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Autore: kurojulia_    18/01/2019    0 recensioni
Yuki ringhiò, stringendo i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era quella di levare le tende. Eppure, la sola idea di lasciarli continuare a vivere, impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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15.



Una nodachi*.

La lama era lunga 140 cm e la parte non temperata brillava di una luce azzurra; l'elsa era di pelle squamosa, bianca, intrecciata da un nastro rosso che fungeva da rivestimento. La guardia era bianca e doppia, e sulla parte piatta della lama c'erano delle incisioni non troppo profonde che rappresentavano delle fiamme e all'interno di esse spiccavano tre spinelli rosso scarlatto.
Steso accanto vi era il fodero nero, con un cordino rosso annodato verso la cima.

 

Yuki e Kazumi si ostinavano a guardare la katana; lo sguardo di Kazumi, in particolare, era come quello di un parente che guarda la tomba di un suo caro.
Quella katana stava esercitando... una strana attrazione. Yuki non sarebbe mai riuscita a spiegarlo a parole.

 

In quella piccola stanza, illuminata fiocamente dalla luce del lampadario di bambù, il silenzio era fitto e quasi rimbombante. L'albina non aveva la più pallida idea di cosa pensare, né tanto meno cosa potesse dire, e Kazumi era totalmente assorta.

 

«Hai capito chi è la donna nel ritratto, Yuki?».

La mezzosangue guardò di nuovo la donna del quadro. «Sarebbe preoccupante se non l'avessi capito. Quella tiara parla chiaro. La cosa che non capisco è... è perché ci somigliamo».

La vampira raddrizzò le spalle e la figlia si voltò verso di lei, aggrottando la fronte. «E poi, mi spieghi perché abbiamo un quadro dell'Imperatrice Lilith?». Alla sua domanda, Kazumi fece un sorriso, quasi trasparente, e la invitò ad avvicinarsi all'altarino. La ragazza accettò, un po' riluttante, e quando furono davanti all'altarino Kazumi toccò con la punta delle dita la tela, saggiandone rispettosamente la leggera ruvidezza.
Più l'albina la guardava, più sembrava di avere uno specchio di fronte.

«Il cognome dell'Imperatrice era Akawa».

 

A quelle parole, Yuki sentì la mandibola caderle ai piedi. Sentì uno scricchiolio, da qualche parte dentro di sé, le labbra le tremarono vistosamente.

Forse aveva sentito male.
Forse non aveva detto davvero... che l'Imperatrice era un Akawa. No, non era possibile. Sì, i suoi occhi erano color oro, ma questo non significava necessariamente che loro fossero... imparentate. No, non era possibile, semplicemente.
«Ma cosa stai dicendo?», sbottò. «Non è scritto in nessun testo che l'Imperatrice fosse della famiglia Akawa! Anzi, non è dato sapere nemmeno quale fosse il suo cognome».

«Pensaci un attimo. Tu sei sicura che sia così?», disse Kazumi, fissando i propri occhi in quelli della figlia.

«Beh... ».

Lo era? Non lo era?

Chiuse le mani in pugni. «Beh, sì. Ne sono sicura. Non è scritto in nessun testo, nessuno ne ha mai parlato, men che meno voi, per cui... ».

«Lascia che ti racconti meglio». La donna si allontanò dall'altarino e si sedette su una sedia posta davanti alla parete sinistra. Una volta sedutasi, appoggiò una mano in grembo mentre con l'altra si teneva lo scialle intorno alle spalle. Con lo sguardo un po' perso, cominciò a parlare. «Tutti noi sappiamo che Lilith era destinata a diventare la nostra Imperatrice e Bael il nostro Imperatore, è alla base della cultura sia dei vampiri che dei demoni. Ciò che tutti non sanno – eccetto poche, pochissime persone – è da quali famiglie provengono. Lilith... lei nacque sotto il nostro cognome».

Yuki scosse la testa. «Mi dici com'è possibile? È morta troppo giovane per far proseguire la stirpe».

«È vero, è morta giovane, ma è altrettanto vero che ebbero una figlia, di nome Rujiya».

«Gli Imperatori hanno avuto una figlia?», ripeté Yuki. Questo avrebbe permesso al casato di non estinguersi, in effetti.

«Sì, hanno avuto una figlia. Una figlia mezzosangue».

 

Yuki dovette appoggiarsi alla parete perché le gambe non riuscivano più a sorreggerla.
Una mezzosangue. Sì, ovvio, non è che lei e Ai fossero le uniche in tutto il mondo – in tutta la storia; ma pensare che addirittura un personaggio così importante dovesse fare i conti con una natura tanto distorta, beh, cambiava le carte in regola.
Yuki guardò la madre, pallida in volto, e andò a sedersi sullo scalino che precedeva l'altarino.

Lilith e Bael, Rujiya. «Quindi esiste una figlia».

«Esisteva. È morta da molto tempo. Ma anche lei, come i suoi genitori, ha conosciuto qualcuno e hanno avuto dei figli, tra cui una femmina, cioè tua nonna. Dopodiché, sono nata io e ho conosciuto tuo padre, come ben sai, nel 1848», disse Kazumi. «C'è un'altra cosa che dovresti sapere, a proposito della famiglia Akawa. Poco dopo la morte di Lilith, noi donne Akawa abbiamo iniziato a prendere il titolo di “Guerriera dorata”».

Yuki, che aveva messo la testa sulle ginocchia, sollevò il volto lentamente – perplessa. «... “Guerriera dorata”? Scusami ma... questo nome è un po' ridicolo».

«Non essere sciocca. È la storia della nostra famiglia, ne è parte integrante. Non è affatto ridicolo».

«E perché noi donne dovremmo portarci dietro questo... titolo?».

«Stavo per spiegartelo», Kazumi abbassò le palpebre. «Nella nostra famiglia, le donne hanno sempre posseduto un forte potere, questo lo saprai persino tu. Questo potere l'abbiamo ereditato dall'Imperatrice – colei che fu la prima fra tutte, la più tenace, la più antica». La vampira aprì gli occhi. Una luce brillava nelle iridi. «E fu in suo onore che venne creata la nomea di “Guerriera dorata” – e qualche volta, “Condottiera del sole”».

«In parole povere, è alla stregua del “cavaliere” o della “guardia reale”?».

«Sì, diciamo di sì».

«Ho capito», diceva di aver capito, ma sentiva la testa pesante e quelle informazioni non facevano che farla arrabbiare. Era imparentata all'Imperatrice – ma va, davvero? E lei che pensava di avere una famiglia strana e fastidiosa. E invece erano molto più di questo.

Poi, come un flash, le venne in mente qualcosa. «Aspetta. Tutta questa storia, questi legami, non ne sa niente nessuno perché c'entra il sangue misto? L'hanno tenuto nascosto per questo?».

Kazumi annuì lentamente. «Sì, bambina mia, purtroppo è proprio a causa di questo; quando nacque Rujiya non vennero sollevate polemiche perché le unioni fra vampiro e demone erano viste ancora come un atto naturale. Poco dopo... », si fermò un istante, chiudendo gli occhi, come se provasse dolore al ricordo – vivido sulla pelle, sebbene lei non fosse nemmeno nata all'epoca. «... quando gli Imperatori morirono, Rujiya lasciò il paese. Non ha voluto rievocare il suo diritto sulla corona. Mia madre mi ha raccontato tutto questo e lei, a sua volta, ha saputo l'intera storia da Rujiya in persona. Quindi, Yuki, questa che ti sto raccontando è la verità più attendibile che potresti mai ascoltare. La nostra storia non è stata scritta così accuratamente perché per gli altri è una vergogna. Il nostro dolore non ha conosciuto nessuno se non noi stesse. Mi dispiace».

 

Kazumi aveva un velo di rabbia sul viso, cereo e di porcellana, ma anche in quelle vesti era una bellissima donna. L'albina guardò sua madre e non sapeva cosa fare. Non sapeva cosa provare, arrivata a quel punto – doveva seguire il suo esempio ed arrabbiarsi?

Eppure, erano passati secoli, e sembrava troppo tardi per rivendicare un'ostilità tanto antica.

«E quella katana? Perché me l'hai fatta vedere?», chiese, sottovoce.

Kazumi allora sollevò il mento e indirizzò lo sguardo verso il contenitore lasciato aperto. Improvvisamente, scoppiò in una leggera risata, cristallina ma afflitta. «Quella è solo un'altra cicatrice della collezione; quella katana è stata forgiata poco prima della morte di Lilith in suo onore. Dentro la sua lama, dormono le anime di tutte le Akawa precedenti. Tutte noi, alla nostra morte, finiamo proprio lì dentro, per tutta l'eternità».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

La prima cosa che avevano visto era il suo viso segnato da un profondo shock. Era uscita dopo la madre, con lo sguardo che trafiggeva la pavimentazione primitiva dei sotterranei, gli occhi spenti e le labbra chiuse in una linea. Si era girata e aveva chiuso la porta, stavolta l'aveva fatto lei.
La seconda cosa che era spiccata alla loro attenzione era un oggetto nella sua mano destra. Una spada, la cui lama estremamente lunga tagliava l'aria ad ogni passo.

Poi erano tornati sopra, nella residenza, e Yuki aveva detto ai suoi amici di andare nella sua camera a parlare. Immersi nella penombra, si erano seduti sul letto a baldacchino e l'albina, con le spalle tremanti, aveva raccontato tutto ciò che aveva saputo da Kazumi.
Aveva cercato di farlo in modo chiaro. Aveva cercato di dare un senso alle sue parole. Ma tutta quella storia, di senso logico, non ne aveva nemmeno un grammo: perché era un'ingiustizia bella e buona.

Alla fine si era coperta il viso con le mani e aveva respirato profondamente. Sentiva che voleva piangere, ma sentiva anche che il pianto non le avrebbe risparmiato quella folle fine.

Dentro la lama di una katana? Che assurdità erano?

E lei e l'Imperatrice erano così simili; la stessa forma degli occhi, le stesse labbra, lo stesso tono di pelle, il colore delle iridi, l'ovale del viso.

 

 

«Hanno... legato le vostre anime... ad una katana», disse Tetsuya, lentamente, scandendo le parole. «Una strega ha fatto questo, è... è assurdo. No, è totalmente fuori dal mondo».

«Ma una cosa del genere, esiste davvero?», sussurrò Sayumi. «Le streghe esistono davvero?».

«Esistono. Ora lo sappiamo per certo», Takeshi si massaggiò il setto nasale fra le dita, chiudendo le palpebre.

«Quando pensavamo che i demoni e i vampiri fossero già roba da non credere. E come se non fosse abbastanza, sei strettamente legata alla vostra Imperatrice», sospirò Sayumi.

Scosse la testa e poi, con dolcezza, presa una mano dell'amica e la strinse. Voleva darle tutto l'affetto di cui era capace, ma... . «Mi dispiace. Questa storia è uno schifo ma tu stai sicura, stai sicura che non ti lasceremo da sola ad affrontarla. Non ti lasciamo nemmeno per un secondo. Mai».

«Yumi... non lo so. Non so se sia la cosa giusta. Più questa vita va avanti, più vengono fuori episodi sconcertanti. Succedono sempre queste cose assurde. Prima Makoto», gli occhi le si fecero lucidi. «poi quel bastardo di Ichiro, dopo vengo spedita come un pacchetto postale a Londra e adesso questo. Io, di questa katana, non so proprio che farmene!».

Si alzò, mettendosi sulle ginocchia; nella mano destra stringeva l'impugnatura e nella sinistra il fodero della spada, come se volesse piegarla in due. La luce calda dell'abatjour accarezzava la guardia bianca e la faceva risplendere lievemente, come il cielo alle prime ore del mattino.

«Io dovrei tenere questa robaccia? Com'era il suo nome?».

«Anima», sussurrò Sayumi.

«Anima, giusto. Ti chiami Anima. Cos'è, una battuta? Ti chiami così perché le nostre anime ci andranno a finire dentro, una volta morte? E poi cosa succede, rimaniamo lì in eterno a vagare, disperate, sole? E mia madre è venuta a dirmi che questo schifo di spada si passa da figlia in figlia. Non prendermi in giro. Mia figlia non avrà questa roba. Questa è solo una tomba».

Tirò le braccia indietro e poi, con violenza, la scagliò in avanti – la spada picchiò contro la parete, producendo un suono morto e poi un tintinnio.

 

Quel tintinnio era solo la lama.

Era solo la lama.

Non erano le anime che si agitavano, all'interno. Non erano loro.

 

Non erano loro.

 

Yuki si buttò sul letto, tappandosi le orecchie con le mani, raggomitolata come un cane bastonato – mentre i suoi amici le stavano vicino.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Era passata una settimana da quella sera.

Sayumi, quella notte, era rimasta a casa dell'albina per starle vicina, e avevano dormito insieme nel letto a baldacchino. Sayumi le aveva stretto la mano, osservando il suo viso, preoccupata.

Aveva avuto il tempo di elaborare e gestire quelle novità, di accettarle e rendersi conto che, ormai, erano fatti a cui lei non poteva porre rimedio. Aveva persino pensato a delle scorciatoie, qualche soluzione; magari avrebbe potuto rompere la spada – scioglierla, tritarla, demolirla – ma poi cosa sarebbe successo alle anime al suo interno?
Quindi, almeno adesso, aveva accettato quella realtà.
Eppure, la sensazione che si fosse svegliata di un secolo in ritardo rispetto a tutte le altre Akawa era vividissima.

 

 

Da quel giorno, aveva fatto dei sogni.

Aveva sognato l'Imperatrice e i suoi lunghi capelli lisci e biondi, aveva sognato una bambina che si faceva chiamare Rujiya e sua madre Kazumi da piccola, davanti ad un camino, mentre ascoltava quella storia con le lacrime agli occhi.
Aveva rivisto quel teatro immerso nel sangue e nelle grida.

 

Madida di sudore, il campanello l'aveva svegliata.

 

Ding dong.

Yuki spalancò gli occhi, come un cervo accecato dai fari. Prima di riuscire a mettere a fuoco il soffitto della stanza le servì qualche minuto, tempo in cui cercò di rendersi conto cos'è che stava succedendo – ah, ecco. Avevano suonato il campanello, giusto.
Il suono era riecheggiato per tutta la residenza come l'ululo di un fantasma, raggiungendo la camera della mezzosangue.

Pigramente, allungò un braccio verso il lato sinistro del letto, alla ricerca del cellulare che la notte prima aveva abbandonato – ricordava di averlo lasciato sotto il cuscino.

Lo agguantò, portandoselo davanti al viso: 06.10.

Le sei. E dieci.

 

Chi è il dannato imbecille che..., di nuovo, il campanello suonò, facendole vibrare le orecchie come se le fosse affianco. Yuki aggrottò la fronte.

Ding dong.

A quell'ora qualcuno doveva pur essere sveglio. Suvvia, non era possibile...

Ding dong.

 

«Li licenzio tutti. Questa è una promessa». Le sue imprecazioni risuonarono quasi più insistentemente di quel dannato campanello mentre si allacciava la vestaglia e scendeva rapida i gradini delle scale.
In qualche secondo, era giunta di fronte all'alta porta a doppia anta. Tossendo, si decise ad aprire, prima di dargli il tempo di suonare nuovamente quell'aggeggio; fuori dalla porta, con sua sorpresa, c'erano una ragazza e un ragazzo, di bell'aspetto.

Un po' troppo, pensò di riflesso lei, la mano appoggiata sulla porta.

 

Faccia a faccia, fu la ragazza sconosciuta a parlare per prima, con un sorriso educato sulle labbra e una voce delicata, «Buongiorno», mentre il ragazzo al suo fianco faceva un inchino, piegando il capo e la schiena.

Yuki, con un diavolo per capello, stava già per mettergli le mani al collo, quando lei infilò le sue nella borsa a tracolla che pendeva al fianco; un attimo dopo ne tirò fuori una lettera imbustata, nera come la pece, e la porse all'albina, senza mancare di sorriderle cordialmente.

«Da parte di suo zio».

«Mio zio? Ah, certo, ora capisco perché mi sento così arrabbiata». Alyon, oh; il solo suono del suo nome era sentore di problemi e fastidi, oltre che di pericolo. Il ragazzo arcuò le labbra, forse per rassicurarla, incitandola ad aprire la lettera. «Su, la apra».

Yuki sospirò e l'afferrò, cominciando ad aprirla con cautela. Poi la lesse ad alta voce:

 

Cara famiglia,

dal nostro ultimo incontro ho potuto, sfortunatamente, verificare la scarsa efficienza domestica della vostra residenza e dal momento che ho molto a cuore il nostro casato voglio regalarvene due davvero esperti. Spero che apprezzerete il mio regalo e che un giorno potremo rivederci in circostanze migliori”.

Alyon Akawa

 

 

 

Suo zio che aveva senso dell'umorismo, non come quel noioso di suo padre. Regalare delle persone, era proprio simpatico.
Sempre più arrabbiata e i nervi che friggevano, strinse la sottile carta fra le dita fino ad accartocciarla e ridurla a una triste e cupa sfera distorta. I due ragazzi non emisero un fiato né smisero di sorridere durante quegli attimi, immobili come statue greche. Quando l'albina si fu infilata la palla di carta in tasca, la ragazza esordì: «Signorina, io sono Juri Ishikiyo e da oggi sarò la sua cameriera personale. Non si faccia nessuno scrupolo e mi affidi qualsiasi compito».

«Mentre io sono Ryuu Tsukino, maggiordomo formato direttamente da suo zio». Lui guardò la sua compagna con l'espressione di chi aveva appena fatto il colpaccio, l'astuzia negli occhi; poi si chinò, appoggiando il ginocchio a terra – prese la mano di Yuki, la sostenne, vi posò le labbra.

E di fronte alla sua espressione perturbata, Ryuu sorrise. «Sarà un piacere servirla».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Juri era bella e piccola di statura, appena un metro e sessantasei; per questo assomigliava molto alle bambole di porcellana che si trovavano nei negozi d'antiquariato, appoggiate sugli scaffali leggermente impolverati.
Aveva lunghi capelli color mogano a percorrerle la schiena, poco più sotto la vita, a terminare con morbidi boccoli; gli occhi erano chiari, di una particolare tonalità che richiamava gli oceani, dalla forma rotonda. Aveva un aspetto e un comportamento da nobildonna; indossava un vestito lungo fino alle ginocchia, di tonalità marrone scuro e bronzo, con una gonna a campana e merletti.

 

«Vi rendete conto che siete stati praticamente... », Yuki aggrottò la fronte, cercando la parola giusta. «... buttati via da Alyon? Una cosa del genere può starvi bene?».

«Certo, signorina. Io e Ryuu siamo suoi e il padrone può far di noi quello che meglio crede».

«Precisamente».

«Voi due siete di sua proprietà?». Ah, ecco, adesso era tutto chiaro: Alyon li aveva resi vampiri e di conseguenza erano soggiogati al suo volere. Quindi, oramai, per loro non aveva più importanza se venivano abbandonati o se venivano sbranati – finché il loro padrone era soddisfatto. Yuki si toccò il mento, pensierosa per un attimo. «Quanti anni avete?».

 

Juri disse di avere ventiquattro anni mentre Ryuu ventisette; il secondo era alto, longilineo e slanciato, i capelli di un biondo scuro e affilati occhi nocciola. Sembrava fosse stato educato fino alla nausea per essere il più elegante e raffinato possibile, in modo da apparire avvenente ma affidabile allo stesso tempo. Il viso ovale era roseo e sorridente, le labbra carnose.

 

La mezzosangue aveva deciso, per lo meno, di farli entrare e parlare con calma. Il duo si era seduto sulle poltrone del salottino davanti al sottoscala, sotto esortazione di Yuki, ed erano composti e immobili come stalattiti in attesa.
Allora, a disagio, Yuki aveva svegliato il resto della famiglia – guadagnando qualche occhiataccia – e li aveva condotti nel salone all'ingresso, spiegandogli brevemente la situazione.
«Mi fanno un po' impressione», aveva detto al padre, allungandosi per riferirglielo all'orecchio. «Sembrano delle bambole. Questi ci pugnaleranno al petto».

«A me preoccupa che sia stato Alyon a mandarli qui», aveva ribattuto Oseroth, con i capelli spettinati – ovvero, con un ciuffo bianco che cadeva sulla fronte. Poi aveva guardato la moglie con un sospiro. «Ti viene in mente qualcosa?».

Kazumi, sospirando, scosse la testa. «No, non mi viene in mente niente di particolare. Lui non è più», sembrò indugiare, le mascella serrata. «il ragazzo che conoscevo tempo fa». Ai aveva stretto la mano della madre con dolcezza, rivolgendole uno sguardo preoccupato, e Kazumi le aveva carezzato i capelli amabilmente.

«Mi dispiace, Kazumi», Oseroth le fece un piccolo sorriso e poi tornò a guardare la coppia vampirica, che frattanto non si era scomposta di un centimetro, immobili al loro posto sui divanetti. Di tanto in tanto guardavano verso gli Akawa, sorridenti, e poi tornavano a fissare il pulviscolo nell'aria mattutina.

«Stando alla lettera», disse Yuki. «Questo regalo è pensato per riallacciare i rapporti. Certo, non ispira molta fiducia dopo l'ultima visita».

«Probabilmente avevi ragione quella volta; sta passando un brutto momento ed è tornato da noi».

«Dev'esserci qualcos'altro sotto. E se volesse puntare al Consiglio?».

«Intendi... distruggerlo?».

«Potrebbe essere una possibilità».

 

D'altronde, era stato il Consiglio ad imprigionare Alyon Akawa, quando ormai era divenuta una bestia incontrollabile.

Le labbra di Oseroth si piegarono in un sorriso mentre si inclinava un po' verso la figlia. L'albina, in via del tutto eccezionale, ricambiò il suo sorriso, sfumato d'intesa. «Qualunque sia il suo obiettivo, tuttavia... », cominciò il demone.

«... non gli permetteremo di mettere piede in questa casa», concluse la mezzosangue.

Oseroth annuì. Dietro di loro, tra una risatina e l'altra, Kazumi e Ai stavano parlando di qualcosa di non molto chiaro; padre e figlia si chiedevano cos'avessero da ridere in un momento tanto cruciale come quello e si voltarono, allo stesso tempo, ponendo loro la stessa domanda con lo stesso tono di voce.
La risata di Ai si fece più fragorosa mentre lo sguardo di Kazumi addolcito.

«Stavamo solo dicendo che siete proprio uguali, voi due».

 

 

 

 

 

 

NOTA:
… beh, wow. È passata una vita dall'ultimo capitolo. Credo... addirittura un mese?
Per questo motivo mi sembrava giusto scrivere una nota di fine capitolo. DUNQUE, SALVE. È trascorso un sacco di tempo dall'ultima volta, nonostante il capitolo fosse pronto fin dall'inizio, ma tra vacanze turbolente e la ripresa con la scuola... anf.
Per quanto riguarda ciò che è successo in Vampire Devil, beh, credo sia palese che ormai la situazione è parecchio controversa. Specialmente per Yuki e Ai.

Detto questo, spero vivamente che vi sia piaciuto e che continuerete a seguire fino alla fine! Bye ~

   
 
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