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Autore: lagertha95    20/01/2019    5 recensioni
Ailis Blackwater, Corvonero classe 1981, viene rapita a inizio aprile da Theodore Nott che la vuole proteggere, inizierà a ricambiare i sentimenti del suo carceriere, la cui identità resterà segreta per un po’.
La storia è ambientata tra aprile e maggio 1998 ed è ispirata al mito di Amore e Psiche riportato da Apuleio ne Le Metamorfosi.
Se vi piacciono le coppie non canon, i personaggi nuovi e i finali inaspettati, questa è la storia che fa per voi.
Questa storia partecipa al contest "Come Amore e Psiche" indetto da Matilde di Shabran sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Theodore Nott
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Nome utente forum: Lagherta95
Nome utente EFP: Lagertha95
Rating: arancione
Genere: drammatico, erotico
Tipo/i di coppia/e: het
Coppia/e: Theodore Nott/nuovo personaggio
Avvertimenti:
Note dell'autore (opzionali): Ailis Blackwater, Corvonero classe 1981, irlandese, interesse amoroso di Theo nonché personaggio di mia invenzione. Molto magra e dal fisico atletico, capelli castani lunghi e ondulati, occhi neri. Geniale in rune antiche, tanto brava a scuola quanto distratta per il resto della vita. Rapita a inizio aprile da Nott che la vuole proteggere, inizierà a ricambiare i sentimenti del suo carceriere, la cui identità resterà segreta per un po’. La storia è ambientata tra aprile e maggio 1998.


 

La Dodicesima notte


 

Molti giorni e molte notti sono passate da quando mi hanno rapita.
Notti di oscurità e silenzio, ma mai di solitudine.
Qualcuno è venuto a farmi visita, notte dopo notte, senza mai farsi vedere.
Le prime cinque notti si è limitato ad osservare, credo. Ha aperto la porta della mia cella, ha mosso esattamente tre passi, si è fermato.

Ogni notte è rimasto lì, sulla soglia, 3 ore, cercando o aspettandosi chissà che cosa, per poi andarsene esattamente nello stesso modo in cui era entrato: in completo silenzio. Tre passi e poi la porta che si chiude. Niente più lievi respiri, né sassolini calpestati e strisciati per terra nel cambiare posizione. Solo silenzio.
A volte ho percepito l’aprirsi e il richiudersi delle labbra, come se per un attimo avesse pensato di rivolgermi la parola, per poi rifiutare l’idea un attimo dopo, ma forse è solo la mia immaginazione, forse si è semplicemente inumidito le labbra.
A volte, spesso a dire la verità, ho percepito della curiosità rivolta al modo in cui affronto questa prigionia.

La sesta notte qualcosa è cambiato, l’ho sentito nell’aria che mi circondava. Qualcosa è stato trascinato dentro la cella – forse una sedia – e del legno ha scricchiolato, rompendo il silenzio assordante. La presenza del mio carceriere si è prolungata. Lo so perché nel contare i secondi sono arrivata a 18000: 7200 secondi in più rispetto alle prime notti.

Mi sono scoperta ad agognare il suo arrivo, unica gioia in questa mia prigionia. Mi sono scoperta desiderosa di percepire il suo profumo riempire la cella, di ascoltare il suo respiro spezzarne il silenzio, di sentirmi importante, quasi desiderata.

La settima notte la sedia è stata posizionata più vicina al mio giaciglio, sei passi sono stati fatti nell’entrare nella cella, i respiri si sono fatti più chiari e forti. Anche questa volta si è trattenuto 5 ore.

L’ottava notte i passi sono stati nove, ho sentito un mantello di tessuto pesante ma morbido sfiorare i miei piedi nudi, ho percepito un odore dolciastro con note di fondo amare – forse il suo profumo, forse il suo alito – ho dato un sesso al mio carceriere. Quando se n’è andato, ancora 5 ore dopo, ho faticato a prendere sonno e quando ci sono finalmente riuscita, l’ho sognato. Me lo sono immaginato come un uomo alto, dal fisico massiccio, ben vestito, rasato, dai capelli neri, ondulati e lunghi fino alle spalle.

La nona notte si è avvicinato di più. Niente sedia stavolta. Si è seduto ai piedi del mio giaciglio, ha posato una mano sul mio piede. Io l’ho ritirato, ma lui l’ha preso di nuovo, lo ha tirato verso di sé ed ha iniziato ad accarezzarlo. Prima il piede, poi la sua mano – una mano liscia e morbida, pesante ma dal tocco delicato – ha risalito la mia gamba, ha tastato la curva ossuta del ginocchio, ha provato a spostare il lembo lacero della mia tunica. Mi sono ritratta, intimorita non tanto dal pensiero di una possibile violenza, quanto dall’impressione che tutto stesse accadendo troppo rapidamente. Questa volta non ha provato di nuovo ad esplorarmi. Si è alzato – quasi senza far rumore – è rimasto in piedi qualche minuto, poi ha percorso i dieci passi che separano il mio giaciglio dalla porta ed è uscito rapidamente, il respiro accelerato. Si è trattenuto molto meno, solo 3600 secondi, un’ora soltanto dedicata all’esplorazione della mia gamba.
Credo che abbia qualcosa che gli permette di vedermi nonostante la più completa oscurità, perché altrimenti non si spiegherebbe la sicurezza dei suoi movimenti all’interno della cella priva di qualsiasi tipo di illuminazione.
Percepisco in lui sentimenti contrastanti: curiosità, vergogna, coscienza dell’errore, voglia di andare oltre. Mai crudeltà, né rabbia o cattiveria. Sentimenti contrastanti sì, ma non negativi. Mi ricorda me stessa qualche anno fa, combattuta tra la voglia di esplorare la mia sessualità e il senso di pudore che mi coglieva quando, nella solitudine della mia cameretta, mi facevo scivolare una mano tra le cosce di ragazzina e provavo i primi brividi di piacere, per poi smettere subito dopo, le guance rosse e il respiro affannoso.

La decima notte si trattiene di più, di nuovo. In due ore percorre di nuovo le mie gambe, dal piede all’orlo della tunica, poi passa alle mani, risale le braccia, arriva alle spalle, passa lungo il cornicione creato dalle mie clavicole sporgenti. Scende, soltanto per un attimo, nel solco dei miei seni, ma nel momento in cui le sue dita incontrano – nuovamente – l’orlo della mia tunica, si ritira, percorrendo a ritroso la strada precedentemente tracciata. Il respiro è ancora affannoso, ma meno della volta scorsa.
Per la prima notte da quando sono prigioniera, sento un calore nascere dall’interno del mio corpo. Mi rannicchio e godo di questa fiammella che si è accesa tra le mie cosce.

L’undicesimo giorno vengo lavata. Delle mani diverse da quelle del mio carceriere – più rudi, più sottili, probabilmente femminili, proprietà di qualcuno che ha ben poca voglia di compiere questo lavoro – percorrono il mio corpo con ben poca delicatezza, strofinando con forza una saponetta e poi versandomi addosso, dall’alto, una cascata d’acqua tiepida che viene accolta con sollievo dalle mie membra gelide. Mi posso immaginare, come fossi riflessa in uno specchio: capelli lunghi, ondulati e di un bel castani scuro e caldo; grandi occhi neri e bramosi di conoscenza, aperti con enorme stupore sul mondo circostante; corpo magro, quasi privo di forme femminili, scattante e atletico.

So così che qualcosa accadrà stanotte. In dieci giorni di prigionia mai nessuno si è curato di me oltre che per consegnarmi dei pasti a base di pane e tazze di latte. E adesso, di punto in bianco, qualcuno che non siano elfi domestici dalle bocche cucite o il mio carceriere si degna di scendere in queste segrete silenziose e gelide.
Così attendo. Lunghe ore silenziose e buie scorrono, mentre il mio battito accelera e la mia bocca si secca, il respiro si fa affannoso e le mani iniziano a tremare. Non ho paura, non del tutto almeno. Sono tesa, certo, e ansiosa, un po’ timorosa, ma non sento in me la paura primordiale che dicono si provi in situazioni come queste. Io in realtà non l’ho mai provata, neanche quando è morta mia madre e l’esplosione del suo laboratorio mi ha quasi investita. Neanche adesso ho paura.
Mi limito ad aspettare, seduta a gambe incrociate sul mio giaciglio, le ore continuano a scorrere implacabili, il buio si fa sempre più fitto, sono nervosa e inizio a tremare.
Poi il mio carceriere arriva, puntuale come un orologio svizzero. Percorre i dieci passi che gli permettono di sedersi ai miei piedi sul giaciglio.
Sento del calore diffondersi nella stanza. Provo sollievo per la prima volta da quando mi hanno catturata. Chiudo gli occhi, nonostante non ce ne sia bisogno, mi godo il calore che si propaga nel mio corpo e non riesco a trattenere un sospiro. Fremente, continuo ad attendere.
La sua mano si poggia sul mio piede, più decisa delle sere precedenti, e inizia la sua esplorazione. Risale, leggera, fino all’orlo della tunica pulita che mi hanno fatto indossare poi cambia direzione, raggiunge il mio polso destro, risale il braccio, circonda la spalla. L’altra sua mano si unisce alla sorella, percorre il braccio sinistro e le due, insieme, solleticano la curva delle clavicole, per poi scendere nel solco dei seni e sfiorare dolcemente la loro curva quasi inesistente .
Non mi ritraggo, non questa volta. In sole due notti il suo tocco è diventato a me familiare. Non percepito come violenza, ma come un tocco amico che mi fa sentire viva, umana e – ma forse questa è solo una mia sbagliata impressione – desiderata.
Non è insistente. Il suo tocco è morbido, come se volesse conoscere il mio corpo. È un tocco a cui mi abbandono volentieri, forse è idiota da parte mia, ma è il primo tocco che percepisco come positivo dal giorno della mia cattura.
Scende di nuovo sulle gambe, alza l’orlo della tunica, si infila sotto. Tasta la poca carne che ho sulle cosce, le ossa sporgenti delle mie anche, aggira le mutandine di cotone che mi hanno fatto indossare stamani. Alza la veste, la sfila e si dedica al mio busto: il ventre piatto, l’ombelico leggermente incavato, le coste sporgenti.

Mi trovo nuda in un attimo, tuttavia non mi sento inerme, non mi sento una preda in balia del cacciatore. Al tempo stesso, non oso alzare un dito, nonostante frema dalla voglia di farlo, di capire chi si nasconda nell’oscurità, chi sia il mio carceriere.
Sento il fruscio del suo mantello che si affloscia sul pavimento, sento lo slacciarsi di una cintura e il cadere a terra di un paio – o almeno così credo io – di pantaloni in tessuto pesante. Nel totale silenzio di cui è ammantata la mia cella, rotto soltanto dai nostri sospiri, riesco a sentire il ritmico scivolare di 7 bottoni dentro le rispettive asole.

Poi nulla e all’improvviso calore.
Un corpo massiccio e caldo si stende su di me, facendo attenzione a non pesarmi addosso, e lascia vagare le mani su tutto il mio corpo. Non mi muovo, non subito almeno. Presto attenzione ai suoi tocchi, ascolto il suo respiro che si infrange contro il mio collo, annuso il suo odore.
Non percepisco – esattamente come le altre volte – cattiveria, ma solo curiosità e attrazione. Allora anche le mie mani iniziano a muoversi, spinte dalla stessa curiosità.
Trovo le sue spalle – muscolose e squadrate – e le sue braccia, lunghe e affusolate. Poi accarezzo la sua schiena. Cerco di capire se è come me lo sono immaginato o se al posto di un ragazzo c’è un vecchio dalla schiena villosa. Sono intimorita, ma vado avanti perché alla fine tra le caratteristiche della mia Casa ci sono anche curiosità e voglia di sapere.
La schiena non è villosa né mi sembra la schiena di un vecchio. La pelle che ricopre muscoli guizzanti è liscia, priva di imperfezioni eccezion fatta per quella che al tatto mi sembra una cicatrice lunga e frastagliata, che va dalla spalla sinistra alla fine dell’arcata costale destra. Ho l'impressione di averne già vista una simile e mi chiedo, per un momento, che cosa l’abbia provocata.
Procedo verso il basso, abbraccio i fianchi stretti e morbidi senza incontrare l’elastico delle mutande. Sento la sua virilità premere contro le mie cosce, strofinarsi, animarsi come se fosse dotata di vita propria. È calda, più del resto del corpo.
Lui ha smesso di esplorarmi, si è tirato su con i gomiti, non per tenermi alla larga, ma per lasciarmi libera di toccarlo ovunque io voglia.

Ho l’impressione che mi guardi, che segua con gli occhi ogni mio movimento, ma continuo a toccare e sfiorare ogni sua parte. Scendo a toccargli le cosce e le gambe, come ha fatto lui con me: muscoli e pelle e peluria morbida. Risalgo, tasto le braccia, arrivo alle spalle, percorro la linea delle clavicole, sfioro il collo. Lo sento ritrarsi, forse gli faccio il solletico, ma non mi fermo, non ancora.
Tasto il mento, volitivo e squadrato, divido le mani e percorro i lati sinistro e destro della mandibola, circondo le orecchie, le riunisco sulla fronte per dividerle subito dopo quando sfioro le sopracciglia – folte e definite – e le palpebre, poi gli zigomi, il naso e le labbra – carnose, morbide e leggermente umide.
Non lo vedo, ma lo sento. Sento il suo calore e il suo odore, sento i suoi muscoli tendersi e tremare nello sforzo di lasciarmi libera dal suo peso, sento il suo respiro sfiorarmi il volto che tengo tra le mani. Mi muovo, insicura – non so se è quello che vuole – e allungo il collo fino a raggiungere la sua bocca.
Lo bacio, le mie labbra secche posate sulle sue. Lo sento tremare, ho paura si ritiri, schiudo le labbra e con la lingua solletico le sue, chiudo gli occhi nel buio sperando con tutta me stessa che non si allontani e aspetto.
Le sue labbra si aprono in risposta alla mia richiesta e la sua lingua calda prende possesso della mia bocca. Le braccia cedono dolcemente e mi ritrovo schiacciata dal suo peso, peso che mi pare tanto dolce nonostante la situazione in cui mi trovo.
Le sue mani salgono a circondarmi il viso, mentre le mie scendono a cingergli i fianchi.
Si muove su di me, strofina, i miei movimenti si accordano ai suoi, in un andare e venire armonioso, quasi fossimo due persone che si conoscono da sempre. Non è così, invece, ma non è brutto trovare qualcuno di nuovo con cui combaciare.
Apro le cosce e muovo il bacino verso di lui, cercando di invogliarlo a entrare in me e a soddisfare il desiderio che ha acceso in me giorni addietro e che da quel momento non ha mai smesso di tormentarmi.
Sono pronta e lui lo sente. Con un unico, fluido movimento si spinge in me. Attende un attimo, uno solo, poi inizia a muoversi, prima dolcemente e poi più rudemente, ma stando attento a non farmi del male. Continua a muoversi e baciarmi, finché non ne posso più ed esplodo, contraendomi intorno a lui.

Poco dopo mi addormento tra le sue braccia, sentendomi protetta forse per la prima volta dopo tanto tempo.

È il dodicesimo giorno e vengo nuovamente lavata, svogliatamente ma con attenzione. Sola per l'intero giorno posso pensare. Penso e ripenso alla notte appena passata, alla sensazione di familiarità che mi ha investita fin da quando sono stata catturata, alla completezza provata quando lui è entrato in me, alla stanchezza serena che mi ha colto alla fine, spingendomi ad abbandonarmi al sonno tra le sue braccia, fiduciosa ma incosciente.

Che cosa so di quest'uomo, di questo mio carceriere? Nulla, non conosco neanche il suo aspetto. Un familiare senso di curiosità, quasi di sete di conoscenza, mi assale e fremo, perché è come un ritorno alla normalità. Mi ricorda me ad Hogwarts, alla fame che riuscivo a placare solo leggendo e divorando libri, facendo domande e ascoltando risposte.

Rifletti, Ailis, rifletti su cosa hai capito in undici giorni di prigionia. I tuoi sensi potranno essersi addormentati, ma non il tuo cervello. Rifletti, avanti, rendi fiera Rowena!
Gli ingranaggi del mio cervello si sbloccano lentamente, come fossero arrugginiti, ma alla fine iniziano a girare, lenti ma incontrastati e io ripenso a tutto quello a cui magari non ho prestato troppa attenzione, ma che sono sicura di aver colto.
È un uomo e dal suo corpo deve essere piuttosto giovane, forse un tuo ex-compagno di scuola. Di certo non un Grifondoro, difficilmente un Tassorosso o un Corvonero. Dalla corporatura e dell'altezza puoi capire chi sia, pensa.
Alto una ventina o forse trenta centimetri più di te, sui 90-95 chili. Braccia e gambe lunghe e muscolose, da giocatore di quidditch. Torace piatto, spalle ampie, schiena ferita.
La ferita, ecco! So di averla già vista, ma dove? I ragazzi mi sono sempre stati piuttosto indifferenti, troppo persa dietro alle rune antiche. Andiamo, dove l'ho già vista quella cicatrice?
Per averla vista devo aver incontrato qualche ragazzo che, come minimo, fosse a torso nudo.
Potrebbe essere successo durante una partita di quidditch, ma sono sempre stata sulle tribune, troppo lontana per vedere un giocatore senza maglietta.
In infermeria non sono mai stata, esattamente come nel bagno dei prefetti, quindi sono luoghi esclusi.
Al lago, a fine primavera…THEODORE NOTT!

EUREKA! Ecco, brava Ailis. Theodore Nott, a maggio dell'anno scorso, lungo le rive del lago. Stava prendendo il sole, io sono passata, distratta e a piedi nudi, sulla riva. Dormiva a pancia sotto mentre cercava di abbronzarsi un po'. Ho notato la cicatrice e di sfuggita mi sono chiesta come se la fosse procurata. Poi però mi è passato di mente a causa dell'incontro con quell’unicorno ferito.
Quindi ho a che fare con Nott, serpeverde, amico di Malfoy, forse (ma adesso quasi certamente) Mangiamorte. Lui mi ha rapita e rinchiusa in questa cella. Ma perché lo ha fatto? Non mi ha torturata, né interrogata. Certo, sono stata e sono tuttora una prigioniera, ma sono stata trattata comunque con un certo riguardo.
E allora perché lo ha fatto? E poi come fa a vedermi? Sono certa che ci riesce, altrimenti non avrebbero senso tutte le ore passate al buio, seduto sulla sedia che si portava dietro, ma come fa?
E se…e se avesse una di quelle Mani della Gloria che Malfoy decantava tanto al secondo anno? Dovrebbe permettergli di vedere nella più totale oscurità senza essere visto.
Vorrei tanto avere tutte le risposte alle mie domande adesso, ma mi toccherà attendere stasera, quando arriverà a farmi visita.
Così cerco di rilassarmi, mi distendo sul giaciglio, chiudo gli occhi e lascio che la mia mente vaghi, fantasticando di tempi più sereni e spensierati. Le ore passano senza che me ne accorga e d'improvviso è l'ora.
Lo sento entrare, riconosco il suo passo ormai. Nell'oscurità totale si dirige con decisione verso di me. Nessuna parola, come al solito, si toglie il mantello, poggia qualcosa di fianco a me. È un suono flebile, ma che il mio inconscio riconosce, come se lo avesse sempre sentito in queste notti senza però darci peso. Si inginocchia sul giaciglio, si china verso di me e mi bacia. Questo bacio ha un sapore diverso: desiderio, bramosia, non più curiosità, ma una punta di possesso. Sa che sono in suo completo potere, che anche se volessi non potrei dirgli di no, ma ho l'impressione che non sappia che l’idea di dirgli “no" non mi ha mai nemmeno minimamente sfiorata. Lo accolgo, prima tra le mie braccia, poi dentro di me. Spinge e sfiora, stringe e carezza, in un alternarsi di dolcezza e decisione che mi piace. Finito tutto fingo di addormentarmi. Mi accoccolo nel suo abbraccio, chiudo gli occhi, lascio che il mio cuore e il mio respiro raggiungano un ritmo che possa essere scambiato per sonno.

Un suo braccio si allontana da me, sento del freddo sul mio lato destro, resto ferma.

“Sei così bella…vorrei averti per me alla luce del sole, non nasconderti e non nascondermi, vorrei che mi accogliessi tra le tue braccia e dentro di te come fai adesso, ma se sapessi chi sono, se tu conoscessi l'identità di chi ti tiene prigioniera mi rifiuteresti, tenteresti di fuggire e io non voglio che accada. Mi accontento di queste ore rubate, oscure e silenziose, ti osservo, ti studio, ti rendo mia come non saresti mai al di fuori di questa cella. Sei bella, Ailis, lo sei sempre stata e per me sempre lo sarai. Ora dormi, riposati, permettimi di toccarti, sfiorarti, farti mia. Domattina non mi troverai al tuo fianco, altri compiti meno piacevoli mi attendono e non posso rifiutarmi di portarli a termine. Dormi e stai tranquilla, niente potrà toccarti finché starai qui, invisibile al mondo, protetta anche se infelice. Dormi mia piccola Corvonero…”

Lo ascolto e il mio cuore perde un battito. Spero che non si accorga di nulla, che continui a pensarmi addormentata. È così tenero, così dolce, diverso dal silenzioso e minaccioso compagno di Malfoy che ricordo di aver visto ad Hogwarts.
Il tempo passa, sono stanca, ma resisto al sonno e aspetto. A un certo punto le sue carezze cessano, il suo respiro si fa ritmico, tranquillo e profondo, il suo braccio si avvolge di nuovo intorno a me. Aspetto ancora un poco, conto fino a 300 e poi mi muovo lentamente e delicatamente. Mi sposto un po', spero di non svegliarlo, allungo un braccio e alla fine tocco qualcosa.
Luce. All'inizio mi sento accecata nonostante sappia che non è luce vera, ma solo un incantesimo dovuto alla mano rinsecchita e odorosa di muffa che stringo.
Mi volto verso di lui, capace di vedere per la prima volta dopo dodici giorni e dodici notti.

È bello. Non ne sono sorpresa, a scuola ha sempre ricevuto parecchi apprezzamenti dalle ragazze, di qualunque anno e casata esse fossero.
Ha un viso dai tratti morbidi nonostante siano scolpiti e decisi. Un mento squadrato unisce i due lati di una mandibola dalla linea importante. Le labbra sono rosse e carnose, il naso dritto e forse leggermente all'insù, la fronte ampia, i capelli mossi e scuri tagliati poco sotto la linea del mento. Il corpo lo conosco già al tatto e vederlo non fa che confermare quello che mi ero immaginata: massiccio, ma proporzionato, muscolatura importante sebbene non definita, gambe e braccia lunghe. Decisamente un bel ragazzo.
Troppo occupata ad osservarlo non mi accorgo di essermi avvicinata troppo e una ciocca dei miei capelli cade sul suo viso, solleticandolo.
Si sveglia di soprassalto, con gli occhi sgranati mi afferra un polso mentre con l'altra mano cerca il manufatto che, però, è in mano mia.
Fermo immobile lo vedo fissarmi. Teme che fugga, che urli, che lo allontani disgustata e spaventata. Resta spiazzato quando gli restituisco la mano, senza una parola si alza e se ne va, lasciandomi di nuovo sola nel freddo della cella.
Che cosa ho fatto?

La tredicesima notte non viene a trovarmi, così come non viene la notte successiva.
Mi mancano la sua presenza, il suo odore, il suo calore e il suo sapore. Mi manca sentire il suo respiro nella cella, mi manca il suo tocco. Non ho mai sentito così tanto la solitudine come in questi giorni. La notte mi addormento piangendo, dormo male, mi sveglio stanca e con le guance bagnate. Il giorno non mangio, bevo a malapena, non mi lascio toccare da chi viene per lavarmi.
La quindicesima notte la porta cigola e io mi tiro su velocemente. Spero così tanto che sia lui che non riesco a trattenermi e sussurro “Scusa, ero solo curiosa, ho sbagliato".

“Signorina, non sono il padrone, sono solo il povero Cleery. Sono venuto a vedere come sta, il padrone è preoccupato, ma anche molto arrabbiato.”

“Oh…”

“Perché non mangia, signorina? Forse non le piace ciò che Cleery cucina? Dovrò punirmi per questo…”

“No Cleery, mi piace, ma non ho fame. Ho combinato un pasticcio con il tuo padrone e non so come rimediare. Vorrei che tornasse qui per potergli parlare, per dirgli…”

“Per dirgli cosa, signorina?”

“Niente Cleery, non importa. Mangerò, se servirà a non farti punire."

Cleery se ne va e la cella torna ad essere l’antro oscuro e silenzioso che mi ha accolto il primo giorno. La sera arriva e io sono stremata, mi addormento senza accorgermene e mi sveglio nel momento clou di un incubo che ha protagonista Theodore. Mi sta per uccidere, Voldemort glielo ha ordinato e lui non può rifiutarsi. Piango e strepito, ma lui non può resistere all'imperius del Signore Oscuro e sta per pronunciare l’avada quando mi sveglio, sudata e dal respiro affannoso, gridando “NOOO!”.
Cleery sopraggiunge di corsa, spaventato, io ignoro le sue domande e continuo a piangere rannicchiata verso il muro. Resta con me per un po', ma alla fine desiste e se ne va.

Per quattro notti è la stessa storia. Mi addormento perché priva di forze per svegliarmi di colpo un attimo prima di morire. Gli incubi svaniscono al mio risveglio, lasciandomi però sempre più stanca. Cleery passa con me i momenti subito successivi al risveglio, ma non è lui di cui ho bisogno.

La ventesima notte mi addormento e poi mi sveglio, ma questa volta non sono sola e non c'è Cleery con me. Davanti a me c'è Harry Potter pieno di sangue, dietro di lui Hermione Granger e Ronald Weasley.

La consapevolezza mi investe come fosse il Nottetempo.
Non servono le parole di Potter né l'abbraccio di Hermione.
La guerra è finita, Lord Voldemort è morto e con lui i suoi seguaci.
Theodore è stato ucciso e io sono “finalmente” libera.
I singhiozzi e le grida di Cleery confermano la mia ipotesi: Theodore è morto e una parte di me, lo sento, è morta con lui.




Questa volta l'angolo autrice me lo ritaglio alla fine.
Eccomi tornata, sull'onda dell'ispirazione data da Matilde di Shabran sul forum di EFP (GRAZIE!).
Come sempre spero che questa storia vi piaccia e che vi faccia venir voglia di lasciare un commentino.
Spero di sentirvi/leggervi presto, 
Baci Lagertha.

   
 
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