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Autore: Parmandil    15/01/2019    0 recensioni
Per molti secoli i popoli della Via Lattea si sono interrogati sui grandi misteri del cosmo. Cosa c’è oltre la Grande Barriera che avvolge la galassia, impedendo alle navi di uscire? Chi ha costruito le megastrutture come la Sfera di Dyson? Da dove viene la sorprendente somiglianza genetica fra gli umanoidi, una somiglianza tale che le diverse specie possono persino incrociarsi? Alcuni hanno visto un’unica mano dietro questi misteri: quella dei Progenitori, la stirpe ancestrale da cui tutti gli umanoidi hanno tratto origine. Ora queste antiche domande avranno finalmente risposta.
Ristrutturata dopo l’ultima battaglia, l’Enterprise-J si lancia arditamente all’esplorazione della galassia di Andromeda, arrivando là dove nessuno è mai giunto prima. Troverà nuovi e formidabili alleati, ma si scontrerà anche con la forza più distruttiva dell’Universo: la Scourge. In una corsa contro il tempo, i nostri eroi cercheranno di rintracciare i creatori della Scourge... e di loro stessi. I legami saranno sottoposti alle prove più dure e ciascuno di loro affronterà i propri demoni, mentre il viaggio al centro di Andromeda somiglia sempre più a una discesa negli abissi dell’Inferno... e della mente.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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-Capitolo 1: La Barriera Galattica

Data Stellare 2557.45

Luogo: Grande Barriera Galattica

 

   L’Enterprise-J, ultima erede del più glorioso lignaggio della Flotta Stellare, galleggiava nello spazio aperto, ai confini della Via Lattea. Le stelle erano rarefatte, nella periferia galattica, tanto che lo spazio era perlopiù nero. Solo qua e là brillavano gli ammassi globulari, fitti addensamenti di migliaia di astri. Le stelle isolate erano rare e quasi tutte vecchie, poiché nell’alone mancavano nebulose che potessero formarne di nuove. Dietro all’Enterprise giaceva la Via Lattea, con gli aggraziati bracci a spirale in cui nascevano le stelle e il brillante rigonfiamento centrale, dove si affollavano le giganti rosse. Ma davanti all’astronave si estendeva il buio, sconfinato vuoto intergalattico. Poche navi federali vi si erano avventurate; nessuna per lunghi tratti. Era l’ultima frontiera. E l’Enterprise, tra le prime navi della rivoluzionaria classe Universe, era stata costruita apposta per varcarla. Lunga tre km, ospitava diecimila persone tra equipaggio e civili, appartenenti a quasi tutte le specie federali. Vera città nello spazio, con un’autonomia di anni, era progettata come nave generazionale. Comprendeva ristoranti, scuole, ospedali, giardini pubblici, zone sportive. Tutti i comfort di un pianeta federale, combinati con i motori più veloci, gli scudi più resistenti le armi più micidiali in dotazione alla Flotta. La sua Intelligenza Artificiale, incarnata come proiezione isomorfa di ultima generazione, vegliava perennemente su quanti erano a bordo.

   Ora quell’Intelligenza Artificiale, familiarmente nota come “Terry”, stava in plancia e fissava lo schermo visore nero. I suoi sensori erano protesi a sondare lo spazio. In quanto Ufficiale Scientifico di bordo, toccava a lei fare rapporto. «Ci avviciniamo alla Grande Barriera Galattica, signore» avvertì, incrociando le braccia dietro la schiena. Aveva le sembianze di una donna asiatica, dalla corporatura minuta, con grandi occhi color liquerizia e corti capelli corvini. Ma sebbene imitasse l’organismo umano fino a livello cellulare, quell’aspetto non era che un mezzo per comunicare con i colleghi, e poteva variarlo a piacimento. Poteva persino materializzare diverse proiezioni simultaneamente, inviandole dove voleva, poiché gran parte della nave era equipaggiata con proiettori olografici. E dove non c’erano i proiettori, suppliva l’Emettitore Autonomo.

   «Può farcela vedere?» chiese il Capitano Chase, intrecciando le dita. Non era più il ragazzo timido e impacciato uscito dall’Accademia ventidue anni prima. Unico superstite della distruzione dell’Enterprise-I, aveva fatto una rapida carriera, ottenendo il comando della nuova ammiraglia. Per sei anni l’aveva tenuta in prima linea nella Guerra delle Anomalie, il durissimo conflitto che aveva opposto la Federazione e i suoi alleati al Fronte Temporale. Capitano ed equipaggio avevano affrontato ogni avversità: distorsioni spaziali, battaglie, viaggi nel tempo, intrighi e complotti del nemico (e dei traditori annidati nella Federazione). Alcuni, come il compianto dottor Korris, non erano sopravvissuti. Ma i superstiti erano diventati una squadra formidabile, forgiata dalle avversità e unita da una lealtà incrollabile. La guerra era finita con la colossale Battaglia di Procyon V, che aveva segnato il tracollo del Fronte Temporale; ma le ferite erano tutt’altro che rimarginate. Mentre la Federazione evolveva in una più vasta Unione Galattica, Chase e i suoi ufficiali erano lieti di tornare alla loro missione originale, l’esplorazione.

   «Certo, Capitano. Elaboro un’immagine delle distorsioni subspaziali» rispose Terry, con la solita efficienza. Lo schermo nero si tinse improvvisamente di squillanti toni viola e rosa, come luci al neon. Le distorsioni formavano una barriera, più densa in certi punti e meno altrove. Non c’era modo di aggirarla, perché circondava l’intera galassia, avvolgendola come un bozzolo. Era un ostacolo micidiale per le astronavi: le distruggeva con violente scariche energetiche, rendendo difficilissimo uscire dalla Via Lattea. Questo significava altresì che, per chi si trovasse all’esterno, era difficile entrare. Secondo l’Ipotesi dello Zoo, la Barriera Galattica era di origine artificiale. Sarebbe stata creata da qualche potente entità, forse i Q, a protezione della Via Lattea dalle minacce intergalattiche. Altri sostenevano che fosse un fenomeno naturale. Comunque stessero le cose, la Via Lattea era isolata; anche le comunicazioni subspaziali con l’esterno erano ostacolate.

   «Le nuove Colonne d’Ercole» commentò Chase, osservando quei turbini d’energia, simili a un vasto incendio.

   «Capitano?» chiese Lantora, l’Ufficiale Tattico. Era uno Xindi Primate e malgrado l’iniziale diffidenza fra lui e il Capitano, con il tempo era diventato uno degli ufficiali più fidati, nonché un caro amico.

   «Un limite invalicabile delle leggende terrestri» spiegò Chase. «Si credeva che, se una nave avesse osato superare quello stretto, sarebbe di certo naufragata. Ma naturalmente non era così; e ci furono navigatori coraggiosi che si avventurarono nell’oceano, finché tutta la Terra fu esplorata. Oggi faremo lo stesso con la Barriera Galattica».

   «La prima nave federale che ci si addentrò fu la Valiant, seguita dall’Enterprise di Kirk» ricordò il Primo Ufficiale Ilia Dax. Ultima ospite del leggendario Simbionte Dax, la Trill beneficiava di oltre cinque secoli di memorie, dipanati in dodici vite, che le davano una prospettiva unica sugli eventi. «In quel caso, non andò a finire bene» commentò.

   «Erano altri tempi» disse Terry. «La tecnologia ha fatto passi da gigante; i miei scudi cronofasici reggeranno. Sto inviando al timone una mappa delle anomalie, così da evitare le zone di maggiore addensamento».

   «Ho i dati» confermò T’Vala Shil. Mezza Vulcaniana e mezza Betazoide, era la miglior timoniera dell’Enterprise, nonché uno dei telepati più dotati. «Traccio una rotta fra le anomalie... è una sensazione familiare» sorrise. A differenza dei Vulcaniani puri, T’Vala non si sentiva obbligata a sopprimere le emozioni, pur sforzandosi di seguire la logica.

   «Queste anomalie non sono come quelle che ha conosciuto in guerra, Tenente» avvertì Fanior, l’ambasciatore dei Kelvani. Il suo popolo, nativo della galassia di Andromeda, era uno dei pochi che avessero varcato la Barriera. Un piccolo gruppo di esploratori kelvani era penetrato nella Via Lattea trecento anni prima, fondando la colonia di Kelva II. Con l’espandersi della Federazione, Kelva II era diventato un’enclave, ma non era mai entrato a farne parte, essendo orgoglioso delle sue origini e della sua indipendenza. I Kelvani, comunque, avevano inviato un rappresentante per quella missione, che li toccava da vicino: erano ansiosi di ristabilire i collegamenti con la madrepatria. E all’Unione Galattica faceva comodo avere qualcuno che l’aiutasse a stabilire contatti pacifici con l’Impero Kelvano.

   «Me ne rendo conto, Ambasciatore» rispose T’Vala con diplomazia. «Ma penso che le anomalie del Fronte Temporale siano state un buon allenamento».

   «Può darsi» concesse Fanior, serissimo. «Ma vorrei controllare la rotta, prima che ci porti dentro. La mia gente ha studiato a lungo la Barriera... potrei notare qualcosa che le è sfuggito. Con il suo permesso, Capitano» aggiunse, scoccando un’occhiata imperscrutabile a Chase.

   Il Capitano esitò. Non era sua abitudine sottoporre il lavoro di T’Vala a revisione, tantomeno da parte di un ospite. D’altro canto, i Kelvani erano molto abili in queste cose, con la loro mente analitica dalle spiccate doti matematiche. «Certo, Ambasciatore. Collabori pure con Terry e T’Vala, per trovare la rotta migliore. Non abbiamo fretta» disse. Confidava che la sua timoniera non se la sarebbe presa. Aveva troppa logica, e troppo buonsenso, per sentirsi ferita nell’orgoglio professionale.

   «Bene» approvò Fanior, con un lieve cenno del capo. Subito andò accanto a T’Vala, per osservare i suoi calcoli. Così facendo diede le spalle a Chase, che lo osservò con una punta d’apprensione.

   Salito sull’Enterprise da due settimane, in occasione del nuovo varo, Fanior era ancora un enigma. Parlava pochissimo e solo di cose strettamente attinenti al suo lavoro. Nessuno l’aveva mai incontrato in un ristorante, al parco o in una qualsiasi area pubblica. Nessuno l’aveva mai visto sorridere. A vederlo sembrava un Umano alto e magro, dai capelli neri e gli occhi azzurro ghiaccio che spiccavano sul volto severo. Ma era solo apparenza... una cortesia nei confronti degli umanoidi che lo circondavano. Anzi, non era nemmeno cortesia: era puro pragmatismo.

   Nella loro vera forma, i Kelvani non avevano nulla di umanoide. Alti quattro o cinque metri, somigliavano a grossi calamari. Avevano dieci tentacoli, ognuno dei quali si divideva ancora in dieci nella parte terminale, per un totale di cento appendici. La loro coordinazione motoria era tale che ciascun arto poteva compiere simultaneamente un’operazione diversa. E la loro mente aliena aveva una potenza formidabile. Il primo Vulcaniano che aveva tentato una Fusione Mentale con loro, Spock, riferì di aver percepito «una serie d’immagini, esotiche e bizzarre, che esplodevano nella mia mente. Colori, forme, equazioni matematiche, mescolate e confuse». La loro mente era fredda, analitica, pressoché priva d’emozioni. A livello sensoriale avevano qualcosa d’equivalente alla vista e all’udito, ma il tatto era affievolito ed erano completamente privi di olfatto e gusto.

   Non c’era da stupirsi se molti di loro gradivano assumere la forma umana, che gli permetteva di esplorare nuove sensazioni ed emozioni. Altri, però, credevano fermamente nella superiorità dell’austero stile di vita Kelvano. Osservando Fanior, Chase pensò che doveva appartenere alla seconda categoria. L’Ambasciatore aveva preso quell’aspetto solo per facilitare le comunicazioni e per non essere impacciato dalla sua mole. Ma per il resto non sembrava interessato ai passatempi umani. Probabilmente nel suo alloggio tornava a essere un calamaro gigante. Chase aveva visto alcune immagini di Kelvani nel loro vero aspetto e si chiese se avrebbe mai incontrato Fanior in quella guisa.

   L’attenzione dei presenti fu richiamata dai fischi del Consigliere di bordo, uno Xindi Acquatico, prontamente tradotti. «Prima di superare la Barriera, dovremo parlare seriamente della questione kelvana» disse. Era una creatura verdastra, con un corpo da pesce, affusolato e flessibile. La coda schiacciata e le piccole pinne caudali gli permettevano di muoversi nell’acqua, ma gli arti anteriori con tre dita gli davano le capacità di manipolazione indispensabili a una specie senziente e tecnologica. Il muso, quasi da anfibio, non era molto espressivo, ma sarebbe stato un errore sottovalutare la sua intelligenza. Non potendo condividere l’ambiente con i colleghi, se ne stava sul ponte allagato dell’Enterprise, con altre specie ittiche, e presenziava in plancia solo in forma olografica. Era il primo Consigliere che l’Enterprise avesse da anni. Dopo che il predecessore Navarro aveva rassegnato le dimissioni, per screzi ideologici, la guerra aveva impedito il ricambio di personale. Solo con la fine del conflitto si era trovato un sostituto. Il fatto che l’Enterprise avesse contribuito in modo determinante a salvare Nuova Xindus dal Fronte Temporale non era certo estraneo alla candidatura dell’Acquatico.

   «Che intende con “questione kelvana”, signor Apsu?» chiese Fanior, osservando l’ologramma del Consigliere che nuotava nell’aria verso di lui.

   «Mi riferisco alla tradizione militarista e conquistatrice del suo impero, Ambasciatore» rispose senza mezzi termini lo Xindi. «I suoi antenati vennero qui come testa di ponte per un’invasione in grande scala della Via Lattea. Abbiamo appena respinto un’invasione del genere... capirà se non vogliamo ritrovarci daccapo» spiegò Apsu. Malgrado la sua voce fosse una traduzione computerizzata, era chiaramente in apprensione.

   «Non può paragonare l’Impero Kelvano ai Tuteriani» rispose Fanior, squadrando il Consigliere con occhi freddi.

   «Perché no? Anche voi siete alle prese con una catastrofe naturale che sta rendendo inabitabile il vostro spazio» insisté Apsu. «Un aumento di radiazioni nella galassia di Andromeda... così dissero i vostri avi, Rojan e Kelinda, quando incontrarono il Capitano Kirk».

   «Colgo l’occasione per manifestare il mio scetticismo al riguardo» intervenne Terry. «Non si conoscono fenomeni naturali in grado di rendere radioattiva un’intera galassia, con un ritmo d’espansione superiore alla velocità della luce. Se fosse un quasar, ci sarebbero alte emissioni energetiche dal nucleo... ma Andromeda non è certamente un quasar».

   «Ne so quanto lei» rispose Fanior, serissimo. «La missione kelvana verso la Via Lattea richiese secoli, perciò fu condotta con una nave generazionale. Rojan e gli altri nacquero tutti a bordo; nessuno di loro vide mai Andromeda. La loro conoscenza dell’Impero Kelvano era limitata a quanto riportato nel database dell’astronave. Per qualche motivo, i Kelvani non vollero fornire dettagli su questo... aumento di radiazioni».

   «E non le sembra strano?» chiese Lantora. «Dopotutto era la ragione del viaggio! Se gli esploratori kelvani dovevano vivere e morire durante la missione, avevano diritto a sapere almeno perché lo stavano facendo».

   «La logica suggerisce che la storia delle radiazioni sia una copertura» aggiunse T’Vala, ruotando la sedia del timoniere per fronteggiare Fanior. «Forse l’Impero Kelvano desidera semplicemente espandersi nella nostra galassia» insinuò. «O forse il pericolo è un altro. Le sonde automatiche inviate ad Andromeda hanno captato trasmissioni allarmate su una misteriosa forza ostile...».

   «La Scourge» disse Chase con gravità. «La nostra missione serve anche a stabilire cos’è, e se possa costituire un pericolo per la Via Lattea».

   «Ho ascoltato quelle trasmissioni» annuì Fanior. «Sono quasi incomprensibili... le interferenze della Barriera Galattica deteriorano il segnale. Quando saremo dall’altra parte ne sapremo di più e forse capteremo trasmissioni dell’Impero Kelvano. Ma signori, vi avverto che le vostre insinuazioni sul mio governo sono inaccettabili. Se l’Impero Kelvano ha parlato di radiazioni, allora è così. I Kelvani non mentono» disse con granitica convinzione.

   «Non intendevamo offenderla, Ambasciatore» disse il Capitano. «Ma converrà che c’è qualcosa di strano in tutto questo».

   «Ci mancano informazioni, ecco tutto» rispose Fanior. «Per questo siamo qui: per avere risposte. L’Unione Galattica ha fatto bene a inviare l’Enterprise. E con la mia mediazione, le vostre speranze di stringere rapporti pacifici con l’Impero Kelvano sono notevolmente maggiori».

   «Ne è certo? Le informazioni più recenti sull’Impero Kelvano risalgono a seicento anni fa» obiettò Apsu. «Tre secoli servirono per il viaggio e altri tre sono passati dal vostro arrivo nella Via Lattea. Nel frattempo la situazione di Andromeda può essere mutata. Il vostro impero può aver cambiato politica estera. Speriamolo... visto che, per vostra ammissione, pianificava d’invadere la Via Lattea».

   «Dovremmo discuterne in sala tattica» propose Lantora.

   «Più tardi. Ora mi segua nel mio ufficio, Ambasciatore. Anche lei, Consigliere» ordinò Chase. «Ilia, a lei la plancia». Gli interpellati lo seguirono, Fanior camminando rigidamente, Apsu nuotando nell’aria. L’ologramma dello Xindi era intangibile, oltre che un po’ evanescente. Questo, e il modo in cui fluttuava, gli davano un’aria da fantasma.

   Chase andò verso la sua scrivania, ma anziché aggirarla per sedersi posò le nocche sul ripiano, scrutando lo spazio visibile dalla finestra. Era nero, con pochissime stelle, il che paradossalmente dava un senso di claustrofobia. Le anomalie subspaziali non erano visibili a occhio nudo, ma Chase sapeva che la Barriera era vicina. I secondi passarono, in un silenzio teso.

   «Ambasciatore, ho aspettato che lei familiarizzasse con l’ambiente prima di rivolgerle questa domanda, ma non posso più aspettare. Fra poco varcheremo la Barriera Galattica e io devo sapere cosa aspettarmi dalla sua gente» disse finalmente il Capitano, girandosi verso Fanior.

   «Cosa aspettarsi?» ripeté l’Ambasciatore, come se non l’intendesse.

   «Scusi, faccio un passo indietro» disse Chase. «Lei si ritiene un suddito dell’Impero Kelvano o un cittadino di Kelva II?».

   «La sua domanda presuppone una differenza che non esiste» rispose Fanior garbatamente. «Kelva II è una colonia kelvana. È lontana dalla madrepatria, certo, il che c’impedisce di restare in contatto. Ma la nostra lealtà a Kelva Primo è indiscutibile» dichiarò.

   «Una bella differenza, rispetto alla mia specie» sospirò Chase. «Nessuna colonia umana rimasta isolata per secoli si è sentita così legata alla patria».

   «Desolante» commentò Fanior.

   «Voi Kelvani, invece, siete molto patriottici... e questo sarà un problema per noi, quando incontreremo la vostra flotta» notò Chase. «L’Unione ha richiesto la sua presenza per facilitare i contatti. Ma se l’Impero Kelvano sarà ancora aggressivo... se le ordinerà di agire contro l’Enterprise... lei obbedirà?» chiese, fissandolo con attenzione.

   «Confido che lo scontro sia evitabile...» rispose Fanior lentamente.

   «Voglio credere alla sua buona volontà, ma non è detto che l’Impero la condivida» insisté Chase, impaziente. «Io e i miei ufficiali faremo di tutto per evitare lo scontro. Ma se le cose si metteranno male... sa cosa dovrò fare; lo dica lei».

   «Dovrà mettermi agli arresti; è suo dovere» rispose Fanior, impassibile.

   «Un dovere che preferirei evitare» disse Chase, con un sorriso amaro. «La fiducia era una merce rara, in guerra. Speravo che ora ne sarebbe circolata di più, ma...». Scosse la testa.

   «Lei parla di fiducia!» esclamò Fanior, con un improvviso scatto di amarezza. «Io ne avevo, un tempo. Dopo la mia nomina ad ambasciatore, avvertii la sua sonnacchiosa Federazione delle minacce incombenti. Fui ascoltato? Certo che no!» disse stizzito. «Sono stato sulla Terra. Ho visto la profonda decadenza della società e delle istituzioni. Come vi aspettate che io creda in voi, quando siete i primi a non credere in voi stessi?!».

   La domanda aleggiò nell’aria, senza che Chase sapesse come rispondere. Gli venne in aiuto il Consigliere. «Ho letto la sua scheda personale, Ambasciatore» disse Apsu, galleggiando accanto a lui. «So che la Federazione lo ha deluso, durante la guerra. Ne ha pagato un prezzo tremendo... il suo risentimento è comprensibile».

   «Davvero? Mi dica, Consigliere, lei ha famiglia?» chiese Fanior, dandogli un’occhiata tagliente.

   «Ho una moglie e un cospicuo numero di girini» confermò Apsu.

   «Anch’io avevo moglie e figli» disse il Kelvano, come parlando a se stesso. «Erano su Kelva II quando i Tuteriani ci assediarono, nell’ultimo anno di guerra. Io ero tornato per difenderli, abbandonando il mio incarico sulla Terra... e questa forma umana» aggiunse, osservandosi le mani. «Comandai la resistenza kelvana durante i mesi dell’Assedio. Eravamo in grave inferiorità numerica... implorai l’Unione di soccorrerci, ma niente! La vostra grande alleanza non poteva privarsi di una sola astronave per noi!». Per quanto si dominasse, era evidente il suo rancore.

   «Abbiamo soccorso centinaia di pianeti, sia federali che non» si giustificò Chase. «Purtroppo non avevamo la forza per soccorrere tutti. La guerra ci ha costretti a fare scelte dolorose e non sempre giuste. Mi dolgo che proprio la sua gente, la sua famiglia ne abbiano pagato il prezzo».

   «Non è colpa sua» riconobbe Fanior. «So che la sua nave ha soccorso più pianeti e convogli di ogni altra. Lei ha vinto battaglie in condizioni disperate e ha scosso la Federazione dal suo torpore. Per questo si è guadagnato il mio rispetto» dichiarò, scrutandolo con occhi di ghiaccio. «Se questa missione fosse stata affidata a qualcun altro, non avrei accettato di farne parte. Lei è l’unico di cui mi fido».

   «Beh, spero di meritare la sua considerazione» disse Chase, un po’ imbarazzato. «E per la sua famiglia, la prego di accettare le mie condoglianze».

   «Grazie, Capitano. Sa, mia moglie e i miei figli rimasero vittime delle anomalie, mentre io combattevo nell’orbita del pianeta. Morirono pochi giorni prima che il Fronte si ritirasse nel sistema Procyon. Se fossi riuscito a respingere gli assalitori... o se avessi nascosto i miei cari da un’altra parte... sarebbero ancora vivi» disse Fanior, con gli occhi lucidi. «Quindi forse è colpa mia, non dell’Unione».

   «La colpa è del Fronte Temporale» disse Chase con decisione. «Ma ora dobbiamo guardare avanti. Approvo la sua prudenza nell’attraversare la Barriera. Però mi chiedo che accadrà, quando saremo dall’altra parte».

   «So che intende» disse Fanior, ricomponendosi. «Quando la Federazione inviò le sonde ad Andromeda, con offerte di pace per l’Impero, innescò un conto alla rovescia. Con la tecnologia dell’epoca occorrevano quasi trecento anni per giungere a destinazione. La mia maggiore ansia è sempre stata la consapevolezza che tocca alla nostra generazione affrontare le conseguenze. Mi chiedete come reagirà l’Impero, com’è cambiata la situazione ad Andromeda... in verità, Capitano, io non lo so» disse tristemente. «Come ha ricordato il Consigliere, la mia colonia è isolata da secoli. Può darsi che nel frattempo i miei simili si siano stancati di aspettare e si siano messi in viaggio. In tal caso, forse hanno incontrato le sonde federali a mezza strada, per cui vi conoscono già bene. O forse le hanno mancate, nell’immenso vuoto intergalattico, e procedono verso la Via Lattea con intenti di conquista. Come i Tuteriani» ammise con una smorfia. «Ecco perché ho accettato questa missione. Ho già gustato il sapore amaro della guerra e vorrei evitarne un’altra, se possibile».

   «Lei è in una posizione delicata» notò Apsu. «I suoi obiettivi sono molteplici e potenzialmente in contrasto. Allacciare i contatti con Andromeda, riassorbire la sua colonia nell’Impero, evitare un conflitto tra questo e l’Unione... sinceramente non la invidio. Come Consigliere, posso solo avvertirla che si troverà di fronte a scelte etiche difficilissime».

   «Molto dipende da cos’ha deciso l’Impero Kelvano nel frattempo» disse Chase. «Per non parlare della Scourge. Dobbiamo scoprire cos’è... potrebbe avere molto peso, ad Andromeda».

   «Sono d’accordo» annuì Fanior, di nuovo calmo e impassibile.

 

   «Non c’è pace per questa nave, eh?» sospirò l’Ingegnere Capo Grenk, quando Terry e T’Vala si recarono in sala macchine per discutere alcuni dettagli. «Ho appena finito di ricostruirla, dopo il macello di Procyon V, e già me la volete scassare di nuovo!».

   «Nessuno vuole scassare l’Enterprise» disse T’Vala, paziente. «Ma l’ultima frontiera non si varca senza scossoni».

   «Questo è il nostro piano di volo» aggiunse Terry, richiamando il percorso su una consolle ingegneristica. «Ho elaborato le stime delle interferenze subspaziali, ma sono... beh, stime. In realtà non sappiamo quali valori energetici incontreremo, visto che fluttuano continuamente».

   «Grandioso!» sbuffò il Tellarita, fremendo in tutto il suo metro e mezzo di statura.

   «Durante l’attraversamento, plancia e sala macchine resteranno costantemente in contatto» proseguì Terry. «Se ci saranno problemi...».

   «Li risolverò io, come al solito» disse Grenk. Come tutti i Tellariti, diceva quel che pensava senza filtri. I suoi colleghi non se prendevano; ormai ci avevano fatto il callo.

   «Suvvia, non dirmi che non ti eccita il pensiero di uscire dalla galassia!» sorrise T’Vala. «Se non ci fosse stata la guerra, l’avremmo già fatto anni fa. Ma non tutto il male viene per nuocere: almeno abbiamo collaudato l’Enterprise contro le anomalie. E dopo la ristrutturazione, la nave è più in forma che mai. A proposito, anche tu sei in forma!» notò con approvazione. «Il tuo girovita è rientrato nei limiti di tolleranza, ben fatto!».

   «Non è merito suo» spiegò immediatamente Terry. «Io e Raav abbiamo avuto una riunione d’emergenza e abbiamo convenuto che bisognava porre un limite all’espansione dell’Ingegnere Capo. Così lo abbiamo messo a dieta».

   «Questo tiro mancino potevo aspettarmelo da te, saputella, ma non da Raav!» protestò Grenk, guardandola bieco. «Quel Gorn mi ha sempre apparecchiato manicaretti da re. E in cambio, ho fatto del suo ristorante il ritrovo degli ufficiali. Ma ora sono tentato di passare alla concorrenza!» avvertì.

   «Non lo farai... siete troppo amici» sorrise T’Vala. «Piuttosto, non ti annoierai durante il viaggio intergalattico? Mesi e mesi a girarti i pollici... scommetto che hai già in mente qualche nuovo progetto».

   «Uhm, in effetti...» ammise Grenk, abbassando il tono di voce per non farsi udire dai colleghi. «Ti dirò come stanno le cose... perché sei una maledetta ficcanaso e voglio evitare quel che successe con la Phoenix. È vero, ho per le mani un altro progetto top secret, nome in codice Timeless. Ma stavolta il Capitano ne è informato, quindi non ci sono problemi. Perciò, se mi vedrai affaccendato nell’hangar 5, non farne una tragedia».

   «È qualcosa che riguarda il viaggio nel tempo?» chiese T’Vala. Era in quell’hangar che Grenk aveva messo a punto la prima navetta temporale.

   «Sì e no» disse Grenk, evasivo. «Scusa, ma è una cosa davvero riservata».

   «Va bene, non voglio darti problemi» disse T’Vala, reprimendo la curiosità. Ripresero a discutere della Barriera.

 

   Entrando in infermeria, Chase non si stupì di vederla in subbuglio. Fin dal XXIII secolo era noto che la Barriera Galattica aveva strani effetti sugli umanoidi. Spesso li uccideva; ma talvolta iper-stimolava alcuni centri cerebrali. Il risultato era un’impennata nei livelli ESP, con ciò che ne conseguiva: memoria potenziata, riflessi e resistenza sovrumani, telepatia. In rarissimi casi i poteri continuavano a crescere, divenendo incontrollabili: telecinesi, manipolazione della materia/energia. Lo scotto da pagare erano paranoia, delirio d’onnipotenza, ribellione contro ogni autorità. I pochi che avevano raggiunto quei livelli avevano aggredito e talvolta ucciso i loro stessi colleghi, rendendo necessario eliminarli prima che divenissero inarrestabili. Persino il Capitano Kirk, all’inizio della sua missione quinquennale, si era visto costretto a uccidere il suo caro amico Gary Mitchell.

   Gli scudi cronofasici dell’Enterprise-J davano ottime garanzie di sicurezza, ma bisognava prevedere ogni eventualità. Poiché gli individui più minacciati dalla Barriera erano i telepati, i dottori stavano approntando speciali capsule per loro. Ogni capsula generava uno scudo cronofasico, aggiungendo un ulteriore strato di protezione, se gli scudi dell’astronave avessero ceduto. Poiché non si poteva prevedere quando ciò sarebbe accaduto, i telepati dovevano rimanere nelle capsule per tutta la durata dell’attraversamento. La cosa in sé non era un problema: l’Enterprise poteva superare la Barriera in dieci minuti. Ma alcuni individui erano reticenti a farsi incapsulare, sebbene i medici spiegassero loro il motivo. A complicare le cose, l’Ufficiale Medico Capo era lei stessa una telepate.

   «Tenete pronti gli scanner cerebrali. E procuratemi altri due stimolatori corticali!» ordinò Neelah, ritta al centro di quella baraonda che era l’infermeria principale. Il personale era indaffarato intorno alle capsule, che affiancavano i bio-letti e talvolta li sostituivano. Altre capsule erano approntate nelle infermerie secondarie e persino in alcune stive di carico. In qualche modo, la dottoressa riusciva a controllare tutti, con l’atteggiamento nervoso e sbrigativo degli Andoriani.

   Quando Chase entrò, Neelah gli dava le spalle, ma le sue antenne craniali s’irrigidirono e il Capitano fu certo che l’avesse percepito. «Come va, dottoressa?» chiese in tono formale.

   «Come vede, Capitano» rispose Neelah, voltandosi. «Ho la possibilità di studiare dal vivo il più affascinante fenomeno di potenziamento ESP della Galassia, e invece... devo assicurarmi che non capiti a nessuno!» disse, lanciandogli uno sguardo d’accusa.

   «Parliamone in ufficio» suggerì Chase, tirandosela garbatamente dietro.

   «Okay... ehi, arrivano quegli stimolatori? E voi, tenete d’occhio il sistema limbico dei Betazoidi!» raccomandò Neelah agli assistenti, seguendo Chase di malavoglia. Quando la porta dell’ufficio si fu chiusa dietro di loro, la dottoressa affrontò il Capitano. «Allora?» chiese, con le braccia incrociate e un’espressione di sufficienza sul volto bianco neve.

   «Dimmi che una di quelle capsule è per te» la fronteggiò Chase.

   «Vuoi proprio levarmi tutto il divertimento?» sospirò Neelah. «Credevo avessimo chiarito questa cosa. La nave è tua, ma l’infermeria è mia. Sono l’Ufficiale Medico Capo, adesso».

   «Sei anche la telepate più potente della nave. E sei la mia partner» le ricordò il Capitano, abbracciandola. «Non vorrei che ti friggessi il cervello per la tua curiosità scientifica. Sai a cosa porta. Ti vengono gli occhi perlacei, ti convinci d’essere una divinità e cerchi d’impadronirti della nave. A quel punto dovrei ucciderti. Rovinerebbe la nostra relazione, non trovi?» chiese, e la baciò.

   «Occhi a parte, noteresti la differenza?» ridacchiò Neelah. «Ho sempre cercato di migliorarmi. Se non fosse per i miei potenziamenti genetici e nano-tecnologici, sarei ancora cieca e debole come tutti gli Aenar» disse con una certa asprezza. Neelah era tra gli ultimi esponenti della rara sotto-specie andoriana, caratterizzata dall’albinismo e dalla telepatia, ma anche dalla cecità congenita. Aveva sempre criticato i suoi simili, che a suo dire non sapevano sfruttare i loro talenti. Lei, invece, non aveva mai fatto altro. Allenata dalla Sezione 31, il famigerato servizio segreto federale, all’uso dei suoi poteri mentali, si era iniettata nanosonde Borg modificate per ottenere la vista. Da allora era stata una continua corsa all’auto-sperimentazione, finché era finita sull’Enterprise, dove la sua vita aveva assunto finalmente una parvenza di normalità.

   «Tu vai benissimo così come sei» la rassicurò Chase, sfiorandole i capelli candidi. «Non devi dimostrare niente a nessuno. Nemmeno a te stessa, capito?».

   «Ma...» fece Neelah, un po’ imbronciata.

   «Da quando ti conosco, hai corso troppi rischi» insisté il Capitano. «Nella nostra prima missione un Parassita Neurale ti entrò nel collo. E nell’ultima sei quasi morta dissanguata. Stavolta non devi correre rischi» disse, carezzandole la guancia.

   «Li corriamo tutti, su questa nave» obiettò Neelah, con un sorriso malinconico. «Chissà che ci aspetta ad Andromeda! Ma sì, farò come vuoi. Non sopporto di vederti così preoccupato per me. E poi, chi vuole gli occhi perlacei?». Stavolta fu lei a dargli un rapido bacio. «Adesso devo tornare al lavoro. Dimmi solo se conti di mandarmi T’Vala e Fanior».

   «T’Vala ci serve al timone e Fanior ha insistito per restare in plancia» spiegò Chase. «Considerando che il ponte di comando è difeso da scudi supplementari, dovrebbero essere al sicuro».

   «Mi sorprende che Lantora non abbia protestato. Si preoccupa per T’Vala quanto tu per me» commentò la biologa.

   «Immagino che ne abbiano parlato fra loro. Non è un crimine preoccuparsi per chi si ama!» disse il Capitano. «Ma T’Vala segue la logica, e in questo caso la logica dice che il suo posto è in plancia. Comunque è probabile che ci preoccupiamo per niente. Terry e Grenk confidano nella solidità degli scudi; chi sono io per contraddirli?».

   «Se qualcosa andrà storto, almeno saprai con chi prendertela» disse Neelah, scherzando solo in parte.

 

   Tutti i preparativi erano ultimati. Sulla plancia dell’Enterprise si percepiva la tensione, man mano che le anomalie subspaziali s’ingrandivano sullo schermo. Le tempeste violacee sembravano protese a ghermire la nave. Ma l’equipaggio, temprato dalle esperienze, manteneva il sangue freddo. Il Capitano aveva già contattato l’infermeria, sincerandosi che i telepati fossero al sicuro, compresa Neelah. Digitando altri comandi sul bracciolo della poltrona, aprì un canale con tutta la nave.

   «Qui è il Capitano Chase. È arrivato il momento che tutti aspettavamo: stiamo per superare la Barriera Galattica, che ci separa dalle ignote vastità dell’Universo. È un grande passo per la civiltà ed è affidato a noi. Varcata questa frontiera, niente sarà più come prima. Ricordate questo giorno!».

   Il Capitano chiuse la comunicazione e si rivolse a T’Vala. «Avanti a mezzo impulso. Tutte le sezioni stiano all’erta».

   «E se qualcuno prova impulsi omicidi, o pensa di essere un dio, lo dica subito, che ne parliamo» raccomandò il Consigliere, aleggiando sopra le teste degli altri.

   Fanior non disse nulla, ma il suo sguardo valeva più delle parole di molti, mentre osservava i fuochi della Barriera sempre più vicini. D’un tratto l’Enterprise sussultò.

   «Siamo dentro» confermò Terry.

   «Gli scudi reggono» disse Lantora.

   «Seguo la rotta prestabilita... ma dovrò fare delle correzioni» avvertì T’Vala. «Qui l’ambiente cambia di continuo». Il tremolio della nave si fece più forte, mentre si addentrava nelle distorsioni.

   «Invio le telemetrie degli aggiornamenti» disse Terry.

   «Le vedo» annuì T’Vala, concentratissima. Le sue mani correvano sui comandi con velocità inumana, apportando le variazioni di rotta. I dati dei sensori erano d’enorme aiuto, ma in certi casi la timoniera doveva affidarsi all’intuito e decidere in una frazione di secondo. Trascorsero i minuti, lunghi come ore. La nave sussultava e nessuno in plancia apriva bocca, salvo che per comunicare lo status dei sistemi.

   «Ci siamo quasi... ma rilevo addensamenti di anomalie intorno a noi. Non posso evitarle tutte. Balleremo un po’» avvertì T’Vala, che ormai non sbatteva nemmeno gli occhi, tanto era concentrata sui comandi.

   «Gli scudi sono ancora all’85%, non dovremmo avere problemi» disse Lantora, incoraggiante. Due secondi dopo squillò un allarme. «Ma che... non può essere!» gemette il Primate, sbiancando in volto. «Perdita di potenza nella griglia EPS, stiamo perdendo gli scudi!».

   «Dirotto l’energia» disse subito Terry, ma in quella l’Enterprise fu colpita da un’anomalia violentissima, che nemmeno T’Vala poté evitare. Per un attimo, tutti in plancia videro bianco. Chi era in piedi barcollò o cadde a terra.

   «Rapporto danni» disse Chase, massaggiandosi le tempie. Si sentiva stordito, come da una scossa elettrica. I suoi colleghi soffrivano gli stessi effetti.

   «Un terzo della sezione a disco è stata colpita, ma gli scudi stanno tornando in linea» rispose Terry. «Ho dei sovraccarichi, dirotto l’energia nei sistemi ausiliari. Il mio processore centrale è incolume e le capsule hanno protetto i telepati. Ma ci sono due vittime tra l’equipaggio. Le stanno portando in infermeria; è presto per dire se potranno rianimarle...».

   «Qui state tutti be...» cominciò Chase, ma la voce gli si strozzò in gola. Accanto a lui c’era qualcosa di mostruoso che si agitava. La pelle di Fanior si era ingrigita e i suoi lineamenti si stavano come sciogliendo. Era diventato più grosso e gli arti parevano disarticolati, molli come spaghetti appena cotti. Altri tentacoli gli fuoriuscivano dalla schiena e dai fianchi. Era una visione terrificante e cambiava a ogni secondo. La sua natura aliena emergeva, ma Fanior si sforzava di riassorbirla, riprendendo l’aspetto umano. Sibili e fischi disarticolati gli uscivano dalla bocca.

   Allarmato, Lantora impugnò il phaser, ma Ilia lo bloccò, afferrandogli il polso con una stretta d’acciaio. «No! Adesso torna a posto» disse.

   «Mmmmggnnnnhhhhh...» mugghiò Fanior, riprendendo il controllo di sé. Le sue dimensioni si ridussero e i tentacoli scomparvero, riassorbiti nel corpo. Poco alla volta, le sue sembianze tornarono umane.

   «Respiri a fondo, si concentri...» suggerì Apsu.

   «Vuol darmi lezioni di metamorfosi?!» mugolò Fanior, inginocchiato a terra, con la testa fra le mani. Anche la sua pelle stava riprendendo il tono consueto. «Sto bene. È stata come una scossa elettrica, ma ora è passata» assicurò, rimettendosi in piedi.

   «L’abbiamo sentita tutti» disse Chase. «T’Vala, lei come sta?».

   Subito dopo la scossa T’Vala si era arrovesciata all’indietro sulla sedia, coprendosi gli occhi con le mani; ma si stava già riprendendo. «Bene, signore. Tra pochi secondi usciremo dalla Barriera» assicurò, di nuovo sui comandi. Lantora rinfoderò il phaser e le corse a fianco. L’Enterprise ebbe ancora qualche lieve scossa, ma gli scudi erano di nuovo operativi. Infine le anomalie scomparvero dallo schermo, che tornò nero, senza stelle.

   «Siamo fuori» disse T’Vala, scostandosi i capelli dalla fronte.

   «Guardami» disse Lantora, ancora in apprensione.

   La mezza Vulcaniana alzò lo sguardo dai comandi e fissò il partner. I suoi occhi erano quelli di sempre, scuri e profondi. Non c’era traccia del bagliore argenteo che caratterizzava le vittime della Barriera. «Sto bene, davvero» sorrise.

   «Plancia a sala macchine, servono interventi nella sezione a disco» disse il Capitano, aprendo un canale.

   «La mia povera nave!» ululò Grenk. «Se me l’avete rotta di nuovo, io... io...» ansimò.

   «Al lavoro» tagliò corto Chase, e chiuse la comunicazione. «Allora, Terry... che è successo?».

   «Non ne sono sicura» ammise l’Intelligenza Artificiale. «Quattro diversi nodi della mia griglia EPS si sono disattivati contemporaneamente. Quando ho dirottato l’energia, i rimanenti si sono sovraccaricati. Se non fossi riuscita a gestire il picco d’energia, dirottandola nei sotto-sistemi, ora saremmo polvere».

   «Che probabilità ci sono che quattro nodi si guastino nello stesso istante?» chiese Ilia.

   «Anche considerando che gli scudi erano sotto stress, direi... una su un milione» ammise l’IA.

   «Quindi siamo di fronte a un sabotaggio» disse Chase freddamente. Era un’idea odiosa, ma era l’unica conclusione logica.

   «Temo di sì, signore».

   «Avvio subito le indagini» disse Lantora. «Il colpevole non resterà impunito».

   «Me lo auguro» affermò Fanior. «Nel frattempo, però, ricordate dove siamo arrivati» aggiunse, accennando allo schermo nero. Non c’erano stelle, salvo che in pochi ammassi globulari. L’infinito, tenebroso vuoto intergalattico si stendeva davanti all’Enterprise. E laggiù, così lontana da essere a malapena visibile, scintillava una macchiolina biancastra. La galassia di Andromeda.

 

   Per alcuni secondi, l’equipaggio rimase come incantato a osservare quel bagliore, che distava ancora due milioni e mezzo di anni luce. «Ce l’abbiamo fatta» disse infine Chase. «Questo l’abbiamo pagato con due vite. Chi sono le vittime di cui ha parlato?».

   «Fenggang Miur, di specie Evora, esperta di botanica. Untar Pivak, di specie Terrelliana, addetto al centro sportivo» riferì Terry. «Il loro livello ESP era lievemente superiore al normale, ma non tanto da rendere necessarie le capsule. Molti altri, con un livello pari al loro, non hanno subito conseguenze» si giustificò.

   «Questo ci conferma quanto sia imprevedibile la Barriera» disse Chase, corrucciato. «Per il ritorno dovremo innalzare ulteriormente le misure di sicurezza».

   «L’esperienza di oggi ci sarà d’aiuto» promise Terry.

   «Mi dolgo per le vostre vittime; ma non sono morte invano» disse Fanior solennemente. «Ora possiamo inviare messaggi ad Andromeda e ascoltare eventuali trasmissioni. Suggerisco di farlo subito».

   «Uhm, sì, procediamo» convenne Chase, un po’ infastidito dalla fretta del Kelvano. «Signor Grog, invii il messaggio dell’Unione per l’Impero Kelvano. Lo ritrasmetta ogni sei ore».

   «Messaggio inviato, Capitano» disse il Ferengi. «Quanto alle trasmissioni in arrivo, non ne capto nessuna».

   «I sensori a lungo raggio non rilevano astronavi oltre la Barriera» informò Terry. «Siamo soli».

 

   Qualche ora dopo gli ufficiali superiori erano radunati in sala tattica, seduti intorno al grande tavolo ad anello. Al centro campeggiava l’ologramma della Via Lattea e di Andromeda, con evidenziata in rosso la rotta programmata per l’Enterprise. L’ambasciatore Fanior la osservò attentamente. «Quando potremo ripartire?» chiese.

   «Serviranno un paio di giorni per sistemare la griglia EPS» rispose Grenk. «Potrei metterci di meno, se non fosse che...».

   «Le indagini sono in corso per identificare i responsabili del sabotaggio» spiegò Lantora.

   «I responsabili? Come sa che sono più di uno?» chiese Fanior.

   «Abbiamo ristretto la finestra temporale del sabotaggio» spiegò l’Ufficiale Tattico. «Senza teletrasporto, non può essere stata una sola persona».

   «E i miei sensori non hanno rilevato teletrasporti interni» aggiunse Terry.

   «I sabotatori sono almeno due, ma potrebbero anche essere tre o quattro» riprese Lantora. «Chiunque sia stato, era del mestiere. Non abbiamo trovato impronte, tracce di DNA, niente!» ammise, frustrato.

   «Uhm... e sul versante medico, come vanno le cose?» volle sapere Chase.

   «Tutti i telepati stanno bene» rispose Neelah. «Le capsule hanno funzionato egregiamente. Purtroppo ci sono quelle due vittime, la dottoressa Miur e l’istruttore Pivak. Ho già effettuato l’autopsia». L’Aenar si schiarì la voce, mentre gli sguardi restavano puntati su di lei.

   «Gran parte del loro cervello era bruciata. Non so come dirlo altrimenti, senza scendere nei dettagli neurologici. È come se un’immensa energia bio-elettrica avesse surriscaldato i neuroni e fritto ogni sinapsi. Non avevo mai visto nulla del genere... se non nei rapporti delle altre navi che entrarono nella Barriera».

   «Vorrei che controllasse anche l’ambasciatore Fanior» disse il Capitano. «La sua reazione in plancia è stata...».

   «Semplice stress elettrico, Capitano» si affrettò a spiegare l’interessato. «Mi rende difficile mantenere la forma umana. Ma il cervello Kelvano è molto resistente; non preoccupatevi per me».

   «A quanto s’è visto, la potenza cerebrale attira l’influsso della Barriera, anche se ci sono molti fattori in gioco» obiettò Ilia. «Non sappiamo come potrebbe reagire la fisiologia kelvana, ma le raccomando di sottoporsi a una visita. Meglio ancora, si faccia controllare periodicamente per un po’ di tempo. Ricordo che, trecento anni fa, la dottoressa Dehner dell’Enterprise manifestò i sintomi della Barriera con un certo ritardo».

   «Se insiste...» cedette Fanior. «Ma parliamo un attimo del viaggio che ci attende. Come procederete verso Andromeda?».

   «La cavitazione quantica è fuori discussione» spiegò T’Vala. «Stiamo parlando di una destinazione così lontana che anche in cavitazione servirebbero molti anni per raggiungerla. Perciò sfrutteremo il propulsore cronografico, che trasla istantaneamente l’astronave da un punto all’altro. L’abbiamo collaudato in guerra e possiamo dire che ormai sia affidabile. Però non faremo un unico balzo».

   «No?» si stupì Fanior.

   «Sarebbe un’imprudenza, non conoscendo i dettagli della destinazione» spiegò la timoniera. «Faremo almeno una decina di balzi. Dopo ciascuno, l’Enterprise ricalcolerà la sua posizione e quella di Andromeda, per correggere gli errori e rilevare eventuali pericoli. Ma c’è anche uno scopo esplorativo» si animò. «Lo spazio intergalattico non è del tutto vuoto, anzi ospita stelle espulse dalle loro galassie, coi relativi sistemi planetari. Per dare una cifra, si stima che ben il 10% di tutte le stelle dell’Universo sia intergalattico. Fra un balzo e l’altro, quindi, l’Enterprise passerà giorni o anche settimane a esplorare in modo convenzionale. È l’unica occasione per studiare sistemi stellari che, forse, non vengono né dalla Via Lattea, né da Andromeda».

   «Ed è rilevante? La nostra missione è raggiungere l’Impero Kelvano» insisté Fanior. «Dovremmo farlo il prima possibile, senza distrazioni».

   «La nostra missione è aprire la rotta per Andromeda» corresse Chase. «Così le prossime navi sapranno cosa aspettarsi. Una volta ad Andromeda, i nostri obiettivi sono molteplici. I Kelvani sono solo una delle civiltà che speriamo d’incontrare».

   «Quanto durerà il viaggio?» chiese l’Ambasciatore.

   «Alcuni mesi, probabilmente» rispose T’Vala. «Non è male, per la prima missione intergalattica della Flotta».

   «L’Impero Kelvano ha atteso per seicento anni» notò Chase. «Qualche mese in più non farà differenza».

   «Probabilmente no» ammise Fanior. «Poiché la nave è vostra, è giusto che si faccia alla vostra maniera. Aspetterò».

 

   Finito il turno, Chase decise di non recarsi subito nel suo alloggio. Aveva bisogno di distrarsi e se possibile di rilassarsi. Decise di visitare il museo dell’Enterprise. Era una novità, inaugurata dopo la ristrutturazione. C’erano cimeli della Flotta Stellare, alcuni dei quali provenienti dalle precedenti Enterprise. E c’era una gran quantità di manufatti provenienti dai pianeti dell’Unione. Alcuni pezzi erano di notevole valore, per la loro antichità o rarità. Chase passeggiò tra le vetrine, osservando i reperti con interesse. L’archeologia e la storia dell’arte lo avevano sempre affascinato. Se non ci fosse stata la Flotta Stellare, probabilmente avrebbe indirizzato lì la sua carriera.

   «Capitano, immaginavo di trovarla qui» lo salutò Ilia Dax, avvicinandosi con le mani giunte dietro la schiena, il suo gesto caratteristico.

   «Ilia, anche lei apprezza questa raccolta?» chiese il Capitano.

   «Oh, sì» annuì la Trill, avvicinandosi a una teca che conteneva tricorder e altri strumenti della Flotta in uso fra il XXII e il XXIII secolo. «Alcuni di questi gioiellini li ho usati io stessa. Ricordo bene com’era!» sospirò, nostalgica.

   «È un bene che siamo finalmente riusciti a inaugurare il museo» commentò Chase, mentre continuavano a passeggiare fra le teche. «Ora che ci spingiamo tanto lontano da casa, è importante avere qualcosa a cui ancorarci. Inoltre le varie specie a bordo potranno capirsi meglio. Conoscere le altre culture rende più tolleranti».

   «Ecco, al riguardo...» cominciò Ilia.

   «Sento che è una grana» disse subito Chase. «Avanti, spari».

   «Alcuni Bajoriani ultra-ortodossi hanno chiesto la rimozione di tutti i manufatti religiosi appartenenti a fedi diverse dalla loro» disse la Comandante, confermando i timori del Capitano. «Sostengono che la loro presenza sia offensiva e blasfema».

   «Gli ha fatto notare che gli altri potrebbero dire lo stesso dei loro manufatti?» chiese il Capitano, soffermandosi a osservare alcuni idoletti bajoriani, racchiusi in una teca. Raffiguravano i Profeti, le entità incorporee che vivevano nel Tunnel Spaziale Bajoriano ed erano adorate come dèi.

   «Hanno detto che è irrilevante, dal momento che esistono solo i Profeti» sospirò Ilia.

   «Gli dica che a casa loro possono fare ciò che vogliono, ma qui devono rispettare le nostre leggi» borbottò Chase, irritato.

   «L’ho fatto. Erano contrariati... hanno detto che la grazia dei Profeti rifuggirà dall’Enterprise» sospirò la Trill.

   «È stato prima del sabotaggio?» si allarmò il Capitano.

   «Sì, ma non possono essere stati loro. In quel momento gli ultra-ortodossi erano tutti nel parco, a distribuire santini ai passanti. Ci sono parecchi testimoni a confermarlo» spiegò Ilia. «E poi i segni vitali bajoriani sono inconfondibili. Se alcuni fossero sgattaiolati via, Terry li avrebbe rilevati».

   «Va bene, escludiamoli... per ora» disse Chase. «C’è altro di cui voleva parlarmi?».

   «In effetti... ci sarebbe una faccenda personale...» annuì Ilia, stranamente imbarazzata. Guardava fissa il pavimento e si tormentava una ciocca di capelli.

   Chase la guardò meravigliato. Conosceva Ilia come una Comandante esperta, padrona di ogni situazione. La memoria secolare del suo Simbionte le donava una calma sovrumana. Ma ora gli sembrava giovane e nervosa. «Avanti, che succede? Sa che può dirmi tutto» la esortò, chiedendosi cosa potesse metterla tanto a disagio.

   «Capitano, lei conosce lo zhian’tara?» chiese Ilia, ridandosi un contegno.

   «È il rituale con cui i Trill Uniti rievocano le personalità degli ospiti precedenti» annuì Chase. «So che, nel rito completo, le personalità sono trasferite per qualche ora in altre persone... solitamente gli amici del praticante. Non mi starà chiedendo di ospitare qualcuno dei suoi predecessori?!» si allarmò. Per un Trill Unito era una richiesta ragionevole da fare agli amici. Ma Chase rifuggiva dall’idea di dare a qualcun altro il controllo del suo corpo. Anche se quel qualcuno era defunto da secoli.

   «No, Capitano» assicurò la Trill. «Avendo undici predecessori, non voglio scomodare così tanta gente. E poi, negli ultimi tempi, il rituale è stato criticato per lo stress neurale cui sottopone le persone coinvolte. In certi casi, le personalità riportate a galla sono così forti da non voler abbandonare i corpi presi in prestito».

   «Di bene in meglio» si disse Chase, deglutendo. «Ilia, che vuole da me, esattamente?» le chiese.

   «Solo l’autorizzazione a procedere con l’Antico Zhian’tara» rispose la Trill. «È la versione arcaica del rituale, ancora praticata da chi – come me – ha molte vite passate. Invece di trasferire le personalità in altre persone, le portiamo a galla una alla volta, lasciando che c’influenzino per un breve periodo. Questo ci permette di... come dire... digerirle meglio. Somiglia a un’altra nostra pratica, il Rito dell’Emersione».

   «Mi faccia capire: lei sarà... posseduta dalle personalità dei suoi predecessori?» chiese il Capitano, inquieto.

   «Non esageri» disse Ilia, quasi comica nel suo tentativo di minimizzare la faccenda. «Assorbirò qualcuno dei loro tratti, dei loro vezzi... tutto qui. Lo zhian’tara, in una forma o nell’altra, è un obbligo che i Trill Uniti devono espletare, almeno una volta nella vita. È consigliabile farlo al più presto dopo l’Unione, ma con la guerra e tutto il resto mi è sempre mancato il tempo. Ora, però, viaggeremo per mesi nello spazio intergalattico...» disse speranzosa.

   «... e conta di finire prima che arriviamo a destinazione» capì Chase. «Quanto durerà la cosa?».

   «Beh, in questa vecchia forma del rituale l’influsso di ogni personalità dura una quindicina di giorni» spiegò Ilia, tradendo un certo nervosismo.

   «Con le sue undici vite, sarebbero più di cinque mesi!» protestò il Capitano. «Non posso perderla così a lungo. Per allora potremmo aver già raggiunto Andromeda».

   «Ma non mi perderà affatto» insisté Ilia. «Sarò in grado di lavorare normalmente. Avrò solo qualche lieve differenza caratteriale, ecco tutto. Potevo farlo senza nemmeno parlargliene e forse non avrebbe notato la differenza. Ma ho voluto essere onesta con lei, signore. Se mi ordina di lasciar perdere, obbedirò. Ma spero che non mi negherà l’esperienza!» disse trepidante.

   «Ilia, mi ascolti» disse Chase, cercando le parole giuste, che non la ferissero. «In questi anni lei mi ha fatto pochissime richieste personali. Si è ampiamente meritata di farmene ora. E mi creda, non vorrei mai privarla di un’esperienza così importante per lei. È solo che stiamo andando verso uno spazio incognito e io non so in che misura le personalità fantasma potrebbero condizionarla. Vorrei venirle incontro, dico davvero, ma...».

   «Capisco, Capitano» disse Ilia, con un velo di delusione. «Deve pensare all’efficienza degli ufficiali. Mi scuso per la richiesta inopportuna. Farò il rituale, prima o poi... quando non arrecherà disturbo». Fece per andarsene.

   «No, aspetti!» la trattenne Chase. «Sto ancora cercando di capire. Non le nascondo che questo mumbo-jumbo Trill m’inquieta. Che rapporto avrà lei, con tutte quelle voci? Che rapporto ha, adesso?» domandò. Per quanto la conoscesse da anni, non poteva sapere che si prova a ricordare delle vite passate.

   «Venga, le mostro una cosa» disse Ilia. Condusse Chase davanti a una grande vetrina, che custodiva alcuni dei reperti più interessanti del museo. Era la collezione privata del Capitano Picard, grande appassionato d’archeologia. Non avendo eredi, nel suo testamento aveva lasciato molte cose ai musei della Flotta Stellare. Ora i pezzi migliori erano stati trasferiti sull’Enterprise-J. Alla decisione non era estranea la scaramanzia, come se gli oggetti appartenuti a Picard fossero delle reliquie, capaci di proteggere l’astronave. C’erano manufatti provenienti dai pianeti più disparati. Un flauto ressikano, ultimo cimelio del perduto pianeta Kataan. Una maschera rituale proveniente dagli Archivi D’Arsay. Uno strano cristallo rosa, irregolare, che Chase non ricordava di aver mai visto e non riuscì a identificare. Il pezzo più intimo era senz’altro l’album di famiglia dei Picard, un vecchissimo tomo rilegato, con fotografie incollate a mano.

   Ma ciò che Ilia indicò a Chase era una strana statuetta in ceramica grigio-verdastra. Consisteva in un pingue corpo cavo, contenente tante statuine più piccole. Il corpo principale aveva lineamenti anfibi e gli occhi chiusi, come se stesse dormendo e forse sognando. Si avvitava al basamento all’altezza della vita, ma al momento era posato lì accanto, per consentire la visione delle statuine minori. Queste erano raggruppate dentro la base, come pulcini in un nido. Avevano tutte espressioni diverse, che esprimevano una vasta gamma d’emozioni.

   «Sembra una matrioska» commentò Chase, chinandosi a leggere la targhetta.

   «È un Naiskos kurlano» spiegò Ilia. «La civiltà di Kurl fiorì molti millenni fa, venendo influenzata dai Trill. All’epoca praticavamo già l’Unione e questo segnò profondamente i Kurlani. Giunsero alla conclusione che un individuo è più di un singolo essere, poiché si compone di tante voci... tante anime, che parlano incessantemente. Alcune sono più forti e reclamano la nostra attenzione. Ma gli eventi della vita possono indurci a cambiare preferenze, ascoltando quelle che prima ignoravamo. Ogni voce ha i suoi desideri, il suo stile, la sua visione del mondo».

   «Interessante... anche tra gli Umani c’è chi pensa che siamo uno, nessuno e centomila» commentò Chase, osservando gli esserini più piccoli. «So che la civiltà Kurlana è molto antica. Da quanto tempo voi Trill praticate l’Unione?» chiese.

   «Dalla preistoria; abbiamo iniziato almeno 24.000 anni fa. L’Antico Zhian’tara non è roba della settimana scorsa, Capitano» sorrise Ilia, vedendo lo stupore di Chase. «Questo Naiskos, invece, ha circa 12.000 anni. Appartiene alla Terza Dinastia, come indicano gli occhi chiusi, dalla policromia verde. Un capolavoro del Maestro di Tarquin Hill, di cui conosciamo le opere ma non il nome. Il suo stile anticipò i tempi di tre secoli» snocciolò Ilia con naturalezza.

   «S’interessa anche di storia dell’arte?» si stupì Chase.

   «Io personalmente non molto. Ma il mio decimo ospite, Martis, era un’artista rinomato. Ho un paio delle sue sculture olografiche nel mio alloggio e tutta la sua conoscenza qui» spiegò Ilia sfiorandosi il ventre, dove riposava il Simbionte.

   «Capisco perché mi ha portato a vederlo» disse il Capitano, guardandola negli occhi. «Lei si sente sopraffatta dalle voci dei suoi predecessori e vorrebbe ascoltarli uno alla volta, per comprenderli meglio».

   «È così» annuì la Trill. «Credo che mi sarebbe di grande utilità».

   «Beh, in tal caso...» esitò Chase. Non gli andava di avere un Primo Ufficiale instabile e soggetto a improvvisi sbalzi d’umore. Ma d’altro canto si fidava di Ilia e non voleva privarla di un’esperienza così importante per lei. «Ha la mia autorizzazione» cedette, per la gioia della Trill.

   «Grazie, Capitano. Vedrà che riuscirò a controllare i miei predecessori» garantì la Comandante, e si ritirò soddisfatta.

   «Lo spero» pensò Chase, dando un’ultima occhiata alla statua infarcita di esserini.

 

   Le luci erano quasi del tutto spente, nell’alloggio di Ilia, così che la fiammella fosse più visibile. Si levava al centro di un piatto bronzeo, su cui l’addetto della Commissione Simbiosi aveva versato un liquido simile a melassa, dall’odore pungente. Solo lo stoppino si levava al di sopra della brodaglia.

   «Era da un pezzo che non praticavo lo zhian’tara nella sua forma primigenia» ammise il Trill, posando il piatto su un tavolino dalle gambe corte. «Sarà interessante».

   Ilia strinse le mani dietro la schiena, un po’ a disagio. Era già un miracolo avere un membro della Commissione sull’Enterprise; non poteva pretendere che fosse anche esperto del rituale più antico. «Mi sono documentata sugli effetti» disse. «So che non potrò interrompere il rito, una volta avviato. Le varie personalità fluiranno per mesi, alternandosi dopo una quindicina di giorni. Confesso che mi preoccupa la durata del rito. Anche il Capitano era incerto... ho faticato a convincerlo».

   «Le altre specie non possono capire l’importanza dei riti dell’Unione» disse l’esperto, comprensivo. «Considerando il numero delle sue vite passate, e quanto sono dense di ricordi anche drammatici... ritengo che lei abbia scelto saggiamente. L’Antico Zhian’tara è quel che ci vuole per mettere ordine. All’inizio le sembrerà che il predecessore sia lì con lei, nella stanza; ma col passare dei giorni la sua voce sarà sempre più interiorizzata. Quando l’avrà riassorbita a sufficienza, subentrerà l’ospite successivo. Faccia tesoro dell’esperienza... ne approfitti per riscoprire se stessa. Ora, se si sente pronta...».

   «Lo sono» disse Ilia, imponendosi la calma.

   «Allora procediamo» disse il Trill.

   Ilia sedette a gambe incrociate davanti al basso tavolino, fissando il bagliore sempre mutevole della fiamma. L’addetto s’inginocchiò dietro di lei, posandole le mani sulle tempie. «Osservi la fiammella e svuoti la mente. Faccia respiri lenti e profondi. Se le vengono dei ricordi, non c’indugi; li lasci scivolare via» raccomandò. Dopo di che recitò le parole del rituale, nell’antica lingua Trill. Nominò tutti i precedenti ospiti di Dax, dalla prima all’ultimo: Lela, Tobin, Emony, Audrid, Torias, Joran, Curzon, Jadzia, Ezri, Martis e Zarden. L’invisibile energia neurale fluì dal Simbionte, risalì la spina dorsale e raggiunse il cervello di Ilia. I suoi occhi si arrovesciarono per un attimo all’indietro e tutto il suo corpo oscillò, tanto che l’esperto dovette sorreggerla.

   «Tutto a posto?» chiese gentilmente, aiutandola a rialzarsi.

   «Sì... mi sento un po’ frastornata, tutto qui» ammise Ilia. Si guardò intorno, come aspettandosi di vedere la prima ospite di Dax. Ma l’alloggio era vuoto, salvo loro due.

   «Il rito farà effetto tra pochi minuti» spiegò l’esperto. «Vuole che resti, per aiutarla a familiarizzare?».

   «Grazie, ma credo che non ce ne sia bisogno» rispose Ilia. Per quanto apprezzasse l’offerta, il rito le sembrava una cosa molto personale, da gestire in autonomia.

   «Allora la lascio» disse il Trill, raccogliendo il suo kit degli strumenti. «Se qualcosa la turbasse, o se avesse semplicemente voglia di parlare, la mia porta è sempre aperta. Naturalmente può discuterne anche col Consigliere Apsu, sebbene in questa faccenda posso definirmi più qualificato» ammise, con un certo orgoglio professionale.

   «Certo. Arrivederci, e grazie di tutto» lo salutò Ilia, accompagnandolo alla porta. Quando fu sola nel suo alloggio, riaccese le luci e spense la fiammella.

   «Ciao, Ilia. Scelta interessante... ho visto molti zhian’tara, ma nessuno così!» disse una voce femminile. Sembrava venire dall’esterno, ma al tempo stesso da dentro di lei. Era straniante.

   «Chi parla? Sei tu, Lela?» chiese Ilia, guardandosi attorno spaesata.

   «E chi, se no?» chiese la voce incorporea, in tono divertito. «Considerando che probabilmente è il mio ultimo zhian’tara, sono lieta che mi sia dato più tempo per conoscerti!».

   Ilia provò un brivido al pensiero che quella persona, morta da secoli, era ancora in grado di parlarle. Come definire quell’entità: un’eco, un ricordo, un fantasma? Corse allo specchio: il riflesso le restituì l’immagine di una Trill anziana, un po’ curva in avanti, ma con un gran sorriso sul volto. Indossava un abito rosso scuro, di una foggia che Ilia aveva visto solo nelle immagini storiche. «Ciao, Lela» mormorò, deglutendo.

 

   In quello stesso momento, anche T’Vala era nel suo alloggio e fissava una fiammella. Era già in pigiama, seduta a gambe incrociate davanti a una lampada vulcaniana, coperta da intricati caratteri simili a chiavi di violino. La meditazione serale era un’abitudine a cui raramente rinunciava, ma stavolta proprio non le riusciva di concentrarsi. Gli occhi le bruciavano e avvertiva un ronzio nelle orecchie. Forse erano i postumi dell’incidente occorso all’Enterprise. La Barriera Galattica esigeva un pedaggio, rifletté T’Vala. Quando gli scudi avevano ceduto, le aveva rifilato una bella scossa. Ma l’infermiera che l’aveva esaminata successivamente non aveva rilevato scompensi. Eppure la timoniera si sentiva strana. Siccome gli occhi continuavano a bruciarle, decise di lasciar perdere con la meditazione e di andare a lavarseli. Spense la lampada con un soffio, lasciando che il filo di fumo si esaurisse gradualmente, e si alzò. Per un attimo barcollò, in preda alle vertigini.

   «Uuuhhh...» gemette, recandosi in bagno. Si lavò per bene la faccia, trovando sollievo. Quando rialzò la testa dal lavandino, con l’acqua che le gocciolava ancora dal viso, vide il suo riflesso nello specchio. I suoi occhi non avevano pupilla. Erano invasi da una luminosità perlacea, tendente all’argento. Il marchio della Barriera!

   T’Vala gemette e tuffò di nuovo la faccia nel lavandino, sfregandosi gli occhi con l’acqua, come se bastasse a curarli. Ansante, rialzò il volto, mentre l’acqua continuava a scorrere. I suoi occhi erano quelli di sempre, con l’enorme pupilla tipica dei Betazoidi. Non c’era traccia del bagliore argenteo.

   «Devo essermi suggestionata...» mormorò T’Vala, chiudendo il rubinetto. Drizzò la schiena e respirò a fondo, calmando il batticuore. La logica le diceva che quel sintomo non andava sottovalutato. Doveva recarsi immediatamente in infermeria e chiedere a Neelah di farle una scansione cerebrale completa. Ma T’Vala era  Vulcaniana solo per metà. Un’altra voce, dentro di lei, le diceva di non preoccuparsi... quell’episodio era solo un’auto-suggestione. Se la Barriera avesse cominciato a trasformarla, i suoi occhi sarebbero rimasti perlacei, giusto? Invece erano di nuovo normali. Era tutto a posto. Se li avesse visti cambiare ancora, avrebbe preso provvedimenti... ma fino ad allora non c’era ragione di scomodare l’infermeria e far preoccupare Lantora. L’unica cosa che le serviva, adesso, era una buona dormita. Sentiva il sonno scivolarle addosso come una coperta calda e invitante. Si diresse spedita in camera da letto e si lasciò cadere sulle coperte, con la faccia sprofondata nel cuscino. Si addormentò all’istante, di un sonno profondo e senza sogni.

 

   
 
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