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Autore: pattydcm    13/01/2019    3 recensioni
Sherlock si risveglia ferito in un luogo sconosciuto. Si rende conto ben presto che colei che lo ha tratto in salvo non è del tutto sana di mente. Dovrà far fronte ai modi bruschi e violenti di lei e tentare di sopravvivere ai suoi sbalzi d'umore e alle sue differenti personalità. Nessuno sa dove si trovi. Può solo sperare che qualcuno si attivi per cercarlo. Chiunque, ma non John Watson. Del dottore, infatti, non vuole saperne più nulla...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Buonasera a tutti!
Anche questa storia sta per finire, ma ha ancora da dire. Sono stata impegnata oggi e quindi riesco a postare ben poco. Spero che possa essere comunque di vostro gradimento e come sempre attendo le vostre recensioni.
A presto
Patty
 
5 dicembre
 
Accade qualcosa all’intera macchina umana quando si assiste impotenti alla sofferenza di una persona che si ama. Qualunque tipo di sofferenza. Dalla più semplice influenza alla più complessa delle operazioni chirurgiche. Si cerca di fare l’impossibile pur di vederla tornare a risplendere di salute e benessere e, allo stesso tempo, si vive l’impotenza di non poter fare altro che restare lì, al suo fianco, ad aspettare che passi. A sperare che passi e in fretta.
Quando si è sposata la professione che abilita a prendersi cura e ad ‘aggiustare’ queste macchine umane, tutto diventa più difficile. Ci si sente in dovere di guarirle, di salvarle e l’impotenza è ancora più forte perché si ha una maggiore conoscenza di quanto sta loro accadendo. Conoscenza che se da una parte aiuta la cura, dall’altra è un macigno sul petto per chi cura.
John sospira. Se in questi quattro giorni gli avessero dato un penny per ogni sospiro ad oggi avrebbe messo via una discreta somma di denaro. Tanti graffi e lividi ha curato al suo amico tra le mura intime del loro appartamento e anche qui, al West Cumberland Hospital nel quale è stato trasportato d’urgenza, avrebbe voluto occuparsi personalmente di lui. Non gli è stato permesso, ovviamente.
John era in stato di shock, in uno stato di coscienza decisamente alterato. Eppure ha ancora viva la sensazione sotto le sue mani, che ora chiude a pugno. Il corpo freddo di Sherlock. Congelato. Il battito lieve, così difficile da percepire. Si era spogliato degli strati di giacche, maglioni, camicie che indossava e lo aveva stretto a sé, avvolgendolo nei suoi indumenti caldi. Un corpo prossimo all’assideramento ha bisogno del calore di un altro corpo vivo e caldo per riprendersi. Gli era parso all’inizio di stare tenendo tra le braccia un cadavere ormai rigido e freddo. Gli erano tornati alla mente i corpi senza vita di alcuni dei suoi commilitoni, quello di sua madre, quello di suo padre. Aveva dovuto fare uno sforzo per pensarlo vivo, il corpo freddo che stava tentando di riscaldare.
<< Non mi lasciare, Sherlock >> gli aveva sussurrato come un mantra, tenendolo stretto a sé. << Non importa se non mi vorrai mai più vedere, lo accetto, ma non mi lasciare. Non farmi vivere in un mondo dove tu non ci sei, ti prego >>.
Era così che lo avevano trovato Mycroft, Hataway e tutti gli altri. Si era accorto appena della loro presenza. Di Mycroft, che si era avvicinato a lui, tentando a sua volta di scaldare col proprio cappotto il corpo ancora freddo del fratello.
Così era rimasto fino all’arrivo dell’elisoccorso, chiamato nello stesso istante in cui John era uscito di corsa da casa Abbott. Aveva opposto resistenza a chi voleva togliergli Sherlock dalle braccia spiegandogli l’importanza di avvolgerlo in coperte riscaldanti, caricarlo sul velivolo e portarlo al più presto in ospedale.
Di come sia arrivato anche lui al West Cumberland Hospital non ha memoria. Ricorda solo che dal momento in cui il velivolo è partito, la mano di Mycroft non si è mai sollevata dalla sua spalla.
Il primo ricordo nitido che ha è quello di lui seduto su questa stessa sedia in questa stanza. La mano stretta in quella di Sherlock addormentato. Lo sguardo a spostarsi ad intervalli regolari da un monitor all’altro per poi passare sul viso del suo amico, sul quale c’è sempre stata un’espressione tutto sommato serena.
“Chissà in quale luogo del tuo Mind Palace ti sei rifugiato per cercare conforto” pensa ogni volta che posa gli occhi sul suo viso. Intimamente e in modo del tutto egoistico spera di poter essere stato e di essere ancora al suo fianco in quel luogo immaginario. Perché la stessa espressione serena gliel’ha vista in viso quella domenica mattina e questi Holmes non fanno altro che ripetere che l’universo non è mai così pigro da produrre coincidenze.
Mycroft è rimasto a lungo con loro nella stanza. Seduto su una sedia dall’altro lato del letto, oppure in piedi al fondo della stanza. Silenzioso, discreto, si è assentato ogni tanto per rispondere al telefono e per periodi più lunghi per seguire quanto stava accadendo a Mary Abbott.
<< Ha gettato mio fratello in quella fossa come fosse immondizia, ispettore! Esigo sia fatta giustizia per ciò che mio fratello ha dovuto subire per mano di quella donna! >> gli ha sentito dire in tono perentorio a pochi passi dalla porta chiusa della stanza. Forse anche John dovrebbe lottare affinchè sia fatta giustizia. La cosa che più gli interessa, però, al momento, è rivedere gli occhi di Sherlock aprirsi, le sue labbra muoversi e la sua voce iniziare a dedurre tutto ciò che il suo sguardo incontra. Vuole accertarsi che il mezzo di trasporto e la mente brillante del suo amico funzionino. Solo allora potrà dirsi tranquillo.
<< Non vi nascondo, signori, che le condizioni del signor Holmes non sono delle migliori >> ha detto loro il collega che lo ha in cura. << Abbiamo trovato residui di morfina nel sangue e dalla colorazione della sclera dell’occhio e delle unghie sembra proprio che gliene sia stata somministrata troppa e per troppo tempo. Anche per questo il battito cardiaco è ancora rallentato, nonostante l’omeostasi del corpo sia stata riportata alla normalità. Questa difficoltà nel risvegliarsi è l’ennesima conferma ed è quella che più di tutte mi preoccupa. Poi, altro elemento da non sottovalutare, è la gamba destra. Una frattura abbastanza semplice, in verità, che, però, è stata curata molto male. L’osso si è saldato nella maniera peggiore, data la trazione errata alla quale è stata sottoposta. Ci sono parecchi legamenti rotti e la muscolatura si è notevolmente ridotta. Andrebbe operato per evitare una zoppia permanente che comprometterebbe la qualità della sua vita. Da quello che scrive sul suo blog, dottor Watson, quest’uomo è atletico, agile, abituato a correre e battersi se necessario. Con una gamba ridotta a quel modo non potrà fare più nulla di tutto questo e, purtroppo, finchè non si risveglierà e il suo cuore tornerà a battere come si deve non posso fare nulla per lui >>.
John ha sentito il terreno franare sotto i piedi dinanzi a quelle parole. Sherlock privato della possibilità di muoversi per portare avanti il suo lavoro non vuole neppure immaginarlo. Lunghe giornate di noia, depressione, umore nero e lo spauracchio della cocaina, della dipendenza, della propensione al suicidio che ne deriverebbe.
<< Svegliati, Sherlock >> sussurra prendendogli la mano tra le sue. << Vuoi che me ne vada, per questo ti ostini a restare addormentato? Posso anche farlo. Sì, lo farò appena tuo fratello tornerà. Forse la sua presenza ti è più gradita della mia, al momento >> dice rendendosi conto da sè di stare portando avanti un ragionamento del tutto privo di senso.
Ci hanno provato a tirarlo fuori da quella stanza. Lo hanno invitato a riposarsi almeno per un paio d’ore in un vero letto, a prendere una boccata d’aria, a mangiare qualcosa alla mensa dell’ospedale. Lui ha liquidato tutte le gentili proposte con la solita decisa affermazione : << Questo è il mio posto. Da qui non mi muovo >>.
E sono quattro giorni che non si muove e sa bene che non si muoverà neppure quando Mycroft tornerà, giusto per vedere se davvero gli farebbe il dispetto di svegliarsi.
<< Sei una tale drama queen >> ridacchia posando baci leggeri sulla sua mano pallida del tutto inerte.
Porta avanti quella coccola anche quando Mycroft torna nella stanza. Non gliene frega più nulla, ormai, di concetti assurdi come decoro, reputazione, decenza, atteggiamenti adeguati e compagnia cantante.
A sua volta, il fratello del suo amico non si annuncia neppure più con quel fastidioso colpetto di tosse. Deve aver capito che John continuerebbe a manifestare il suo amore per il consulente anche se entrasse la regina in persona in quella stanza o il papa che sua madre aveva tanto in considerazione.
<< Quella donna >> dice Mycroft, ponendo fine al suo silenzio. John aguzza appena l’udito. << Ha avuto una crisi di nervi, o almeno così hanno detto. Ha mandato all’ospedale tre guardie, una delle quali è in fin di vita, e sono riusciti a contenerla solo dopo averle sparato con delle pallottole calmanti >>.
<< Le hanno sparato pallottole calmanti? Come si fa agli orsi? >> gli chiede John stupito. Mycroft si limita ad annuire solenne.
<< E’ stata trasferita in una clinica psichiatrica penitenziaria e lì starà fino alla fine del processo >>.
<< E poi per il resto dei suoi giorni, dal momento che la riterranno colpevole >>.
<< Pensi che non lo sia? >> gli chiede Mycroft avvicinandosi al letto.
Uno sbuffo distoglie John dalla risposta che sta per dare. I due uomini si scambiano un’occhiata stupita e poi al secondo sbuffo si fanno più vicini al consulente.
<< Sherlock! Oddio, ti stai svegliando >> esclama John euforico, accarezzandogli il viso con mano tremante.
<< Mary… >> sussurra il consulente, lasciandoli senza parole. I due uomini si scambiano un’altra occhiata. Nessuno dei due poteva immaginarsi che la prima parola che avrebbe pronunciato una volta sveglio sarebbe stato il nome della sua carceriera.
<< Lei non c’è, Sherlock >> risponde Mycroft scostandogli il ciuffo corvino dalla fronte. << Sei al sicuro, adesso >>.
Gli occhi di Sherlock faticano ad aprirsi e John abbassa la luce per evitare che gli dia fastidio.
<< Mary >> ripete, mentre il suo sguardo viaggia oltre il dottore e il fratello, come se stesse cercandola. << Dov’è Mary? >> chiede confuso.
<< E’ stata arrestata, Sherlock. E’ in prigione, ora, dov’è giusto che stia per quanto ha fatto a te e a tutti gli altri >> gli spiega Mycroft e in modo un po’ troppo perentorio, nota John.
<< No! >> biascica il consulente muovendo debolmente le braccia.
<< Ehi, stai tranquillo cosa vuoi fare? >> gli domanda John, bloccando quello che sembra uno stanco tentativo di alzarsi dal letto.
<< Ha bisogno di me. Devo aiutarla >> risponde Sherlock apponendo una blanda ma testarda resistenza.
<< Cosa stai dicendo? Ti ha tenuto prigioniero. Ti ha picchiato, segregato in uno stanzino e gettato via come spazzatura e tu vorresti aiutarla? >> chiede Mycroft incredulo.
<< Non è colpa sua. Lei… oh, lasciatemi stare! >> grida ribellandosi alle loro mani che si ostinano a tenerlo giù. << Voi non capite niente! >> esclama, mentre gli apparecchi attorno a lui suonano evidenziando un’accelerazione anomala del battito cardiaco.
Gli infermieri irrompono nella stanza e invitano il dottore e il politico ad allontanarsi e lasciare il paziente alle loro cure. Solo che Sherlock sembra diventare sempre più energico e sempre più intestardito dal suo voler scendere dal letto e correre a salvare quella donna il cui nome grida ed invoca. Solo quando John sente parlare di sedativi si scuote e torna ad avvicinarsi al suo amico.
<< Non potete sedarlo proprio ora che si è ripreso! >> dice fermando la mano dell’infermiera pronta a iniettare il sedativo nella flebo alla quale è legato.
<< Se continua così gli scoppierà il cuore, dottor Watson, dobbiamo fare qualcosa >> cerca di toglierselo di dosso questa. John si rende conto di quanto la situazione stia degenerando, ma l’idea che Sherlock possa nuovamente cadere preda di un sonno indotto lo spaventa. Purtroppo l’infermiera è più veloce del suo tentativo di proporre soluzioni alternative e inietta il sedativo nella flebo.
L’effetto non è immediato e forse è addirittura peggio. Sherlock sembra sgonfiarsi poco per volta. Biascica sempre più mentre perde le forze, restando appeso tra le braccia degli infermieri. John porta la mano alla bocca, sconvolto da quella scena. Non riesce a capacitarsi del fatto che quell’uomo sia lo stesso che ha lasciato a Baker Street. Si volta, sentendo il bisogno di sottrarsi per un istante a quanto sta accadendo. I suoi occhi si posano sull’altro Holmes. Pallido, la fronte imperlata di sudore che terge con un fazzoletto di stoffa. Si vede quanto gli manchi non avere l’appoggio sicuro sul suo ombrello. Sembra, infatti, stare per crollare.
<< Ehi, Myc, tutto bene? >> gli chiede, rifugiandosi nel suo istinto di medico pronto a prendersi cura del prossimo.
<< No, John >> ribatte l’uomo, mostrandogli il sorriso tirato ora più simile ad una smorfia di dolore. << Ho rivisto tutti insieme troppi episodi simili avvenuti in passato >>.
<< Quando era in comunità di recupero, intendi? >>.
<< Sì >> risponde stanco, mentre gli infermieri, contenuta la situazione, escono dalla stanza. << Speravo di non doverlo più vedere ridotto così è, invece… >> tampona le labbra col fazzoletto, lasciando la frase a metà, cosa del tutto insolita per uno come lui.
<< Io… mi dispiace, Mycroft >> dice impacciato John, dandogli una pacca sulla spalla. L’uomo sembra non accorgersene neppure. Fissa il fratello con un’intensità tale da spaventare il dottore. Sebbene il suo volto sia impassibile negli occhi racchiude tutta la sua disperazione.
 
***
 
Sindrome di Stoccolma. John riflette sul fatto che, personalmente, non ha mai incontrato nessuno che ne fosse ammalato e purtroppo di persone vittime di tortura nell’ospedale da campo afgano ne sono passate.
Sono trascorse tre ore dal risveglio burrascoso di Sherlock. Ore durante le quali il medico ha convocato Mycroft, che ha permesso a John di assistere al colloquio proprio per parlare della possibile presenza di questa sindrome.
È rimasto buono e in silenzio, John, ad ascoltare il collega spiegare con dovizia di particolari la sua teoria su quanto sia successo alla mente turbata del giovane Holmes. Si sono scambiati appena due occhiate lui e Mycroft e non c’è stato neppure bisogno di spiegare al medico quanto profondo fosse il buco che ha fatto nell’acqua.
<< Ma quale sindrome di Stoccolma! >> ha sbottato una volta usciti fuori dall’ufficio di quel dottore, fuori dall’ospedale, l’uno a sputare sentenze e l’altro ad accendere una sigaretta. << Penso che se tuo fratello si sia messo a urlare il nome della sua carceriera ribadendo quanto abbia bisogno del suo aiuto debba esserci una buona ragione dietro >>.
<< Solo le allucinazioni di un tossico, John >>.
Il giudizio di Mycroft lo ha raggelato. È rimasto a bocca aperta a guardarlo prendere una lunga boccata dalla sigaretta.
<< Quando era ricoverato per smaltire gli effetti della dipendenza da cocaina vedeva spesso il suo cane seduto al fondo del letto. Altre volte scappava gridando terrorizzato che un uomo intenzionato ad ucciderlo lo stesse inseguendo. Ci sono state occasioni in cui ha aggredito gli infermieri chiamandoli coi nomi di suoi ex compagni di scuola che, a quanto pare, lo avevano bullizzato. Una volta ha colpito anche me… >>.
Mycroft si è interrotto, ha scosso il capo e ripreso a fumare senza concludere la frase. Per la seconda volta nel giro di poche ore.
<< Non posso pensare che sia solo per questo, Mycroft >> ha cercato di insistere John. << Stai parlando di un ragazzo preda dei fumi dell’astinenza. Non c’entra nulla con ciò a cui abbiamo assistito prima >>.
<< Cosa dovrei pensare allora, John, che il tuo esimio collega abbia ragione e che mio fratello abbia coalizzato con chi lo ha torturato? Sinceramente lo preferisco preda delle allucinazioni >>.
John sospira. Ha di nuovo la mano di Sherlock stretta tra le sue e ancora una volta spera che si svegli presto. Sì, perché vuole potergli parlare, cercare di contenerlo, se sarà necessario, e chiedergli di spiegargli il perché delle sue parole, dei suoi gesti.
<< Hai reagito così perché in realtà non è stata quella donna a uccidere tutta quella gente, non è vero? >> sussurra tenendo il dorso della mano di lui vicinissimo alle labbra. Gli occhi di Mary, il modo repentino nel quale sono cambiati dopo quell’attimo di congelamento li ricorda bene.  << Se il tuo desiderio di aiutarla è così forte deve esserci un motivo che va al di là della banale sindrome di Stoccolma. Tu ti batti affinchè sia fatta giustizia ed evidentemente non è lei il colpevole da giustiziare >>.
Dal momento in cui John ha afferrato i tabulati del numero di Sherlock appena fatti pervenire da Mycroft quell’indagine è passata a lui d’ufficio, si potrebbe dire. Stava indagando sulla scomparsa del consulente investigativo, che ha salvato per il rotto della cuffia e ora ne ha ereditato il caso al quale questi stava lavorando. Mary Abbott è legata a questo caso e Sherlock sembra averla a cuore, per un motivo che non è dato sapere e che in questo momento non è neppure importante.
<< Va bene, Sherlock, il caso è ancora aperto, tu sei fuori gioco e quindi tocca a me entrare in campo al tuo posto anche qui >> dice raddrizzando la schiena. << Odio quanto te l’ingiustizia e, benchè quella donna ti ha trattato in un modo che non posso perdonarle, non è giusto che paghi per dei delitti che non ha commesso >>
Si decide a lasciare la mano di Sherlock e ad uscire da quella stanza dopo giorni che siede al suo fianco. Gli accarezza il volto appena imperlato di sudore e resta titubante a guardare le sue labbra, desideroso di posarvi sopra le proprie.
“No. Non voglio rubarti altro” pensa allontanandosi da lui. Senza voltarsi indietro raggiunge la porta ed esce dalla stanza.
 
   
 
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