Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    21/01/2019    0 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 22

SOSPETTI, MINACCE E RITORSIONI

 

 

 

«E quindi... queste sono le sue condizioni. Una resa totale, su tutta la linea. Dice che non abbiamo neanche un'idea della forza con cui la vendetta per i suoi confratelli e consorelle calerà su di noi tutti. E su,l nostro comune tempio»

«Ah» si lasciò scappare, sommessamente, una insolitamente allarmata Septa Sharma.

«Dice che è sicuro che questa volta Sua Maestà, con i suoi diavoli, non interverrà» continuò il giovane fratello Brendan «E se anche dovesse farlo... quell'intervento non potrà che essere solo successivo alla morte di Sua Sacralità e di tutti i Septon la cui casa è al tempio»

«Dovete subito inviare una bolla che sancisca il trasferimento dei vostri fratelli presso altre sedi, le più disseminate possibili» si affettò a dire il Lord Gran Maestro Adlai Irwin.

«E conclude che il dio suo padre abbia pietà delle nostre anime. Perché lui – Yashua – non ne avrà dei nostri corpi»

«IO NON CI STO!» esclamò invece l'Alto Septon, totalmente fuori controllo. Era da quando Brendan aveva cominciato il suo monologo che Sua Sacralità manifestava una certa cieca impazienza, che testimoniava sì tutto il suo essere appassionato e agguerrito, ma anche il suo essere letteralmente terrorizzato. Faceva così perché non aveva idea di come comportarsi. Era disperato; la più sacra tra le guide spirituali del regno, totalmente in preda alla disperazione. Disse ancora il pingue omuncolo: «Io mi rifiuto! Mi rifiuto di starmene con le mani in mano mentre questo losco figuro beatamente si permette di minacciare le fondamenta stesse della nostra società!» esclamò rabbioso rivolto verso Septa Sharma; e poi al Gran Maestro Irwin: «Mi rifiuto anche solo lontanamente di cedere a un patteggiamento con questo cialtrone, di fare anche solo mezza delle cose che lui abbia chiesto o voglia che facciamo! Ivi incluso manifestarci deboli e intimoriti, sospendendo le attività e mandando a casa i Septon! Non esiste!»

«E allora cosa intendi fare?» domandò Irwin, e Brendan si accorse bene di tutto il senso di disgusto che pervadeva il Gran Maestro nei confronti del suo interlocutore: si era permesso perfino di dargli del “tu”, tanto la situazione lo permetteva. «Quel bastardo deve morire!»

«Non c'è modo di farlo» continuò Adlai, anche lui evidentemente agguerrito e preoccupato della cosa, «Gabryaerys gli ha mandato il migliore dei suoi sicari: una creatura demoniaca con poteri paranormali e Yashua è sopravvissuto! È uno stregone, non lo si abbatte allo stesso modo con cui si abbatte un uomo»

«Non è possibile questo! Non esistono cose di questa natura: non lo sai? O forse alla Cittadella non te l'hanno spiegato?! I miracoli non esistono! La magia NON ESISTE!»

«E allora» intervenne Sharma, sempre più pacata, «Cosa credi sia accaduto la notte del vespro? Degli uomini sono morti...»

«Certo. Ma noi di questo non abbiamo alcuna prova, o sbaglio?»

«Abbiamo Brendan!» esclamò Irwin «Ora non ti fidi neanche di un tuo confratello giurato?! È davvero a questo che sei giunto?»

«Il ragazzo è chiaramente in preda al delirio. Lo avranno torturato durante questi giorni di prigionia presso quell'eretico bastardo: è certamente così»

«Non sono in preda al delirio!» esclamò Brendan, ma la risposta di Irwin fu ancora più irritata: «Ti sei allontanato così tanto dai poveri e dagli ultimi da non riuscire più neanche a prestare ascolto a loro! A quella che dovrebbe essere la tua gente! Loro hanno perso padri, e figli, e fratelli e sorelle quella notte. E tu non hai il minimo rispetto per questo». A quest'ultima provocazione, quello stupido vecchio – perché di stupido vecchio si trattava: ormai anche Brendan ne era assolutamente convinto, pur se non avrebbe mai avuto la forza di dirlo – non ebbe nulla da controbattere. Rimase in silenzio per qualche istante, poi con la stizza di un bambino viziato rispose: «Dovresti tornartene dal tuo re, Irwin, data la tua ormai conclamata inutilità. Torna al desco dove mangi con più piacere. Qui innervosisci soltanto». Irwin diede dunque le spalle e fece per andarsene sul serio. Septa Sharma però lo fermò davanti alla porta, con un flebile: «Adlai: aspetta». E lui si fermò. Eseguiva gli ordini di quella donna come se si trattasse della propria madre. Ruffiana, come assecondando un pazzo, la vecchia Septa cieca si rivolse dunque a Sua Sacralità: «Allora: qual è il vostro comando infine, o Altissimo?»

«Non lo so» ammise l'uomo che avrebbe dovuto essere il più sacro sulla terra e invece era solo ridicolo «Non abbiamo un modo di eliminarlo? Di occuparcene da noi stavolta? Non voglio più lo zampino del re in tutta questa storia»

«Adlai» disse ancora Sharma «Tu non dicevi che esiste qualcuno all'interno della cerchia del re di... più libero pensiero? Una colomba libera che si libri nell'aere, piuttosto che un falco che subito si precipiti sulla spalla del suo padrone a un pacato richiamo?»

«I-io... sì, ho un'idea che questa cosa potrebbe anche essere reale, ma... non posso garantirlo»

«Semina il terreno, figliolo. Semina il terreno e vediamo che frutti si possono cogliere. Perché, se la colomba è la stessa che penso io, allora è l'uomo più adatto ad informarci sul dove il sacerdote eretico si nasconda. Una volta saputolo, faremo ciò cui il cuore di Sua Sacralità anela»

«Non abbiamo tutto questo tempo!» s'oppose l'Alto Septon «Hai sentito le parole del ragazzo!»

«E Sua Sacralità» proseguì la vecchia, sostanzialmente scavalcando la replica del sommo sacerdote, «Imparerà che solo col dono della pazienza certe mete possono essere raggiunte». Ancora una volta, il volto del Sommo Septon si contorse come a voler vomitare qualche altra scemenza. Ma non lo fece: si accollò il rimprovero dell'anziana consorella. Irwin, dal canto suo, come un militare che esegue gli ordini del suo comandante, proclamò: «Richiederò subito un incontro con Lord Braff. Da soli» e sparì nel battito di un occhio.

Poco dopo, anche Sharma lasciò quella sala privata del tempio, accompagnata da tre solerti consorelle lì appositamente sopraggiunte per riportare la vecchia savia a casa. E Brendan rimase da solo con quel tronfio personaggio che una volta e per tutte era venuto fuori per quello che comunque già si era intuito che fosse: un miscredente, del tutto avulso a una vera ispirazione teologica o illuminazione divina, che per anni si era servito della propria carica per fare i suoi porci comodi. Spiaceva ammetterlo, ma quando faceva quei discorsi non è che Yashua avesse qualche ragione: l'aveva su tutta la linea. E c'era senza dubbio questo dietro al suo eclatante successo tra la povera gente della città. Adesso il diavolo era tornato, e la riposta dell'uomo a capo della più grande religione del mondo continuava a non essere all'altezza. Aveva ragione Irwin: non si poteva uccidere quello che Yashua era, qualsiasi cosa egli fosse, con le mere armi degli uomini. Infatti, anche la scelta di Sharma di assecondare il delirio del vecchio per Brendan non aveva molto senso: doveva esserci qualcosa sotto. Era chiaro ormai che fosse Sharma a comandare veramente lì dentro, con un Gran Maestro che pendeva dalle sue labbra esplicitamente, e un Alto Septon che invece veniva raggirato come un bambino. Gli si diceva che si sarebbe fatto quello che lui voleva, e poi invece si faceva altro: questa era la strategia di Sharma, che – anche questo ormai Brendan aveva avuto modo di concludere – era tutto fuorché una vecchia nonna che si limitava a dare amabili consigli. Sharma decideva: decideva pure più di Sua Sacralità.

Quanto al giovane novizio di Banefort, Brendan dei Sette Dèi, lui certamente non poteva che limitarsi ad osservare quanto deciso. Era stato lui ad esser scelto dal sacerdote oscuro Yashua come tramite per i suoi minacciosi messaggi. Poi, come al solito, la minaccia era sempre stata molto sottesa: ancora una volta, Yashua non aveva torto un capello che uno al novizio dei Sette, ma l'aveva preso con la magia e se l'era portato da qualche parte fuori dalle mura della città. Lì l'aveva tenuto prigioniero presso una sorta di accampamento molto temporaneo, nel quale Brendan aveva sentito molte voci, ma solo una volta aveva visto un fedele fare visita al suo profeta sbagliato: un forsennato mezzo nudo e in preda ai deliri, ma che aveva eseguito senza esitazioni i comandi del suo padrone; niente di cui Brendan però avesse capito molto. In quel momento aveva ben altro a cui pensare: tipo confessarsi, perché temeva ben presto di raggiungere la casa dei padri e delle madri.

Invece ancora una volta non era successo: Yashua non l'aveva ucciso, gli aveva dato un comando. Gli aveva detto di portare ai vertici della Chiesa dei Sette un messaggio di avviso: la rappresaglia sarebbe presto arrivata per Sua Sacralità l'Alto Septon e per chiunque bazzicasse il suo tempio (quindi solo confratelli maschi nei giorni comuni e una pletora di fedeli invece nei giorni di messa); niente più e niente meno rispetto a quello che Yashua credeva di aver subito il giorno della strage del vespro, quando il Primo Cavaliere, in nome e per conto di re Gabryaerys ma soprattutto di Sua Sacralità, aveva ucciso un numero sconcertante di fedeli del dio rosso. Una strage, per l'appunto. E probabilmente con una strage il mago del fuoco Yashua intendeva rispondere. Proponeva tuttavia un'alternativa: un'alternativa che chiaramente sapeva che l'Alto Septon non avrebbe mai accettato. La proclamazione coram populo della adesione personale di quest'ultimo, e insieme della Chiesa che rappresentava, alla fede del dio dell'oriente, di cui Yashua sosteneva di essere figlio e profeta. Ma siccome l'alternativa era quasi più assurda della minaccia, allora sia Brendan sia chiunque altro avrebbe giurato che in realtà era allo scontro che il sacerdote del dio rosso voleva arrivare. Solo l'Alto Septon, nella sua infinita cecità (più cieco lui della vecchia Sharma), non aveva compreso la situazione. E la situazione era la seguente: che probabilmente molti dei confratelli dei Sette, forse pure Brendan stesso, sarebbero morti nei giorni a seguire. E che invece lui, Sua Sacralità, sarebbe morto di sicuro. Non voleva accettarlo l'Alto Septon, ma era già un martire. Un morto che diceva messa.

 

 

 

In termini di politica, la conferma più interessante della grande dieta di Braavos in cui si stavano riunendo alcune delle più importanti personalità del regno – e nella fattispecie del continente orientale Essos – era quella di Lord Petyr Baelish trentottesimo, dalla Valle di Arryn. La sua presenza in quelle riunioni significava che l'ovest non mollava. Per quanto, da quando si era insediato, il nuovo re Gabryaerys non aveva manifestato grossi interessi in merito al continente dal quale pure – si diceva – provenisse, comunque i due continenti erano inevitabilmente legati a doppio filo. L'est forniva all'ovest di che sostentarsi, e l'ovest, in cambio, ricopriva pochi uomini fidati d'oro e altre ricchezze dalla testa ai piedi, ma col giuramento solenne di tenere a bada la plebe che, manco a dirlo, moriva di fame. Si trattava degli uomini che Garhel Sawela aveva combattuto per una vita intera, tutti riuniti adesso in una stanza sola. Se solo fosse stato in altre condizioni, se solo quello fosse stato appena qualche mese prima della sua vita, avrebbe preparato un'arringa con parole di fuoco per quella gente, così come diverse volte aveva fatto ai tempi del Concilio Ristretto, quando tuttavia il re era Lionel, un re comunque inadeguato per il continente orientale, ma senza dubbio migliore di questo che era venuto adesso.

Se Baelish tuttavia, con i suoi sorrisetti e abiti pesanti, rappresentava la presenza politica più interessante, volta a comunicare che anche l'occidente – o almeno una parte di esso – a quello che succedeva tra quelle sabbie e quelle rocce in qualche modo era interessato, certo i più appariscenti rimanevano i Gaholla. Tutti insieme al completo, Sawela li aveva visti una volta sola, a Roccia del Re, ma non se n'era mai più dimenticato: erano uno spasso. I Gaholla erano un po' come Garhel o come Justus Panecha, anche loro di origine estremamente recente: il loro stemma era mutuato dalla chimera dei Lannister, perché era stato proprio grazie a Lionel che si erano arricchiti. Inoltre, non ricoprivano una vera e propria carica nobiliare: il loro ruolo era definito “governatorato”; rappresentavano insomma direttamente il re su una lingua di terra che andava da Pentos (la loro capitale) e poi risaliva fin su alla Valle de Leone, altro territorio di diretta giurisdizione della Corona. Anche per questo, il simbolo dei Gaholla era paro paro alla chimera dei Lannister, solo con un martello da operai tra le zampe, e qualche colore diverso. Comunque la principale differenza tra i Gaholla e Garhel o Lord Justus era che quelli di cercare di mettere da parte i loro costumi da popolani neanche ci provavano. Erano chiassosi e avevano un particolare gusto per la derisione; sfottevano prima di tutto loro stessi: padre, madre e figli non erano loro se non si riprendevano costantemente gli uni con gli altri in maniera grossolana e rumorosa. E poi naturalmente sfottevano gli altri: un dileggio assolutamente democratico, visto che comprendeva regnanti e plebei, maschi e femmine, vecchi e bambini. Non c'era cattiveria nei Gaholla, solo una profonda ignoranza e un gigantesco cattivo gusto.

Quel pomeriggio, alla dieta di Braavos, erano sei in totale, più una pletora di consiglieri e traduttori vari: c'era Lord Juxas il patriarca dai movimenti impediti per la gotta e il sovrappeso, sua moglie Lady Gertrude, e poi le loro tre figlie: Gelynda, Gelhangela e Gernarda. Chiudeva il gruppo Sir Poll, fratello gemello di Gelhangela, soprannominato un po' ovunque “il cavaliere smunto”, perché pallido e molto secco, anche se – a quanto si diceva – più abile col fioretto di quanto il suo aspetto un po' malaticcio non lasciasse presupporre. C'erano poi altre due bambine più piccole in famiglia, ma che giustamente il resto dei Gaholla non aveva ritenuto opportuno portare.

Gelynda, Gelhangela e Gernarda erano tutte bruttissime: di un biondo scialbo e di un pallore cadaverico. Biondo, scialbo e cadaverico era anche Poll, ma nel complesso, data almeno una certa altezza e larghezza di spalle e una certa delicatezza di lineamenti del viso, il cavaliere smunto era il migliore della famiglia. Almeno le sue battute erano un po' più “raffinate”, cosa che però lo faceva apparire un po' un pesce fuor d'acqua in mezzo a quel marasma di voci urlanti che il resto della famiglia altro non era. Quello che Sawela sospettava era che l'animo più gretto dei Gaholla provenisse dal gene di Lady Gertrude piuttosto che da quello di Lord Juxas, cosa che spiegava lo stile leggermente superiore dei due maschi della famiglia. Solo che da quando gli era morto il figlio primogenito, Lord Juxas era diventando un vecchio sempre più grasso, più passivo e più silenzioso, sua moglie una matrona sempre più pretenziosa, agitata e rumorosa. Purtroppo, il lutto è qualcosa che ognuno gestisce a suo modo, e Lord Juxas l'aveva gestito proprio male. Ma su di questo, Lord Garhel Sawela non intendeva riflettere oltre.

Gli altri convitati quel pomeriggio, a Braavos, erano: Lord Goldsmith, il padrone di casa con tigre rossa in campo oro, detto il Lord banchiere; Lord Loackland di Myr, con i suoi tre serpenti intrecciati; e da ultimo Panecha, con Banfred e Garhel al suo fianco, pronto a gettare la bomba che avrebbe causato il caos in quella già troppo prevedibile riunione. A quanto Garhel ne sapeva, la riunione si stava facendo perché Gaholla lamentava degli illeciti sconfinamenti di uomini, a suo dire, facenti capo al vicino Loackland, presso città e altri abitati più piccoli sotto la sua giurisdizione. Goldsmith se ne sarebbe approfittato per bersagliare anche lui Loackland, suo antico avversario, e Lord Justus avrebbe fatto, al solito suo, il “pacato connivente”: con la scusa della pace come unica alternativa, e insieme con quella che in realtà i suoi territori erano ancora più ad oriente e quindi lontani da quelle beghe, si sarebbe tirato fuori da qualsiasi partecipazione a qualsiasi conflitto, in questo modo tuttavia determinando la sicura disfatta della casata della serpe a tre teste. Lo sapevano tutti: se una vera guerra doveva scoppiare in oriente, allora sul campo di battaglia avrebbero dovuto affrontarsi gli eserciti di Goldsmith e di Panecha. Se ciò non avveniva, tutto il resto sarebbero sempre rimaste delle mezze guerre, delle guerricciole.

La procedura formale della riunione, così piena di lungaggini e futilità, stava annoiando non poco l'ex Tribuno Popolare. L'incontro durava da ore, e di tutto si era discusso meno che degli affari di vicinato tra Loackland e Gaholla. Ciò che incuriosiva, e insieme un po' turbava, il vecchio Tribuno Popolare era che, oltre che la sua, la faccia su cui più di ogni altra si leggeva lo scazzo era quella del Lord di Pentos, di sua moglie e della loro comune progenie. Quelli che si divertivano di più erano proprio Panecha, Goldsmith, e tutti i loro araldi e consiglieri. Quanto piacevano alla tigre e all'elefante i tempi lunghi delle convenzioni! Nei tempi lunghi, una tigre studia nei minimi dettagli il suo agguato. E in tempi ancora più lunghi, l'elefante accresce la sua mole fino a divenire sostanzialmente inattaccabile. Questo Garhel lo sapeva: era uno che aveva viaggiato tanto Lord Sawela, nelle sue vite precedenti, e conosceva sia le bestie che gli uomini.

Quando alla fine di tutto, si arrivò alle rimostranze di Gaholla, la cosa ovviamente durò pochissimo. Lo stesso Gaholla, che era tenuto a denunciare pubblicamente la questione, non era stato il massimo nella scrittura del suo discorso, che difatti finì in sceneggiata: lui stanco e sudato, la moglie strepitante, le figlie scalpitanti. E Poll, assolutamente perso nei suoi sicuramente futili pensieri. Arrivarono le minacce, i paroloni. Arrivò il momento in cui sostanzialmente le tre case più grandi avrebbero dovuto unirsi contro il piccolo governatore al soldo del re. Loackland disse: «Io direi di dichiarare chiusa questa farsa: Lord Gaholla non ha prove per giustificare le sue rimostranze, dovesse insistere per l'intera nottata. Non avrà più il mio ascolto!»

«Ah, s-sì?» balbettò il Lord operaio «Allora a-avremo quello del re!»

«Di che re?» fece Baelish, sottilmente. Saggiamente, Gaholla tacette. Ma purtroppo non lo fece la sua grassa e brutta moglie, che invece – ormai senza completamente freni inibitori – esclamò tutta convinta: «L'unico vero re del Regno Unificato! Lord Constant Lannister!». Un silenzio imbarazzante piovve nella sala. Perfino quelle cagne delle figlie si erano rese conto della colossale cazzata che Lady Gaholla aveva appena pronunciato, lì davanti a tutti.

Qualcuno tra i consiglieri di Loackland esclamò: «Tradimento!»

«No!» fece Goldsmith a sorpresa: era il padrone di casa e, in qualche modo, presiedeva la seduta «Un momento, non acceleriamo. Mylady Gaholla, mylord... se non vi foste lasciati prendere dal panico, e non vi fosse appena scappata quella che ritengo una somma castroneria, avrei aggiunto che ci sono io»

«A far che?» domandò Loackland, arricciandosi i baffetti. La cosa doveva averlo un po' stranito.

«Ad appoggiare la loro mozione» proclamò il Lord banchiere. «Sono convinto che si debba votare, Loackland, e, se il caso, che voi dobbiate risarcire i signori di Pentos dei vostri torti». Era un colpo di scena. Anziché con la casa media, quella grossa si stava unendo con quella piccola. A quale fine, era tutto da vedersi: Garhel non ci capiva mai niente, quando i politici cominciavano a far politica in quella maniera. Mosse e contromosse in preparazione di eventuali mosse e contromosse dopo altre mosse e contromosse di copertura. Nelle armi non era così; nelle armi si preparava una strategia, ma poi bisognava metterla in atto subito, altrimenti la battaglia era perduta. Volevi fare il furbo? Bene: potevi farlo, ma sempre nei tempi in cui un campo di battaglia lo permetteva. E invece no, Goldsmith, per quanto lo riguardava, in quel momento stava giocando un'altra partita. Una che Garhel onestamente non conosceva.

Tutti gli sguardi a questo punto si rivolsero verso Panecha. Se Panecha decideva di appoggiare come al solito Goldsmith con la sua non belligeranza, allora Loackland chiaramente sarebbe finito per fare la fine di un Gaholla qualsiasi. Ma se Lord Justus, per qualche ragione, avesse deciso di non appoggiare il salto mortale dell'amico banchiere, decidendo di sostenere la pure vecchia sua alleanza con il baffuto Lord di Myr, allora forse davvero quella Dieta di Braavos sarebbe potuta entrare nella storia.

Fu così che il grasso Lord di Marrah si alzò solennemente in piedi, avvolgendosi nelle sue vesti gialle e vaporose, e sentenziò: «Io ritengo... che uno scontro, anche se lecito, non sia mai la soluzione. E quindi qualsiasi provvedimento, anche solo economico, verso il nostro comune amico Loackland sia fuori luogo. Tuttavia non posso intervenire perché non si decida il contrario, impelagando la mia regione in questioni che poco o niente la riguardano. Auspico in ogni caso una soluzione comune e costruttiva». Sawela si chiedeva se prima o poi Goldsmith non si sarebbe stancato di quel tronfio alleato che gli permetteva sempre di far tutto, ma faceva sempre fare a lui il ruolo del cattivo. Alla fine, Loackland sarebbe stato multato e nessuno avrebbe potuto farci niente: Goldsmith e Gaholla insieme facevano due contro il solo Loackland, e Panecha che si asteneva. Petyr Baelish invece non aveva alcun diritto attivo in quella riunione, si limitava ad assistere. E il bello era che quei soldi che Loackland avrebbe dovuto pagare a Gaholla, alla fine sarebbero comunque arrivati a Goldsmith: tutti in oriente avevano debiti con Goldsmith.

Ma Justus Panecha non aveva ancora finito; decise di utilizzare quello stesso momento per annunciare la questione del drago di Valyria. Continuò: «Una soluzione comune e costruttiva è infatti necessaria, amici, tra noi e con l'occidente, se vogliamo sopravvivere alla grande sfida che ci si para dinanzi. Una sfida che non ha precedenti nella storia». Da vicino che era a Lord Panecha, Garhel si accorse benissimo di un Lord Goldsmith che, coprendo la bocca con la mano, si avvicinò al Lord elefante e disse: «Justus... ma che stai dicendo?». Panecha lo ignorò e proseguì: «La notizia è assolutamente sicura e confermata. Siamo in guerra. E lo siamo tutti come umanità. Un essere mezzo donna e mezzo drago, sedicente millenario ed imbattibile, ha già quasi pronto un esercito di mostri e demoni presso l'antica roccaforte di Valyria. Ivi va fermato. Ma io da solo non posso. E non possiamo in due, forse non possiamo in dieci né in mille. Eppure dobbiamo provarci: periremmo tutti assieme, anziché uno dopo l'altro. Fratelli, non nemici. Fratelli nella comune battaglia».

A ben pensarci, questo sicuramente scompaginava i piani di Goldsmith. Lui voleva i soldi da Loackland e li voleva prima di subito, data la sanguisuga assetata che tutti sapevano fosse. Tuttavia ora quella questione rimandava a dopo qualsiasi altro affare. Compresi gli affari del Lord di Braavos, che chiaramente era il primo a non potersi sottrarre dall'afferrare questa patata bollente. Ora l'importante era che non facessero gli stronzi, e seppellissero l'ascia di guerra per andar tutti a combattere Kimera.

All'inizio le reazioni furono tiepide, chiaramente molti stentavano a credere a quelle parole. Ma Lord Justus non era noto per essere uno che inventava, anzi era noto per essere un individuo piuttosto pragmatico. Sicuramente si aspettava quello che gli altri chiedevano: tempo. Avrebbero inviato ciascuno le proprie spie per andare a vedere se davvero nell'arcipelago del sud stava avvenendo quanto l'elefante aveva barrito. Tempo non ce n'era: ma Panecha sapeva che non c'era neanche molto altro fa fare. I Lord erano tutti individui malfidati e sospettosi, e quello era il minimo. Poi c'era da vedere chi in effetti avrebbe aderito alla causa, e chi invece avrebbe fatto orecchie da mercante. E in ultimo c'era da avvisare il re dell'occidente: da quello che tutte le premesse lasciavano presupporre, Sua Maestà non avrebbe preso a cuore il problema ma... tentare era necessario in ogni caso.

Si concluse così la grande Dieta di Braavos, senza ulteriori sorprese o novità. Ce n'erano già state abbastanza per quei vecchi volponi di Loackland, Goldsmith e Petyr Baelish. Anzi no: una importante novità ci fu. Nel bel mezzo della notte, negli appartamenti privati nei quali era alloggiato e non molto distante da quelli di Lord Panecha e dello stesso Garhel, il baffuto Lord Loackland, la serpe a tre teste, venne assassinato.

 

 

 

Gino della Casa Barron sentiva di trovarsi ormai disperso in una sorta di vortice, chiaramente dovuto alla terra di Dorne, il quale tendeva a mischiare insieme ogni cosa: il tempo, la sua lucidità mentale e la sabbia. Era come costantemente in una sorta di stato di ebbrezza; anche quando non abusava del buon vino del deserto o delle splendide ragazze che puntualmente gli venivano fornite a un suo cenno, Gino si sentiva ubriaco. I giorni passavano tutti uguali, anche se le cose in realtà formalmente parevano mutare. Sotto la guida di Sir Darkhon Dayne, la spada dell'Alba, il signore dell'Altopiano e dell'intero sud del continente si era imbarcato in una disperata ricerca di Saestrya Martell che, sebbene a giudizio di Dayne fosse la cosa giusta da fare, in realtà ancora stentava a dare dei frutti.

Dayne diceva di conoscere tutti i nascondigli della principale fomentatrice di dissidi all'interno del regno del giovane Barron, eppure già due ne erano stati visitati, e in nessuno dei due Saestrya si era fatta vedere. Anzi, il signore assoluto di quei luoghi aveva anche fatto una gran brutta figura con dei suoi potenziali sudditi e alleati, accusati immotivatamente di cospirazione e costretti a controlli forzosi nelle loro proprietà che piacevoli non potevano chiaramente essere. Dayne sosteneva di conoscere quella gente, e continuava ad assicurare Gino che quelle cose non avrebbero avuto chissà quali ripercussioni. La gente di Dorne era per sua natura molto abituata alle grandi scene: reagiva male e in maniera teatrale, ma in realtà giustificava qualsiasi colpo di teatro, ivi inclusi quello che Gino e Sir Dayne stavano mettendo atto in quei giorni.

Fu così che con un po' di disincanto il giovane Lord dall'unico occhio partecipò all'ennesimo raid consecutivo condotto in suo nome dall'uomo cui effettivamente il caso aveva dato la facoltà di brandire la spada millenaria, fatta di una pietra lucente di cui nient'altro era fatto al mondo. Da settimane si conoscevano, eppure Dayne non gliel'aveva fatta provare una volta! Faceva tutto l'espansivo: offriva cibo esotico di qua e puttane di là, ma tutto era come se facesse parte di un suo gioco. Chiaramente offriva anche ragazzi: Gino non aveva alcun dubbio ormai sul fatto che alla corte dell'esotico Sir non venisse disdegnato nessun bene della natura, ma ovviamente il Lord dell'Altopiano non ne aveva accettati. Ubriaco sì, ma ancora non fino al punto di cedere a cose che andavano al di là di ogni suo possibile gusto. Lo sorprendeva che almeno una metà anche dei suoi, la dozzina di guerrieri che si era portato giù dall'Altopiano, aveva ceduto pure a quelle tentazioni che Dorne offriva. Ma Dorne era Dorne, e dunque la sorpresa poteva esserci solo fino a un certo punto.

La sorpresa vera e propria invece finalmente giunse e fu una bella sorpresa: Lord Barron, il Guercio, vide con il proprio occhio Saestrya Martell rifugiarsi all'interno della nuova magione dove Darkhon li aveva condotti quella sera. Finalmente Dayne ci aveva preso: Saestrya era lì, in quella impronunciabile villa di mattoni dorati, esattamente uguale alle altre che si erano ripetute nel corso di quella operazione. Gliel'avevano detto, ma Gino non ricordava neanche esattamente il nome del signore che vi avrebbero trovato dentro. Era stanco; stanco di sentirsi assuefatto a un contesto a lui così estraneo e fintamente piacevole. Era un po' come l'acqua nel deserto, tutta quella situazione. Finché stavi ad Altogiardino o a Roccia del Re, l'acqua era un bene comune, quindi sì: bevevi per dissetarti, ma mica ti piaceva il sapore dell'acqua! Ti piacevano il vino, e le carni, e la frutta, e le spezie. Invece nel deserto, quando per interi giorni di acqua non ne vedevi, laggiù l'acqua aveva un sapore; un sapore dannatamente buono. E così le baldracche di Darkhon, o le su smancerie, o la sua finta ospitalità, o i suoi piani ridicoli: non erano dei buoni piani. Erano piani buoni perché si trovavano a Dorne, e lì funzionavano. Solo lì.

Gino lo aveva già notato quando per un breve periodo era stata Saestrya a catturare lui: la giovane rivoltosa era un rarissimo esempio di donna più affascinante che bella. Sembrava un serpente e, detto così, chiaramente non richiamava nulla di bello. I suoi tratti erano spigolosi, i suoi occhi scuri, sospettosi e letali. Era piuttosto minuta sia per altezza che per massa: aveva giusto un paio di seni appena sopra la sufficienza, e un ventre che tre quarti delle puttane di Dayne ce l'avevano migliore. Eppure aveva il fascino della libertà, il fascino della rarità e dell'emancipazione. Il fascino di una donna che dava comandi a un esercito di uomini. Che non temeva, anzi che combatteva. Era questa la sua vera forza: Saestrya era bella perché era libera e selvaggia, come un fiore del deserto. Solo che, come un fiore del deserto, avrebbe potuto pure rivelarsi mortale e anzi, per quanto concerneva la sfera degli interessi di Lord Gino della Casa Barron, lo era ed era il caso che smettesse. Fu così che la compagnia guidata da Barron e Dayne fece irruzione nel castello dell'ennesimo ricco dorniano dal nome strano.

Saestrya li vide, scappò guidata dal padrone di casa. Uomini armati di scimitarra bloccarono la via di Gino e i suoi. Un gruppo fu costretto a fermarsi subito, ma non Gino, Darkhon e qualche altro, che invece proseguirono. Poi altri si arrestarono ancora, sempre bloccati da gaglioffi che spuntavano fuori dai corridoi come rettili striscianti. Anche Darkhon fu costretto a fermarsi stavolta, ma non Gino, che raggiunse praticamente da solo l'ennesima anticamera dove Saestrya e il vecchio si erano rifugiati e questa volta fermati.

Il vecchio si mise da parte, terreo in volto come un panno appena uscito dalle lavande. Lei invece tirò fuori due mezzi spadini, una sorta di pugnali un po' più lunghi e appuntiti, e sfidò Gino in singolar tenzone. Con l'obiettivo di ammazzarlo.

«Sei bello» commentò la rivoluzionaria «Cercherò di riconsegnarti alla tua famiglia senza ulteriori sfregi su quel bel faccino»

«Mi dispiace, milady» rispose il Guercio a tono «Non ho più una famiglia»

«Oh, mi stai spezzando il cuore»

«Addirittura! E a me che avevano detto che Saestrya Martell fosse una frigida calcolatrice, un pezzo di ghiaccio senza alcuna emozione»

«Saestrya Martell?» rise la donna «Forse. Ma io...».

Fu un peccato, un vero peccato. Era un bel duello e Gino avrebbe voluto condurlo fino alla fine: uccidere la serpe con le proprie mani. Invece vennero interrotti, e anche il discorso della ribelle venne troncato di netto. Stava per dire qualcosa di importante, l'espressione sul suo viso era cambiata: Gino lo lesse chiaramente questo. Ma il fato invece non ebbe rispetto di questa svolta. Darkhon Dayne piazzò una lunga lancia nel ventre di Saestrya, scagliandola dalla distanza. Gino non aveva mai visto nulla di simile: all'Altopiano non si usavano quel genere di armi. La donna finì appesa alla parete dietro di lei, floscia come un manichino di pezze: uno spettacolo disarmante.

Lì per lì, Gino si adirò pure per l'accaduto. Non ci rifletté e sbottò: «Ma che diavolo fai? Stava per parlare!»

«Parlare?» fece la Spada dell'Alba «E per dir cosa?»

«I-io non lo so! Forse avremmo potuto beccare altri complici, oppure... Quando l'ho chiamata Saestrya Martell... e-ecco lei ha fatto una faccia' strana»

«Mylord, lo capisco: ma se non ti fosse chiaro, siamo nel bel mezzo di un'operazione delicata e siamo inseguiti! Non ci ho pensato, l'ho vista e l'ho ammazzata! Posso scortarti fuori adesso, prima che questo posto divenga letteralmente un bivacco di manipoli?»

«Sì...» fece ancora Gino, francamente un po' confuso, «Sì, andiamo». Non voleva Saestrya morta, e aveva ancora l'impressione che quella donna, prima della morte improvvisa, stesse per rivelargli qualcosa di importante. Ma anche lui al posto di Darkhon quasi sicuramente si sarebbe comportato alla maniera in cui Darkhon si era comportato. Quindi decise di mettere un punto a quella paranoia e andare avanti: bisognava lasciare quel villaggio in fretta, e poi riassestare le idee. Saestrya Martell era morta, e Gino della Casa Barron aveva portato a compimento la sua missione.

 

 

 

Un incubo. Daniel si era appena svegliato. Aveva fatto un bel sogno: lui e Licyane a corte a Roccia del Re, con suo padre e i suoi fratelli e le sue sorelle, tutti vivi. C'erano anche Sir Cordell, il suo vecchio amico, Lord Braff il suo vecchio tutore e Lady Xalandra, la sua vecchia... amica pure lei. E poi, come spesso accade nei sogni, tutto improvvisamente divenne sfumato e Daniel si ritrovò nella sua vecchia cara Cowain. A scopare con Licyane, sulla battigia; le onde del mare tiepide e avvolgenti. E poi tutto sfumò di nuovo, e Daniel aprì gli occhi. Non c'era più sole attorno a sé, c'era grigio. E chiaramente non c'era caldo, ma un freddo gelido e penetrante, nonostante la coperta pesante che aveva addosso. Insomma il principe di Cowain si risvegliò in un incubo. Si risvegliò nel mondo reale, ma il mondo reale era un incubo. Un incubo dove il sole c'era, ma era sempre nascosto e il suo bagliore era come addormentato. Un incubo dove il caldo sostanzialmente non esisteva. Un incubo chiamato Biancavilla del Nord.

Non ci mise molto lo sceriffo Chrom a prendere prigionieri tutti gli ospiti della fattoria di quei padre e madre di Licyane che madre e padre di Licyane realmente non erano mai stati. Dopodiché il barbuto uomo d'arme del nord aveva passato il testimone a un manipolo più armato del suo sui cui scudi era inciso l'orso rampante della Casa Worchester. E poi un lungo viaggio, mezzi morti e mezzi addormentati. E poi la prigione di nuovo. Di nuovo in quella camera della magione di Lord Uryon dove da troppo tempo restava e per chissà ancora quanto tempo il principe di Cowain sarebbe rimasto; forse per sempre. Del momento in cui lo avevano ricondotto in camera Daniel onestamente non si ricordava. Così come non si ricordava nemmeno di quello in cui qualcuno, per ordine di Uryon, gli avesse messo dei nuovi piccoli frammenti di Pietra di Luna addosso, stavolta in due piccoli ceppi ciascuno incatenato ad uno dei polsi del principe.

La cosa brutta, pessima, terribile, era che in quelle condizioni sicuramente lui non era l'unico. Lo aveva detto a Licyane! Gliel'aveva detto e ripetuto che non era il caso di coinvolgere altra gente, anzi non era il caso proprio di farla, quella pazzia di scappare dalle grinfie dell'orso. Non così, e non in quel momento. Maledetta testarda di una nordica! Dov'era ora? Qual era la punizione che Uryon aveva scelto per lei? E quale la punizione per Kohler, Holler e gli altri amici che per tutto quel tempo al nord avevano fatto in modo di rendere le sue giornate molto meno amare di quanto in realtà non potessero essere? Ma soprattutto chi era davvero, Licyane? Era Anylice? Quel pensiero gli cominciò a girare per la testa persino più di qualunque altro. Era assurdo: avrebbe dovuto pensare alla sua salute, alle sue condizioni, e alle condizioni degli amici che lo avevano seguito nell'attuazione del folle piano di Licyane. Eppure quella cosa così secondaria, in quel momento, per il Daniel immobile, indolenzito e ancora mezzo addormentato nel letto di quella camera, risultava invece determinante. Una fanciulla con gli occhi di ghiaccio e la pelle bianca, addormentata su una tomba degli Stark, otto o nove mesi prima. Era lei... Doveva essere lei. La magica ragazza dai poteri di ghiaccio assai più sviluppati dei suoi di fuoco, che per un certo periodo lo aveva accompagnato verso il nord più a nord e... di cui lui si era innamorato, e che poi era scomparsa. Era lei? Era riapparsa? Quindi Daniel si era innamorato di lei due volte, anche se in effetti le due ragazze, sebbene simili, non fossero proprio identiche... Daniel si ricordava bene: Anylice aveva dei tratti disumani, che in Licyane francamente non riusciva a rintracciare. Doveva essere una mezza dea o un mezzo diavolo la prima ragazza, la seconda invece era fatta di carne e sangue e ossa. E di una vulva fantastica, oltre tutto.

Il tempo di rifletterci oltre non gli venne dato. Il principe Piromante non sapeva come, ma ebbe la sensazione che Uryon sapesse che si fosse destato. Si lasciò anticipare da una serie di attendenti che lo aiutarono ad entrare dentro. Con lui lì, quella camera che Daniel avrebbe definito di medie dimensioni, rimpicciolì al livello di un bugigattolo. Sembrava poi invecchiato, Lord Uryon... o forse semplicemente i pochi giorni che aveva passato senza vederlo avevano concesso al Piromante il piacere di dimenticarsi del volto deforme del mostro di Amergoth, con le sue troppe ossa o troppi ammassi di carne sistemata in maniera anomala sul faccione da creatura delle fiabe, di quelle che si raccontano per spaventare i bambini: e non solo loro.

Il signore del castello sorrise al principe del sud, con un fare un po' strano. Come se fosse imbarazzato per qualcosa, o come se avesse qualcosa da nascondere. A Daniel non gli piacque. A Daniel, Uryon non piaceva mai, ma proprio in quel momento gli stava piacendo molto meno rispetto al solito. «Sono rammaricato» fece l'orso del nord, «Veramente rammaricato. Non è colpa mia... Talvolta nel mondo accadono cose di cui, anche se ci limitiamo ad essere spettatori, non possiamo che restare lì a guardare, con un certo senso di colpa. Forse solo perché... felici del fatto che quelle cose capitano agli altri e non a noi. Tragedie, calamità, catastrofi. Tutti eventi nei quali non abbiamo il minimo controllo. E così non ne ho io, ora». In questa, il signore di Amergoth, afferrato alle sue stampelle, fece un cenno a qualcuno vicino al letto di Daniel. Lo misero in piedi, e fecero per condurlo da qualche parte: in quelle condizioni, il principe di Cowain si rese conto di non avere neppure la forza per muovere i piedi. Uryon continuò: «Ci ho riflettuto lungamente. Mi sono detto: quale può essere la pena esemplare? Che cosa posso fare io, per ottenere che sua Grazia il principe... smetta di fare del male a se stesso e agli altri con questi illogici tentativi di schierarsi contro di me. I nostri interessi sono convergenti, principe Daniel. Tanto è vero che, se tu non fossi fuggito, ora tutto questo non sarebbe accaduto. Cose di cui ti ripeto tutto il mio rammarico. Ma è stata colpa tua, non mia. Io ho cercato di essere ospitale con te, e cortese. E tu mi ripaghi... costringendomi a tutto questo. Devi guardare, e guarderai da solo. Io non ne ho la forza». Uryon rimase indietro, mentre i suoi uomini, con la presa sempre ben salda su Daniel, conducevano quest'ultimo davanti alla finestra.

Dapprima il principe vide il sole; il solito pallido sole del nord, un po' smorto un po' coperto, ma comunque in grado di permettergli di osservare bene tutto ciò che c'era dintorno. All'inizio lo sguardo del principe si perse sulle montagne, poi sulla valle. Solo dopo udì come delle urla soffocate, urla di chi... non ha neanche più la forza di aprir la bocca. Piano piano, il suo sguardo si spostò sempre più giù. Holler, Kohler, e tutti gli altri bravi ragazzi del nord che lo avevano aiutato a scappare, erano stati impalati. Sangue nerastro sgorgava copioso lungo tutte le loro immote nudità. Uno spettacolo raccapricciante. Ma il peggio, era quello che veniva sotto...

Le urla sopite erano di Licyane. Anche lei era sanguinante, ma viva. Uno di quei porci imbecilli ignoranti che già una volta ci aveva provato, la stava violentando con l'andazzo di un animale. Altri due la tenevano ferma, mentre un altro ancora... un altro ancora... Daniel non capì bene che cosa le stesse facendo, o non volle capirlo. Non erano solo quei quattro balordi del giorno del primo incendio che Uryon aveva chiamato per quell'osceno lavoro. C'erano anche alcuni suoi soldati, una decina in tutto. Tutti messi lì a turno ciascuno autorizzato a sfogare qualsiasi più primitiva inclinazione sulla bella addetta alla biblioteca di cui il principe di Cowain aveva avuto lo sfortuna di innamorarsi. Soffriva Licyane, ma non aveva più voce per manifestarlo. Gridava e piangeva, ma i suoi gemiti non riuscivano a risalire la torre dove il suo Piromante si trovava e la osservava. Daniel avrebbe voluto esplodere. C'era già riuscito una volta, e non capiva perché ancora non stesse succedendo...

Non successe nemmeno quando, dopo fin troppo tempo, finalmente il diabolico orso del nord non disse ai suoi di rigirare il principe. Non scaturì alcuna scintilla da Daniel di Cowain quel giorno, se non dallo sguardo. Lo sguardo di odio con cui decise di continuare ad osservare Uryon, mentre lui, tutto contrito, se ne stava pure in quella stanza a guardarlo a sua volta. Licyane fuori continuava a subire quello che stava subendo, ma né Daniel né Uryon facevano alcunché. Erano dentro la camera-prigione del principe di Lannister. E si guardavano. Ancora e ancora. Fino alla fine del trattamento.

   
 
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