   «Ma in tutte le sue missioni sul campo, non è mai capitato che l’Emettitore fosse distrutto».

   «Corretto» ripeté Terry, con la stessa voce ed espressione di prima. Quando faceva così, somigliava meno a un essere umano e più a un computer. Eppure Chase era convinto che il suo Ufficiale Scientifico fosse più che sequenze di codici.

   «Immagini di essere in missione ad anni luce dall’Enterprise, del tutto separata dal processore» proseguì il Capitano. «Se il suo Emettitore fosse distrutto, o se lei cancellasse il suo programma, sarebbe come morire».

   «La mia consapevolezza cesserebbe di esistere, sì» riconobbe Terry. Parlava con la stessa calma di quando chiacchieravano fuori servizio. «Ma sono stata programmata per anteporre la sicurezza della Federazione alla mia sopravvivenza. Se necessario, ho l’ordine di... eliminarmi dall’equazione» disse, fissando Chase con gli enigmatici occhi a mandorla.

   «Un giorno o l’altro dovremo sostituire il personale di Flotta con le proiezioni isomorfe!» ridacchiò Sheev. «Sono molto più disinteressate ed efficienti di noi, non le pare?».

   «Già, anche troppo» si rammaricò Chase. Diede le spalle a entrambi e andò verso la sua scrivania, meditabondo. L’aggirò lentamente e sedette in poltrona. «Parlerò con Ilia e Lantora. Se accetteranno la missione, autorizzerò anche Terry» stabilì.

   «Splendido! Le devo un favore» s’illuminò Sheev.

   «No, lo deve ai miei ufficiali» corresse il Capitano.

 

   «Sono in un mare di guai, amico mio» confidò Grenk, con la testa fra le mani. Il Tellarita era seduto al suo solito posto nell’Antro del Drago, il pittoresco locale gestito da Raav, l’unico Gorn a bordo. Da quando i civili avevano abbandonato in massa l’astronave, anche i ristoranti affacciati sulla Piazza Centrale avevano chiuso i battenti. Solo Raav aveva deciso di tener duro. Il fatto che l’Antro del Drago fosse l’unico locale aperto faceva sì che, malgrado la fuga dei civili, i clienti non mancassero. Anzi, Raav doveva ammettere che, senza la concorrenza, gli affari andavano meglio di prima.

   «Dimmi tutto con calma e forse troveremo una soluzione» disse il Gorn, sedendosi accanto all’amico.

   «Ricordi quel giovane genio della meccanica temporale di cui ti ho parlato?».

   «Sì, quel Bergil... Bernil...» incespicò Raav.

   «Berlinghoff Rasmussen» corresse Grenk. «Pensavo che fosse una fortuna averlo in squadra. Grazie a lui abbiamo fatto passi da gigante con la Phoenix. Eravamo pronti a un nuovo test, il viaggio nel tempo a lungo raggio: secoli e secoli nel passato!».

   «Non ha funzionato?» chiese il Gorn.

   «Oh, ha funzionato fin troppo bene. Radiazioni tachioniche basse, integrità strutturale alta, e la Phoenix ha ancora energia da vendere. Peccato che non ci sia traccia di Rasmussen».

   «Dunque si è perso per strada. Brutta storia» si dispiacque Raav. «Ma la nave è tornata».

   «Il pilota automatico era regolato per riportarla qui dopo un certo tempo».

   «Bene, no? Vuol dire che puoi tornare indietro a cercarlo».

   «Fosse facile! Quello sciocco è partito senza permesso. Fra poche ore l’Enterprise andrà in missione e io devo ancora dire al Capitano cos’è successo» gemette Grenk, versandosi un whisky di Aldebaran verdissimo. Scolò il bicchierino in un solo sorso. «Sai, stavo quasi pensando che anche la missione di salvataggio dovrebbe essere... ufficiosa» rivelò. «Prendo la Phoenix, vado nello stesso momento del passato in cui era l’impiastro, lo teletrasporto a bordo e torno qui».

   «Sssshhhht! Te lo sconsiglio» fece Raav, sibilando alla maniera dei Gorn. «Questi segreti ti hanno già messo nei guai col Capitano. Un altro pasticcio temporale non segnalato e ti giochi la carriera. Oltre a mettere sottosopra il continuum spazio-temporale, in cui viviamo noi poveri diavoli» aggiunse, tra il serio e il faceto.

   «Hai ragione, vecchio mio» sospirò Grenk. Per un attimo cadde il silenzio. Fu allora che l’illuminazione del locale ebbe un breve black-out. Durò solo un secondo, poi le luci si riaccesero. Siccome il salone era illuminato anche da un braciere centrale, per ricreare l’atmosfera delle caverne Gorn, gli avventori non ci fecero molto caso. Ma a Grenk quel calo di potenza non poteva sfuggire.

   «Beh, hai problemi all’illuminazione?» si accigliò. «È già successo prima?».

   «Qualche volta, negli ultimi giorni» borbottò Raav, di malumore. «Sssshhht! Sai, anch’io devo farti una confessione» sibilò, facendo guizzare la lingua violacea tra le fauci. «È da mercoledì scorso che abbiamo un’infestazione di pulci fotoniche. Quelle bastardelle s’infilano nei condotti e succhiano energia».

   «Dovevi informarmi subito!» protestò Grenk. «Se raggiungono qualche sistema chiave dell’Enterprise...».

   «Sssshhht! Terry ha isolato i condotti con campi di forza e la squadra di disinfestazione è al lavoro» si affrettò a spiegare il Gorn, a bassa voce. «Ora ti sarei grato se abbassassi il tono. Non mi va che i clienti sappiano di questo problemino» disse, guardandosi nervosamente attorno.

   «Oh, scusa» bisbigliò Grenk, calmandosi. «Ma da dove sono spuntate?».

   «Da quel carico di Farpoint, probabilmente. Non credo vengano dalla Terra» rispose Raav.

   «No di certo. Sono native del Quadrante Delta» spiegò il Tellarita. «A Farpoint sono stati avvistati degli Hirogeni, e persino qualche Krenim, ultimamente. Possono benissimo esser stati loro a portare i parassiti» proseguì. «Beh, se dovessero uscire dalla zona di quarantena, fammelo sapere» raccomandò, facendo per alzarsi. Ma Raav gli mise una pesante manona artigliata sul braccio, costringendolo a restare.

   «Allora che farai, con la Phoenix?» chiese il rettile.

   «Ne parlerò al Capitano. Se mi autorizzerà, andremo a salvare il mio protégé» rispose l’Ingegnere Capo.

   «Ottimo. Ma stavo pensando... ti farebbe comodo sapere che gli è successo, prima di esporti allo stesso rischio» notò Raav. «Che so, potresti cercare tracce di DNA, per sapere se qualcuno ha abbordato la navetta».

   «Eh sì, dovrei. E c’è un altro guaio» borbottò Grenk. «Dalla mia esperienza nello Specchio, ho una certa... fobia del viaggio nel tempo. Finché lavoro sulla navetta non c’è problema, ma effettuare personalmente il trasferimento... mi vengono i brividi. Non so se riuscirei a restare lucido. Ma non vorrei neanche mandare un altro al mio posto. Frell, non c’è via di scampo!» imprecò.

   «Ti serve una persona fidata da coinvolgere» suggerì Raav. «Qualcuno che sappia pensare in modo creativo. Magari che non faccia nemmeno parte della Flotta Stellare» aggiunse inaspettatamente.

   «Chi?! Non restano molti civili sull’Enterprise, e nessuno con le competenze per...». Grenk s’interruppe, vedendo che Raav – pur tenendo le braccia posate sul tavolo – tendeva un artiglio, indicando discretamente un cliente vicino. Il Tellarita si girò adagio. Neelah sorseggiava una birra andoriana blu, mentre rileggeva i suoi appunti sul d-pad. Sul tavolino davanti a lei c’erano ancora gli avanzi del suo spuntino vegetariano.

   «L’albina con le antenne? No, mai!» protestò Grenk.

   «È una tua scelta» disse Raav, scrollando le spalle.

   Che li avesse sentiti, o che avesse percepito i loro pensieri, fatto sta che l’Aenar alzò gli occhi azzurro ghiaccio dal d-pad e li piantò su Grenk. Si alzò con aria teatrale e gli venne incontro a passo svelto. Il Tellarita sentì rizzarsi i peli sul collo. C’era una sorta di elettricità che accompagnava la telepate. O forse era solo il timore di quel che stavano per fare, si disse l’Ingegnere Capo.

   «Posso aiutarla?» chiese la dottoressa, squadrandolo con occhi gelidi. «Sento che è alle prese con un problema tecnologico. Il genere di cose che rompe la monotonia. Su, mi dica... non sia timido!».

   «Buona fortuna» disse Raav, facendo l’occhiolino a Grenk. Il Gorn scivolò via dalla sedia, lasciando il posto alla biologa.

   «Ehm... salve» squittì Grenk, asciugandosi il sudore dalla fronte. «So che lei è sempre stata affascinata dalle nuove tecnologie... che non teme di sperimentarle».

   «Che è successo alla Phoenix?» tagliò corto Neelah.

   «Caspita, è una telepate di prim’ordine!» fischiò Grenk.

   «È vero, ma non le stavo leggendo la mente. Signor Grenk, non credo che sarebbe così nervoso nemmeno se fosse in corso una rottura del nucleo» precisò l’Aenar.

   Il Tellarita deglutì e si versò un altro bicchiere di whisky aldebarano. Ne aveva bisogno.

 

   I due combattenti in armatura giravano l’uno intorno all’altro, disegnando un cerchio quasi perfetto al centro dell’arena. Armati di lunghi bastoni in fibra di carbonio, vi giocherellavano, cambiando spesso posizione di guardia, e studiavano l’avversario, per cogliere l’attimo in cui si scopriva. Erano silenziosi e circospetti, ma pronti a scattare. Le loro protezioni ricordavano le corazze degli antichi samurai. Una era bianca, l’altra vermiglia; solo gli orli dei vari elementi, dai colori invertiti, ne spezzavano l’uniformità.

   Il guerriero in rosso attaccò, con una serie di colpi veloci e potenti. L’avversario riuscì a pararli tutti, indietreggiando di qualche passo. Scartò di lato, disimpegnandosi, e passò al contrattacco. Colpì un paio di volte dall’alto. Poi il guerriero in bianco si abbassò repentinamente, schivando un laterale che l’avrebbe colto alla spalla, e colpì il nemico alle ginocchia, facendolo cadere. Prima che potesse rialzarsi, gli puntò il bastone alla gola.

   «Ti vedo distratto» disse il vincitore. «In un vero scontro, la distrazione si paga con la vita».

   «Lo so» rispose il samurai rosso, allontanando il bastone dell’avversario con un gesto. «Ma la partita non è ancora finita. Alla meglio dei tre, ricordi?». Sollevò le gambe e si rimise in piedi con un colpo di reni, tornando subito all’attacco.

   Il duello ripercorse lo schema di prima. Anche stavolta il samurai bianco parò a fatica una serie di attacchi, ma poi riprese l’iniziativa. Si abbassò nuovamente, provando a falciare il samurai rosso. Questi, però, gli sfuggì con un salto e al tempo stesso caricò un poderoso fendente. Il samurai bianco, che era ancora a terra, riuscì a proteggersi appena in tempo con una parata alta. Ma il rosso, riatterrato, lo colpì alla spalla con un calcio, rovesciandolo all’indietro. E gli puntò il bastone alla gola prima che potesse riprendersi.

   «Anche l’eccessiva sicurezza si paga con la vita» disse il samurai rosso.

   «Il terzo round decide tutto» notò il samurai bianco, e tornò agilmente in piedi.

   I contendenti ripresero a girarsi intorno. Ogni tanto simulavano un attacco, cercando di far scoprire l’avversario. Arrivarono a scambiarsi qualche colpo, ma dopo poche parate tornavano a distanziarsi e il gioco ricominciava.

   «Non ho tutto il pomeriggio» disse il samurai rosso.

   «Allora finiamola» rispose il bianco, e partì all’attacco.

   Lottarono senza darsi tregua, alternando attacchi, parate, finte. Il vantaggio passava dall’uno all’altro ogni pochi secondi, ma nessuno riusciva a segnare un punto valido. Entrambi, però, erano determinati a vincere. La loro ostinazione prolungò lo scontro ben oltre il normale. Infine le distanze si accorciarono tanto che ciascuno dei due afferrò il bastone dell’altro. Rimasero avvinghiati in quella posizione. Mugolii affannosi uscivano dalle maschere protettive. Infine il samurai bianco effettuò una torsione, che avrebbe sollevato l’altro per poi buttarlo a terra. Ma il rosso gli fece lo sgambetto, provocando la caduta di entrambi. Si rotolarono sul pavimento dell’arena, ancora avvinghiati e con i bastoni in mano. Finalmente il rosso riuscì a restare di sopra, schiacciando a terra l’avversario. I bastoni, incrociati, divennero una forbice che avrebbe preso nel collo il samurai bianco, se avesse esaurito le forze.

   «Allora, ti arrendi?!» ringhiò il guerriero in rosso.

   «No, mi sto divertendo troppo!» rise il bianco. Gli puntò i piedi contro lo stomaco, sollevandolo da terra. Il samurai rosso fece una capriola in aria e atterrò con violenza dietro all’avversario. Tutti e due scattarono di nuovo in piedi, per riprendere lo scontro; ma erano così esausti che si appoggiavano ai bastoni, più che usarli come arma. Si scambiarono ancora qualche colpo, sempre più fiacco. Alla fine rimasero a guardarsi ansimanti.

   «Diciamo che è un pareggio?» suggerì il rosso.

   «Diciamolo» convenne il bianco, sollevandosi la maschera protettiva. Apparve il bel volto ambrato di T’Vala, che però in quel momento era sudata e stanca. «L’Anbo-jytsu dovrebbe insegnare disciplina e misura delle forze» commentò con disappunto. «Questo round è stato l’opposto».

   «Mi spiace... mi sono lasciato andare» si scusò il combattente in rosso, alzandosi a sua volta la maschera. Era Lantora, anche lui provato dallo scontro.

   «Non era una critica nei tuoi confronti, ma nei miei» spiegò T’Vala. «Di solito riesco a controllarmi meglio» aggiunse delusa.

   «Ehi, era solo un allenamento... un gioco!» osservò Lantora, avvicinandosi. «I giochi servono a sfogarsi. Per stare seri c’è il resto della vita».

   «Io sono mezza Vulcaniana».

   «E che vuol dire?!» protestò lo Xindi. «Che non puoi mai divertirti? Chi l’ha stabilito? E poi, sei anche mezza Betazoide. Non dicevi di aver imparato a bilanciare i due aspetti?».

   «Siamo in guerra. Ogni giorno corriamo dei rischi» spiegò T’Vala, percependo la sua frustrazione. «Finché durerà questo stato di cose, preferisco tenere a bada l’emotività. Mi rende più efficiente sul lavoro. E ci sarà meno da soffrire, se dovesse succedere qualche disgrazia».

   «Parli della tua sofferenza o di quella altrui?».

   «Di entrambe».

   «Niente sofferenza... ma anche niente gioia. Niente soddisfazioni. Niente amore» osservò Lantora. Era molto vicino, adesso, e fissava T’Vala negli occhi. «Tanto varrebbe essere già morti. Se non possiamo vivere come vogliamo, qual è il senso di questa guerra?».

   «Tu come vorresti vivere, Tenente?» chiese T’Vala, quasi in un sussurro. Non si allontanò dallo Xindi, anzi accostò ulteriormente il viso. Percepiva le emozioni nei suoi confronti e non le dispiacevano affatto. Anzi la lusingavano. Ma voleva sentirle articolare, prima di prendere una decisione.

   Lantora si perse nel suo sguardo nero e liquido. Avrebbe voluto baciare quelle labbra morbide, sentirne il sapore, ma si ritrasse. «Vorrei solo che le cose fossero meno complicate... e che avessimo più tempo» disse, eludendo la domanda. Si diresse verso l’uscita.

   «Se vuoi possiamo continuare questi incontri» suggerì T’Vala alle sue spalle. «Martedì e venerdì, va ancora bene?» chiese con una certa formalità.

   «Mi piacerebbe... ma temo che dovremo sospenderli per un po’» rispose Lantora. «Sto per partire».

   «Cosa?! E per dove?» chiese T’Vala, scioccata. Adesso capiva la strana tensione che percepiva nello Xindi. Lo inseguì, ma lui si voltò un attimo prima di uscire dall’arena.

   «È un’infiltrazione su un pianeta ostile. Massima segretezza. Meno ne sai, meglio è. Comunque non sarà più pericoloso che dare la caccia all’Enterprise dello Specchio» rispose l’Ufficiale Tattico, indugiando sulla soglia.

   «Sì, invece» ribatté T’Vala. «Molto di più. E tu lo sai». Si rese conto che Lantora temeva di non rivederla e provò la stessa angoscia. Ma riuscì a mascherarla, almeno in parte.

   «Sai qual è il bello di essere illogici ed emotivi? Che si può sperare» disse lo Xindi, guardandola di sottecchi. «Anche se tutte le flotte nemiche ci dividessero, io spero che ci rivedremo. E che avremo un po’ di... tempo» concluse malinconico. Uscì dalla sala.

   La mezza Vulcaniana aveva alzato la mano nel tradizionale saluto a V. Ma prima che potesse aprire bocca, rimase sola. Lasciò ricadere mestamente il braccio. «Ci voglio credere anch’io» mormorò.

 

   Il Capitano Chase entrò in sala teletrasporto con un groppo in gola. Ilia, Terry e Lantora erano già lì, pronti alla partenza. Indossavano uniformi nere, semicorazzate, ed erano armati. La tensione era palpabile.

   «Situazione?» chiese il Capitano, avvicinandosi.

   «La Sojourner ci ha appena dato il via libera. Siamo pronti, Capitano» disse Terry, che portava l’Emettitore Autonomo al braccio.

   «Lo sa? Vorrei che aveste scelto diversamente» disse Chase. La dedizione al dovere dei suoi ufficiali lo commuoveva, ma raramente era stato così in pensiero per le loro vite.

   «Lo avrei fatto solo in caso di malfunzionamento delle mie subroutine tattiche, signore» rispose l’IA.

   «E questo vale anche per noi?» chiese Lantora, un po’ indispettito. «Sta dicendo che saremmo stati pazzi a rifiutare questa missione?». Non disse “missione suicida”, ma il tono era quello.

   «Basta così» tagliò corto Ilia, facendosi avanti. «Capitano, siamo consci dei rischi. E accettiamo di correrli. Né più né meno di come sta facendo ogni altro ufficiale di questa nave».

   «Addentrarvi in una giungla aliena non...» cominciò il Capitano, ma s’interruppe, incrociando gli occhi verde acqua del suo Primo Ufficiale. C’era qualcosa di molto vecchio e saggio, dietro la loro apparente giovinezza. «Molto bene, procedete» riprese Chase. «Ma tenete gli occhi aperti. Sarete i primi federali a mettere piede su Vorgon. Nessuno sa cosa incontrerete. Perciò restate uniti e non esitate a rientrare, in caso di pericolo. Alla Flotta è più utile che torniate con un rapporto parziale, piuttosto che non avere alcun rapporto» raccomandò.

   «Intesi, Capitano» disse Ilia, salendo sulla piattaforma di teletrasporto. Fu assalita da una sensazione familiare: quel misto di timore ed eccitazione che aveva provato nelle sue vite passate, ogni volta che era partita per una missione rischiosa. Non ci si poteva mai realmente abituare. Ai loro tempi, Jadzia ed Ezri erano state messe alla prova in ogni modo concepibile. Ora toccava a lei dimostrare che era qualcosa di più dei loro ricordi; qualcosa di più del verme Dax raggomitolato nel suo addome.

   «Registrerò tutto con la massima attenzione» assicurò Terry, seguendola.

   «Lantora...» mormorò Chase, mentre anche lo Xindi gli passava a fianco.

   «Veglierò su di loro» promise l’Ufficiale Tattico, fermandosi solo un istante per scambiare un’occhiata d’intesa. E salì sul teletrasporto.

   «Capitano?» fece Ilia, quando furono tutti e tre in posizione.

   «Sì, Comandante?».

   «Cerchi di non ammaccare l’Enterprise, in nostra assenza» lo punzecchiò. E si dissolse nel teletrasporto, assieme ai colleghi.

   «Farò del mio meglio» sospirò Chase, rimasto solo con il tecnico del teletrasporto. Ma non erano passati due secondi che un’altra proiezione di Terry comparve al suo fianco.

   «La Sojourner ci segnala l’okay» disse la proiezione isomorfa. «Sta già lasciando l’orbita terrestre». Attivò uno schermo sulla parete, inquadrando la nave a testa di martello che si allontanava. La Sojourner puntò dritta verso il Quadrante Beta, attivò i motori e scomparve nel tunnel di cavitazione.

   «Saranno a destinazione in...» cominciò Terry.

   «Lasci stare» l’interruppe Chase, alzando una mano. Si chiese se Sheev aveva ragione: la Flotta Stellare doveva affidarsi agli ologrammi? Dopotutto erano invulnerabili a gran parte delle debolezze degli Organici. E potevano stare in più posti contemporaneamente, come dimostrava Terry: mentre una sua copia sfrecciava verso Vorgon, il processore centrale e la maggior parte delle proiezioni rimanevano sull’Enterprise. Se anche la copia in missione fosse stata distrutta, ciò non avrebbe inficiato il funzionamento della nave. Ma Chase sapeva che considerare così spendibili degli esseri intelligenti – perché tali erano gli ologrammi – voleva dire prendere una china molto pericolosa. E non era detto che una squadra composta da Intelligenze Artificiali, che ragionavano in modo simile, fosse più efficace di una di Organici, in cui ogni elemento forniva un apporto originale.

   «Capitano, ho un altro aggiornamento per lei» disse Terry, distraendolo dai suoi pensieri.

   «Riguarda la Phoenix?» domandò Chase, che era stato messo al corrente della scomparsa di Rasmussen.

   «No, Grenk e la sua squadra stanno ancora cercando di determinare l’accaduto» spiegò Terry. Lasciarono la sala teletrasporto, diretti in plancia. «Il problema riguarda le pulci fotoniche che infestano la sezione ristorativa. Ne sto rilevando anche negli altri settori. Temo che le mie procedure di contenimento siano fallite».

   Chase, che camminava a passo svelto, si fermò di botto. Squadrò la collega dai capelli corvini, che gli stava accanto con le mani incrociate dietro la schiena. «Mi faccia capire: lei... ha le pulci?!» chiese, incredulo.

   «Non in questa mia proiezione, ovviamente» si difese Terry, con la massima dignità. «Ma se si riferisce a me come Enterprise... temo di sì».

   «Quali sono gli effetti?» volle sapere il Capitano.

   «Locali perdite di potenza. Nulla che non possa compensare, per il momento» spiegò l’IA. «Ma a volte le pulci succhiano troppa energia e s’ingrossano fino a scoppiare. Ciò può provocare dei picchi energetici che minacciano la mia griglia EPS».

   «Terry, apra bene le orecchie» disse Chase, accigliato.

   «Sono aperte, signore» fece l’IA, un po’ stupita. «Vuole che cambi la loro conformazione?».

   «No, ci mancherebbe solo che diventasse Ferengi. Intendevo dire “mi ascolti”» sospirò Chase.

   «Io l’ascolto sempre».

   «Stavolta mi ascolti più del solito» precisò il Capitano. «Stiamo per affrontare un’astronave che ha la nostra stessa potenza e io mi trovo senza due ufficiali superiori. Se al momento dello scontro avremo dei cali d’energia, o dei sovraccarichi, sarà la fine. Il mio doppione dello Specchio non è uno stupido. Ci distruggerà, se gli diamo l’occasione».

   «Certo, signore» annuì Terry. «Le pulci fotoniche sono difficili da rilevare, ma tenterò. Nel frattempo chiamo tutte le squadre di disinfestazione».

   «Informi l’equipaggio. Dica a tutti di stare all’erta» raccomandò Chase. «Non voglio che qualcuno si sieda su una pulce e corra in giro coi pantaloni in fiamme».

 

   «Questo è certamente DNA umano» disse Neelah, sondando l’interno della Phoenix con un tricorder medico. «Ma non è di Rasmussen. Qualcun altro è entrato e ha toccato i comandi».

   «È come temevo» disse Grenk, che sedeva sulla sedia del pilota, afflitto. «Berlinghoff non sarebbe uscito dalla navetta per fare una scampagnata nel passato. Qualcuno lo ha sorpreso... forse ucciso».

   «Com’è possibile? Ha detto che la sua missione consisteva in toccata e fuga» obiettò l’Aenar. «Doveva solo accertarsi di essere finito nell’anno giusto... e poteva farlo dallo spazio, esaminando la Terra».

   «Invece è dovuto scendere» spiegò Grenk. «Ho esaminato il diario di bordo e le registrazioni dei sensori. Il viaggio temporale in sé è andato bene; ma una volta arrivato, il nucleo temporale ha avuto una fluttuazione. Berlinghoff è dovuto atterrare per ricalibrarlo. E lì qualcosa è andato storto. Povero ragazzo!».

   «Fossi in lei, non mi preoccuperei troppo» disse Neelah, continuando a sondare l’interno della navetta per capire quanti ospiti indesiderati c’erano stati. «Il passato non scappa. Quando avremo compreso l’accaduto, potrà tornare indietro a salvarlo».

   «Ecco, questo è il punto» disse Grenk, torcendosi le mani. «Dovrei farlo?».

   «Perché no?» chiese Neelah, distogliendosi dal suo lavoro. Fronteggiò Grenk, con le antenne protese e la fronte aggrottata. «Rasmussen era nella sua squadra. Ha disobbedito ai suoi ordini, ma non è una buona ragione per abbandonarlo nel passato. Che c’è di diverso dall’andare a soccorrere un disperso?».

   «C’è che Berlinghoff è morto» disse Grenk, fissando l’Aenar con insolita gravità. «Sia che l’abbiano assassinato, sia che abbia trascorso la vita nel passato, sta di fatto che è morto e sepolto. Che diritto abbiamo di... risvegliare i morti? Oh, mi risparmi quello sguardo!» sbottò, notando il cipiglio di Neelah. «Pensi che succederà, se si afferma l’idea che la Flotta Stellare deve salvare tutti i suoi ufficiali che sono morti nel passato! Dovremmo andare a salvare Kirk da Veridiano III? Sisko dalle Caverne di Fuoco? Ogni singolo ufficiale che ha dato la vita per la Flotta? E i civili? Sarebbe un delirio, sarebbe... proprio la Guerra Temporale che speravo di scongiurare!» gemette.

   «Ma Berlinghoff non è morto come un qualunque ufficiale in missione» obiettò Neelah. «È finito disperso durante un test temporale. E se non vuole inquinare il passato, farà meglio a riprenderlo».

   «Forse la linea temporale è già cambiata» s’incupì Grenk. «Forse ci troviamo in un universo alternativo!».

   «Se anche fosse, l’unico modo per rimediare è andare nel passato a riprendere quell’uomo, prima che faccia danni» ripeté la biologa. «A proposito, in che periodo è finito?».

   «Metà del XXII secolo» rispose Grenk, attivando l’interfaccia olografica dei comandi. «Ecco, guardi qui: ha regolato il timer su 400 anni esatti. Al povero Berlinghoff piaceva tanto quel periodo: i tempi di Archer, gli albori della Flotta!».

   «Sarebbe a dire il 2153, l’anno della Crisi Xindi» commentò Neelah, per nulla entusiasta. «Doveva proprio scegliere un momento in cui le difese terrestri erano all’erta? Potrebbero avergli sparato a vista!».

   «La navetta è intatta, ma non mi stupirei se gli avessero sparato una volta sbarcato» disse Grenk. «Allora, come vanno i suoi esami? Ha determinato il numero degli intrusi?» chiese poi.

   «Almeno due» rispose la biologa. «Uno era Umano e ha lasciato le sue impronte digitali dappertutto. Ma c’è anche una mezza impronta che non sembra umana. La traccia è incompleta, ma... si direbbe Klingon» aggiunse, lavorando con il tricorder.

   «Il mistero s’infittisce» commentò Grenk, che stava consultando il computer di bordo. «Dopo essere stata nel 2153, la Phoenix ha fatto un balzo in avanti di oltre due secoli, nel 2368. Poi qualcuno ha regolato il pilota automatico per riportarla nel XXII secolo, nel... New Jersey» lesse, meravigliato. «Però, chiunque sia stato, ha pasticciato coi comandi. Il computer era impostato per riportare qui la navetta, se il pilota fosse stato inabile. Nell’ultimo salto, questa direttiva ha sostituito le coordinate che erano state impostate. Ecco perché la Phoenix è tornata da noi... che fortuna!» sospirò.

   «Mi piacerebbe sapere cos’è successo» commentò Neelah, riponendo il tricorder.

   «Credo di avere la risposta» disse Terry, entrando nella navetta. «E posso anche comunicargliela, dato che ormai fa parte del progetto. Perché ne fa parte, vero?» chiese, squadrando Grenk.

   «Certo, la dottoressa Neelah può ancora esserci utile» confermò l’Ingegnere Capo. «Ci serve un biologo che studi gli effetti del viaggio nel tempo sui tessuti viventi. Ma non tenerci sulle spine! Che hai scoperto?».

   «Ho acceduto a un rapporto risalente alla mia antesignana Enterprise-D» spiegò Terry.

   «Ah, la vecchia Galaxy!» si animò Grenk. «Mi è sempre piaciuta, quella. Che hai scoperto?».

   «Nel 2368 l’Enterprise, che si trovava a Penthara IV, ricevette la visita di uno strano visitatore» spiegò Terry. «Venne a bordo di una navetta che, stando al rapporto, posso identificare con la Phoenix. Disse di essere uno storico del futuro... cioè del nostro secolo. Si presentò come dottor Berlinghoff Rasmussen».

   «Che?!» sobbalzò Grenk.

   «Non era lui» svelò subito Terry. «Quell’impostore disse di essere lì per ragioni di studio. Fece persino compilare dei questionari agli ufficiali dell’Enterprise e gli chiese quali erano, secondo loro, le invenzioni più importanti degli ultimi due secoli».

   «Gli ufficiali furono incauti a rispondere» commentò Neelah. «Io avrei sondato il visitatore per benino – soprattutto il cervello – prima di rispondere a qualunque domanda».

   «Aveva una parlantina convincente e la sua navetta era indiscutibilmente più avanzata dell’Enterprise, che non riusciva nemmeno ad analizzarla» spiegò Terry.

   «Certo, per via dello scafo molecolare» disse Grenk, sfiorando la paratia iridescente come una bolla di sapone. «Come andò a finire?».

   «L’impostore rubò alcuni congegni di bordo – come tricorder e phaser – e cercò persino di sequestrare il Tenente Comandante Data» disse Terry, con un distacco che celava l’irritazione per chiunque considerasse le Intelligenze Artificiali come oggetti. «Tuttavia fallì e fu arrestato. Gli oggetti che aveva rubato furono estratti dalla navetta, prima che si dissolvesse. Alla fine il criminale confessò di non venire dal futuro, ma dal passato».

   «Il XXII secolo» mormorò Grenk.

   «Precisamente. Era un inventore fallito, fino al giorno in cui incontrò un vero visitatore del futuro: l’ingegnere Rasmussen» disse Terry. «Allora lo uccise e ne prese il posto. Andò in un futuro più prossimo per rubare oggetti da riportare nella sua epoca. Avrebbe finto di essere l’inventore, sfornandone uno all’anno: così si sarebbe arricchito. Invece rimase prigioniero del XXIV secolo per il resto della sua vita. Quanto alla navetta, non se n’è più saputo nulla... finora» concluse Terry.

   «Affascinante» disse Neelah. «Ha la sua risposta, Ingegnere. Ora che intende fare? Tornerà nel XXII secolo per salvare Rasmussen? O lo considera un martire della scienza?».

   «Se torno indietro, rischio di cancellare l’intera serie di eventi» mormorò Grenk, massaggiandosi le tempie. «Sarebbe un paradosso temporale».

   «Non se riporta qui Rasmussen, lasciando la Phoenix in mano all’impostore» obiettò Neelah. «Tanto la navetta tornerà comunque in mano nostra. Lo ha già fatto!».

   «Ma ne siamo sicuri? Questo circolo temporale è già abbastanza intricato» disse Grenk. «Se lo modifichiamo ancora, gli effetti saranno imprevedibili. Se l’impostore non incontra Rasmussen potrebbe elaborare un piano diverso. Potrebbe visitare altre epoche, o persino smontare la navetta. Creerebbe ulteriori paradossi e noi non riavremo la Phoenix!» si lamentò.

   «Sì, è possibile» confermò Terry. «Devo ammettere che nemmeno i miei elaboratori riescono a prevedere tutti gli esiti del paradosso. È frustrante» ammise.

   «Allora Rasmussen è perduto» mormorò Neelah.

   «Temo di sì» disse Terry. In quella le luci dell’hangar sfarfallarono per un attimo. I tre, ancora nella navetta, se ne accorsero tramite l’ingresso aperto.

   «Ma che succede?» volle sapere Neelah. «Stamattina anche nel mio laboratorio c’erano cali di tensione».

   «Le pulci fotoniche non sono più confinate nel ristorante di Raav» si scusò Terry. «Persino alcune mie proiezioni hanno dei malfunzionamenti. Per questo ho indossato un Emettitore Autonomo» disse, accennando al congegno che portava al braccio.

   «Dì ai ragazzi in sala macchine di occuparsene» disse Grenk. «Io li raggiungo prima possibile. Ho ancora qualche lavoretto da fare qui».

   «Vado... ma lei non scherzi con il tempo, Ingegnere» ammonì Terry, prima di lasciarli.

   «Sto scaricando il rapporto dei sensori» spiegò Grenk a Neelah, che lo guardava con aria interrogativa. «Sono pur sempre informazioni utili. Poi farò un check-up dei sistemi. Quanto a lei, credo che il suo lavoro sia finito. O le è rimasto qualche dubbio?».

   «L’impronta Klingon a bordo... deve essere di Worf, l’Ufficiale Tattico dell’Enterprise-D. L’avrà lasciata quando entrò a recuperare gli oggetti rubati» disse l’Aenar, meditabonda. «Comunque ci sono ancora degli esperimenti che vorrei fare, se me lo permette. Tipo esporre dei microrganismi alle radiazioni tachioniche del nucleo. O anche esaminare il flusso tachionico con un sensore ottico Borg che mi sono procurata. Non mi aspetto grandi scoperte, ma...».

   «Va bene, prenda ciò che le serve e lo porti qui» concesse Grenk. Mentre parlava, le luci dell’hangar tremolarono ancora. «Frell! Come si fa a lavorare, se la luce va e viene?!» protestò.

   «Dovrebbe risolvere il problema, prima che diventi un pericolo per la nave» commentò Neelah.

   «Uhm, già. Chiederò ai Bynari di sostituirmi» convenne Grenk. «Lei faccia pure i suoi esperimenti coi microbi, ma non tocchi i comandi».

 

   Quando Neelah tornò con i campioni di microrganismi, trovò i Bynari al lavoro sulla navetta. Erano chini sul pavimento: avevano messo a nudo il nucleo temporale e stavano facendo dei rilevamenti.

   «Salve, dottoressa».

   «L’Ingegnere Capo ci ha avvisati del suo coinvolgimento nel progetto».

   «Se vuole esporre i microbi alle radiazioni del nucleo, potrà farlo...».

   «... non appena avremo terminato i rilevamenti».

   «Non ho fretta» sorrise Neelah, divertita da come i Bynari si completavano le frasi. Portò i campioni a bordo e sedette sulla poltroncina del copilota, osservando i piccoli alieni all’opera. Era passato meno di un minuto, quando una grossa sagoma si stagliò sulla porta della Phoenix, lasciata aperta per favorire il via vai.

   «È permesso?» chiese Raav, strizzandosi per passare dalla porticina.

   «Tu che ci fai qui?!» chiese Neelah.

   «Ho sentito che il povero Rasmussen non tornerà. Sssshhht! Un brutto colpo per Grenk» spiegò il Gorn. «Volevo dargli questo, per consolarlo» disse, porgendo un cartoccio caldo. «Involtini tellariti, il suo piatto preferito».

   «Siamo certi che l’Ingegnere Capo apprezzerà il pensiero...».

   «... ma come vede non è qui» dissero i Bynari.

   «È dovuto correre in sala macchine, per la faccenda delle pulci fotoniche» aggiunse Neelah. «Tu ne sai niente? Mi pare che siano spuntate dal tuo ristorante...».

   «Respingo ogni accusa. Sssshhht! Il mio ristorante è un tempio dell’igiene e del cibo sano!» protestò Raav.

   «Già, così sano che a volte è ancora vivo» ridacchiò Neelah.

   «Signore, questa è un’area riservata...».

   «... dobbiamo chiederle di andarsene immediatamente...».

   «... o chiameremo la Sicurezza» avvertirono i Bynari.

   «Ma sì, ora vado» disse Raav, scuotendo il lungo muso da rettile. Fece per voltarsi, ma si bloccò. «Sssshhht! Grande Coccodrillo, ne avete una qui!» avvertì, indicando un puntino luminoso che ronzava presso un pannello smontato.

   «Se avessi un retino elettromagnetico sottomano...» disse Neelah.

   «Ci penso io» assicurò Raav, avanzando con le zampe tese, come se volesse schiacciare una mosca.

   «Si fermi» intimò il Bynario 0.

   «Così rischia di peggiorare le cose» aggiunse il Bynario 1.

   Stipati nell’angusta navetta, i quattro fissarono con apprensione la pulce fotonica, che brillava di una calda luce dorata. Si era attaccata a un cavo scoperto e ne assorbiva l’energia, facendosi sempre più grossa e brillante.

   «Potrebbe esplodere» avvertì 1.

   «Dobbiamo rimuoverla, ma senza danneggiare i cavi» aggiunse 0.

   Neelah si guardò attorno cercando uno strumento, fra i tanti ammucchiati sul pavimento, che fosse abbastanza lungo e sottile. Ne raccolse uno che sembrava adatto, ma quando si avvicinò alla pulce fotonica era troppo tardi. La creaturina, gonfia d’energia, esplose come un petardo. Gran parte dell’energia rifluì nei cavi scoperti, mandandoli in sovraccarico. L’ingresso della Phoenix si chiuse alle spalle di Raav, mentre il nucleo temporale brillava di luce bianco-azzurra e ronzava sempre più forte.

   «Uh-oh» fece Raav, portandosi un artiglio al mento.

   Il Bynario 0 chiuse lo scomparto del nucleo temporale. Appena in tempo. Le pareti brillarono iridescenti e la Phoenix fu attraversata da una vibrazione violentissima. Il ronzio crebbe ancora, finché un lampo bianco abbagliò i passeggeri. Infine la navetta si calmò, anche se sul quadro comandi rimasero molte spie accese. Neelah si accasciò contro la paratia; aveva le vertigini e un senso di malessere allo stomaco. I Bynari fissarono Raav dal basso verso l’alto, silenziosi ma con aria accusatrice.

   «Mi sono appena ricordato che ho lasciato qualcosa sul fuoco» disse il Gorn nervosamente. «Ci vediamo, eh? Grunt, come si apre quest’affare?» chiese, tastando la sezione esagonale in fondo alla navetta, senza riuscire a materializzare la porta.

   «Le consiglio di non aprire l’ingresso...».

   «... se non vuole decomprimere l’abitacolo» dissero i Bynari, correndo ai comandi.

   «Decomprimere?» chiese Raav con un filo di voce.

   «Esatto. Ci troviamo fuori dall’Enterprise...».

   «... in orbita attorno alla Terra» spiegarono gli ingegneri.

   La Phoenix non aveva una finestra anteriore come le navette ordinarie, perché nulla doveva interrompere lo scafo di lega molecolare. Per capire la posizione, i Bynari avevano consultato i sensori. Le loro parole furono confermate quando attivarono lo schermo olografico. Da un lato era visibile la Terra, dall’altro la Luna; ma dell’Enterprise non c’era traccia. Né si rilevava l’Hangar Spaziale Terrestre. L’orbita era stranamente sgombra.

   «Quando?» chiese Neelah, con voce rauca. «Quando siamo finiti, di grazia?» domandò, mentre le sue antenne si torcevano come impazzite. Nessuno rispose.

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Star Trek / Vai alla pagina dell'autore: Parmandil