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Autore: StarkLabs    19/01/2019    1 recensioni
Sherlock è malato, e solo una cosa può aiutarlo.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sposami Watson

Sono passati diversi giorni da quando io e il mio amico Sherlock Holmes abbiamo risolto il caso del segno dei quattro, un mese per essere preciso. Nell’arco di tutto questo tempo, io e Mary, abbiamo continuato a frequentarci, giungendo alla felice conclusione di unirci in matrimonio. Conscio della mia decisione e delle conseguenze che avrebbe comportato, mi reco a Baker Street, con il preciso intento di comunicare la notizia a Sherlock Holmes. Durante la passeggiata che mi separa dalla quasi mia ex casa, penso alle giuste parole da usare, conscio dell’avversione del mio amico per il genere femminile. Nella mia testa le parole sono chiare, ma è il cuore che mi spinge a cambiarle di volta in volta. Voglio davvero che comprenda la mia decisione, che la capisca, per questo banale motivo torturo il mio cervello fino al portone del 221B. Con la mano sulla maniglia esito per un istante, mi volto a guardare la strada, una carrozza passa veloce e le persone continuano il loro trasandato cammino. Tutto normale in questa via, come al solito, così preso da un moto di coraggio entro, saluto la nostra padrona di casa e salgo gli scalini che mi separano dal nostro -ormai famoso- alloggio. Uno per uno, li calpesto con una lentezza esasperante, quasi fossi un cliente timoroso, venuto a chiedere aiuto al famigerato consulente. Superati tutti entro nella stanza, senza titubanze ma una volta dentro rimango folgorato nuovamente, da quella sensazione di profondo disagio. Fermo sulla soglia osservo la figura longilinea del mio amico, seduto sulla poltrona con le gambe stese in tutta la loro lunghezza, le mani sotto il mento e gli occhi chiusi, perso in chissà quale elucubrazione. Penso, con una vena di sollievo che è impegnato alla soluzione di un caso, e che per questo motivo non può darmi ascolto. Ma i miei sfarfallii mentali vengono interrotti dalla sua voce “Watson, su coraggio non rimanga lì in piedi” sussulto e con titubanza tolgo cappello e soprabito, posandoli sull’appendi abiti. Tiene gli occhi ancora chiusi mentre lentamente mi avvicino a lui, prendo posto sulla mia poltrona e vengo avvolto dal calore del camino acceso. Questa sensazione mi rassicura, sorrido lievemente poi prendo parola, deciso a richiamare l’attenzione del mio compagno “Holmes”, apre gli occhi grigi e penetranti si posano su di me, e ancora una volta il coraggio viene meno. Ripiega le gambe ora, mettendosi in una posizione più composta “cosa la turba mio caro amico?” Sposto la schiena all’indietro, facendola aderire perfettamente allo schienale della poltrona “come sa che sono turbato?” chiedo, ma solo per prendere tempo “Watson il suo atteggiamento parla da solo, non ha bisogno di alcuna spiegazione” mi liquida freddo. Il suo desiderio di sapere e conoscere, alle volte ha la meglio sull’umana comprensione di chi si trova in una situazione di difficoltà. Molte persone lo etichettano come insensibile e dopo un’uscita simile, se non lo conoscessi bene come lo conosco, avrei fatto anche io lo stesso errore. Arrivare ai fatti, senza troppi giri di parole, è per lui il modo migliore di aiutare qualcuno che si trova in difficoltà. Lo sguardo duro, la mascella serrata denotano quanto sia desideroso di penetrare i miei pensieri, sono certo che se non si trattasse di me lo avrebbe già fatto. Ma una sorta di rispetto nei miei confronti, lo spinge a rimanere in silenzio, lasciando a me il compito di esprimere il turbinio di parole che ho in testa. Il ceppo di legno nel camino continua a scoppiettare, e tra tutte le parole decido di usare le più semplici “Holmes, io e Mary abbiamo deciso di sposarci.” Nessuna reazione da parte sua, tranne un velo di delusione che ha adombrato, per un istante, i suoi occhi “era ciò che temevo*”, dice. “Non posso davvero congratularmi con lei*.” La sua voce atona mi ha colpito in un modo che non credevo possibile, eppure ero conscio che la sua reazione non sarebbe stata di gioia e felicità. “Suvvia Watson, non ci rimanga male, sa bene cosa penso dei matrimoni e dell’amore” dice riacquisendo un po’ di tono, “tra noi due è lei il genio, quale danno potrebbe causare a me il matrimonio?”, chiedo senza celare l’amarezza che provo. Si alza dalla poltrona, con l’espressione più triste che gli abbia mai visto in volto, “non ho mai detto che il danno sarebbe stato suo.” Lo seguo, raggiungendolo al centro della stanza, “cosa vuole dire con questo Holmes? Pensa forse che io sia indegno di Mary, che lei abbia commesso un errore ad accettare di sposarmi?” non so cosa mi ha spinto a domandargli questo, ma la sua opinione conta per me, più di tutte le altre. Sorride tirando un angolo della bocca, un sorriso che più che felicità esprime compassione, mi posa una mano sulla spalla ed io sussulto, “mio caro Watson, lei è troppo duro con se stesso. La signorina Morstan è la donna più fortunata che mi sia capitato di conoscere, non avrebbe potuto scegliere marito migliore di lei, Watson mi creda.” Questa sua improvvisa esternazione di tenerezza, che mai gli ho visto usare nei miei confronti, mi riempie il cuore di un sentimento unico, difficile da spiegare a parole “mio caro Holmes, io, io la ringrazio.” Non ho mai creduto che di me, avesse una così alta considerazione. Ma il sipario di questa tenera conversazione si chiude presto, sposto lo sguardo sulla mano che tiene lungo il fianco, e lo vedo. Il mio compagno nota il cambiamento di espressione sul mio volto, si allontana da me dandomi le spalle “Watson lei ha guadagnato una moglie, e a me resta la cocaina, lo trovo un giusto compromesso”, dice ridacchiando. La mascella mi si contrae talmente tanto, che quasi ho timore che mi saltino via tutti i denti, stringo i pugni e le nocche mi si sbiancano tanta è la forza che sto usando. Ho creduto fino a questo momento che quell’orribile vizio lo avesse accantonato, ma mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo. “Holmes ha voglia di scherzare!”, esclamo irato “perché non si trova un altro hobby? La cocaina finirà per ucciderla” spero di convincerlo con queste parole severe, con il tempo ho creduto di avere stimolato un certo ascendente sul mio compagno, ma forse anche questo era solo un desiderio, prodotto dalla mia mente a detta di Holmes fin troppo romantica. Rimane voltato verso la finestra, come se la mia frase non gli fosse giunta alle orecchie “non sarà la cocaina ad uccidermi”, il suo è un mormorio talmente basso, che fatico quasi a comprendere. Ma rimbomba talmente forte nella mia cassa toracica, che tutto il mio corpo ne subisce le conseguenze, sento la bile salire quasi fino alla gola e il mio volto viene deformato da una smorfia di rabbia. “Per una volta, può essere serio quando parla della sua vita?” sibilo con la voce arrochita dall’emozione, “non tema Watson, io sono serissimo”, dice voltandosi, con dipinto sul volto quel sorriso ironico che in questo momento fatico a non detestare. Viene verso di me, il pavimento cigola sotto i suoi piedi in un punto, poi cambia direzione e torna a sedersi sulla sua vecchia, sgualcita poltrona, “chiami la signora Hudson e ci faccia portare un tè” mi ordina ma questa volta non sono disposto a dargli ascolto. Sono tre anni che viviamo insieme, e per i primi tempi non osavo dire nulla circa le sue insane abitudini, perché ritenevo di non aver alcun diritto. Con il passare dei mesi, la nostra amicizia si è inevitabilmente consolidata, allora ho incominciato a fargli notare piccole cose, giusto per non irritarlo troppo, quando si irrita diventa più intrattabile del solito. “Holmes io ho il dovere come medico, e soprattutto come suo amico di non far passare questa cosa”, sbuffa fumo dalla pipa appena accesa “ah e come intende farlo?” mi canzona. Ma non mi lascia il tempo di rispondere, che si alza dalla poltrona e con due lunghe falcate già mi fronteggia, “perché ha deciso di impuntarsi proprio ora?” domanda a bruciapelo. Alzo le sopracciglia sbigottito, il suo tono severo unito alla sua figura, mi fa sentire sovrastato “ci tengo alla sua salute Holmes, e tengo a lei!” esclamo stringendo i pugni. I suoi occhi brillano per un momento, il suo corpo cede al complimento, per poi tornare rigido, con le sopracciglia corrucciate e lo sguardo serio. Non temo questo suo atteggiamento e continuo a parlare, sperando che per una volta le mie parole facciano davvero effetto. “Il suo lavoro è inseguire i criminali, rischia la vita, e su questo non ho alcun potere. Non mi piace l’idea che qualcuno, un giorno, possa farle del male, a maggior ragione se è lei questo qualcuno. Quindi la prego, almeno sulla salute mi dia ascolto, segua i miei consigli ed abbandoni quella roba.” Esprimo tutto il mio sentire, la voce è morbida e rassicurante, perché non voglio che si senta accusato, so che in questo caso si metterebbe subito sulla difensiva. Apre le labbra per dire qualcosa, ma viene interrotto dalla nostra governate, che entra bussando, con un vassoio in mano, come se avesse letto Holmes nel pensiero. “Vi ho portato il tè” esclama con voce acuta, ci giriamo entrambi verso di lei, ma è il mio compagno a prendere malamente parola “non lo abbiamo chiesto!” il suo tono è altro, grave, come se la stesse accusando di qualche cosa. La signora sussulta turbata da quell’improvviso scatto d’ira, Holmes sembra rendersi conto di ciò che ha fatto, ma non dice nulla, si limita ad abbassare lo sguardo e stringere i pugni. Pochi istanti passano che il mio amico si girà verso di me, puntandomi il dito contro “per quanto riguarda lei, non ha di che preoccuparsi. Mi hanno già fatto del male e non se ne è nemmeno reso conto”, mi urla contro queste parole, per poi dirigersi a passo spedito verso camera sua, entra e chiude la porta sbattendola sonoramente. Rimango per un attimo immobile, a fissare quella porta chiusa, poi mi giro, scorgo la figura esile della padrona di casa impalata sul posto, con ancora il vassoio tra le mani. “S-signora Hudson” mi affretto a dire, ma lei mi interrompe meno sconvolta di quanto pensassi, “oggi è di cattivo umore ancora più del solito. Non avrete mica litigato?”, chiede come una madre comprensiva farebbe con i due suoi figli. Ma non mi da il tempo di rispondere che posa il vassoio sul tavolo, si avvicina a me, e con la sua esile mano mi stringe il braccio, “mi dia retta dottore, spero che non mi riterrà inopportuna, ma dopo tre anni spero un minimo di confidenza di averla acquisita”, le sorrido invitandola a proseguire il suo discorso. “Quello che tengo a dirle, è di non perdere troppo tempo a discutere con quell’uomo, è testardo e quando si mette in testa una cosa, nulla può fargli cambiare idea.” Momenti come questo mi sono più che di conforto, ammetto che sapere di avere una persona come lei al mio fianco, che più di una governante è come una madre, infonde sollievo a un uomo come me, vigoroso quando serve, ma anche profondamente sensibile. Non è facile per me fare questa ammissione, mi sono sempre definito un uomo dalla corazza impenetrabile, pronto a portare il peso del mondo sulle proprie spalle, ma sarebbe sciocco da parte mia, nascondere quei lati della mia persona, che caratterizzano il romanticismo con cui scrivo i miei racconti. Sorrido ampiamente, stringo la gracile mano della padrona di casa nella mia, “grazie signora Hudson. Farò tesoro del suo consiglio” ricambia il sorriso e dandomi una pacca sulla spalla esce dalla stanza. Rimango solo con i miei pensieri, decido di sedermi sulla poltrona, accanto al camino, in modo da essere qui quando il mio amico deciderà di uscire. Il tempo scorre veloce, la notte fa presto ad arrivare, così come il giorno. Devo essermi addormentato, perché mi sveglio tutto intorpidito, con le ossa che fanno male, causa la posizione scomoda. Apro gli occhi, stringendoli immediatamente a due fessure per via della rara luce del sole, che li punzecchia. Li sfrego con le dita, poi con una mano, massaggio il collo dolorante in cerca di sollievo. Un sonoro sbadiglio accompagna lo stretching delle braccia, ed è in quell’istante che mi rendo conto di avere una coperta sopra, certamente ricordo di non aver adoperato nulla del genere il giorno prima. Mi guardo intorno un po’ spaesato, ma subito il pensiero della coperta viene sostituito da uno più importante, il motivo per cui mi sono piazzato qui senza intenzione di muovermi. Holmes, penso e di scatto mi alzo, abbandonando la morbida coperta sullo scomodo giaciglio, mi avvicino alla porta di camera sua, ora semi aperta. Busso e chiamo il nome del mio compagno, ma nessuna risposta mi giunge, così mi giro e noto che cappotto e cappello sono spariti, deduco deve essere uscito. Un sospiro di sconforto lascia le mie labbra, devo attendere ancora prima di poter parlare con Sherlock Holmes. Passa un giorno intero prima di poter ricevere sue notizie, è un pomeriggio piovoso, sono appena rientrato a casa con i vestiti grondanti d’acqua. Faccio in tempo a cambiarmi che un tipetto, basso e con il viso bitorzoluto mi recapita un biglietto. Se ne va presto, senza concedermi il tempo per una spiegazione, in me nasce un misto di paura e curiosità, apro quel bigliettino umido e mi affretto a leggere. Il mio compagno è il mittente, mi avvisa che resterà lontano da casa per qualche tempo, sta seguendo una pista e non vuole perderla. Sono abituato a ricevere biglietti del genere, è già capitato in passato, che non mi coinvolgesse in una delle sue ricerche. Ma questa volta è diverso, sono deluso e non so spiegarmi questa sensazione, forse speravo che ci saremmo seduti, l’uno di fronte all’altro per parlare, questa volta in maniera seria. O forse è perché una vocina nella mia testa, continua a ripetermi che se ne è andato proprio per non discutere con me, non mi ha coinvolto proprio per timore che riaprissi il discorso. Metto le mani fra i capelli, sfregandoli con forza, mi sta scoppiando la testa a furia di pensare, accartoccio quel biglietto e in un moto di rabbia lo getto nel fuoco. Mi siedo malamente sulla poltrona, a gambe aperte, nella posizione più disordinata che riesco a trovare, con una mano mi stropiccio il viso, quasi per cancellare via la frustrazione, ma quello che ottengo è solo un viso arrossato. Sono stanco, emotivamente intendo, sbuffo una boccata di fumo, sono indeciso se bere o andare a farmi un giro in un pub. Andare da Mary non se ne parla, si preoccuperebbe a vedermi in queste condizioni e a dir la verità, non saprei nemmeno che spiegazioni darle a riguardo. Decido di andare a dormire, mi butto sul letto con ancora i vestiti addosso, le lenzuola profumano di pulito e danno sollievo alle mie tempie, che stanno battendo dolorosamente. Il mattino seguente mi alzo, prima del solito, la colazione non è ancora pronta e forse è meglio così, perché non ho proprio fame. Butto un’occhiata verso la sua porta, è esattamente come l’avevo lasciata il giorno prima, quindi non è tornato. Decido comunque di tentare, mi avvicino cautamente, porto una mano alla maniglia e una alla fessura tra la porta e la stanza, “Holmes” chiamo, ma niente, appoggio la testa sulla porta, chiudo gli occhi e sospiro. Poi mi appoggio completamente ad essa, si chiude spinta dal mio peso, alzo lo sguardo in alto e sento di nuovo la delusione crescermi dentro. Ho preso una decisione, non è nemmeno troppo avventata, in fondo io e Mary ci sposeremo presto, e lo avrei fatto comunque. Inizio a radunare tutta la mia roba, i vestiti, i libri, soffermandomi ogni tanto su qualche oggetto che mi fa nascere un sorriso. Sono tutti ricordi, alcuni della mia vita prima del 221B, e altri delle avventure che ho condiviso con il mio amico. Sono passate diverse ore da quando ho iniziato a raccogliere tutto, ho chiesto alla signora Hudson di non far salire nessuno, e di venire su lei solo per l’ora del tè, infatti eccola che arriva. Conto i suoi passi, prevedendo l’esatto momento in cui poserà il piede sullo scalino che scricchiola, sorrido a sentire quel cigolio. Me lo ha fatto notare il mio compagno, un giorno di particolare calma, in cui eravamo seduti qui e stavamo aspettando il tè, proprio come oggi. Un inaspettato magone mi stringe la gola, mi sfrego gli occhi e mi alzo in piedi “signora Hudson”, lei alza il viso su di me, prima però lo fa ruotare intorno alla stanza in subbuglio. “Dottore” inizia, penso vuole domandarmi del disordine, ma sbaglio, “lei ha gli occhi lucidi dottore, è sicuro di sentirsi bene?”, domanda inclinando la testa da un lato. Vengo colpito nuovamente da quella sensazione alla gola, mi mordo le labbra per cercare di nascondere ciò che provo, prendo il vassoio dalle sue mani sfiorandogliele, la guardo negli occhi, esito un momento prima di parlare, perché so che anche a lei dispiacerà. “Signora Hudson io, io mi trasferisco”, dico con voce bassa e roca, si porta una mano alla bocca “oh cielo!”, esclama con una vena di stupore e preoccupazione. Sono sicuro che ha interpretato male ciò che ho detto, pensa che il mio trasloco sia causato dalla discussione con Sherlock, così mi affretto a spiegare come stanno le cose. La faccio accomodare sul divanetto e mi siedo a fianco, le ho chiesto se le andava di prendere il tè insieme, e lei ha acconsentito. “Io e Mary ci uniremo in matrimonio, è per questo motivo che lascio questa casa”, ma nemmeno da lei ottengo la reazione desiderata. Un’ombra di tristezza vela i suoi occhi, facendoli sembrare ancora più piccoli del solito. “Povero caro”, sussurra a bassa voce, ma dalla sua espressione e dallo sguardo che mi rivolge, capisco che non avrebbe voluto dirlo ad alta voce, vedendo la mia espressione cerca di recuperare “oh non mi stia a sentire, sono solo una povera vecchia che a volte non sa quel che dice.” La osservo incuriosito, noto la sua risatina nervosa e come si tortura le mani, mi avvicino poco più a lei, le prendo le mani e le stringo nelle mie, “signora Hudson so che lei è una persona rispettabile, la prego di non nascondermi qualcosa che dovrei sapere.” Non ho intenzione di obbligarla a parlare, però tentare non mi costa nulla, soprattutto se è una cosa che riguarda me. Lei sposta lo sguardo di lato, poi mi fissa e in uno scatto toglie le mani dalle mie “senta dottor Watson, cerco di tenere il naso fuori dagli affari che non mi riguardano, e comunque non mi riferivo nemmeno a lei” dice quest’ultima frase guardando altrove. Intervengo io più curioso che mai “e allora a chi si riferiva con quell’affermazione?”, il suo sguardo si addolcisce “a Sherlock Holmes”, il mio cuore sussulta a sentire quel nome, spalanco gli occhi per la sorpresa. “Perché dovrebbe preoccuparsi per lui?” chiedo, lei sospira “perché lui è” esclama di getto per poi rallentare “lui tiene molto a lei dottore, e ritrovarsi di nuovo solo”, lascia nuovamente la frase a metà “Dio chissà cosa combinerà, mi sfascerà la casa” dice scuotendo la testa. Una risata esce spontanea “ma no, stia serena, non farà più danni del solito”, le mie parole non sortiscono l’effetto sperato. Le mani congiunte tra loro, il viso pallido segnato da un’emozione molto forte, continua a scuotere la testa, “la prego mi prometta che verrà qui il più possibile, per assicurarsi che stia bene” dice con tono supplichevole, posando una mano sulla mia. L’ilarità che poco prima avevo espresso svanisce immediatamente, vedere la padrona di casa in questo stato mi sconvolge, così decido di rassicurarla il meglio che posso. “Le prometto che verrò il più possibile”, ho compreso dalle sue parole, che a preoccuparla non è tanto il destino dell’alloggio ma quello del mio coinquilino. Annuisce dopo le mie parole, ma il suo viso non è sereno, l’attiro a me, stringendola in un abbraccio “mi mancherà signora Hudson” bisbiglio nel suo orecchio, “oh dottore, mancherà tanto anche a me” stringe più forte le sue esili braccia intorno alle mie spalle. Mentre sciogliamo l’abbraccio, alzo lo sguardo verso la porta e scorgo una figura, il sorriso mi si gela immediatamente sul volto e il cuore è in preda a una tachicardia. Sulla soglia della stanza, Sherlock Holmes, pallido e ancora più magro di qualche giorno fa, “che succe-“ ma non termina la frase, “oh capisco” dice quasi sussurrando. L’accenno di sorriso che aveva prima sparisce di colpo, abbassa lo sguardo che da dietro quelle occhiaie profonde sembra ancora più scuro. “Holmes!” mi alzo in piedi, e subito la padrona di casa fa lo stesso, “vi lascio soli” dice prima di uscire dalla stanza. Il mio compagno deve aver dedotto ciò che sta succedendo dal disordine della stanza, la tensione si taglia con un coltello, “così se ne va” è la sua voce a squarciare il silenzio, provocandomi un sussulto, come se fino a poco prima stessi solo dormendo, e improvvisamente venissi svegliato. Abbasso lo sguardo per poi rialzarlo su di lui, “ho deciso che è meglio farlo subito, non mi aspetto che capisca Holmes. Quello che desidero invece, è che lei capisca, che non smetterò mai di essere suo amico. Sempre se lei gradisce ancora la mia compagnia”, non mi sono mosso di un passo da quando è arrivato, e le labbra tremano mentre dico queste parole. Temo che voglia allontanarmi, e non so se posso immaginare la mia vita senza l’amicizia di Sherlock Holmes, naturalmente rispetterei la sua decisione ma non senza dolore nel cuore. Si toglie cappotto e cappello, li posa sull’appendi abiti ma scivolano a terra, lui nemmeno se ne ha accorge, o finge, i capelli sono umidi e attaccati alla fronte, anche essa madida di sudore. Mi avvicino a lui con il sospetto che non si senta bene, provo a posare una mano sulla fronte ma si scansa, “sto bene dottore. Devo iniziare a cavarmela anche senza di lei, giusto?”, dice con voce roca senza nemmeno guardarmi. Lo afferro per un braccio “Holmes lei non sta bene, deve mettersi a letto”, si scosta dalla mia presa, sbuffa “queste mi mancheranno”, lo guardo confuso “le sue constatazioni di ciò che è ovvio” mi liquida con una scrollata di spalle. Stringo i pugni ferito e offeso, so che non dovrei sentirmi così, ma alla vigilia della mia partenza mi aspettavo chissà, forse un po’ più di calore. “Mi vuole dire almeno dove è stato?” sbotto, lui si gira verso di me e con una smorfia di rabbia dice “da questo momento non è più affar suo!”, una freccia in pieno petto avrebbe fatto meno male. Lo osservo barcollare, si mette una mano sulla fronte poi mi guarda con occhi lucidi, “non posso più rivelarle i dettagli dei miei casi, non ora che ha deciso di avere una vita normale”, deglutisco e tengo le labbra serrate, voglio dire qualcosa, ma quello che ho in mente è terribilmente inopportuno. “Tornerò domani per accertarmi che si senta meglio, ora si metta a dormire”, le parole escono flebili, non mi fermo nemmeno per sentire la sua risposta, a dir la verità non so neanche se mi ascolterà. Esco di casa, con il cuore più pesante di quanto dovrebbe essere, ho deciso di dormire nell’appartamento che ho acquistato per me e la mia futura sposa, meglio che inizio già da ora ad abituarmi alla nuova vita che mi attende. È una serata ventosa, infilo la chiave dentro la toppa ed entro, il buio mi accoglie, è già ammobiliata, mancano solo i nostri effetti personali. Sento le membra affaticate, mi lascio cadere a peso morto sul letto, fisso il muro in attesa di qualche risposta, a chissà quale domanda, le braccia abbandonate lungo il corpo e il pensiero che vola libero. L’espressione ferita del mio compagno impedisce al sonno di palesarsi, dopo l’ennesimo sospiro, mi volto di lato, “deve pur esserci qualcosa”, mormoro a voce bassa. Sì qualcosa, che mi impedisca di sentirmi così male, che offra una soluzione al comportamento del mio amico, e che mi faccia rendere conto di quanto infantile sia il suo atteggiamento. È inutile pensare mi dico, e dopo essermi rigirato per la quinta volta nel letto, decido di alzarmi per un bicchiere d’acqua, non che abbia sete, però è l’unico modo per distrarmi e dare pace alla mia testa. Scendo le scale e quando un lampo squarcia l’oscurità della sala, un urlo agghiacciante scuote le mie corde vocali. Indietreggio inciampando sui gradini, finisco a sedere su uno di essi, poi con l’adrenalina in corpo, causa il tremendo spavento, mi affretto a fare luce. Il cuore è ha mille e la pistola non so nemmeno dove sia, sono sicuro essere una faccia quella che ho visto. Bianca e scavata, se non fossi dedito alla razionalità, quella di un fantasma non sarebbe una cattiva ipotesi. Ma è la luce a far chiarezza su quel mistero, la paura lascia immediatamente il posto alla preoccupazione. Al centro del salotto, in piedi, fradicio dalla punta dei capelli fino alla suola delle scarpe, gronda acqua dal cappello e persino i suoi lineamenti aquilini sono gocciolanti. Rimango per un istante immobile a fissarlo, come se mi avessero trasformato in una statua di pietra, poi scosso da un impeto di lucidità, mi affretto ad avvicinarmi al lui. “Holmes per amor del cielo!” esclamo sconvolto, gli poso una mano sulla fronte, che come avevo immaginato brucia quasi fosse stata scaldata da una candela. Rimane muto, soltanto mi fissa con quello sguardo lucido e vacuo, osserva ogni mio movimento, con il corpo scosso da fremiti febbrili. Mi affretto ad accendere il fuoco, posiziono una sedia lì di fianco, poi trascino delicatamente il mio amico, facendolo sedere accanto al camino. Gli poso una mano sulla spalla, chinandomi leggermente verso di lui, che alza debolmente lo sguardo su di me “vado a prenderle dei vestiti asciutti, intanto stia qui accanto al fuoco, vedrà che si sentirà meglio”, dico sorridendo. Cerco di rassicurarlo, quando in realtà vorrei solo piangere, brucia di febbre e qualcosa lo ha spinto fino a qui nel cuore della notte, non posso fare a meno di sentirmi in colpa, sarei dovuto rimanere con lui almeno per accertarmi delle sue reali condizioni. Fortunatamente ho portato un cambio per l’indomani, lo afferro di fretta, mi volto per tornare di corsa al piano di sotto, ma i vestiti mi cadono di mano per la sorpresa. Sherlock Holmes in piedi di fronte a me, questa volta sembra più lucido, le gote arrossate e la bocca semi aperta. Si avvicina e mi posa una mano sulla guancia, rabbrividisco al contatto con la sua pelle fredda, ma subito dopo, la zona sotto la sua mano diventa calda. Incatena lo sguardo al mio, io non riesco a fare un passo, apre le labbra per dire qualcosa e quello che esce è come una doccia fredda, “sposami Watson”. Queste le sue parole, dette con voce tremante “accetti di sposarmi, e le prometto che questa è l’ultima follia che le chiederò di fare” il viso mi si accende per l’imbarazzo, “Holmes lei, lei non sa quello che dice”, mi affretto a dire prima che la situazione precipiti. “Mi sposi Watson” continua a dire, spostando lo sguardo dalle mie labbra ai miei occhi. “Holmes!” lo afferro per le spalle, “lei brucia per la febbre, sta delirando” lui scuote la testa, gli occhi si fanno a due fessure, piccole gocce d’acqua scivolano dai suoi capelli “no, no mi creda non sono mai stato più lucido di così.” Sospiro rumorosamente, abbasso lo sguardo sulle sue labbra, pallide e umide, scuoto nervosamente la testa e stringo poco di più le sue spalle, non posso permettere che rimanga un attimo di più in queste condizioni. “Adesso lei deve cambiarsi, si metta questi vestiti asciutti o rischia di ammalarsi gravemente” lo guardo dritto negli occhi, la voce ferma, ma lui non sembra convinto. Mi fa male il cuore a vederlo in queste condizioni, così debole e privo di difese, accenno un sorriso “vada a cambiarsi Holmes, le prometto che dopo parleremo.” Il mio compagno dopo un attimo di esitazione, annuisce debolmente e facendo scivolare la sua mano via dalla mia guancia, entra nella stanza che gli ho indicato, con i vestiti asciutti. Appena la porta si chiude alle sue spalle, mi siedo sul letto, anzi mi lascio cadere, le braccia puntellate con i gomiti sulle gambe e il volto fra le mani, sospiro cercando di fare meno rumore possibile. Non voglio che si renda conto del turbamento che le sue parole mi hanno causato, sono confuso, perché poi mi chiedo, lui sta solo delirando, probabilmente dopo che la febbre sarà passata, non si ricorderà nemmeno più di ciò che è accaduto. Torturo il labbro inferiore con i denti, lo sguardo basso e il cuore che non mi dà pace, continua a battere furiosamente, nonostante la consapevolezza della diagnosi una parte di me, sembra quasi voglia che non succeda. Una parte di me, piccola ma rumorosa, si rifiuta di pensare che lui possa dimenticarsi di tutto, perché se ciò dovesse accadere, io non sarei più lo stesso, credo. Ma un filo di luce, proveniente dalla porta che si apre, interrompe il flusso dei miei pensieri, Holmes con i miei abiti addosso, barcolla e si appoggia allo stipite della porta. Mi affretto a raggiungerlo, lui non dice nulla, si lascia guidare fino al letto, lo faccio stendere e gli rimbocco le coperte. Credo si sia addormentato, così faccio per uscire quando una mano afferra il mio polso, mi giro e vedo gli occhi languidi di Holmes che mi fissano. “La prego Watson, resti” deglutisco e con le labbra semi aperte, mi accomodo sulla sedia accanto al letto, annuisco “d’accordo, ma lei deve riposare” aggiungo. Per tutta la notte sono stato sveglio, a fare impacchi freddi ad Holmes, gli ho posato non so quante volte lo straccio bagnato sulla fronte. Nemmeno il tempo di posarlo sulla sua pelle, che subito diventava bollente, lui nemmeno si è svegliato, ma tremava e sussultava a ogni contatto con lo straccio bagnato. È mattino presto ora, esco lasciando il mio compagno ancora assopito, prendo alla svelta le medicine e faccio ritorno a casa. Salgo in camera, e lo trovo seduto con i cuscini dietro la schiena, “Holmes lei non deve per nessuna ragione prendere freddo” prendo una coperta dall’armadio, sotto la sua espressione febbricitante che segue i miei movimenti, e gliela avvolgo intorno alle spalle. Sorride il mio compagno “grazie dottore” il mio cuore fa una capriola, arrossisco violentemente e mi giro dall’altra parte per evitare che lo noti, “le preparo le medicine e lei le prenderà senza fare storie” dico.  Preparo tutto ciò che mi serve per visitarlo e controllare i suoi sintomi, anche se mi sembra solo influenza, “le ho portato la colazione, mangi e dopo prenderà le medicine. Per l’ora di pranzo verrà la signora Hudson a preparare qualcosa” dico sistemandomi accanto a lui. Stranamente obbedisce senza fiatare, di solito quando lo intimavo di nutrirsi, faceva sempre un sacco di storie, ora invece sembra un bambino ubbidiente. Devo fare tesoro di questo momento perché non appena sarà guarito, tornerà il petulante consulente investigativo di sempre, irritante e pronto ad avere sempre l’ultima parola. Lo guardo mangiare e un sorriso compare sul mio volto, finisce in fretta ed io gli do subito le medicine, anche quelle vengono buttate giù senza discussione. Lo libero dal piatto che è posto sul suo grembo, mi siedo nuovamente sul letto accanto a lui, poso una mano sulla fronte che ancora scotta, “come si sente Holmes?” domando. Ho bisogno che mi dica tutto, qualsiasi cosa fuori posto, è già capitato che qualcosa di peggio venisse scambiato per banale influenza, e non voglio che accada al mio amico. Incatena i suoi occhi ai miei, sono così lucidi che mi ritrovo a pensare quanto siano belli, due pozze nere nelle quali lasciarsi affondare. “Ho freddo dottore” tossisce “e sento un dolore così forte, che quasi mi manca il respiro”, sgrano gli occhi a queste parole “dove le fa male Holmes? Me lo dica” esclamo, cercando di non fagli capire il panico che mi ha colto, ma la voce mi tradisce. Lui sposta il braccio che era appoggiato sulle coperte, si posa la mano sul petto, proprio nel lato del cuore, “qui mi fa male” dice con voce roca. Ed è il mio di cuore, a perdere un battito “il cuore Holmes?”, annuisce e socchiude le labbra per dire qualcosa, ma un altro colpo di tosse lo scuote. Recupera presto e riprende ciò che voleva dire, “è da quando lei se ne è andato, che non smette di dolermi” impallidisco di botto, dischiudo le labbra e le mie pupille si fanno a due puntini. Poso entrambe le mani sulle spalle del mio compagno, “Holmes non si preoccupi risolveremo tutto, dobbiamo chiamare un esperto. Perché non è andato subito da un dottore!” esclamo. Lui mi guarda confuso “lei è un dottore”, io scuoto la testa “intendo un cardiologo”, faccio per alzarmi “vado a…” ma sento afferrarmi per la manica, “è lei il mio dottore John l’unico che può guarirmi”, mi dice con voce arrochita e debole. Vengo scosso da un fremito, e gli occhi mi si riempiono di lacrime “fino a qualche giorno fa sosteneva il contrario” mormoro con voce commossa e tremante. Mi riscuoto velocemente da quel momento di debolezza, “comunque dobbiamo chiamare qualcuno, il cuore non è il mio campo” abbassa lo sguardo il mio compagno, un respiro di sconforto lascia le sue labbra. “Devo dissentire, questo è esattamente il suo campo” mi dice alzando lo sguardo su di me, poi lascia la mia manica e prova ad alzarsi “Holmes” cerco di fermarlo, ma lui scansa le mie braccia e debolmente si mette in piedi. “Voglio solo dimostrarle che ho ragione”, abbasso lo sguardo accigliato, “come al solito” borbotto con l’amaro in bocca e stringendo i pugni. In due passi, si posiziona di fronte a me, prende la mia mano e la posiziona sul suo petto, io sussulto e alzo la testa di scatto, guardo la mano, poi lui, in attesa di sapere quali sono le sue intenzioni. “Sente come batte?”, mi domanda con voce profonda, effettivamente la velocità delle pulsazioni è fuori dal normale, deglutisco “davvero molto veloce Holmes, troppo direi”, sorride tirando un angolo della bocca. Continuiamo a guardarci, le orecchie mi fischiano terribilmente, mi sento disorientato, “ora vediamo cosa succede se faccio questo” dice dolcemente, avvicinando il suo viso al mio. Il fiato mi si blocca in gola, lo vedo dischiudere leggermente le labbra e avvicinarsi a me, sono paralizzato, e la verità è che non ho alcuna intenzione di muovermi. Socchiudo gli occhi, lascio che posi le labbra sulle mie, sono calde e la lieve barba di qualche giorno, mi punzecchia e nello stesso tempo fa contrasto con i miei baffi. Le nostre labbra si muovono delicatamente, piano, in un movimento impercettibile, il mio cuore accelera, porto attenzione alla mia mano, ancora appoggiata al petto di Holmes, sento il suo cuore moderare i battiti, lentamente rallentare. È strano penso, abbiamo avuto due reazioni completamente diverse, ci stacchiamo dal bacio, le palpebre mi tremano mentre apro gli occhi, osservo i suoi ancora chiusi. Un sorriso nasce sul suo volto, “ha sentito dottore? Come dicevo, lei è la mia unica cura” sussurra aprendo piano gli occhi. Mi schiarisco la voce, sposto lo sguardo imbarazzato, le guance sembra stiano andando a fuoco “p-perché il suo cuore ha rallentato, mentre il mio…” mi fermo per riprendere fiato. Con un cenno del capo lui mi invita a proseguire, ma non ci riesco, mi tremano le mani e la testa è in preda a una tale confusione. Mi sento un idiota, un totale incompetente che pone domande stupide e senza senso, tolgo la mano dal suo petto, e la lascio cadere al mio fianco. Alzo poco lo sguardo su di lui, lo vedo barcollare per un istante, poi posa entrambe le mani sul mio petto, “sa benissimo il motivo qual è, ma si rifiuta di accettarlo Watson” mi dice pacato, io gonfio il petto e lascio andare l’aria con un sospiro. “Il mio cuore si è sentito a casa, mentre il suo ha capito quello che desidera davvero” dice ed io sbuffo in un sorriso “è un po’ presuntuoso da parte sua dire questo” esclamo con vena ironica, nel tentativo di mascherare l’agitazione. Il mio compagno si siede sul letto “lei dimentica con chi sta parlando, mio caro Watson” porto una mano alla nuca, passandola fra i capelli “comunque non possiamo ignorare la situazione in cui si trova” gli dico chiaramente. Il mio compagno non si scompone, punta lo sguardo verso di me “è questa la sua paura dottore? Che passata la febbre io mi dimentichi di tutto?” non rispondo ma il mio sguardo turbato parla da solo. “Io, io non lo so! Non so cosa di questa situazione mi turba di più!” dico questo, mentre mi muovo nervosamente avanti e indietro per la stanza. Mi sento così frustrato, i pensieri scalpitano nella mente e non riesco a fare ordine, poi c’è lui, che mi squadra con quei suo occhi magnetici facendomi sentire debole. Non oso avvicinarmi, perché ho voglia di baciare ancora le sue labbra, passare le dita fra i suoi capelli, fare tutto ciò che non ho fatto prima perché preso alla sprovvista. So che lo farei, senza esitazione, se mi avvicinassi troppo. Cerco di trovare una scappatoia, almeno per rimandare l’evolversi di quella situazione, che avanza come un treno in corsa. “Lei adesso deve riposare” provo a dire sperando che mi dia retta, annuisce ed io sospiro di sollievo “ah! Un’ ultima cosa Watson” ferma il mio cammino verso la porta. Lo stomaco si stringe in una morsa, mi giro verso di lui “prenda il mio orologio” lo guardo perplesso da quella strana richiesta, “avanti dottore, non si faccia pregare”, tossisce. Prima che si prenda una bronchite, mi affretto a fare ciò che mi ha chiesto, lo ha lasciato nella tasca dei pantaloni, in bagno. Sono ancora umidi, scavo dentro la tasca e lo prendo, rientro in camera e punto lo sguardo verso il mio compagno, mi avvicino di poco, allungo il braccio “tenga” dico. Allontana la mia mano scuotendo la testa, “lo tenga lei” dice sorridendomi, mi gratto il capo in segno di confusione, “e che cosa dovrei farci?” domando. “Lo osservi, con attenzione mi raccomando. Segua i miei metodi”, si accuccia sotto le coperte, girandosi di spalle, lasciando me, impalato a fissare quell’oggetto, con dalla mia parte solo le sue ambigue istruzioni. Esco dalla stanza, scendo i gradini uno ad uno, silenziosamente, non voglio disturbare uno dei pochi momenti in cui si riposa. Mi siedo sul divano, ma un improvviso giramento di testa mi coglie, forse dovuto alla mancanza di sonno a cui non sono abituato. Decido di chiudere gli occhi, almeno per qualche ora, prima di dedicarmi alle istruzioni che il mio compagno mi ha dato. Quando mi sveglio, sento la bocca secca e il corpo intorpidito, mi stiro per bene poi, salgo a controllare Holmes che dorme ancora, così decido di dedicarmi a quel benedetto orologio. Non ho idea di cosa voglia che trovi, mi siedo con un sbuffo, prendo in mano quel piccolo oggetto, dorato e freddo, uno strano calore mi avvolge il centro del petto, a sapere che appartiene a lui. Scuoto la testa, cercando di scacciare questo pensiero, lo apro e sento come se una lama appuntita mi si infilzasse dritta nel cuore. Spalanco gli occhi, mi pizzicano e sono umidi, serro la mascella e deglutisco, per non lasciare andare le lacrime. Lo stomaco, stretto in una morsa ferrea, mi si contrae da farmi quasi gemere per il dolore, la mano trema, ed io sento una rabbia salirmi fin sopra la punta delle orecchie. In vita mia, non ho mai sperimentato nulla di simile, fatico a capirne il motivo o forse, è talmente chiaro che la mia mente si rifiuta di crederlo. Tutto questo per una foto, la sua foto, di quella donna, proprio all’interno del coperchio, è questo che voleva che vedessi, non capisco a che gioco stia giocando. Non faccio altro che chiedermi, perché dopo tutto ciò che ha fatto e che mi ha detto, ha voluto che vedessi questa foto. Cosa vuole che capisca? Chiudo con forza l’orologio, salgo di fretta le scale, spalanco la porta “Holmes”, lo chiamo e non mi importa se dorme. Lui si gira, con il viso stropicciato dal sonno, si sfrega gli occhi, si tira su mettendosi seduto, con la schiena poggiata sui cuscini. “Watson, qualcosa non va?” domanda con voce arrochita dal sonno, getto l’orologio sul suo grembo, “che diamine significa?” domando freddo. Sherlock Holmes sposta lo sguardo sull’oggetto, un velo di luce illumina i suoi occhi “è riuscito ad aprirlo!”, esclama con voce ilare ma debole. Poi però si volta verso di me, legge l’emozione sul mio volto e anche il suo si incupisce, “sembra scontento Watson” stringo i pugni e digrigno i denti per la rabbia. Mi avvicino di qualche passo “come fa anche solo a pensare, che io potrei essere contento dopo aver visto quella foto?”, sussulta e le sue iridi tremano mentre mi guarda. “Mi dispiace Watson” mormora stringendo i lembi del lenzuolo, perdo un battito a quelle parole, i muscoli si rilassano e per un momento dimentico tutta la rabbia che avevo. Continua il suo discorso, tenendo lo sguardo basso “ho creduto, dopo quello che è successo, di aver fornito una speranza. Per noi due” deglutisce. Sembra quasi di vedere una lacrima, piccola e lucente, nell’angolo del suo occhio destro, crollano tutte le mie difese, la voce diventa morbida “per noi due? Holmes la febbre deve averla fatta sragionare” scuote piano la testa “sono stato inopportuno”, incrocio le braccia al petto “terribilmente” dico con fermezza. Guardo la sua espressione e mi sento in colpa, ed è ridicolo perché dovrei essere io quello ferito, non lui. Decido di intervenire “senta Holmes, capisco che i sentimenti non sono il suo campo. Ma per il suo scopo, non crede che mostrarmi la foto della donna, sia da stupidi?” domando, lui alza lo sguardo su di me, “donna?” chiede. Ora penso davvero che sta cercando di prendermi in giro, lo guardo con l’espressione che usa lui, quando sono io a dire un’ovvietà. “Ma certo, la donna!” esclama aprendo l’orologio, ed io sono certo che se non fosse per la febbre, lo prenderei volentieri a pugni. Scuote la testa ridendo, “oh Watson! Mio caro, vecchio, ingenuo Watson. Le avevo detto di guardare bene, come ha fatto a sfuggirle?” ridacchia guardando nella mia direzione. Stringo i pugni e digrigno i denti, “Holmes” sibilo, “ora mi prende anche in giro?” esclamo con voce stridula, “venga qui dottore” mi ordina dolcemente, “non ci penso nemmeno” esclamo. Si morde le labbra “lei ha aperto l’orologio in due”, sospiro rassegnato guardando verso l’alto, “certo è così che si aprono i dannati orologi” rispondo, con più rabbia di quanto volessi. Il mio compagno piega la testa da un lato, sorride sornione “ha ragione, ma questo non è un orologio normale”, lo guardo confuso e anche abbastanza seccato “che vuole dire?” domando. “Il mio orologio, si apre in tre parti. È un po’ difficile capire il meccanismo, lo ammetto. Ma in mia difesa, credevo che lei ci sarebbe arrivato” dice queste parole, ma nella sua voce, non c’è traccia di quella vena di superiorità che contraddistingue sempre le sue spiegazioni.  Provo a fare una deduzione, abbastanza banale, ma decido di farla comunque “quindi la cosa che voleva che vedessi, è nella terza parte, suppongo” lui annuisce soltanto, allungandomi l’orologio, da cui ora vedo benissimo la sua peculiarità. Lo prendo in mano, sfiorando le sue dita che mi procurano un brivido, guardo i primi due quadranti, poi il mio sguardo si posa sul terzo. L’orologio mi scivola di mano, finendo inevitabilmente a terra, rimbalza due volte, poi si ferma sul pavimento, come le mie braccia, rimaste ferme a mezz’aria. “Holmes” riesco soltanto a dire, ed il suono esce così flebile, che quasi credo di non aver pronunciato parola. “Spero non le dispiaccia Watson”, dice con un’espressione tra il sollevato e il preoccupato, io non riesco a trovare la forza di dire niente. Rimango nella stessa posizione di prima, le sopracciglia leggermente corrucciate, le labbra semi aperte e le mani a mezz’aria, il cuore che furiosamente rimbomba nella cassa toracica. È lui a prendere nuovamente parola, “capisce che non potevo mostrarla a nessuno. Senta se ha voglia di tirarmi un pugno, capisco benissimo, lo faccia e basta. Non avrei dovuto farlo senza il suo permesso, ma come facevo a domandarle una cosa del genere” parla senza sosta, come un treno. Io finalmente mi riscuoto, schiarisco la voce, deglutisco prima di prendere parola “veramente c’è una cosa che voglio fare. Se me lo concede” dico prima di prendere un bel respiro. Holmes abbassa la testa, rassegnato “faccia pure, mi colpisca” dice mostrandomi lo zigomo, io lo prendo come un invito e mi avvicino. Prendo posto accanto a lui, il materasso si abbassa sotto il mio peso, noto che trattiene il fiato, ed il mio orgoglio per un attimo si riempie. Alzo entrambe le mani verso l’alto, le avvicino al suo viso e delicatamente lo afferro tirandolo verso di me. Nello stesso istante avvicino anche il mio di viso, rimango fermo, osservo i suoi occhi che rimangono fissi su di me, i miei invece si spostano sulle sue labbra. Lascio che i nostri nasi si sfiorino, voglio bearmi di questa sensazione ancora un po’, la sua pelle accaldata sotto le mie mani, sorrido tirando un angolo della bocca, poi abbasso le palpebre e chiudo la distanza tra noi, con un bacio. Rimaniamo fermi questa volta, i nostri respiri che si fondono, il volto del mio compagno si rilassa. Sposto le mani fra i suoi capelli, lascio che le dita vengano accarezzate da quei sottili fili neri, morbidi, una scossa attraversa il mio corpo, ed io spingo il volto in avanti, per aumentare il contatto tra le nostre labbra. Provoco involontariamente, un mugolio sommesso al mio compagno, che afferra le mie spalle e stringe la stoffa della camicia. Con il cuore ormai in gola, le mani ancorate al viso di Sherlock, mi siedo sopra di lui, con una spinta in avanti faccio aderire il corpo del mio compagno al materasso. Sdraiato sopra di lui, i nostri corpi aderiscono completamente, le sue mani accarezzano piacevolmente i miei fianchi, è un tocco delicato il suo, non rude come me lo sarei aspettato. Dal canto mio continuo a premere le labbra sulle sue, fino a quando lui dischiude leggermente la bocca, lo prendo come un invito e approfondisco il bacio. Non appena le nostre lingue si sfiorano, un brivido di piacere pervade il mio corpo, muovo il bacino contro il suo, in una calda carezza. Non importa che a separarci ci sono vestiti e coperte, quel contatto ha provocato piacere ad entrambi, lo faccio altre due o tre volte, provocando continui mugolii ad Holmes, che mi fanno perdere la testa. Quando è l’aria a mancarmi, interrompo il bacio lentamente, rimaniamo in quella posizione, con i visi a pochi centimetri l’uno dall’altro. “Perché si è fermato Watson?” domanda con voce roca, io sorrido “dobbiamo riprendere fiato”, lui mi rimprovera con una smorfia di disappunto “a che ci serve respirare? Quando possiamo occupare il tempo in modo più interessante” dice provocandomi una risata. “Holmes, lei trattenga pure il fiato se vuole, ma io ne ho bisogno”, rispondo ancora ansimando piano, beandomi di quelle gote arrossate e occhi lucidi di piacere.  “Io invece” prende parola lui, “ho bisogno di qualcos’altro” dice alzando le sopracciglia, “oh lo sento!” esclamo sorridendo, poi mi rendo conto della mia allusione e divento viola in volto. Mi tiro a sedere restando comunque sopra di lui, cerco di riparare ma escono solo balbettii sconnessi “Holmes i-io, n-non” lui scoppia a ridere “oh Watson non la facevo così malizioso”, abbasso lo sguardo rosso per la vergogna. Lo scavalco mettendomi sdraiato, nella parte di materasso libera accanto a lui, “la finisca di ridere” lo rimprovero, si gira d’un fianco verso di me “altrimenti?” mi domanda con voce maliziosa. Dal canto mio, mi limito ad arrossire, poi lo spingo giù premendogli la spalla “lei ha la febbre. Per il momento si limiti a farsela passare.” Il mio compagno mette il broncio e si rigira, tuffando la faccia sul cuscino. Io mi metto a sedere, portando i cuscini dietro la schiena, “ovevo opio ami ottoe” biascica qualcosa, ma essendo con il volto premuto contro il cuscino, non riesco a comprenderne il significato. Mi gratto la testa, sorrido anche se so che non può vedermi, “che cosa ha detto Holmes?” si tira su di scatto, e con il volto a poca distanza dal mio, sputa fuori “dovevo proprio innamorarmi di un dottore!” Il mio cuore perde un battito, il viso mi si colora, come quello di Holmes che diventa rosso di colpo, quasi si fosse reso conto, solo in questo momento di ciò che ha detto. Rimaniamo così per un po’, poi io sorrido sornione, “non la facevo così romantico Holmes” ridacchio. Il mio compagno, volta la testa dall’altra parte “l-lo ha detto anche lei, che deliro per la febbre”, balbetta provocandomi un sorriso, non si è mai esposto così tanto. Da quando lo conosco, quasi mai gli ho visto ammettere una debolezza, esprimere completamente i suoi sentimenti, e ora si è trovato ad esternali, sono sicuro che non è stato facile. Ha sempre cercato di mantenere la facciata di macchina pensante, ma io con il tempo, ho capito che lui è molto più di quello. Ha un cuore, lo usa in maniera diversa dagli altri, ma questo non significa che non funziona, anzi il contrario, forse funziona molto più velocemente, rispetto a quello di tutti noi. Gli poso una mano sulla spalla “va tutto bene Sherlock” lui sussulta, si gira verso di me e serio mi dice “non so se sarò in grado dottore.” Lo guardo confuso, con le sopracciglia inarcate, “di cosa parla?” domando curioso, piega le gambe verso il grembo e le circonda con le braccia, “di fare questo.” La sua frase mi lascia spiazzato, continua a guardare verso il muro e come se avesse letto nel mio pensiero, risponde alla tacita domanda “i sentimenti John, io non so se riuscirò ad essere, quello che vuole che io sia”, mentre parla il suo sguardo diventa triste. “Lei è abituato a corteggiare le donne, a stare insieme con qualcuno, e queste persone ricambiano il suo affetto. Lei porta fiori e in cambio riceve complimenti o carezze, ed io, i-io” interrompe il suo discorso con un sospiro, non l’ho mai visto così in difficolta, e non so come aiutarlo. Dopo qualche istante di silenzio, gli prendo il volto e lo giro verso di me, “Holmes! Io desidero solo che lei sia se stesso, non voglio nessun altro. Proprio ora che ho compreso i miei sentimenti e gli ho accettati, crede che voglia trasformarla in qualcuno che non è?”, lo guardo fisso negli occhi e i suoi diventano lucidi. “Al massimo, invece di portarle dei fiori, le porterò qualche oggetto da ispezionare” dico con ilarità, facendo scoppiare a ridere il mio compagno “oh Watson lei sa sempre cosa dire, al momento giusto!” esclama. Passano alcuni giorni, prima che il mio caro Sherlock si riprenda definitivamente dalla febbre, giorni in cui abbiamo passato tempo a parlare di noi due, e altri momenti in cui, Sherlock Holmes si scusava di essere arrivato a brucia pelo. Mi ha detto che non aveva intenzione di distruggere la mia felicità, ma quando ha saputo che lo avrei lasciato per sempre, se non avesse almeno provato a fare qualcosa, lo avrebbe rimpianto per tutta la vita. Ho lasciato Mary naturalmente, non avrei mai potuto mentirle, ha pianto ma ha compreso la mia decisione, le ho detto che la voglia di avventura sarebbe sempre rimasta attiva in me. Ho come la sensazione però, che lei abbia capito che c’è qualcos’altro, ma non importa ora, so che lei non farebbe nulla per farmi del male, né a me né a nessun altro. Finalmente, una volta ristabilito, possiamo tornare a casa nostra, la padrona di casa sarà felice di riaverci fra i piedi. È una tranquilla sera e dopo aver mangiato una deliziosa cena, io ed Holmes, ce ne stiamo seduti sulle rispettive poltrone, a fumare. Io mi alzo per prendere qualcosa da bere, “da quanto è innamorato di me Watson?”, il liquido che sto ingerendo mi va di traverso, facendomi tossire nervosamente. “C-come?” domando, lui sorride “ha sentito” sospiro rassegnato e mi torturo le mani, “davvero vuole saperlo?” gli domando, lui si gira verso di me “perché no?” risponde. Faccio qualche passo titubante verso la poltrona, poi mi siedo, sotto lo sguardo acuto del mio compagno, lo guardo negli occhi, sento subito le gote scaldarsi e il cuore accelerare, per via di ciò che sto per rivelargli. “Sa Holmes, io l’ho sempre ammirata, per la sua intelligenza, per la capacità di vedere dettagli nascosti, e tutte le altre qualità che lei possiede. Questo non gliel’ho mai nascosto, credevo che il mio interesse verso di lei, fosse per la semplice curiosità di penetrare un essere così fuori dal comune”, mi fermo un istante per vedere la sua reazione. Le sue guance rosate e il lieve sorriso, mi spingono a proseguire “però man mano che il tempo passava, mi sentivo legato e attratto da lei, in un modo che con un uomo non mi era mai capitato. Ho sempre saputo che ciò che sentivo, andava oltre l’amicizia, e l’ho capito in maniera definitiva durante il caso di Milverton” dico, alzando d’istino gli occhi verso di lui. Sussulta e sgrana gli occhi in segno di sorpresa, ma non dice nulla, rimane in quella posizione, con il busto inclinato in avanti, le mani sotto il mento e lo sguardo fisso su di me. È sempre stato lui, quello a cui toccavano le lunghe spiegazioni, le delucidazioni, lui parlava ed io, o chi altro ascoltavamo. Ho sempre desiderato poter essere al suo posto, conoscere gran quantità di materiale, da poter mettere al proprio posto tutti i tasselli esistenti. Ora che quel momento è arrivato, non mi sento all’altezza, come se tutte le parole che uso fossero sbagliate. Ho il timore di dire qualcosa di stupido, ed è già capitato in passato, ma non in una situazione così personale ed intima. Comunque prendo un respiro di coraggio, e incentivato anche dalla serenità che il mio compagno dimostra, vado avanti. La voce mi trema leggermente “quando, dietro quella tenda, ho sentito le sue dita, infilarsi nella mia mano e stringerla, tutto il panico e la paura, che albergava nel mio cuore, si è dissolta” mi fermo un istante, tiro su col naso poi continuo, non voglio che mi interrompa ora. “Saremmo potuti morire sul serio quella notte, eppure sarei morto felice, mano nella mano con lei”, alzo lo sguardo titubante e lo vedo sorridere, “non è facile per me confessarle questo, Holmes” dico accarezzandomi un ginocchio. “Oh Watson” mi chiama con voce tremante, io lo guardo, ha gli occhi che brillano e le gote arrossate, “perché non me lo ha detto prima?” domanda. Scuoto piano la testa “come potevo Holmes, la situazione era difficile, sotto ogni punto di vista. Poi non avevo idea, che lei provasse qualcosa per me”, confesso imbarazzato. Il mio compagno sorride, ma prima che dica qualcosa aggiungo “in verità…credevo che con le sue capacità deduttive, lo avrebbe capito” si alza in piedi e mi tende la mano, io l’afferro e mi alzo. Siamo uno di fronte all’altro, senza lasciare la mia mano riprende parola, “lei dimentica che io ho qualche difficoltà, con i sentimenti. Ci ho messo un po’ ad allineare tutti i punti”, sorride tirando un angolo della bocca. Io deglutisco a vuoto, sorpreso da quelle parole, “q-quindi lei, lo aveva capito?” chiedo tremando, lo guardo con gli occhi ben aperti e le labbra dischiuse. Il suo odore, insieme alla sua vicinanza mi fanno sempre uno strano effetto, mi inebriano le meningi, lui sorride “altrimenti perché, sarei venuto nel cuore della notte, a farle quella folle richiesta” ridacchia e a me, sembra quasi di sciogliermi sul pavimento. Le ginocchia mi tremano, e muoio dalla voglia di chiedergli una cosa, ma temo di rovinare questo momento, è anche vero che stiamo confessando l’un l’altro delle cose, quindi quale momento migliore di adesso. Sfilo la mano dalla sua, per poi posare entrambe sul suo petto, coperto dalla vestaglia, stringo leggermente i lembi della stoffa, guardo in basso, poi di nuovo verso di lui, “le ho fatto male quando ho deciso di sposare Mary?” chiedo goffamente. Il mio compagno deglutisce, alza lo sguardo verso l’alto, poi lo punta su di me, è lucido ed io, sento già il senso di colpa farsi strada fra le mie viscere. Sospira, posa le mani sulle mie, ancora appoggiate sul suo petto “Watson, mi ha fatto male dal primo momento, da quando i suoi occhi si sono posati su quella ragazza. Ogni sguardo che le donne le concedevano e che lei ricambiava, ogni sorriso che donava a loro e sottraeva a me, faceva male e ha sempre fatto male. Non lo davo a vedere, lo ammetto; Tutte le volte che la sapevo in qualche squallido pub, lontano da me, e le volte che rivolgeva parole dolci, a qualche dama o gentil uomo da consolare, oh Watson ho creduto di impazzire.” Finisce così la sua confessione, con la voce più sottile, ma pregna di sentimenti trattenuti per troppo tempo, tremante appoggio la testa sul suo petto “mio caro Holmes, non sa quanto mi dispiace”, dico con voce commossa. In risposta lui, posa una mano sul mio collo, e con il pollice sfiora delicatamente i capelli, l’altra mano aperta fra le scapole, la sua guancia sopra la mia testa “è tutto passato adesso, Watson” sussurra fra i miei capelli. Un brivido percorre la mia spina dorsale, mi stringo un po’ di più a lui, poi tiro su piano il viso, inevitabilmente anche Sherlock sposta il suo, ci guardiamo ed io, mi rendo conto solo ora, di quanto mi piaccia il fatto che lui sia più alto di me. Il suoi centimetri in più, mi permettono di alzare il viso, guardare i suoi occhi che mi osservano dall’alto, mi da un senso di conforto. Mi spingo poco sulle punte dei piedi, in modo da raggiungere le sue labbra, avvolgo le braccia intorno alla sua vita e anche lui mi stringe, carezzando delicatamente tutta la mia schiena. Un bacio che sa di casa, di desiderio fin troppo a lungo trattenuto, un bacio al sapore di senso di colpa e perdono, un bacio che se non ci fosse stato, avrei rimpianto per tutta la vita. Quando ci stacchiamo, sposto una mano sul suo petto, e sussurro sulle sue labbra “come sta il suo cuore Holmes?”, sorride solleticando il mio naso con il suo “una meraviglia dottore, ha fatto proprio un ottimo lavoro” dice accarezzandomi una guancia. Il nostro momento di affetto viene interrotto dal bussare della porta, entra la padrona di casa per consegnare un biglietto ad Holmes

“grazie signora Hudson”, diciamo in coro io e il mio compagno, lei sorride, annuisce e prima di uscire, mi lancia un occhiolino di chi la sa lunga. “Holmes” lo chiamo, interrompendo la sua lettura “mmm?” risponde, io mi sistemo meglio “era serio quando mi ha detto, che quella di sposarla sarebbe stata l’ultima follia che mi avrebbe chiesto di fare?” domando con fare titubante. Non appena finito di porre la domanda, mi rendo conto che ciò che ho chiesto è infinitamente stupido, in verità da quando io e Holmes stiamo insieme, me ne sono venute di domande stupide. Credo che in me sia nata una sorta di insicurezza, che non sapevo nemmeno di avere, almeno non in campo sentimentale, anche se sono abbastanza sicuro che non dipende solo dai sentimenti, ma da chi ho davanti. Sherlock Holmes, l’unico in grado di farmi perdere la ragione, in mille modi possibili, sorrido tra me e me, dimenticandomi quasi di aver posto una domanda al mio compagno. Porto lo sguardo su di lui, sorride -lo fa spesso da quando siamo tornati a casa- poi piega la testa da un lato, posando il pugno chiuso sulla guancia, “lei vorrebbe che lo fosse?” domanda. Troppo comodo rispondere con una domanda a un’altra domanda, sbuffo scuotendo la testa, “cielo no!” esclamo, Sherlock batte entrambe le mani sulle ginocchia, si alza in piedi di scatto e con voce acuta dice “benissimo Watson! Perché abbiamo un nuovo caso che ci aspetta. Prenda cappello e cappotto, usciamo.” Io sorrido ampiamente, felice di avergli sentito dire queste parole, “pronto a infrangere la legge?” mi domanda, “come sempre!” rispondo dandogli una pacca sulla spalla. Chiudo la porta di casa, sapendo che non sarà l’ultima volta che lo farò, che finché avrò vita, il 221B di Baker Street, sarà sempre casa mia. Il luogo che condivido con l’uomo migliore che mi sia capitato di conoscere, l’uomo che amo, Sherlock Holmes.

 

 

NOTE:

I racconti casi citati non sono in ordine.

·       Dove c’è l’asterisco è una frase presa direttamente dal racconto di Doyle, i cui personaggi non mi appartengono

·       Spero vi piaccia

·       L’abbraccio verso la fine, è stato ispirato da quello che si sono dati Sherlock e John di BBC

   
 
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