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Autore: _Lisbeth_    14/01/2019    10 recensioni
Maylor (Brian May/Roger Taylor)
1969/1988
Dal primo capitolo:
- Roger, ti sei mai preoccupato per i sentimenti di qualcuno che non sia Tim? – lo interruppe Brian, calmo. Tranquillo, anche troppo, ma il suo cuore era sprofondato. Non riusciva più ad ascoltare le sue parole, le sue urla, i suoi attacchi e le autocommiserazioni. Per lui importava solo Tim. Era solo, lo aveva appena detto. Solo, senza Tim. E lui cos’era, allora?
Il ragazzo dagli occhi azzurri socchiuse la bocca, fermandosi. Deglutì. – Io… sì. Che razza di…
Brian gli si avvicinò, guardandolo negli occhi, toccandogli leggermente il petto con un dito magro. – Io invece penso proprio di no.
Lo scansò prendendolo per le spalle, facendosi spazio dietro di lui, uscendo dalla camera e chiudendo delicatamente la porta.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian May, Freddie Mercury, John Deacon, Roger Taylor
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo 5 - Bring it back, bring it back
 
Brian sospirò, affacciandosi alla finestra per rilassarsi un secondo, respirando profondamente e appoggiando il mento sul palmo della mano. Chiuse gli occhi, prendendosi una pausa da tutto. Quelle due giornate erano state terribili e sfiancanti, era successo tutto in una volta sola, troppo velocemente, quasi a togliere il fiato. Roger, in quel momento, stava riposando nell’altra stanza. Forse quello era l’unico momento di pausa per entrambi, soprattutto per il più piccolo, che finalmente, dopo due giorni estenuanti, aveva la possibilità di riprendere le forze e il fiato.
E Brian per un attimo aveva smesso di sentire il cuore creparsi in seguito a tutto ciò che era successo al suo migliore amico, a cui teneva davvero più di ogni altra cosa e che quando aveva visto in quelle condizioni, nelle giornate precedenti, avrebbe voluto morire. Non voleva immaginare cosa fosse successo in quella casa. Lo aveva chiesto a Clare, ma la ragazzina aveva scosso semplicemente la testa, deglutendo. Aveva detto: “Non ho voglia di parlarne, ora” e Brian era rimasto in silenzio, annuendo.
Il chitarrista si spostò, prendendo la tazzina di thè che lui stesso aveva preparato, sedendosi sulla sedia davanti al tavolo della sua cucina, appoggiando la tazza alle labbra e bevendo, piano, il liquido caldo. Quel giorno avrebbero avuto appuntamento con Freddie, il ragazzo che aveva conosciuto due sere prima, l’amico di Tim. Avrebbe fatto una breve audizione, come quella di Roger di pochi anni prima, e lui e il batterista avrebbero deciso cosa fare.
Da parte di Brian, Freddie lo aveva convinto subito. Gli era sembrato immediatamente carismatico e con una personalità tutta sua, con quei vestiti stravaganti e l’atteggiamento leggermente femminile. E inoltre, per quelle poche note che aveva canticchiato, la sua voce gli era sembrata unica e precisa, particolare e fresca. Solo che, forse, stava iniziando a pensare che per Roger non fosse il massimo fare le cose così in fretta. A mente lucida si era messo nei panni del migliore amico e si era reso conto che se fosse stato in lui non sarebbe mai riuscito a sostituire la persona di cui era innamorato con un’altra, uno sconosciuto, per altro, nonostante Tim fosse stato uno stronzo con entrambi.
Scosse la testa, continuando a bere il suo thè. Sentì dei passi felpati provenire dal corridoio, e alzò la testa per rendersi conto della situazione. Roger era lì, che piano piano si avvicinava alla cucina. Si stava stropicciando un occhio con la mano sinistra, era in pigiama e aveva i capelli biondi spettinati e crespi. Brian lo guardò, continuando a bere dalla tazzina. – Rog, torna a dormire. Che ci fai in piedi?
- Non ti piace la mia presenza? – fece Roger, appoggiandosi al muro.
- Voglio semplicemente che tu stia a riposo. – gli rispose Brian.
Il biondo sollevò le spalle, tirandosi un ciuffo di capelli dietro all’orecchio sinistro. – Mi faceva male la spalla e non riuscivo a dormire.
- Potresti almeno sederti?
Il più piccolo si sedette sul tavolo, facendo ciondolare le gambe. Il chitarrista lo guardò. – Sederti come le persone normali.
- Dai, non ho malattie. Non te lo contamino il tavolo.
- Scendi, Rog.
Il ragazzo sbuffò, scendendo dal tavolo e spostando una sedia, sedendovisi sopra. Appoggiò il gomito sul tavolo, lasciando che la testa si posasse sul proprio palmo. Gemette quando sentì l’ennesima fitta alla spalla.
Brian alzò subito la testa, guardando l’amico, preoccupato. – Rog.
- Tutto a posto. – si affrettò a rispondergli il biondo, anche se sul suo viso era ancora disegnata una smorfia di dolore. Brian si mosse velocemente, accovacciandosi davanti a lui e abbassandogli il colletto del pigiama, per controllare la spalla del migliore amico. La garza era immacolata, non c’erano macchie di sangue, ma se Roger stava provando tutto quel dolore, considerando la sua buona sopportazione ad esso, allora voleva dire che c’era qualcosa che non andava.
- Bri, sta’ fermo. Non è niente. – sussurrò il più piccolo.
- Fammi controllare. – ribatté Brian, concentrato. Sollevò appena la garza, per vedere qualcosa che non gli piacque. La pelle della spalla era livida e rossa, le ferite causate dalle unghie del padre che aveva disinfettato lui stesso non si erano ancora rimarginate del tutto ed erano scure e profonde. Il chitarrista sistemò la garza al suo posto, vedeva gli occhi di Roger chiudersi mentre deglutiva. – Rog.
- Sto bene. Non è niente. – disse Roger, secco, mentre rimetteva al suo posto la manica del pigiama. Brian si diresse verso il frigorifero, riempiendo un bicchiere d’acqua e porgendolo al ragazzo, che bevve e ripoggiò il contenitore di vetro sul tavolo. – Grazie.
- Perché hai dormito così poco?
Il minore alzò la testa, guardando l’amico. – Che te ne frega?
- Ti sei anche svegliato male, da quello che vedo.
- Non riuscivo a dormire. Hai della Vodka?
Brian lo fulminò con lo sguardo senza dire niente e Roger ridacchiò. – Sto scherzando.
Il maggiore scosse la testa, incrociando le braccia al petto e finendo il suo thè. Cercò di formulare la frase migliore che gli venne in mente, cercò di essere delicato e di non far innervosire il ragazzo più piccolo con le eventuali parole sbagliate. – Rog, ricordi cosa ti ho detto, ieri?
- Mi hai detto tante cose. Una di queste è stata: “Roger, per l’amor del cielo, hai l’alito che puzza di morte!”
Brian aggrottò la fronte. – Non l’ho detto. E’ impossibile.
- E invece lo hai detto e mi sono anche offeso.
- Ma di quando cazzo stai parlando?
- Mentre guardavamo Peeping Tom. Ti sei girato verso di me, mi hai guardato e me lo hai detto. E io poi sono andato a lavarmi i denti.
Il riccio spalancò gli occhi. – No. Ti prego non…
- Sì, ho usato le dita per lavarli.
Brian fece una smorfia disgustata. – Che schifo, Taylor.
- Ad ogni modo. – disse Roger, girandosi nuovamente il ragazzo. – Cosa intendevi?
Il chitarrista sciacquò la tazzina da thè. – Ti avevo parlato di Freddie.
- Ah, sì. Quel tizio strano che doveva accudire i gatti.
- E ricordi cosa mi ha detto?
- Sono ferito, mica scemo. Certo che mi ricordo.
- E tu, quindi…
- Sì, Brian. Non c’è problema. Verrò all’audizione. A che ora è?
Brian aprì la bocca per parlare, ma poi la richiuse. Fu stupito dall’improvvisa perspicacia del ragazzo, di solito il migliore amico era lentissimo a comprendere qualcosa, anche se fosse stata specificata mille volte. – Be’, tra un’oretta, in realtà.
- Ma che cazzo?! E tu me lo dici solo ora, coglione di merda?
- Sei sicuro?
- Mica mi chiamo Brian May. Io vado avanti subito davanti ai dispiaceri.
- Oh, ma certo, Roger. Almeno io mi prendo il mio tempo per riprendermi invece di fare stronzate tipo ubriacarmi come un coglione.
Roger abbassò la testa, non disse più nulla. Brian vide un velo di tristezza annebbiargli gli occhi e si affrettò a balbettare – Rog, io… Non volevo…
Il biondino tirò su il capo sorridendo, dando una pacca sulla schiena del più grande. – Idiota. Ci caschi sempre.
Brian sospirò, guardando Roger come avrebbe fatto una mamma arrabbiata con suo figlio che le aveva appena disobbedito. E il minore, di rimando, sorrise, tirando un pugno leggero sulla spalla del ragazzo. – Io amo prendermi gioco di te.
- Sì, ma non amerai quando un giorno perderò la pazienza e ti butterò giù da una finestra.
- Oh, come siamo aggressivi, dottor May!
- Vaffanculo.
- Brian! Non si usa questo linguaggio a tavola!
- Roger rompicoglioni Meddows fottuto Taylor, se osi darmi fastidio un’altra volta ti caccio di casa.
- Seh, seh, seh, non cacceresti mai una dolce donzella ferita da casa tua. Potresti anche scopartela.
- E’ una richiesta?
- No. Però ti invidierei.
Brian ruotò gli occhi nelle orbite. – Mi chiedo ancora oggi se tu abbia battuto la testa quando eri piccolo.
- L’ho sbattuta ieri. Va bene lo stesso? - Sebbene fosse evidentemente ironico, Brian non poté far a meno di riconoscere un leggero tremore nella voce del migliore amico. Si sentiva, si capiva che fosse turbato.
Roger, d’un tratto, si sentì avvolgere da due braccia sottili e calde che lo stringevano. Non gli diede fastidio come sempre. Forse perché quelle braccia erano di Brian, l’unica persona di cui si fidava insieme a Clare. Lo abbracciò a sua volta ma non capì il motivo per cui, in quel momento, il suo cuore avesse iniziato a battere così fottutamente forte. Si diede da solo dello stupido, si disse di darsi una calmata. Non stava capendo più nulla. Non capiva perché Brian lo stesse abbracciando, non capiva perché sentiva le guance bollire e non capiva perché la schiena di Brian stesse tremando e sussultando. Aggrottò la fronte, staccandosi immediatamente e guardando l’amico. Appena vide quelle lacrime, non poté fare a meno di sentire un nodo alla gola.
Roger non era mai stato un ragazzo empatico. Non se ne era mai importato nulla dei pensieri e dei sentimenti degli altri, nemmeno di quelli di Tim. Pensava che i problemi di qualcun altro dovessero rimanere dov’erano, che non era compito suo occuparsi delle loro emozioni, consolare o dare conforto. Però, dopo tutto ciò che Brian aveva fatto per lui, in soli due giorni, pensò che meritasse la sua vicinanza. Lo aveva fatto impazzire, gli aveva fatto fare avanti e indietro da casa sua a quella del padre, si era occupato di lui per tutto il tempo, e ora piangeva.
Puntò gli occhi azzurri in quelli umidi del migliore amico, incastrando una mano tra i ricci del più grande. – Brian.
Il maggiore si affrettò ad asciugarsi le lacrime con il dorso della mano, scuotendo la testa e cercando di fermare i singhiozzi. – Sto bene. E’ tutto a posto.
- Bri, che c’è? Perché piangi? – sussurrò, mentre gli occhi di Brian erano puntati a terra. Il ragazzo non disse niente, e questo fece innervosire leggermente Roger, che gli tirò su la testa, obbligandolo a guardarlo negli occhi. – Cosa c’è, Brian?
Il più grande respirò profondamente. – Non hai bisogno di chiedermelo, Rog. Penso che tu possa capirlo da solo.
- No, non posso capirlo da solo, Bri. Non sono te. Non comprendo al volo quello che gli altri provano. Non capisco nemmeno una pagina di biologia, come faccio a capire il motivo per cui una persona, così, dal nulla, scoppi a piangere?
- Roger se tu... Se tuo padre fosse andato oltre, se non ci fosse stata tua sorella… Ora tu… - le lacrime continuarono a scendere copiosamente, i singhiozzi diventarono spasmodici e Brian non riuscì più a respirare per il tappo che gli si era formato nelle narici per il pianto. – Ora tu non saresti più qui.
A Roger venne voglia di gridargli in testa. Urlargli di non preoccuparsi, smetterla di piangere, perché lui era lì, era con lui e niente avrebbe potuto portarlo via dal suo migliore amico, in quel momento. Ma vederlo in quelle condizioni non gli fece avere il coraggio di farlo. Semplicemente gli prese la mano, aprendola e appoggiando il palmo sul proprio petto, guardando l’amico dritto negli occhi. – Cosa senti?
Brian deglutì, ricambiando lo sguardo. – Il tuo cuore.
- E sai cosa significa? – domandò Roger, deciso. L’amico singhiozzò senza dire niente. – Cosa significa, Brian? – ripeté il più piccolo.
- Io…
- Significa che sono vivo, Brian. Significa che sono qui, resto qui, non me ne vado. Respiro, sono davanti a te, ti sto parlando. I miei occhi sono aperti, la mia mente lucida. Sono qui, Brian. Niente mi porterà via.
 

 
- Vieni qui, Brian. – sussurrò Ruth, sorridendo ma con le lacrime agli occhi. Sua mamma e suo papà erano seduti sul prato del loro piccolo cortile, era notte e lui si era svegliato nel sentir piangere la donna. Infreddolito e assonnato, si avvicinò ai suoi genitori tremando, sedendosi tra loro e guardandoli con i suoi grandi occhi color nocciola. – Mamma, perché piangi?
Harold prese la mano del figlio, guardando la donna che tirò sul col naso, continuando a sorridere al bambino. Brian aveva compiuto cinque anni da un mese, eppure sembrava già un piccolo uomo. Era gentile e responsabile, amava aiutare gli altri, soprattutto se si trattava della sua famiglia. Ruth gli accarezzò i ricci scuri come i suoi. – Brian, piccolo mio. Sai, io piango di gioia.
Brian aggrottò la fronte. – Piangi di gioia?
- Sì, Bri. Ricordi la nonna? Ricordi sta mattina, quando siamo andati a trovarla in ospedale?
Il bambino annuì.
- Beh, Bri, la nonna ora sta bene. Non soffre più. – gli disse Ruth, continuando a carezzargli i ricci. Brian sorrise. – E’ tornata a casa?
- No, Brian. Non è tornata a casa. – disse Harold, deglutendo un groppo in gola difficile da mandar giù. – Però, sai, ora è in un posto molto più bello e più luminoso, della sua casa. - Gli prese poi la mano, lo fece alzare in piedi, accompagnandolo sulla piccola terrazza, dove c’era sistemato il telescopio che avevano costruito insieme. Brian lo guardò senza capire. Di solito le cose le capiva al volo, era un bambino molto intelligente. Lui lo sapeva, le maestre lo dicevano sempre. Ma non capì proprio perché suo padre, in quel momento, gli stesse avvicinando il telescopio davanti agli occhi. Guardò comunque attraverso i vetri, osservando il cielo scuro. Brian amava guardare le stelle, la luna e le nuvole. Avrebbe voluto studiarle, un giorno. Conosceva le costellazioni e sapeva a memoria tutti i nomi di tutti i pianeti, ed era stato proprio suo papà a fargli amare tutte quelle meraviglie. L’Universo, i pianeti, le stelle. Sentì Harold abbassarsi per arrivare abbastanza vicino al suo viso.
- Guarda, Brian. Guarda quante stelle. – gli sussurrò amorevolmente, facendolo annuire. – Se guardi bene, se osservi il cielo, noterai un’altra piccola stella, in mezzo a tante alte. La prima stella che vedi, la più bella e più luminosa. Quella è la nonna, Bri. La vedi?
- Sì, papà. Ma quella è solo una stella. Non è la nonna.
- Lo sai, Bri? Quando finiamo il nostro processo vitale, quando andiamo via dalla Terra, da questo pianeta così colorato e bello, meritiamo qualcosa di ancor più luminoso. Siamo ambiziosi, desideriamo il cielo, l’Infinito. Saremo scaldati dalla luce delle altre stelle, avvolti tra le braccia dell’universo, insieme alla luna e ai pianeti. Saremo lontani dalla Terra ma la illumineremo nella notte, proprio come fa la nonna ora.
- Papà, come sai tutte queste cose?
- Non le so. Semplicemente le sogno.
- A me piace sognare, papà.
- Anche a me, Brian. E allora sogna, sogna forte, sogna come se niente fosse importante. E se continuerai a sognare, piccolo Brian, allora vedrai la nonna sempre più luminosa. Come tutte le altre stelle.
 

 
Brian stette in silenzio, continuando a sentire il cuore di Roger battere sotto la pelle mentre ricordava ciò che suo padre gli diceva quando era bambino. Non seppe perché gli fosse venuto in mente quel ricordo. Sapeva solo che gli aveva messo coraggio e forza, esattamente come i battiti continui e tranquilli di Roger, che lo fecero rilassare leggermente.
Roger guardò gli occhi di Brian, ormai non più lucidi. Lasciò andare la sua mano, sentendosi leggermente vuoto quando il ragazzo allontanò il palmo dal suo petto. Guardare quegli occhi color nocciola, sentire il contatto con la mano di Brian, continuò a mandargli scariche elettriche in tutto il corpo, e si chiese, per un momento, cosa cazzo gli stesse succedendo. Stava per impazzire. Si sentiva strano e stupido, così stupido da volersi prendere a schiaffi. Aveva fatto delle cazzate per l’amore nei confronti di Tim, e ora stava reagendo così davanti a un’altra persona? Davanti a Brian, che non poteva essere altro che il suo migliore amico.
Aveva voglia di picchiarsi da solo.
“Stupido coglione. Stupido e inutile rincoglionito demente.” pensò. Quelli erano sentimenti che avrebbe dovuto provare nei confronti di qualcuno che sarebbe dovuto essere chiunque fuorché Brian. Respirò profondamente. Chissà che espressione da ebete aveva in faccia in quel momento. Magari al migliore amico sarebbe anche venuta voglia di prenderlo a schiaffi per farlo tornare a essere un minimo accettabile.
- Dovremmo… Dovremmo andare. – la voce di Brian lo risvegliò dai suoi pensieri, facendolo sentire ancora di più un coglione.
- D-di già? – balbettò il biondo. Il più grande annuì, accarezzandogli la testa bionda e andando in camera per cambiarsi. Roger respirò profondamente, appoggiando la testa sul gomito, scuotendo la testa. Si sentiva un idiota, probabilmente faceva anche bene. Non poteva, semplicemente non poteva anche soltanto pensare all’eventuale idea di provare dei sentimenti diversi dall’amicizia per Brian. Si era dannato e aveva fatto dannare anche lui per colpa di Tim, e cosa succedeva, dopo due giorni? Che cambiasse idea?
Voleva andare avanti, ma non in quel modo. Pensò che forse fosse solo attrazione fisica, qualcosa di temporaneo che non sarebbe durato a lungo. O che gli volesse semplicemente un bene dell’anima e che stesse fraintendendo qualcosa. Però. Però il pensiero del sorriso di Brian gli stava facendo girare la testa.
Brian aveva un sorriso diverso da tutti quelli che gli era capitato di vedere ed era stato la prima cosa che aveva colpito Roger. Forse era anche più bello di quello di Tim.
Quando sorrideva, a Brian sorridevano anche gli occhi. Roger vedeva quei brillanti occhi castani illuminarsi, le sopracciglia sollevarsi e i denti bianchi uscire dal nascondiglio che trovavano sotto alle labbra. Sorrideva spesso, Brian. Ma non era un sorriso sornione come il suo, non era provocatorio. Era un sorriso sincero, caldo e accogliente, che il ragazzo ventiduenne sfoggiava solo quando ne valeva la pena e Roger amava il fatto che, per Brian, valesse quasi sempre la pena di sorridere, tranne quando era arrabbiato, nervoso, preoccupato o esaurito dai suoi comportamenti infantili – come quando, per esempio, masticava con la bocca aperta mentre il povero chitarrista mangiava per farlo infastidire -.
Era diverso dal sorriso di Tim. Era il sorriso di una persona che ne aveva passate tante e che era sempre riuscito, con la sua spiccata intelligenza e la sua forza, ad andare avanti.
Era il sorriso che faceva luce a Roger quando l’unica cosa che riusciva a vedere era il buio.
Brian era diverso in tutto, da Tim. E per un attimo Roger desiderò che, per davvero, potesse provare qualcosa e scollarsi da quel coglione del loro vecchio bassista. E poi si diede di nuovo del coglione.
“Dio mio, come cazzo sei melenso. Sei così tanto una puttana che mi fai venire da vomitare.” sentì nuovamente nella sua testa, sbuffando e alzandosi in piedi. Si diede una piccola sberla per riprendersi da quei pensieri da ragazzina neo mestruata, per poi accorgersi che Brian, cappello in testa, chiavi in mano e cipiglio da chi non stava capendo nulla in faccia, lo stava guardando come se fosse ammattito. – Roger perché ti picchi?
- Io… Mi si era bloccata la mandibola.
- Ti droghi?
- No. Sto solo attraversando la vecchiaia a grandi falcate.
Brian alzò le sopracciglia. – A vent’anni?
- Quasi ventuno.
- Siamo a dicembre del sessantanove, sei nato vent’anni fa. A Luglio. Hai vent’anni.
- E mezzo.
- Smettila di farmi sentire come se ne avessi ventitré. Perché vuoi mostrarti più vecchio di quello che sei?
- Io sono ancora giovane e bello.
-  Sbrigati, non hai ancora messo la giacca.
- Macché giacca. Oltre a essere giovane e bello, sono anche forte e temerario.
- Roger, vai a mettere la giacca prima che io diventi una bestia.
Roger sbuffò avviandosi verso l’armadio del migliore amico con le mani alzate all’altezza delle spalle. – Va bene, mamma, va bene. Obbedisco.
Il biondo tornò pochi secondi dopo, vestito solo con un capotto sbottonato, senza cappello né sciarpa. Brian sospirò. – Se ti prenderai la polmonite non saranno problemi miei. – disse, chiudendo la porta di casa.
 
Freddie Bulsara era seduto a gambe accavallate sulla poltrona in vimini della sala prove che avevano prenotato per quel giorno. Fumava una sigaretta, aveva un’espressione scocciata in volto, i capelli scuri e disordinati ed era vestito con una camicia nera con le paillettes sbottonata fin sotto lo sterno e dei pantaloni bianchi a zampa di elefante che gli coprivano gli stivali per metà. Roger sorrise appena vide quell’abbigliamento stravagante: quel ragazzo aveva uno stile che a lui piacque non poco.
- Siete in ritardo, tesori. Mi avete fatto aspettare e ora la mia gola sembrerà piena di sperma. – sbottò il ragazzo, restando sulla poltrona. Brian si mise la chitarra a tracolla, guardandolo negli occhi. – Scusaci, Freddie. Io e Roger abbiamo avuto un contrattempo. – disse con educazione, lanciando uno sguardo a Roger. Il biondo si avvicinò a Freddie, allungando una mano nella sua direzione. – Sono…
- So chi sei, caro. Ti ho trascinato praticamente in braccio fino a casa del tuo amico, quindi ho un ricordo vivido di te e del dolore che mi hai fatto provare alla schiena. – lo fermò Freddie. Roger sbatté le ciglia un paio di volte.
- Freddie, che hai intenzione di cantare? – cambiò discorso Brian. Il ragazzo lo guardò e sorrise. – All along the watchtower.
Roger batté le mani un paio di volte nel sentire il nome di una delle sue canzoni preferite e il chitarrista si girò verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. Sorrise a Freddie, appoggiando le mani sulla chitarra pronto ad attaccare, mentre il biondo si sedeva dietro alla sua batteria.
Quando Freddie si avvicinò al microfono, la chitarra di Brian cominciò a suonare così come i tamburi e i piatti di Roger, mentre il giovane cantante si schiariva la voce prendendo il microfono e avvicinandolo alle labbra, iniziando a cantare dopo poche battute. Il batterista spalancò gli occhi, guardando il ragazzo, affascinato. Pensò che Brian avesse ragione su tutto. Non aveva nulla a che vedere con Tim. Aveva appena iniziato a cantare ma la differenza era abissale. Era intonato, limpido e preciso. Freddie aveva una voce bellissima e un’estensione vocale vastissima. Riusciva a toccare qualsiasi nota, che fosse alta o bassa. Roger. Dalla sua batteria, vide Brian sorridere soddisfatto mentre il giovane Bulsara non sbagliava neanche una singola nota. Il chitarrista gli lanciò uno sguardo e il batterista poté leggere chiaramente la parola: “fottiti” nei suoi occhi. Il biondo alzò gli occhi al cielo, continuando a picchiare le bacchette sulla batteria.
Quando Freddie terminò, allargò le braccia tirando la testa all’indietro, poi la rialzò girandosi prima verso Roger per poi guardare Brian. – Siete fantastici, vi amo!
Il chitarrista allargò un sorriso. – Direi che il sentimento è reciproco. Vero, Rog?
- Sono abbastanza d’accordo. – il biondo si rialzò, raggiungendo i due musicisti e stringendo la mano a Freddie. – A patto che tu mi presti i vestiti.
- Cos’hai nel cervello, caro? Orsetti gommosi? – esclamò Freddie, spalancando gli occhi scuri. – Non pensarci nemmeno!
- E tu pensi che questo atteggiamento ti permetterà di entrare nella band?
- Sì, Roger. – si intromise Brian.
Il biondo sbuffò. – Vaffanculo.
Freddie sorrise, orgoglioso. Il riccio lo guardò. – Tu… Sai suonare qualche strumento? – chiese al ragazzo. Freddie alzò le spalle. – Il pianoforte e la chitarra.
Roger si morse la lingua. – Ah. E il bassista lo prendiamo dalla strada?
- Non partire già con questo pessimismo. Non ne abbiamo così bisogno. E anche se fosse, lo troviamo, il bassista. – disse Brian.
- Dove, nelle patatine?
- Tesori, questo è il mio numero di telefono. – li interruppe Freddie, porgendo a Brian un foglio di carta con delle cifre scritte in alto. – Appena deciderete cosa fare sarò felice di ricevere una vostra chiamata.
- Un momento, Freddie. Noi vorremmo sapere qualcosa di più su di te. – disse Brian, mentre indossava la sua giacca e metteva a posto la chitarra. Bulsara lo guardò, annuendo. – Chiedimi ciò che desideri sapere.
- Come conosci Tim? – disse subito Roger, prima che il riccio potesse aprire bocca. Freddie si sedette di nuovo sulla poltrona, mentre gli altri due ragazzi si sistemavano su un divanetto appoggiato alla parete accanto. La sala non era grande, perciò gli spazi erano ristretti e limitati.
- Frequento l’Ealing College anch’io.
- E tu… Vai d’accordo con lui?
- Abbastanza.
Roger fece un respiro profondo. Brian si accorse dell’espressione leggermente turbata del suo migliore amico e si affrettò a cambiare discorso. – Non mi hai nemmeno detto quanti anni hai, la scorsa volta che ci siamo visti.
- Ventitré.
- Quindi mi state dicendo che io sono il più piccolo? – esclamò Roger.
- Esatto.
Il biondo sbuffò, facendo sorridere Brian.
 

 
- Quindi hai diciotto anni? – fece il solista, masticando. Roger, il quale si era appena presentato a Tim Staffel, non poté fare a meno di fare una smorfia infastidita, ripetendo comunque che, sì, aveva da poco compiuto i suoi diciotto anni. Staffel sorrise, tirando una gomitata amichevole al più grande dei tre, che era occupato ad accordare la sua chitarra. – Capito? E’ appena diventato maggiorenne.
Brian lo guardò aggrottando la fronte, vedendo poi il nuovo batterista alzare le sopracciglia. – E quindi, che vuoi?
- Niente, stavo solo scherzando. Dio, certo che quelli di paese sono proprio dei rompicoglioni. – sbuffò Tim, scuotendo la testa.
- Hai appena detto che il Leggendario Batterista della Cornovaglia è un rompicoglioni appena maggiorenne. Io ti consiglierei di ritirare ciò che hai detto e farti una dose pesante di modestia. – replicò il biondo, infastidito.
Brian sorrise. Gli piaceva, quel ragazzo. Aveva grinta ed era sicuro di sé, sicuramente non si faceva mettere i piedi in testa. E in quel momento, con il leader della band in cui era stato appena preso e dalla quale poteva essere mandato via da un momento all’altro, lo stava dimostrando. Tim rimase zitto per un po’, poi alzò gli occhi al cielo. – Va bene, Leggendario Batterista della Cornovaglia. Resto zitto e metto la coda tra le gambe, così non ti offenderò più.
Roger sorrise sornione. – Bravo, stai facendo la scelta giusta.
- Piccolo e fastidioso.
- E tu quanti anni avresti, scusa?
- Diciannove.
Roger scoppiò a ridere.
- Che cazzo ridi? – sbottò il solista, aggrottando la fronte. Il biondo sollevò le spalle. – Sei certamente un vecchio saggio ed esperto, a diciannove anni. Ti prego, insegnami.
- Ragazzi, volete finirla o no? State entrambi dimostrando di averne cinque, di anni. – li interruppe Brian. Roger diede una pacca sulla spalla di Tim. – Lui sì che è un vecchio saggio.
- Cos’è, vai a convenienza? – domandò il diciannovenne. Brian si massaggiò la fronte con due dita. – Dio, ma perché?
- Sembri davvero frustrato.
- Roger, ti prego. Dimostrami che i diciotto anni li hai compiuti sul serio. – sospirò il chitarrista, incurvando la schiena.
Roger sorrise. Si guardò intorno. Era la sua prima cena con la band e avevano optato per un pub londinese di Carnaby Street, ringraziò di aver compiuto la maggiore età. Si era scolato due birre, nonostante Brian gli avesse consigliato di fermarsi.
La prima volta che aveva visto Tim Staffel ne era rimasto colpito. Era alto, anche se non più di Brian e i capelli erano scuri. Aveva un’espressione annoiata in volto che lui aveva trovato interessante, sebbene non gli fosse piaciuto il fatto che, quando si stessero presentando, Staffel avesse mostrato completo disinteresse nei suoi confronti. A Roger non importava molto delle opinioni che gli altri avevano su di lui, ma almeno un leggero interesse, pensò, avrebbe dovuto esserci, visto e considerato che lui fosse il nuovo batterista della sua band. Non gliene importò granché, ma per tutta la sera l’interesse verso Tim cresceva e cresceva, e lui non sapeva nemmeno il perché. Forse era il suo atteggiamento menefreghista, o la sua intelligenza, forse il modo in cui lo attraeva a livello fisico. Non sapeva spiegarsi nulla, non riusciva. E si diede dello stupido per il modo in cui restava attratto da qualcuno così facilmente e stupidamente, come un bambino ingenuo e troppo curioso.
La serata fu piacevole e divertente, procedette veloce e finì quasi prima che Roger avesse il tempo di accorgersene. Tim lo accompagnò a casa in macchina, e più Roger passava del tempo con lui più se ne sentiva attratto.
E volle picchiarsi da solo quando, il giorno dopo, si rese conto di averlo perfino sognato quella notte.
 

 
Roger appoggiò la testa alla finestra, rilassandosi al ticchettio tranquillo della pioggia contro il vetro. Respirò profondamente, ripensando all’audizione impeccabile e alla voce limpida di Freddie, in cui per la prima volta, dopo che aveva sentito suonare Brian, non era stato in grado di trovare nulla di sbagliato. Al primo colpo, dopo soli due giorni dall’abbandono del solista, avevano trovato la persona che faceva esattamente al caso loro. Era carismatico, aveva una personalità speciale che lo aveva convinto appieno e la sua voce era straordinaria, quasi troppo bella per essere vera. La sua, in confronto, era sporca e graffiata, non aveva nulla a che vedere con quella raffinata e precisa di Freddie.
Ma chi se ne frega, si disse. Nessuno suonava la batteria come la suonava lui e quello era l’importante. La chitarra di Brian, la voce di Freddie e le sue percussioni sarebbero state un mix perfetto e avrebbero potuto fare grandi cose. Però mancava qualcosa. Mancava l’abilità di Tim nel suonare il basso e…
No. Non doveva più pensarci. Avrebbero trovato un bassista come avevano trovato il solista, prima o poi. Doveva riprendersi e tornare il Roger Taylor che se ne sbatteva e pensava in grande, quando guardava il futuro.
E poi, la forza d’animo di Freddie e la sua personalità gli avevano messo addosso energia e carica, era inutile pensare al passato senza concentrarsi sul presente.
In quel momento, però, i suoi pensieri spaziavano dal male al malissimo. Quando la sua testa cominciò a pulsare, ricordò il colpo che aveva subito il giorno prima quando Michael gliel’aveva fatta sbattere contro il vetro della finestra della cucina. Pensò alla sensazione di paura e ansia che aveva provato per colpa della mancanza d’aria, pensò a come si era sentito spacciato e in trappola e si concesse un momento di debolezza. Si era fatto forza davanti a Brian, gli aveva detto di non pensarci, ma in quel momento sentì di aver bisogno di mostrarsi fragile davanti a se stesso. Brian gli aveva sempre detto che nessuna emozione doveva essere repressa o soffocata, che qualsiasi sentimento era giusto e nessuno andava male. E Roger capì di aver bisogno, di nuovo, del suo migliore amico, del suo punto di riferimento. Di chi era più grande e più saggio, di chi lo fermava quando faceva cazzate, di chi lo aiutava a rialzarsi quando cadeva. Si alzò, sospirando e camminando verso la camera di Brian, dove il ragazzo stava dormendo.
Era tardi, poteva essere l’una di notte. Roger aveva detto a Brian che voleva restare sveglio per un po’, da solo, che voleva riflettere e pensare.
- Va bene, basta che appena ti viene sonno tu vada a dormire. Io sono esausto, perciò non riesco proprio a stare in piedi. – gli aveva detto Brian. In effetti, non aveva dormito per due notti consecutive e doveva essere stremato, e lui ne era anche la causa. Sbuffò. Si sentiva un disastro per aver rovinato due giornate della vita di Brian. Il chitarrista faceva di tutto per lui e Roger non faceva altro che causargli guai.
Appena varcò la soglia della stanza di Brian cercò di fare più silenzio possibile. Lo vide rannicchiato sotto le coperte come un bambino non poté fare a meno di sorridere. Brian era ordinato e tranquillo anche nel sonno, mentre lui, come il migliore amico gli diceva spesso tra una risata e l’altra, faceva danni anche mentre dormiva. Per prima cosa, russava. E non poco. Ogni volta che lui e Brian avevano dormito insieme, seppur fossero in letti separati, il più grande non era mai riuscito a prendere sonno.
Il chitarrista gli aveva raccontato un sacco di volte di quando era caduto dal letto, del fatto che ridesse nel sonno, che a volte parlasse, urlasse o addirittura cantasse mentre dormiva.
- Quando dormi ti piace andare in falsetto. E a me non piace che tu vada in falsetto. – gli aveva detto Brian un giorno mentre facevano colazione, dopo un’estenuante giornata in cui lui, il migliore amico e Tim erano rimasti a suonare e avevano dormito sul pavimento della sala prove.
Roger sorrise, nel pensare a quelle giornate. Si sedette sul letto, accanto a Brian.
Il riccio aveva le coperte tirate fino al naso, gli occhi castani chiusi e i riccioli davanti ad essi. Aveva un’espressione serena, e a giudicare del movimento dei suoi occhi sotto alle palpebre chiuse Roger capì che stesse sognando.
- Scusami, Bri. – sussurrò il biondo, sospirando. Titubante gli accarezzò dolcemente i capelli scuri, passando la mano tra i ricci morbidi. Si odiò quando il suo cuore iniziò a battere più forte nel vedere il migliore amico dormire, pregando che quella sensazione fosse dovuta semplicemente dal fatto che fosse stanco.
Brian si mosse ne sonno, sospirò e un movimento del braccio destro fece abbassare le coperte leggermente, lasciando libere le labbra socchiuse e il collo sottile. Quello fu l’unico momento in cui Roger, per davvero, dimenticò Tim. Pensò che il ragazzo più grande fosse bellissimo e ormai il cuore aveva iniziato a battere forte come la sua grancassa. Il biondo strinse gli occhi, respirò profondamente dal naso.
- Vaffanculo. – sussurrò. Spense il cervello, completamente. E la sensazione che provò dopo, quando avendo mandato tutti i pensieri a quel paese baciava Brian era forse la migliore che avesse provato in anni della sua disordinata, incasinata vita.
   
 
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