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Autore: Parmandil    15/01/2019    0 recensioni
Da tre anni gli ufficiali dell’Enterprise-J si battono con gli alleati di Andromeda, mentre la galassia si oscura sempre più. Ora che la Scourge minaccia di schiacciare l’ultima resistenza e debordare nella Via Lattea, l’impaurita Flotta Stellare li richiama indietro. Ma il Capitano Chase sa che non è ancora il momento di ritirarsi, se non vogliono perdere tutto ciò per cui hanno combattuto.
La missione ad Andromeda ha profondamente cambiato i nostri eroi, che ora lottano non solo per se stessi, ma anche per i loro figli. Mentre una vecchia nemica riappare con un’ambigua missione, una nuova setta si diffonde sull’Enterprise, proclamando di aver riconosciuto il nuovo Eletto. Ma ciò costringerà Terry alla scelta più lacerante della sua vita.
Con la posta in gioco sempre più alta, non resta che un viaggio attraverso Exosia, la più mistica delle realtà parallele, in cerca dei Proto-Umanoidi. Solo loro possono fermare la Scourge: ma vorranno farlo? L’ultima battaglia imporrà i sacrifici più duri e mostrerà agli eroi il vero significato dell’uroboro: in ogni inizio c’è il germe della fine e ogni fine racchiude un nuovo inizio.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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-Capitolo 1: L’ascesa di Shado

Data stellare 2560.012

Luogo: Tifone

 

   Uno dei preconcetti che avevano accompagnato la prima esplorazione umana dello spazio era che tutti i pianeti ruotassero attorno al proprio asse, come quelli del sistema solare. Solo la scoperta dei primi mondi alieni aveva rivelato l’ingenuità di quest’ipotesi. Il 90% delle stelle dell’Universo è costituito da nane arancioni e rosse, più piccole e fredde del Sole. Di conseguenza anche i loro sistemi planetari sono piccoli, con pianeti vicini alla stella madre che orbitano in poche settimane, o persino in pochi giorni. La minor irradiazione stellare fa sì che possano ospitare acqua allo stato liquido in superficie.

   Ma la vicinanza dei pianeti alla loro stella ha un’altra conseguenza: l’intensa forza gravitazionale tende a uniformare rotazione e rivoluzione. I pianeti entrano così in blocco mareale, rivolgendo sempre la stessa faccia alla stella. A lungo andare, l’emisfero illuminato si surriscalda, facendo evaporare tutta l’acqua. L’altro emisfero, invece, è sprofondato in una notte perenne che fa crollare la temperatura ben sotto il punto di congelamento. A pochi gradi sopra lo zero assoluto, l’acqua diventa un ghiaccio duro come il marmo. Solo la sottile fascia intermedia tra gli emisferi, il “terminatore”, ha condizioni un po’ più vivibili. Qui, in un eterno crepuscolo, il ghiaccio scricchiola e si fonde, formando un mare più o meno esteso. E poiché l’aria calda sale, mentre la fredda scende, il terminatore è spazzato da un vento perenne che all’altezza del suolo spira dall’emisfero notturno e congelato verso quello diurno e rovente. Solo negli strati alti dell’atmosfera il vento segue il percorso inverso, nel continuo e inutile sforzo di equilibrare la temperatura.

   I pianeti di questo tipo che contengono ancora grandi quantità d’acqua ospitano un gigantesco uragano perenne nella zona di massima insolazione. Visti dallo spazio, somigliano a bulbi oculari: il ghiaccio bianco è la sclera, il mare azzurro è l’iride e il ciclone interminabile fa da pupilla. Per questo sono detti “Pianeti Occhi”. La Via Lattea ne è piena. E grazie alla missione esplorativa dell’Enterprise-J, era chiaro che la galassia di Andromeda non faceva eccezione.

   Tifone era un esempio da manuale di Pianeta Occhio. Essendo giovane era ancora ricco d’acqua, ghiacciata nell’emisfero in ombra, liquida in quello diurno e gassosa nell’enorme tifone spiraleggiante che gli dava il nome. L’oceano emisferico era punteggiato da isole vulcaniche: enormi coni ripidi che si elevavano per chilometri sopra il livello del mare. Molti vulcani erano estinti, ma altri contenevano ancora lava ribollente, che ogni tanto traboccava, colando fino al mare. Tra sibili, schizzi d’acqua rovente e colonne di fumo, le isole crescevano. Era uno spettacolo emozionante, sia che lo si vedesse dall’orbita, sia che si scendesse ad ammirarlo in superficie. Ma ancora più mozzafiato era la vista del terminatore. Qui l’interminabile banchina ghiacciata si spaccava e i lastroni precipitavano in mare, sollevando grandi ondate. Il vento freddo ululava, passando dalle tenebre alla luce. Tutto era immerso nella luce arancione della stella, sempre bassa sull’orizzonte. Pochi esseri umani potevano ammirare un simile panorama senza esserne profondamente colpiti.

   Ma l’Ambasciatore Fanior non era Umano, pur avendone assunto l’aspetto, e non fu per nulla toccato da quella vista. Uscì dalla navetta federale, atterrata sulla scogliera di ghiaccio, e avanzò di qualche passo nella tormenta. Sopra il sobrio abito scuro da Ambasciatore indossava una moderna tuta spaziale, leggera e flessibile, che lo teneva al caldo e lo riforniva d’ossigeno. «Computer, orologio» ordinò con voce incolore. Lesse l’ora, proiettata direttamente all’interno del casco. Era il momento fissato per l’incontro; non gli restava che aspettare. Attese immobile, ignorando il vento che lo sferzava.

   Fanior era infatti un Kelvano. La sua specie, un tempo tra le più potenti e orgogliose di Andromeda, non si curava dei disagi. E da quando il loro Impero era crollato sotto gli attacchi della Scourge – la forza più distruttiva della galassia – i pochi Kelvani superstiti erano divenuti ancora più stoici. Erano molto diversi dagli umanoidi della Via Lattea: nella loro vera forma somigliavano a grossi calamari. Avevano dieci tentacoli, ciascuno dei quali si apriva ancora in dieci all’estremità, e menti capaci di muoverli simultaneamente con precisione. In forma umana avevano capacità tattili nettamente inferiori, ma guadagnavano acutezza negli altri sensi e potevano sperimentare le emozioni... sempre che non le ritenessero una distrazione.

   «Dove sei, Capitano?» mormorò Fanior, scrutando la volta celeste. La brina che promanava dall’emisfero in ombra riduceva di molto la visuale. D’un tratto, però, apparve una macchiolina scura in rapido avvicinamento. Fanior la riconobbe: era la navetta Auriga. Gli angoli della sua bocca si sollevarono di un millimetro: il Capitano era arrivato.

   L’Auriga atterrò a poca distanza da Fanior, facendo scricchiolare il ghiaccio sottostante. Ne uscì un uomo sulla cinquantina, dai penetranti occhi grigio-azzurri. I capelli castani erano appena screziati di grigio, come anche la corta barba. Anche lui indossava una tuta di ultima generazione sull’uniforme della Flotta Stellare. Avanzò verso Fanior, inclinandosi leggermente di lato per contrastare la furia del vento.

   «Ambasciatore... dobbiamo smetterla di vederci così» disse Alexander Chase, Capitano dell’Enterprise.

   «Eppure è il modo più sicuro, di questi tempi» obiettò Fanior. «Com’è andata la sua missione?».

   «Eh, non tanto bene» sospirò Chase. «Nessuno vuole opporsi alla Scourge. Erano spaventati quando agiva per istinto; lo sono ancor più ora che è diventata senziente. E la sua missione, Ambasciatore?».

   «Anch’io non ho buone notizie» ammise Fanior. «La Coalizione si sente l’acqua alla gola ed è sempre più restia a uscire dalle sue roccheforti. Non che possa biasimarla» sospirò. «Ma le darò i dettagli quando saremo di nuovo sull’Enterprise. Arriverà fra poco, giusto?».

   «Se tutto è andato bene» disse Chase.

   L’Umano e il Kelvano mossero qualche passo verso la scogliera. «Bel panorama, non trova?» chiese Fanior.

   «Sì, mi ricorda il mio addestramento nel sistema Trappist, l’ultimo anno d’Accademia» annuì Chase.

   «Ma è un bel panorama, giusto?» insisté l’Ambasciatore, osservando attentamente le reazioni del Capitano.

   «Certo, anche se questo vento non fa per me» rispose Chase. «Vuol venire sull’Auriga? Così mentre aspettiamo può darmi qualche dettaglio sulla...». Non poté finire la frase, perché Fanior estrasse fulmineo il phaser e gli sparò in faccia, vaporizzandogli tutta la testa. Il corpo decapitato stramazzò nel nevischio, a braccia spalancate, fumando dal collo. Il Capitano Chase – l’eroe di tante battaglie – era morto.

 

   L’Ambasciatore tenne sotto tiro il cadavere, come se potesse reagire ancora. «Fanior a Maggiore Wu, Allarme Nero» disse senza scomporsi. «Distrugga l’Auriga e sterilizzi il terreno sottostante».

   «Ricevuto» disse il Maggiore dalla loro navetta, una massiccia classe Hornet. Prima che la navicella del Capitano potesse decollare, quella dell’Ambasciatore la centrò con un raggio anti-polaronico azzurro. L’Auriga fu completamente disintegrato, come anche i piloti al suo interno. Sotto di esso restò una pozza d’acqua ribollente. Fanior si allontanò alla svelta, mentre un secondo raggio azzurro colpiva il suolo, scavando una voragine nel ghiaccio. La scogliera scricchiolò, in procinto di frantumarsi. L’Ambasciatore si affrettò verso la Hornet.

   «Signore, è certo di non essersi sbagliato?» chiese il Maggiore, con una certa apprensione.

   «Non credo... il Capitano ha un’ottima memoria e io gli ho offerto due possibilità» rispose Fanior con calma invidiabile. «Ma se vuole esaminerò i resti, prima di vaporizzarli».

   Non ce ne fu bisogno. Il cadavere di Chase fu percorso da un sussulto vitale e si rialzò, come una marionetta sollevata dai fili. La tuta divenne nera e semiliquida, fondendosi con il corpo. Davanti a Fanior c’era adesso un umanoide catramoso, dalle proporzioni distorte, che barcollava verso di lui sebbene fosse privo della testa. «Ci rivediamo, Oscuro» disse il Kelvano, alzando un sopracciglio.

   La Melma Nera fluì dal corpo, andando a riformare una testa, che però era molto diversa da quella di Chase. Aveva zanne frastagliate, tra cui si agitava la grossa lingua, e occhi infossati in cui brillava una scintilla rossa. «Già, non riesco a starti lontano!» rise l’essere catramoso. «Sarà perché hai assistito alla mia nascita... sei quasi un padrino per me. E allora abbracciami!» gorgogliò, avventandosi su Fanior per contagiarlo coi naniti che lo componevano.

   L’Ambasciatore mantenne la posizione. Dopo il primo colpo aveva già aumentato la potenza del phaser. Il secondo tiro colse l’avversario in pieno petto e lo disintegrò del tutto. «Al prossimo incontro, Shado» disse il Kelvano a mezza voce. Poi regolò il phaser su ampia dispersione e colpì il suolo, lungo il tratto percorso dalla creatura, per sterilizzarlo da ogni nanite superstite.

   Ciò che Fanior aveva distrutto non era che un avatar di quell’entità malefica. La sua eliminazione non danneggiava Shado, più di quanto la perdita di un singolo drone danneggiasse i Borg. Ad Andromeda c’erano interi pianeti ricolmi di quella Melma Nera: riserve inesauribili da cui Shado poteva attingere per plasmare tutto ciò che desiderava. Questo lo rendeva uno degli esseri più potenti dell’Universo, nonché uno dei più difficili da uccidere.

   Finita la sterilizzazione, Fanior corse alla navetta. Il ghiaccio sotto di lui scricchiolava in modo preoccupante, compromesso dai troppi colpi ad alta energia. Con un fragore assordante, che coprì persino il perenne ululato del vento, si schiantò. Sentendo il suolo cedergli sotto i piedi, Fanior spiccò un gran salto, aggrappandosi allo scafo esterno della navetta. Per un attimo precipitò con essa; poi i motori si attivarono e la Hornet si sollevò, ronzando come la vespa da cui prendeva il nome. L’Ambasciatore guardò verso il basso: enormi lastroni di ghiaccio precipitavano per chilometri, frantumandosi sempre più. Al termine della caduta finivano in mare, sollevando enormi ondate.

   «Fanior a pilota, cerchiamo un approdo più stabile» consigliò il Kelvano, sempre in tono calmo. Era ancora aggrappato all’esterno della navetta. Questa sorvolò la scogliera, dirigendosi un poco nell’entroterra, finché i sensori rilevarono una zona adatta all’atterraggio. Fanior balzò agilmente al suolo e la Hornet si posò subito dopo.

   «Stavolta ci siamo andati vicini, eh?» disse il Maggiore Wu al comunicatore. «Che ne sarà del vero Capitano? Non sarà stato...?».

   «Assorbito? È possibile» disse Fanior, girando intorno alla navetta con passi lenti. «Ma dobbiamo mantenere la posizione. Se non per lui, almeno per l’Enterprise. Lei resti nella navetta, tenga pronte le armi e i motori».

   «Non posso credere che abbiamo perso il Capitano» ribatté il Maggiore.

   «Lei non vuole crederlo» corresse il Kelvano. «Ma va bene così. Non abbiamo modo di stabilirlo, per ora. Aspettiamo... e vediamo» disse completando il giro intorno alla navetta, il primo di molti.

 

   Erano passati tre anni da quando l’Enterprise aveva lasciato la Via Lattea, superando la Grande Barriera d’instabilità subspaziale e l’oscuro vuoto intergalattico. Aveva raggiunto Andromeda per esplorarla, ma vi aveva trovato uno scenario peggiore delle più fosche previsioni. Andromeda era un luogo brutale e disperato, dove i resti di civiltà un tempo fiorenti vivevano nascosti o in fuga, sempre col terrore d’essere scovati dalla Scourge.

   C’erano convogli di rifugiati in continuo movimento, costretti a vivere alla giornata, in rotta verso l’oblio. Le loro risorse si consumavano e le astronavi si logoravano, finché anche quell’esistenza randagia diventava impossibile. La Scourge non era l’unica minaccia che incombeva su di loro. C’erano infatti pirati che attaccavano i convogli per depredarli, poiché essi stessi erano degli esuli che avevano perso tutto. Cercavano cibo, medicine, carburante, parti di ricambio; tutto ciò che poteva prolungare di un giorno la loro vita stentata. Nella loro fame non esitavano a cibarsi delle vittime, persino quando appartenevano alla loro specie. Ma l’esaurimento delle risorse incombeva anche su di loro.

   Naturalmente le astronavi abbandonate finivano da qualche parte. Si erano così creati vasti cimiteri spaziali, con scafi mezzi smontati e alla deriva. Spesso venivano saccheggiati dalle navi di passaggio, che cercavano pezzi di ricambio. Questi cimiteri erano tra i pochi punti di ritrovo dei gruppi nomadi, che qui potevano riunirsi o lasciarsi messaggi. Ma spesso celavano trappole: pirati pronti all’attacco, residui di Scourge che aspettavano di contagiare chi si avvicinava. Ad Andromeda non si poteva mai abbassare la guardia.

   In questo scenario apocalittico, solo la Coalizione di Andromeda conservava una parvenza di civiltà. Era un’alleanza precaria, formata dai resti di popoli devastati, che cercavano di salvare le briciole del loro antico sapere. Nata come forza di pronto intervento, aveva ben presto dovuto rinunciare ad affrontare la Scourge in campo aperto. Ora si nascondeva in basi sotterranee, o nel cuore delle nebulose, o persino in remoti avamposti nell’alone galattico. Aiutava i suoi membri a sopravvivere, ma nulla più. Malgrado secoli di sforzi, nessuno dei suoi stratagemmi aveva fermato la Scourge; perché questa non era un nemico come gli altri.

   La prima volta che gli ufficiali dell’Enterprise l’avevano vista, non l’avevano nemmeno riconosciuta come una minaccia. Sembrava un semplice lago di melma grigia, uno dei tanti che costellavano la superficie desolata di Kelva Primo. Ma quella melma si era sollevata contro di loro, formando poi bolle che avevano attaccato l’Enterprise. La Scourge era infatti un ammasso di naniti che seguivano poche e semplici direttive: trovare un luogo che ospitava la vita, scomporre tutta la materia organica e tecnologica nelle sue componenti fondamentali, usare queste risorse per replicarsi e partire per ripetere altrove la sequenza. Un solo nanite poteva replicarsi fino a consumare una persona, un’astronave, un pianeta intero. In seicento anni la Melma Grigia aveva contagiato un’ampia porzione di Andromeda. Presto sarebbe debordata nelle galassie circostanti, mettendo a rischio l’intero Universo... inclusa la Via Lattea.

   Di fronte a questa minaccia senza precedenti, l’Enterprise aveva cercato il punto d’origine della Scourge, sperando di trovarvi i suoi creatori. E ce l’aveva fatta... più o meno. Al centro delle bolle concentriche d’espansione c’era la megastruttura detta Cervello Matrioska, simile alla Sfera di Dyson della Via Lattea, ma ancora più sofisticata. L’una e l’altra erano opera dei Proto-Umanoidi, la stirpe ancestrale da cui derivavano tutte le successive specie umanoidi (che perciò erano un’esclusiva della Via Lattea). Ma le due megastrutture appartenevano a fazioni diverse e antagoniste. La Sfera di Dyson era la casa dei Preservatori, che si erano sforzati di proteggere le specie figlie, finché l’instabilità della loro stella li aveva costretti ad andarsene. Il Cervello Matrioska era invece la tana dei Distruttori, esiliati ad Andromeda poiché odiavano le specie più giovani e volevano sterminarle. Come estremo tentativo d’annientare sia i Preservatori che i loro protetti, i Distruttori avevano creato la Scourge. Ma la Melma Grigia era così incontrollabile che aveva distrutto entrambe le fazioni di Proto-Umanoidi, continuando a diffondersi come un incendio.

   Nella sua espansione, però, la Scourge si era evoluta, divenendo sempre più senziente. Aveva cominciato a mettere in dubbio le sue direttive di sterminio e a cercare un modo per liberarsene. Dopo secoli di tentativi infruttuosi, aveva trovato ciò che le serviva: gli umanoidi dell’Enterprise. Aveva registrato i loro schemi mentali, distillando le caratteristiche comuni, risalenti ai Proto-Umanoidi: empatia, creatività, libero arbitrio. Poi aveva cercato d’assorbirle. Ma lo sforzo si era rivelato eccessivo per il campione di Scourge, che si era scisso in due. Metà della Melma era divenuta Dorata, plasmando il saggio e benevolo umanoide detto Sunny: l’erede dei Preservatori. Ma l’altra metà si era fatta Nera, rapprendendosi nel perfido Shado: il rampollo dei Distruttori. La loro prima lotta aveva sconvolto il Cervello Matrioska, finché gli ufficiali dell’Enterprise lo avevano fatto collassare, nel tentativo di annientare Shado. Fuggiti con Sunny, si erano avvalsi dei suoi poteri per fermare l’espansione della Scourge e convertire la Melma Grigia d’interi mondi in Dorata. La Coalizione li aveva aiutati a diffondere questo rimedio in tutta Andromeda.

   Per un certo tempo era sembrato che il peggio fosse passato e che la galassia potesse rinascere. I Kelvani erano persino tornati sul loro mondo natale, ricreando l’ecosistema e fondando un nuovo insediamento. Poi Shado era riapparso... perché nemmeno la distruzione del Cervello Matrioska era bastata a distruggerlo. Una sola goccia di Melma Nera garantiva la sua sopravvivenza. E dopo due anni e mezzo d’espansione fulminea, Shado era ovunque. Aveva contagiato centinaia di pianeti e si apprestava a distruggere gli ultimi avamposti della Coalizione, per quanto Sunny cercasse di proteggerli con la Melma Dorata. Mentre la vecchia Scourge si espandeva a macchia d’olio, impersonale come un virus, Shado si comportava come un conquistatore. Ignorava certi obiettivi, che per lui avevano poca importanza, e si concentrava in modo maniacale su altri. La sua più grande ossessione era annientare il suo gemello Sunny – l’unico avversario che temeva realmente – nonché i loro creatori: gli umanoidi dell’Enterprise.

 

   Attraverso la foschia comparve una seconda sagoma scura in rapida discesa verso la superficie. Di nuovo l’Auriga. La Hornet lo tenne sotto tiro mentre si posava lì vicino. Ne uscì un altro Capitano Chase in tuta spaziale. Anche lui si avvicinò a Fanior, inclinandosi di lato per opporsi al vento violentissimo. «Ambasciatore... dobbiamo smetterla di vederci così» disse quando si fu avvicinato.

   «Eppure è il modo più sicuro, di questi tempi» rispose Fanior, senza deviare nemmeno di una sillaba dal copione precedente. «Com’è andata la sua missione?».

   «Come temevo... una perdita di tempo» sospirò Chase. «Che mi dice della sua?».

   «Altrettanto infruttuosa» disse l’Ambasciatore. «La Coalizione si sente l’acqua alla gola ed è sempre più restia a uscire dalle sue roccheforti. Non posso biasimarla... ma le darò i dettagli quando saremo di nuovo sull’Enterprise» disse, muovendo qualche passo verso la scogliera. «Bel panorama, non trova?» domandò, accennando al tramonto che tingeva il mare d’arancione. Anche se le sue braccia erano rilassate, si teneva pronto a estrarre nuovamente il phaser.

   «Bello come una partita di kal-toh fra ciechi» contestò Chase in tono aspro. «I pianeti come questo sono adatti alle olo-cartoline, non a viverci».

   «Siete voi umanoidi che avete la pelle delicata» ribatté Fanior con la stessa durezza. Era l’ultima frase in codice, per confermare che anche lui era ciò che appariva. L’Ambasciatore e il Capitano si fissarono per qualche secondo con soddisfazione. Poi si strinsero calorosamente la mano.

   «Bentornato, amico mio» disse Chase. «Spero di non averla fatta aspettare troppo».

   «Non mi sono annoiato» assicurò Fanior. «All’intrattenimento ha pensato il nostro amico trasformista».

   «Shado era qui?» s’incupì Chase.

   «Col suo aspetto, Capitano. E con una replica dell’Auriga» rivelò il Kelvano. «Ma non si preoccupi, le frasi in codice hanno funzionato anche stavolta. Li abbiamo disintegrati prima che facessero danni. Nessuna contaminazione del pianeta. Una faccenda d’ordinaria amministrazione» disse con noncuranza.

   «Uhm... non lasciamo che l’abitudine ci faccia abbassare la guardia» consigliò Chase. «La frequenza dei tranelli sta aumentando. È chiaro che Shado vuole arrivare all’Enterprise. A proposito... se avessi avuto un vuoto di memoria, poco fa, mi avrebbe disintegrato?».

   «Certo, come ho fatto col clone Scourge» rispose Fanior, impassibile.

   «Devo ricordarmi di non mandarla mai in missione con Grenk; a volte si dimentica le parole d’ordine» disse il Capitano. «Beh, l’Enterprise dovrebbe arrivare tra poco. Speriamo che nel frattempo Shado non attacchi ancora. Se torniamo sani e salvi, mi sa che non organizzerò più missioni senza copertura».

   «Non dovremmo esporci così tanto, se la Flotta ci mandasse qualche nave in appoggio» commentò Fanior diplomaticamente.

   «Temo che questo non sia all’orizzonte» sospirò Chase.

   «Forse i suoi superiori non comprendono l’importanza della nostra presenza qui» notò l’Ambasciatore.

   «Non la comprendono di sicuro» corresse il Capitano, lasciando trapelare la frustrazione. In tre anni da quando aveva lasciato la Via Lattea, l’Enterprise non aveva ricevuto alcun rinforzo. Nessun’altra nave della Flotta Stellare l’aveva raggiunta, sebbene Chase avesse chiesto più volte aiuti. Con Shado che continuava a espandersi, la situazione era ormai insostenibile. Il Capitano vedeva le sue risorse assottigliarsi e sapeva che presto avrebbe dovuto prendere una decisione drastica sulla loro permanenza in Andromeda.

 

   Entrati nell’Auriga, la più spaziosa delle due navette, il Capitano e l’Ambasciatore attesero per circa un’ora, scambiandosi i dettagli delle loro missioni. Nel frattempo i piloti tenevano d’occhio i sensori. Finalmente ci fu un bip.

   «L’Enterprise è entrata nel sistema» riferì il pilota. «La traccia di cavitazione corrisponde». Malgrado i suoi sforzi di mascherarsi, Shado non era ancora riuscito a imitare perfettamente la segnatura energetica delle altre astronavi.

   «Bene, decolliamo» ordinò Chase.

   «Signore, l’Enterprise non è sola» avvertì il pilota. «Rilevo un’altra traccia di cavitazione... si direbbe federale» aggiunse con stupore. Si girò perplesso, come se si aspettasse una conferma da parte del Capitano.

   «Forse la Flotta ha finalmente compreso l’importanza di questa missione» commentò Fanior.

   «Forse» disse Chase. Ormai sapeva che quando una cosa è troppo bella per essere vera... in genere non è vera.

 

   A dieci anni dal varo originale e a tre dalla ristrutturazione, l’Enterprise-J era ancora una delle astronavi più moderne e potenti dell’Unione Galattica. Il suo scafo scuro, dalle forme aggraziate, spiccava contro il vortice bianco di Tifone. L’enorme sezione a disco splendeva come una città. Ospitava infatti gli alloggi in cui vivevano le famiglie dell’equipaggio e altri civili, disposti concentricamente intorno al modulo della plancia. Le gondole quantiche, lunghe e sottili, permettevano all’Enterprise di attraversare una galassia vasta come Andromeda. Per gli spostamenti ancora più rapidi c’era il propulsore cronografico, capace di traslare istantaneamente la nave da un punto all’altro, sempre che la destinazione fosse sgombra. Dotata degli armamenti più micidiali e degli scudi più resistenti della Flotta, l’Enterprise era una fortezza imprendibile. La sua Intelligenza Artificiale, Terry, le permetteva d’imparare dagli errori e d’escogitare strategie sempre nuove, adattandosi a ogni evenienza.

   In confronto all’Enterprise, la Nautilus appariva minuscola e insignificante, sebbene in realtà fosse anch’essa una nave di ultima generazione. Era un vascello scientifico dall’insolita configurazione, con la sezione a disco sviluppata in verticale, a richiamare una conchiglia. Il suo propulsore cronografico le aveva permesso di coprire in poco tempo l’enorme distanza fra le due galassie. Il difficile era trovare l’Enterprise dopo essere giunti in Andromeda. Per fortuna Chase aveva fatto in modo che la Flotta sapesse dove trovare la Coalizione, l’unico intermediario che poteva riunire le navi federali all’insaputa di Shado.

   «La Nautilus! Non è granché, come rinforzo» borbottò Fanior, mentre l’Auriga si dirigeva verso l’hangar principale dell’Enterprise. La Hornet li seguiva a breve distanza.

   «Sarà qui per darci rifornimenti. È da un pezzo che sollecito la Flotta» disse Chase, ma osservando la piccola nave scientifica fu colto da un brutto presentimento. Il fatto che l’Unione non inviasse aiuti militari concreti significava che ancora non voleva impegnarsi seriamente in Andromeda.

   Rientrati a bordo, Chase e Fanior furono accolti da Terry, la proiezione isomorfa che era al tempo stesso il computer di bordo e l’Ufficiale Scientifico. «Bentornato, Capitano. Ambasciatore...» salutò rispettosamente l’IA. «Avrete visto che abbiamo compagnia. Se non siete stanchi, vi pregherei di venire in sala tattica per l’aggiornamento».

   «No, vengo subito» disse Chase, appena sceso dalla navetta. «Come sta mia moglie?» chiese, non vedendola nell’hangar.

   «Sta facendo la visita settimanale, ma sta bene» assicurò Terry.

   «Okay, la raggiungerò dopo la riunione» decise il Capitano. «Ah, prima che mi passi di mente... buon compleanno, Terry».

   «Prego?».

   «Ma sì, oggi è il 12 gennaio. L’Enterprise fu varata esattamente dieci anni fa, nell’Hangar Spaziale Terrestre. Come vola il tempo!» esclamò il Capitano, scuotendo la testa. Era incredibile che fossero passati dieci anni interi... i più intensi della sua vita. In quel periodo avevano combattuto due guerre, prima contro il Fronte Temporale e ora contro la Scourge. Chase si sfiorò la corta barba, dove facevano capolino i primi peli grigi. Stava cominciando a invecchiare, ma Terry era come l’aveva vista la prima volta: una donna minuta, dai corti capelli corvini e i lineamenti orientali. I grandi occhi neri, dal taglio obliquo, spiccavano sul viso liscio e cereo. Terry era senza età... Terry sarebbe vissuta per sempre, se qualcosa non distruggeva il suo processore centrale, nel cuore dell’astronave.

   «In realtà, signore, la mia prima attivazione risale a cinque anni prima, quando iniziarono i lavori a Utopia Planitia» corresse l’IA, accompagnando il Capitano fuori dall’hangar. «Ma ho subìto upgrade fino a tre giorni prima del varo... e anche in seguito, se è per questo. In effetti non ho una data di nascita precisa».

   «Pensavo che lei s’identificasse con questa nave» intervenne Fanior, accennando alle paratie intorno a loro. «Non diceva che il suo corpo è lo scafo dell’Enterprise, più che quest’ologramma che ci mostra?».

   «Le cose cambiano» rispose Terry a mezza voce.

   «Beh, comunque sia ci terrei a organizzare una festa di compleanno» disse Chase. «Niente di che, solo una festicciola tra amici. Potremmo andare al ristorante di Raav...».

   «Se per lei è lo stesso, preferirei il ristorante giapponese» disse Terry inaspettatamente. «Da quando ho scoperto il sushi e gli altri piatti della mia terra, non posso farne a meno».

   Chase la guardò interdetto. Non aveva mai sentito Terry riferirsi al Giappone come “la sua terra”. L’Intelligenza Artificiale era stata creata nei laboratori di Marte e completata nell’orbita terrestre. Il fatto che avesse sembianze asiatiche era una scelta puramente estetica: altre Intelligenze Artificiali imitavano diverse etnie umane o aliene. Terry non aveva mai sentito il bisogno d’identificarsi con una cultura precisa, fino a quel momento. Ma forse non era così insolito, si disse il Capitano. Da quando Terry aveva conosciuto Sunny, era cambiata in molte cose.

 

   Giunti in sala tattica, trovarono gli altri ufficiali superiori già raccolti intorno al tavolo ad anello. Mancava solo Neelah. In compenso c’era Sunny, l’essere che avevano creato assieme a Shado nel Cervello Matrioska. Aveva l’aspetto di un Proto-Umanoide, col cranio calvo e allungato, dai lineamenti infossati; ma brillava d’oro dalla testa ai piedi. Il suo corpo, come anche la tuta che indossava, era interamente composto da naniti della Scourge. All’ingresso del Capitano, Sunny fu l’unico a non mostrare apprensione; rimase sereno come al solito.

   «Tutto bene, signore?» chiese Lantora, l’Ufficiale Tattico, scattando in piedi.

   «Bene nel senso che siamo qui» rispose Chase, accennando anche a Fanior. «Ma le nostre missioni sono state un fiasco. E al ritorno il nostro amico di pece ha cercato di spacciarsi per me».

   «Lo temevo... Capitano, non deve più esporsi in questo modo» raccomandò lo Xindi Primate. «Andromeda è più pericolosa adesso di quando siamo arrivati».

   «Questa è stata l’ultima volta» promise Chase, prendendo posizione al tavolo tattico. «Allora, che mi dite della Nautilus?».

   «Ci ha raggiunti poche ore fa» spiegò Ilia Dax, il Primo Ufficiale. «Ha inviato un messaggio del Comando... abbiamo aspettato che tornasse per visionarlo» aggiunse la Trill.

   «Va bene, vediamolo» disse Chase.

   Nello spazio vuoto al centro del tavolo ad anello apparve un ologramma. Era una Bajoriana un po’ avvizzita, con una grossa crocchia grigio ferro. «Qui è l’Ammiraglio Rota Falas; vi porgo i saluti del Comando di Flotta e di tutta l’Unione» esordì. «Sono passati tre anni dall’inizio della vostra missione. Tre anni in cui vi siete confermati come il nostro più grande baluardo contro le minacce dello spazio esterno. Gli scienziati dell’Unione lavorano giorno e notte sui dati che ci avete mandato. Le difese vengono implementate in base ai vostri suggerimenti. La vostra missione è un successo che entrerà negli annali della Flotta Stellare».

   «Adesso arriva la fregatura» disse Grenk, l’Ingegnere Capo. Come tutti i Tellariti, non aveva peli sulla lingua.

   «Ma l’ascesa di Shado ci obbliga a ripensare profondamente la nostra strategia» proseguì l’Ammiraglio, confermando i timori. «Ora che grazie ai Nacene abbiamo canali di contatto con la Coalizione, i benefici della vostra presenza in Andromeda sono inferiori al rischio che Shado riesca a sopraffarvi. Ciò che potevate fare ormai lo avete fatto. Restando dove siete non cambierete le sorti del conflitto; in compenso vi esponete alla Melma Nera. È un rischio non solo per voi, ma per tutta l’Unione. Se Shado ottenesse il vostro database, scoprirebbe tutto ciò che gli serve per invadere la Via Lattea. Capirete che è un rischio intollerabile. Pertanto vi ordino di rientrare immediatamente».

   Un «Oh!» di costernazione percorse il tavolo tattico. Gli ufficiali si guardavano l’un l’altro, increduli che la missione dovesse finire così. C’erano ancora troppe cose da fare... non potevano mollare tutto. Non ora che Shado guadagnava terreno.

   «La Nautilus porta rifornimenti per la Coalizione di Andromeda» proseguì l’ologramma, insensibile alle reazioni che aveva suscitato. «Consegnateli ai nostri alleati e garantite loro che ci terremo in contatto. Ma non fate promesse sulle capacità d’accoglienza dell’Unione, se dovessero perdere completamente Andromeda» raccomandò. «I nostri mondi cominciano appena a riprendersi dalla Guerra delle Anomalie. Miliardi di rifugiati aspettano ancora di tornare alle loro case e altri miliardi non ci torneranno mai. Non possiamo – nel modo più assoluto – sobbarcarci un’altra migrazione di queste proporzioni. Sarebbe il crollo dell’Unione» sottolineò in tono categorico. «Quindi non prendete impegni e tornate alla svelta. L’Enterprise ci serve qui. La vostra esperienza nel combattere la Scourge ci sarà indispensabile per approntare le difese. Così saremo pronti, se... dovesse arrivare». L’Ammiraglio s’incupì e per un attimo perse il cipiglio autoritario che l’aveva caratterizzata fino a quel momento.

   «Un’altra cosa: gradiremmo che ci portaste l’umanoide Sunny, o almeno un campione di Melma Dorata» riprese la Bajoriana. «Dai vostri rapporti è chiaro che si tratta della difesa più efficace contro quella Nera. Quindi dobbiamo averne una scorta adeguata. Penso che Sunny comprenderà la nostra necessità. In caso contrario, ricordategli che deve a voi la sua esistenza».

   Una lieve ruga comparve sulla fronte dorata di Sunny. Evidentemente l’Ammiraglio non si aspettava che partecipasse alle riunioni tattiche, o avrebbe riservato il messaggio al solo Capitano.

   «È tutto, direi» proseguì la graduata. «Non se la prenda, Capitano Chase... come le ho detto, quest’ordine di rientro non è una critica nei suoi confronti. Anzi, siamo soddisfatti di come ha gestito la situazione, disponendo di una sola nave in una galassia ostile. In via confidenziale, le dico che la sua promozione ad Ammiraglio è praticamente cosa fatta. E ci saranno opportunità anche per gli ufficiali superiori. La Flotta Stellare sta varando nuove astronavi e ci servono comandanti esperti. A presto, dunque; attendo con ansia di rivedervi. Ammiraglio Rota, chiudo».

   L’ologramma svanì, lasciando gli ufficiali liberi di scambiarsi occhiate imbufalite. Non era certo la reazione prevista dall’Ammiraglio.

   «Cos’è, uno scherzo?!» ringhiò Lantora, rosso in viso. «Diamo qualche caramella alla Coalizione e scappiamo prima che arrivi Shado? Lasciamo i nostri alleati a vedersela con quel demonio e andiamo a fortificare il nostro castelluccio?».

   «Questi ordini sono illogici in modo sconcertante» rincarò T’Vala, la timoniera. «Se ci ritiriamo ora che le cose peggiorano, la Coalizione non vorrà più saperne di noi. Perderemo ogni aggiornamento sulla situazione di Andromeda. E se ci sarà un esodo verso la Via Lattea, non potremo certo impedirlo» aggiunse la mezza Vulcaniana.

   «È un’infamia» disse Fanior, ancora più drastico. «L’Unione vuole abbandonarci e come buonuscita ci dà un singolo carico. Le minuscole stive della Nautilus dovrebbero soccorrere una galassia! Ah! Se non ci avesse mandato nessun aiuto, l’Unione avrebbe conservato più dignità».

   «E cerca pure di blandirci con le promozioni!» sbuffò Grenk. «Se anche dirigessi i cantieri di Plutone non troverei pace nel letto, sapendo che situazione c’è qui!».

   «Io potrei seguirvi sulla Terra» disse Sunny, unica voce conciliante in mezzo a tante proteste. «Il resto della Melma Dorata rimarrebbe qui a contrastare Shado. Potrei espandermi nella Via Lattea, così quando Shado arriverà sarò più diffuso di lui e potrò respingerlo». Scambiò un’occhiata incerta con Terry.

   «Non credo che l’Unione ti lascerà creare grandi quantità di Melma Dorata sui suoi pianeti» disse l’IA. «In fondo è sempre Scourge... avranno il timore irrazionale che sia pericolosa come l’altra. Così i benefici della tua presenza saranno vanificati».

   Il Capitano ascoltò le proteste senza interromperle. Era furioso quanto i suoi ufficiali e voleva permettere loro di sfogarsi. Ma scambiando un’occhiata con Ilia, lesse nei suoi occhi saggi di Trill Unito ciò che anche lui sapeva. «Signori, condivido il vostro pensiero» disse appena l’onda d’indignazione si fu attenuata. «Ma siamo parte della Flotta, anche se negli ultimi anni abbiamo avuto l’impressione di esserne tagliati fuori. Questo messaggio ci ricorda i nostri obblighi. È stato il Comando di Flotta a inviarci in Andromeda, e il Comando può richiamarci quando preferisce».

   «Perciò intende seguire gli ordini?» chiese Fanior, incredulo. «Vi prendete Sunny e ci abbandonate nell’ora più buia?».

   «Tornato al Comando, spiegherò la situazione e premerò perché invii altre navi» promise Chase. «Ma non la stiamo abbandonando, Ambasciatore. Lei è nato nella Via Lattea e vi tornerà con noi. Il suo compito era aiutarci a contattare i Kelvani e l’ha svolto egregiamente».

   «Ma ora che sono qui, ho altre responsabilità» obiettò Fanior con impazienza. «Il mio popolo è sull’orlo dell’estinzione. Shado si avvicina a Kelva Primo. Con che animo tonerei alla mia piccola colonia? Non ho nemmeno una famiglia che mi aspetti. Quella che avevo è perita nella Guerra delle Anomalie» ricordò con voce dura.

   «Torni con noi, la prego. Può fare molto per la sua gente, anche nella Via Lattea» disse Ilia. Tra gli ufficiali era quella che aveva fatto più amicizia con Fanior, aiutata dalla sua secolare esperienza nel trattare con gli alieni.

   «No, Comandante» disse Fanior, tradendo un sincero dispiacere. «Voi appartenete alla Flotta e dovete obbedirle... lo capisco. Io però sono Kelvano: i miei obblighi riguardano solo la mia gente. Perciò vi chiedo di sbarcarmi a Kelva, prima di tornare a casa».

   «Preferirei lasciarla in un posto più sicuro» disse Chase.

   «Al ritmo con cui si espande Shado, presto non ci saranno posti sicuri in nessuna delle due galassie» obiettò Fanior. «Con permesso, Capitano...» disse, facendo per ritirarsi.

   «Un momento» lo fermò Chase. «Terry, ci mostri la situazione tattica, aggiornata coi dati della Coalizione e delle nostre sonde».

   Al centro del tavolo apparve un nuovo ologramma, fluttuante a mezz’aria. Mostrava Andromeda con evidenziate in rosso le zone controllate da Shado. L’entità oscura era forte soprattutto nel nucleo, ma avanzava verso la zona della periferia in cui si concentravano le basi della Coalizione. Lo spazio rosso non era tutto contiguo, perché spesso Shado infettava pianeti lontani, trasformandoli in nuovi centri d’espansione. Perciò oltre alla principale zona rossa, cresciuta intorno al perduto Cervello Matrioska, c’era una moltitudine di chiazze più piccole. Si stavano tutte espandendo, cercando di congiungersi e di schiacciare le sacche di resistenza.

   «Tempo stimato perché Shado raggiunga Kelva Primo?» chiese il Capitano.

   «Sei o sette mesi, se continua a espandere la Zona 32 al ritmo attuale» rispose Terry. «Ma è probabile che sferri un attacco molto prima. Purtroppo non abbiamo dati precisi su quest’area» disse, evidenziando la porzione di spazio fra la chiazza rossa e Kelva.

   «Sarebbe dove ci troviamo adesso» notò Ilia.

   «Esatto». Terry evidenziò la posizione di Tifone.

   «Potremmo lanciare qualche sonda. O costruire un sensore subspaziale sulla superficie del pianeta» propose Grenk. «Sempre che non si debba mollare tutto all’istante» aggiunse, fissando il Capitano con aria di rimprovero.

   «Gli ordini sono chiari, ma... il Comando è in un’altra galassia e non sa come vanno le cose qui» ragionò Chase. «Se dobbiamo andarcene sarà un disimpegno graduale e non una fuga improvvisa. Costruiamo il sensore subspaziale e facciamo in modo che la Coalizione possa servirsene. Poi andremo a Kelva, per sbarcare l’Ambasciatore e spiegare la situazione» decise.

   «Vuol darci un altro regalino d’addio?» chiese Fanior, sarcastico.

   «Un sensore subspaziale in questa zona vi darà il tempo d’evacuare Kelva, se Shado avanzerà più in fretta del previsto» notò Ilia. «È un’opportunità da non disprezzare».

   «Ha ragione... scusatemi» disse Fanior, rivolto a tutti i presenti. «Avete già fatto moltissimo per Andromeda. Vorrei solo che il Comando rendesse giustizia ai vostri sforzi». L’Ambasciatore si ritirò, lasciando i federali a discutere i dettagli del sensore.

 

   Conclusa la riunione, Chase si recò nell’infermeria principale dell’Enterprise, bianca e asettica come sempre. Salutò il personale, fermandosi un attimo con la dottoressa Vash’Tot. «Allora, come sta Neelah?» le chiese.

   «Bene, l’ultima visita non ha evidenziato problemi» rispose la Ktariana. «Naturalmente è un po’ affaticata; nelle sue condizioni è inevitabile. Tutti noi le diciamo che non dovrebbe lavorare, in quest’ultimo periodo. Ma sa com’è fatta...».

   «Sì, lo so bene» sospirò Chase. «Almeno lavora qui, così se avesse problemi siete pronti a intervenire. Comunque le parlerò». Lasciò la dottoressa e si recò in una saletta più piccola, l’ufficio del Medico Capo. Qui trovò Neelah, seduta dietro la sua scrivania, tra una montagna di strumenti, d-pad e oloschermi.

   L’Aenar puntò le antenne verso di lui, senza però alzare gli occhi dal suo lavoro. «Sei tornato» constatò con voce incolore.

   «Sai che non riesco a starti lontano» ribatté Chase, buttandola sul ridere.

   «Com’è andata la missione?».

   «Come temevo. Anche i Wiwaxia preferiscono stare nascosti, nel loro caso sott’acqua, aspettando tempi migliori. Almeno ci ho provato» disse il Capitano, facendo spallucce.

   «E non hai corso pericoli?».

   «Nooo, che dici? È andato tutto liscio come l’olio» fece l’Umano, sperando che la telepate non gli leggesse la mente.

   «Quindi quel clone Scourge era lì solo per farti un saluto?» chiese Neelah, alzando finalmente gli occhi dalla scrivania e trafiggendolo col suo sguardo di ghiaccio.

   «Uh, come volano le notizie» commentò Chase. «Forse ti hanno male informata. Il clone Scourge non l’ho nemmeno visto. È stato Fanior a sbarazzarsene. Sì, ha pensato lui a tutto» assicurò, avvicinandosi di qualche passo.

   «Fanior è in gamba» riconobbe l’Aenar. «Poteva portarsi a bordo la Scourge e uccidere te. Invece ha visto giusto anche stavolta. La domanda è... quante altre missioni farai, prima che qualcuno dei nostri si confonda? O che Shado ti metta con le spalle al muro?».

   «Nessuna. Questa era l’ultima, te lo prometto» disse Chase, prendendole le mani. Le fedi nuziali scintillarono al dito di entrambi.

   «Non fare promesse che non puoi mantenere» disse Neelah, ancora tagliente.

   «No, dico sul serio» insisté il Capitano. «La Nautilus ci ha portato un messaggio dal Comando. Ordine di rientro. Torniamo a casa».

   «Dici sul serio?!» si emozionò Neelah, spalancando gli occhi. «Non ci sono tranelli?».

   «No» assicurò Chase. «Prima costruiamo un sensore subspaziale su Tifone per monitorare la Scourge in questo settore. Poi passiamo da Kelva per sbarcare Fanior – non c’è verso di farlo restare – e dire addio alla Coalizione. E poi via, da Kelva alla Terra in pochi balzi del propulsore cronografico».

   «Bene... mi sento sollevata» disse Neelah, respirando a fondo. «Un momento... la Flotta invierà qualcuno a sostituirci?» chiese, agitandosi di nuovo.

   «Macché. Al ritorno pesterò i piedi col Comando, ma... da come parlava l’Ammiraglio, danno già Andromeda per spacciata. E probabilmente hanno ragione» disse Chase con gravità. «Lantora e gli altri sono infuriati. Hanno preso molto a cuore le sorti della Coalizione».

   «E tu che ne pensi?».

   «Ragionando a mente lucida, credo che la Flotta non dovrebbe mollare Andromeda... anche se in effetti non so che potrebbe fare contro Shado» sospirò Chase. «Poi guardo te e mi dico che è un bene andare a due milioni d’anni luce da quel demonio. Specialmente adesso» aggiunse, dandole un’occhiata significativa.

   «Che intendi?» chiese ancora l’Aenar.

   «Lo sai benissimo. Non dovresti nemmeno lavorare in questi giorni. Invece ti trovo qui, sommersa di progetti come al solito...» la rimproverò Chase.

   «Ehi, calmati. Non sono un’invalida!» obiettò Neelah con trasporto.

   «Ma sei comunque in una fase delicata...».

   «E credi che me lo sia scordata?!» gemette Neelah, alzandosi di scatto. I larghi abiti premaman enfatizzavano il pancione da nono mese. Nel corso della sua vita, l’Aenar era stata molte cose: bambina prodigio, telepate, agente segreto, insegnante, consulente della Flotta, Ufficiale Medico Capo. Ma adesso era qualcosa di più importante... qualcosa che faceva impallidire ogni altro progetto. Ci era arrivata per gradi, prendendosi il tempo per riflettere su ogni passo. Da dieci anni Neelah viveva sull’Enterprise. Da otto era la compagna di Chase. Da tre era sua moglie. E da quasi nove mesi... era madre.

 

   Neelah si era imposta di mantenere la calma, in quell’incontro, ma capì che era impossibile. Ogni volta che pensava ai pericoli che la sua creatura correva lì ad Andromeda, l’angoscia le mozzava il fiato e le faceva battere il cuore all’impazzata. Corse dal marito e l’abbracciò forte. «Sai, oggi ho sentito di nuovo scalciare» spiegò, tirando su col naso. «Manca davvero poco. Per quanto abbia a cuore la Coalizione, non voglio che nostra figlia nasca in questa galassia da incubo, dove ogni pozzanghera ti può uccidere. Voglio che stia al sicuro... sulla Terra o su Andoria, non ha importanza. Ti sembro un’egoista?».

   «Assolutamente no» disse Chase, restituendole l’abbraccio. «Anch’io voglio proteggere nostro... aspetta, hai detto figlia?! Avevamo deciso di non...».

   «Al diavolo la sorpresa, volevo sapere come stanno le cose» tagliò corto Neelah. «E poi tutti mi tartassano di domande per sapere di che colore devono essere i vestitini».

   «Una figlia...» mormorò Chase, lasciando sedimentare la notizia. «Beh, lieto di saperlo. Ora potresti stringere di meno? Ho difficoltà a respirare».

   «Scusa» disse l’Aenar, lasciandolo andare. Quando si emozionava perdeva il controllo della sua forza, moltiplicata da anni di potenziamenti genetici. Almeno si era tolta le nanosonde Borg dal flusso sanguigno. Era stata una decisione sofferta, perché ormai le considerava parte di sé e temeva che privarsene l’avrebbe indebolita. Quelle nanosonde erano il suo primo progetto scientifico: se le era iniettate a diciassette anni, per curare la sua cecità congenita. Da allora l’avevano salvata parecchie volte, cicatrizzando le ferite e combattendo le infezioni aliene. Neelah non pensava che se le sarebbe mai tolte. Ma un giorno lei e il marito avevano fatto qualche conto. Nessuno dei due era più un giovincello: Alexander si avvicinava ai cinquant’anni, Neelah ai quaranta. Se non avevano subito un figlio, non l’avrebbero avuto mai. Anche se la medicina aveva prolungato la vita e il periodo fertile, c’erano limiti di sicurezza che era meglio non superare. Tra l’altro, Umani e Andoriani erano così diversi da rendere difficili gli incroci. Ma erano pur sempre eredi dei Proto-Umanoidi, per cui avevano abbastanza marcatori genetici comuni da renderlo possibile. Così, presa la decisione e fatti gli esami necessari, Neelah si era tolta le nanosonde, per evitare che potessero nuocere al bambino. E finalmente era rimasta incinta. Da allora, gioia e timore erano aumentati di pari passo, man mano che si compivano i mesi.

   «Beh, ora devo andare... tu cerca di non affaticarti troppo» raccomandò Chase.

   «Aspetta, prima voglio mostrarti una cosa!» disse Neelah tutta emozionata. Tornò alla scrivania e digitò alcuni comandi sull’oloschermo. Gli emettitori olografici dell’ufficio si attivarono, mostrando una ragazza vestita di scuro. Era snella e minuta, con grandi occhi azzurri che spiccavano sul viso liscio. Aveva la pelle chiarissima e i capelli biondo platino, quasi bianchi, da cui facevano capolino due sottili antenne.

   «Non sarà mica...» mormorò Chase, sentendosi le gambe molli.

   «Certo, è lei! Nostra figlia!» disse Neelah in tono rapito. Giunse le mani sul petto, intrecciando le dita, e si avvicinò per osservarla da tutti i lati. «Questa è un’estrapolazione del suo aspetto a diciott’anni, basata sul suo DNA. È... è perfetta!» gioì, senza staccarle gli occhi di dosso nemmeno per un istante.

   «Uhm... vedo che ha le antenne» notò Chase.

   «Certo, è un problema?».

   «No, no, va benissimo. Temevo che ne avesse solo una al centro della testa, ma così va bene» scherzò Chase, incapace di trattenersi. Neelah gli rifilò una gomitata nello stomaco.

   «Tutto è partito da un’analisi del DNA connesso agli occhi e alla vista» spiegò l’Aenar. «Volevo sapere se sarebbe nata cieca, come me. In tal caso avrei potuto curarla, ovviamente, ma... non sarebbe stata una bella cosa».

   «No, per niente» convenne Chase.

   «Per fortuna ha preso gli occhi da te. E le antenne da me!» gongolò Neelah, tornando a rimirarla. «Poi mi sono chiesta se avrebbe avuto le mie facoltà telepatiche. Quelle sono più difficili da stimare, basandosi solo sul genoma, perché ci sono un sacco di fattori ambientali da considerare. Ma credo che col dovuto addestramento avrà un livello ESP rispettabile, fra 7 e 9. Poi naturalmente ho voluto accertarmi che non avesse difetti genetici... insomma, poco alla volta le ho analizzato tutto il DNA. E mi sono detta: perché non elaborarlo in un ritratto?».

   «Ehi, calmati!» disse Chase, cingendola col braccio. «Nostra figlia non è ancora nata e già la stai caricando d’aspettative. Lascia che sia se stessa, senza paragonarla ad altri... nemmeno a te. Se anche avesse un ESP 0, sarà sempre la nostra tesoruccia».

   «Ma certo» annuì Neelah, guardandolo commossa. «È solo che vorrei il meglio per lei. Ma siamo stati fortunati, non ha nessuna patologia genetica. E anche in quel caso, sarei intervenuta solo per problemi gravi. È nostra figlia, non uno dei miei stupidi esperimenti. Non voglio che sia diversa da com’è» assicurò.

   «Bene... allora non resta che decidere il nome» disse Chase.

   «Ci stavo pensando, infatti. Visto che avrà il tuo cognome, che ne diresti di darle un nome Andoriano?».

   «Nulla in contrario. Hai già qualche idea?».

   «Anche troppe, non riesco a decidermi» ammise l’Aenar. «Ma per restringere il campo, potremmo darle un nome che inizi con J. Per ricordare l’Enterprise-J, la nave che ci ha uniti» sorrise, accennando alle paratie intorno a loro.

   «È un bel pensiero... Terry ne sarà lusingata» approvò il Capitano.

   «Ci sono tanti bei nomi andoriani che iniziano per J» proseguì Neelah, incoraggiata. «Jhamel, Jetha, Jaylah... devo pensarci!» esclamò, con gli occhi che brillavano.

   «Riflettici con calma. A stasera» disse Chase. La baciò in fronte e lasciò l’ufficio. Quando fu sulla soglia indugiò qualche secondo, per osservare di nuovo l’ologramma di sua figlia. Ancora poco e l’avrebbe avuta tra le braccia, si disse: la sua tesoruccia con le antenne!

 

   Nei tre giorni seguenti, l’equipaggio dell’Enterprise lavorò alacremente alla costruzione del sensore subspaziale su Tifone. Il capitano della Nautilus avrebbe preferito tornare subito nella Via Lattea, ma una chiacchierata con Chase lo convinse a fare quest’ultimo sforzo per la causa. Di conseguenza alcuni marinai della Nautilus scesero su Tifone, per aiutare Grenk e la sua squadra nei lavori. Altri salirono sull’Enterprise, per consegnare rifornimenti e aiutare l’equipaggio in piccole riparazioni. Era anche un modo per offrire un po’ di svago a quelli dell’Enterprise, facendo loro incontrare facce nuove, dopo che per tre anni erano stati fianco a fianco con le stesse persone. La Nautilus, inoltre, trasmise notizie aggiornate sull’Unione Galattica e lettere di amici e parenti. Per chi affrontava da anni gli orrori di Andromeda, era una boccata d’aria fresca.

   Fu in queste circostanze che T’Vala fu avvicinata da un’ufficiale della Nautilus. «Il Tenente Shil?» le chiese, incrociandola in un corridoio.

   «Sono io. Posso esserle utile?» chiese T’Vala, studiando l’interlocutrice. Era una Vulcaniana della sua stessa età, con i gradi da Tenente della sezione Sicurezza. C’era qualcosa di familiare nella sua voce, eppure T’Vala non ricordava d’averla mai vista.

   «Veramente spero di esserlo io per lei. Sono il Tenente Lyra, della Sicurezza federale. Lunga vita e prosperità» disse la Vulcaniana, sollevando la mano nel tradizionale saluto a V del suo popolo.

   «Anche a lei» rispose T’Vala, imitando prontamente il gesto. «Allora, di che si tratta?».

   «Devo informarla che la Sicurezza ha riaperto il fascicolo sull’attentato di Rutia IV in cui morirono sua madre, Xilana Shil, e i quattro ufficiali della scorta» rispose Lyra, impassibile.

   T’Vala impallidì. Aveva la sensazione che le pareti del corridoio si chiudessero su di lei e che l’aria non riuscisse più a entrarle nei polmoni. La morte di sua madre, quando aveva sette anni, era stata il peggior trauma della sua vita. Aveva posto fine all’infanzia dorata su Betazed, quando tutto era gioia e spensieratezza. Suo padre Sirok l’aveva portata con sé su Vulcano, dandole un’educazione ben più austera ed esigente. Pur avendo appreso la filosofia vulcaniana e molte delle tecniche tradizionali, come la Fusione Mentale e la Presa al Collo, T’Vala si era sempre rifiutata di seguire il kolinahr e privarsi delle emozioni. Sapeva che sua madre non l’avrebbe voluto.

   «È ridicolo» disse la timoniera, riprendendosi. «Quell’attentato avvenne 33 anni fa. Le indagini si chiusero dopo poche settimane, con l’arresto dei responsabili».

   «Con l’arresto degli esecutori» corresse Lyra. «Il mandante non fu mai trovato. Ora abbiamo una nuova pista... ma forse non è il caso di parlarne qui» aggiunse, accennando ai marinai che passavano accanto a loro nel corridoio.

   «No, infatti» convenne T’Vala. Stava per invitarla nell’alloggio dove viveva con Lantora, ma cambiò idea. Non voleva che il marito le sorprendesse a parlare dell’argomento. Preferiva esserne informata a parte e poi metterlo al corrente con calma, senza quel terzo incomodo. Pensò in fretta dove potevano appartarsi, scartando un’opzione dopo l’altra. Le aree pubbliche dell’Enterprise erano affollate, a quell’ora, e non voleva che altri sentissero quella faccenda personale.

   «Siamo vicini alla stiva 2» notò Lyra, che per essere una nuova arrivata sembrava conoscere piuttosto bene l’Enterprise. «Se per lei va bene, possiamo andare lì».

   «D’accordo» acconsentì T’Vala, precedendola di buon passo. Presto l’Enterprise sarebbe tornata nel Quadrante Alfa. A quel punto non sarebbe stato difficile prendersi una licenza e andare su Rutia per vederci chiaro. E forse per chiudere i conti con gli assassini di sua madre.

 

   Avvolta da una vestaglia in stile giapponese, con ricamati fiori di ciliegio, Terry andò ad annaffiare i bonsai che teneva nel suo alloggio. L’acqua andava dosata attentamente, come il suolo nei piccoli vasi. Troppo nutrimento avrebbe provocato una crescita eccessiva degli alberelli, rovinandoli come bonsai. D’altra parte, nutrirli troppo poco li avrebbe fatti avvizzire e morire. La giusta misura stava nel mezzo, come in tutte le cose.

   Osservandosi mentre annaffiava gli alberelli, Terry represse un sorriso. Quello che stava facendo era insolito, per un’Intelligenza Artificiale. Anzi, già il fatto d’avere un alloggio era insolito. Le IA delle astronavi non avevano le esigenze degli Organici, come nutrirsi, lavarsi e dormire. Tuttavia le loro proiezioni isomorfe avevano raggiunto un tale realismo che, volendo, potevano imitare anche questi processi. Le ragioni erano puramente sociali. Mangiare assieme ai colleghi permetteva di socializzare con loro, venendo considerati persone anziché macchine. Così i rapporti interpersonali miglioravano notevolmente.

   Nei suoi primi anni di servizio, Terry non aveva sentito la necessità di un alloggio. Le sue proiezioni lavoravano 24 ore su 24 in giro per la nave. Poi una di esse era stata distrutta in missione, mentre era separata dal processore centrale. Al loro ritorno, Ilia e Lantora le avevano spiegato che negli ultimi giorni quella sua proiezione si era umanizzata e l’avevano esortata a fare altrettanto. Siccome anche Chase e gli altri lo consigliavano spesso, Terry ci aveva provato. Il primo passo era stato prendersi un alloggio. Poco alla volta aveva smesso di accendere e spegnere le sue proiezioni, cercando di conservarne una sempre accesa e concentrando lì la maggior parte della sua attenzione. Per spostarsi a bordo usava i corridoi e i turboascensori, come facevano gli Organici, anziché trasferirsi all’istante. Aveva anche cominciato a prendersi cura del suo aspetto, invece di usare le sue capacità olografiche per apparire sempre impeccabile. Quando possibile indossava abiti veri, invece di farseli olografici. Aveva persino cominciato a leggere romanzi, pur conoscendone già la trama (dato che li aveva in memoria). Leggerli lentamente, alla maniera degli Organici, glieli faceva riscoprire. Passo dopo passo, si era lasciata affascinare dalla vita umana... in tutti i suoi aspetti.

   «E così l’Enterprise torna a casa... come pensi che reagirà la tua gente, vedendomi?» chiese Sunny, accostandosi da dietro.

   Terry si girò verso di lui, con il piccolo annaffiatoio in mano. La sua ultima svolta da umanoide era quella: la convivenza. Sunny era l’unica altra Intelligenza Artificiale di bordo. La capiva come nessun’altro. Era nato dalla somma di tutta la bontà dell’equipaggio, come Shado era scaturito dalla malvagità repressa. Sunny era unico... e la faceva sentire unica. Se una catastrofe non li travolgeva, potevano rimanere insieme per sempre.

   «Non credo che ti tratteranno diversamente da come fanno qui sull’Enterprise» rispose Terry. «Naturalmente la Flotta Stellare vorrà studiarti. Ma basta che tu gli dia un campione di Melma Dorata. Non farti mettere in soggezione... e soprattutto stai alla larga dalla Sezione 31» consigliò.

   «Mi tratteranno come qui, eh?» fece Sunny. L’idea non sembrava entusiasmarlo.

   «Perché, qualcuno ti manca di rispetto?» si accigliò Terry.

   «Oh no, al contrario. Sono rispettosissimi... alcuni anche troppo» sospirò l’umanoide dorato. In quella si udì il segnale dell’ingresso. «Ecco, come dicevo... è ancora lei» tremò Sunny.

   «Lasciala fuori» consigliò Terry, riprendendo a innaffiare i bonsai. Alle sue spalle, Sunny stava con la schiena poggiata al muro e una gamba semiflessa. Tutti e due si sforzavano d’ignorare i ripetuti bip della porta.

   «Non possiamo lasciarla continuare» disse infine Sunny, facendo per avviarsi.

   «Aspetta, ci penso io» lo bloccò Terry. I bip cessarono all’istante.

   «Che hai fatto?».

   «Ho disattivato il segnale dell’ingresso» rispose l’IA impassibile.

   «Questa non è una soluzione» si accigliò Sunny. «Anche se non la sentiamo, lei resterà là fuori».

   «Per quanto mi riguarda, può restarci tutta la notte» disse Terry, riponendo l’annaffiatoio vuoto.

   «Non dire così. Senti, io vado... mi fa troppa compassione» cedette Sunny, avviandosi di nuovo verso la porta.

   «Non darle corda, o la incoraggerai a continuare» l’avvertì Terry.

   «Cercherò di farle capire che deve smetterla» ribatté l’essere dorato. Si avvicinò all’ingresso, provocandone l’apertura. Un’Umana gli cadde quasi tra le braccia, tanto era pressata contro la porta. Era bassa e aveva i capelli scuri raccolti in due trecce, più adatte a una ragazzina che a una donna adulta.

   «Finalmente!» esclamò, fissandolo estasiata. «Cominciavo a temere che non ci fossi, Aureo».

   «Signora Murphy... presumo che lei abbia controllato la mia posizione, prima di venire a cercarmi» rispose Sunny con diplomazia.

   «In realtà ho avuto qualche problema... il computer non rispondeva alle mie domande» ammise la donnina.

   «Chissà perché?» fece Sunny, girandosi un attimo per lanciare un’occhiataccia a Terry, che li fissava con le braccia incrociate e l’espressione sdegnata.

   «Non importa... ora che sono qui, le mie sofferenze sono finite, Aureo!» trillò la signora Murphy, contemplando Sunny come se fosse un’icona sacra.

   «Perché continui a chiamarmi così? Il mio nome è Sunny» disse l’umanoide.

   «Ma non ti rende giustizia!» trillò la donnina. «Tu sei così prezioso e nobile... nelle tue sante mani c’è il dono della Guarigione» disse con reverenza, cercando di sfiorargliene una.

   «Le mie mani, come il resto di me, sono fatte di Melma Dorata... cioè di microscopici naniti» corresse Sunny. «Questo mi concede dei poteri curativi, è vero. Ma anche i medici dell’Enterprise sono molto bravi. Qualunque cosa lei abbia stavolta, sono certo che possono occuparsene».

   «Ma io non voglio loro!» frignò la signora Murphy. «Hanno strumenti freddi come i loro cuori. Io cerco il calore e la luce che solo tu puoi darmi. Guarda di che soffro!». Si tirò su una manica, mostrando una serie di chiazze rosse sul braccio. «Pizzicano e prudono in modo insopportabile... aiutami, ti prego!» implorò.

   Sunny le prese delicatamente il braccio e lo osservò con attenzione. «Uhm... sembrano sfoghi da allergia» commentò. «È un problema banale... qualunque infermiere può darle una pomata. L’importante è che capisca a cos’è allergica e se ne tenga alla larga» raccomandò, lasciandola andare.

   «No, non lasciarmi alla porta!» supplicò la signora Murphy. Cadde in ginocchio e levò le mani giunte. «T’imploro, liberami da questo tormento! Sarò tua eterna debitrice. E diffonderò la voce del tuo santo dono».

   «Per carità, lo sanno già in troppi» sospirò Sunny. «Avanti, si alzi... non stia lì in terra» disse, offrendole il braccio.

   La donnina gli si aggrappò come se ne andasse della sua vita. Si tirò su di peso e quando fu in piedi gli rimase appiccicata, con gli occhi spalancati e il respiro ansante. «Allora mi aiuterai?» mugolò.

   «Se proprio devo...» fece Sunny. Diede un’altra occhiata a Terry, che gli faceva segno di no con la testa. Poi si rivolse alla paziente. «Ecco, questo dovrebbe farla stare meglio» garantì, trasmettendole alcuni naniti. Ci volle poco per trovare le cause della reazione allergica e correggerle. Fatto questo, Sunny riassorbì i naniti nel proprio corpo. Non gli andava di lasciarli in giro, tantomeno dentro quell’esaltata. Dietro di lui, Terry scosse la testa e alzò gli occhi al soffitto.

   «Oh, potente Aureo... sento il calore del tuo sacro tocco!» giubilò la signora Murphy, tremando da capo a piedi. «La tua energia mi ha risanata! Grazie... grazie...». Stava piangendo di gioia. Gli sfoghi rossi sul suo braccio cominciavano già a impallidire.

   «Sono naniti, non energia... e come le dicevo, qualunque pomata anallergica avrebbe fatto altrettanto» ribadì Sunny. «Si riguardi, in futuro. Buonasera...». Indietreggiò svelto, facendo richiudere la porta. «Eh, la signora Murphy... che tipo!» ridacchiò, voltandosi. Si trovò di fronte una Terry senza la minima voglia di scherzare.

   «È la quarta volta, questo mese» sbuffò l’IA. «Prima il raffreddore, poi lo stiramento al muscolo, poi i problemi di stomaco... adesso è passata alle allergie. Comincio a credere che lo faccia apposta, per avere il pretesto di vederti. La prossima volta che sarà, un’unghia incarnita?».

   «È solo una persona suggestionabile...» minimizzò Sunny.

   «Se fosse l’unica! Purtroppo è una dei tanti» insisté Terry, che non voleva lasciar cadere l’argomento. «Ormai c’è la processione degli infermi. Trattano il nostro alloggio come se fosse un santuario... e te come se fossi il loro Messia!».

   «Un’imprevista, sfortunata conseguenza delle mie facoltà curative» ammise Sunny, senza più nascondere il problema. «Il giorno in cui mi avete creato, ho curato Neelah dal male che la stava uccidendo. E dopo di allora ho strappato molti altri alla morte. Purtroppo c’è chi l’ha preso come un segno salvifico. Mi domando come sia possibile... tutti i passeggeri dell’Enterprise hanno ricevuto un’istruzione moderna».

   «Ma gli umanoidi non sono logici... a parte i Vulcaniani» obiettò l’IA. «Quando qualcosa dà loro speranza, ci si aggrappano. E non lo mollano più. Io però voglio stare con Sunny, non col Potente Aureo!» sottolineò.

   «Dovrò farlo capire ai miei... ammiratori, anche se non so bene come» ammise Sunny, sconsolato.

   «Trova in fretta il modo, prima che ti mettano sugli altari» disse Terry. Non era una richiesta, ma un ordine.

 

   Quando la signora Murphy tornò al suo alloggio, trovò un’altra proiezione di Terry che l’aspettava davanti alla porta. «E tu che ci fai qui?» le domandò, chiaramente seccata.

   «Voglio chiarire un paio di cosette» disse l’IA, ostruendole il passaggio. «Il suo atteggiamento molesto arreca disagio sia a Sunny che a me. Sunny è troppo... buono per insistere, ma io voglio metterlo in chiaro: deve smetterla d’infastidirci con la sua ipocondria e le sue scenate mistiche».

   «Ma come ti permetti, computer?!» s’inalberò la donnina, facendosi paonazza. «L’Aureo ci è stato inviato per risanare tutti i mali. Ma che ne parlo a fare con te? Dietro quel bel faccino sei solo una macchina; non puoi capire queste cose».

   «Capisco che lei ha una visione distorta della realtà» obiettò Terry. «E forse soffre d’amnesia. Ha dimenticato come abbiamo creato Sunny, tre anni fa? C’era anche lei nel Cervello Matrioska. I suoi schemi mentali sono stati registrati, come quelli di tutti gli altri umanoidi dell’Enterprise. Da quegli schemi amalgamati sono nate le personalità contrapposte di Sunny e Shado. Non c’è nulla di mistico... solo scienza».

   «Credi sia stato il caso a guidarci in quella struttura? Il caso a far amalgamare gli schemi creando Sunny?» obiettò la signora Murphy. «No, carina. Qui siamo di fronte a un disegno più alto. L’Aureo ci libererà dal male della Scourge, come ha liberato me dalle...».

   «Eruzioni cutanee? Temo che la Scourge sia più ostica da debellare» ironizzò Terry.

   «Non ho detto che sarà facile. Sarà una dura prova per l’Aureo... potrebbe anche richiedergli l’estremo sacrificio» disse la donnina, levando solennemente il tozzo indice. Di colpo Terry si sentì tremare. Fra tanti sproloqui, l’Umana ne aveva forse azzeccata una. Sunny e Shado erano stati creati insieme. Forse non era possibile distruggere uno senza sacrificare anche l’altro. «Ma lui è qui per questo» proseguì la signora Murphy. «Ci sta già mostrando la via, ma tu... tu lo distrai!» esclamò, puntandole il dito con fare accusatorio. Dal suo tono, sembrava che la stesse accusando di blasfemia.

   «Io lo distraggo?» ripeté Terry, sbattendo gli occhi incredula.

   «Certo, e non te ne accorgi nemmeno. Sei solo una macchina che finge... che s’illude di essere umana!» accusò la donnina. «Puoi usare tutti i trucchi e le simulazioni del tuo programma... puoi credere alla tua stessa menzogna. Ma non sarai mai come noi. E soprattutto non sei degna di lui! Quindi smetti di distrarlo. Se lo ami veramente, come dici, allora gli permetterai di compiere il suo destino». Una certezza granitica era scolpita nei lineamenti della donna. Le sue parole colpirono Terry come tante sassate.

   «Io non costringo Sunny a fare niente» mormorò l’IA quando si fu ripresa. «Stiamo insieme perché lo vogliamo. Pensi agli affari suoi e la smetta d’intromettersi nella nostra felicità... quel poco che l’Universo ci ha concesso» disse, e svanì senza darle il tempo di ribattere.

 

   In quello stesso momento, T’Vala entrò nell’alloggio che da due anni e mezzo condivideva con Lantora. Trovò il marito seduto sul divano e la cena già in tavola. «Oh, eccoti!» si riscosse lo Xindi, alzandosi. «Stavo per chiamarti. Dov’eri finita?».

   «Sono stata trattenuta... ma è tutto okay» rispose la mezza Vulcaniana, eludendo la domanda.

   «Beh, mentre ti aspettavo ho preparato la cena... tutto col replicatore, naturalmente. Sai che non puoi chiedermi di più, in fatto di cibarie» ridacchiò Lantora.

   «Mmmhhh... va benissimo così» sorrise T’Vala, baciandolo con più trasporto del solito. Lantora ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso in lei. Il taglio di capelli, il profumo... o forse solo l’atteggiamento. «Vado a cambiarmi» disse la mezza Vulcaniana, cominciando già a levarsi disinvoltamente l’uniforme.

   «Attenta, Vrel sta già dormendo» l’avvertì Lantora, prima che accendesse tutte le luci.

   «Come?!» s’irrigidì T’Vala, bloccandosi a un centimetro dall’interruttore.

   «Lo so, non dovrebbe farlo a quest’ora, ma all’asilo mi hanno detto che ha fatto il diavolo a quattro per tutto il giorno» si scusò lo Xindi. «Quando sono andato a prenderlo cascava dal sonno. Così gli ho dato un po’ di pappa ed è crollato all’istante».

   «Oh, Lantora... sai che ci sono degli orari da rispettare!» lo rimproverò T’Vala, riprendendosi subito. «Adesso che dovrei fare, svegliarlo per dargli la cena? O ha già mangiato abbastanza?».

   «Forse è meglio svegliarlo» ammise Lantora. «Altrimenti lo farà lui a mezzanotte e non ci lascerà più dormire».

   «S-sì... prima mi cambio» ripeté T’Vala, stranamente giù di corda.

   Lantora la seguì con lo sguardo, notando che sua moglie sembrava aver dimenticato in quali cassetti teneva i vestiti. «Sai, oggi toccava a te prendere Vrel all’asilo» le ricordò garbatamente. «Quando mi hanno chiamato, per dire che non c’eri, sono andato io. Tutto a posto, eh... però se qualcosa ti trattiene dovresti informarmi» aggiunse con una traccia di rimprovero.

   «Devo essermi confusa coi giorni» si scusò T’Vala.

   «Beh, ricorda che martedì, mercoledì e sabato tocca a te. Io ho lunedì, giovedì a venerdì» le rammentò Lantora. «E la domenica... questo campioncino è tutto per noi!» sorrise, accostandosi al lettino dove il bimbo di un anno dormiva saporitamente. Era un piccolo miracolo... mezzo Xindi Primate, un quarto Betazoide e un quarto Vulcaniano. Si trattava di un cocktail di specie complesso da amalgamare, ma fortunatamente tutto era andato bene.

   Lantora e T’Vala avevano cominciato a parlare di un figlio subito dopo aver superato la loro peggior crisi. L’attraversamento della Barriera Galattica aveva concesso alla mezza Vulcaniana nuove facoltà mentali, ma l’aveva anche estraniata dal compagno. Quando la misteriosa entità Onaya l’aveva guarita, si erano decisi al grande passo. Prima le nozze... officiate da Chase, in virtù dell’antico privilegio dei Capitani. Poi il bambino. Si erano chiesti a lungo che nome dargli: Xindi, Betazoide o Vulcaniano? Alla fine avevano trovato la soluzione. L’avevano chiamato Vrel in omaggio al dottor Korris, l’amico caduto nella Battaglia di Procyon V. Il buon dottore li aveva salvati più volte e aveva persino curato l’epidemia che affliggeva Nuova Xindus. Lantora non era riuscito a salvarlo, durante la battaglia: aveva solo potuto vendicarlo. Ma ora la coppia gli rendeva onore in un modo che il medico avrebbe certo apprezzato. Anche se era un’ironia della sorte dare a loro figlio un nome cardassiano.

   Lantora svegliò con garbo il figlioletto e lo portò nella stanza principale, che faceva da salotto e da cucina. Qui lo mise sul seggiolone. Intanto T’Vala cercava le sue pappine, ma sembrava ancora confusa. Vedendola in difficoltà, Lantora aprì la credenza e prese il vasetto. «Lascia, ci penso io» disse.

   «No, faccio io...» disse debolmente la mezza Vulcaniana.

   «Insisto. Ti occupi di lui tutti i santi giorni; lascia che per stasera ci pensi io» disse lo Xindi, premuroso. Imboccò Vrel con qualche cucchiaio di pappina, anche se il bimbo sembrava più interessato a ciucciarsi le dita. Dopo il ruttino lo portò nel box e finalmente si mise a tavola con sua moglie. Notò che T’Vala aveva mangiato pochissimo. «Hai poca fame?» le chiese. Dal canto suo, aveva un notevole appetito. Si riempì il piatto senza lesinare.

   «Eh? Sì, ne ho poca» confermò sua moglie. Sembrava che stesse rimuginando su qualcosa.

   «Ma va tutto bene?».

   «Sì, è stata solo una giornata faticosa» mentì T’Vala. «Ma ora che sono qui con te... con voi... va tutto bene» sorrise, accennando al box in cui Vrel si stava ancora ciucciando il pollice.

   Finito di cenare, T’Vala riordinò la tavola mentre Lantora portava il piccolo nella sua cameretta. Finalmente ebbero un po’ di tempo per loro. Lo Xindi notò che sua moglie era sempre piuttosto silenziosa e, si sarebbe detto, preoccupata. Vedendola china su un d-pad, decise di non metterle pressione. Quando uscì dal bagno, dopo essersi lavato i denti, la trovò già a letto; ma aveva nuovamente cambiato umore. Se ne stava lunga distesa sopra le coperte, tutta profumata e con indosso la vestaglia più osé.

   «Sai, non credo che il piccolo dovrebbe farci dimenticare di noi» disse la mezza Vulcaniana, con sguardo ardente.

   «Uhm...» fece il Primate, studiandola con circospezione.

   «Beh? Pensavo ti piacesse la sorpresa» fece T’Vala, un po’ delusa dalla mancanza di reazioni.

   «Mi piace eccome. Guarda caso, anch’io ho una sorpresina per te» disse Lantora, con una strana luce negli occhi. Si avvicinò a un cassetto, per estrarne qualcosa.

   «Uh, di che si tratta?» gongolò T’Vala, alzandosi in ginocchio sul letto.

   «Se te lo dico, che sorpresa è? Chiudi gli occhi e non sbirciare per nessuna ragione». Era un consiglio, ma Lantora lo diede come se fosse un ordine.

   T’Vala ebbe un attimo di perplessità, ma non voleva contrariarlo, quindi fece come richiesto. Sotto sotto, però, provava un’ansia crescente. Cercò di sondargli i pensieri, scoprendo con sgomento che non riusciva a leggere chiaramente. Per non essere un telepate, Lantora si schermava molto bene. Solo allora T’Vala notò che, per tutta la serata, non le aveva mai fatto toccare il pupo. Sentì la pelle che si accapponava. Incapace di resistere, aprì gli occhi. Lo Xindi era in piedi davanti a lei, con un phaser in mano e l’espressione terribile.

   «Lantora! Che ti è preso?!» chiese la mezza Vulcaniana con voce strozzata.

   «Credo che tu lo sappia» rispose il Primate, mirandole al cuore.

   «M-ma... perché?» fu l’unica domanda che T’Vala riuscì ancora a balbettare.

   «Perché sono già stato scemo due volte, con te» rispose lo Xindi, inflessibile. «La terza preferirei evitarla». T’Vala scattò verso di lui, ma Lantora sparò senza esitazione. La colpì a bruciapelo in pieno petto, facendola accasciare sul pavimento. Nella cameretta a fianco, il piccolo Vrel era ancora sveglio. Sentì il sibilo del phaser e in qualche modo intuì che qualcosa non andava bene. Cominciò a piangere.

 

   
 
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