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Autore: Fenice e Dregova    21/01/2019    0 recensioni
All'alba dei tempi, la terra era abitata da moltissime creature. Le più potenti erano i draghi che offrivano protezione alle altre razze che stavano crescendo sviluppando la loro propria magia. In un tempo in cui la pace sembrava prosperare, i draghi commisero un errore che risvegliò un male rimasto imprigionato nel baratro del nulla per secoli: donarono la magia agli uomini. I maghi cominciarono a scavare nei segreti cui potevano ora accedere e, spinti dal desiderio di un potere sempre maggiore, finirono col seguire il canto seduttore dei demoni. Li liberarono e cominciò la guerra che terminò, secondo una leggenda, col sacrificio di alcuni rappresentanti dei popoli che abitavano il pianeta. I maghi divennero i nuovi custodi della pace, mentre i draghi si estinsero. Ma c'era qualcosa che si stava muovendo, l'ombra di un'antica minaccia che era riuscita a fare capolino dal buco oscuro in cui era stata richiusa. Cosa ne sarà della giovane Hel, riuscirà a destreggiarsi tra i problemi legati alla sua famiglia e quelli nati dall'avere la magia nelle vene?
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4:

 

Camilla quella sera non riuscì a dormire. Il pensiero di Hel nella camera poco distante dalla sua la turbava.

Col padre aveva passato un bellissimo fine settimana a Venezia e il ritorno a casa era stato traumatico. Dover tornare consapevole che la finzione era solo una finzione e che la verità era pronta ad aspettarla sotto le sembianze di una ragazzina taciturna, col naso piccolo e leggermente storto alla base, dovuto a un brutto incontro col tomo numero sette dell’enciclopedia di animali della madre, che le era caduto accidentalmente sul viso quando aveva tre anni. Accidentalmente voleva dire che lei lo aveva lanciato contro Hel, la quale la stava infastidendo con le sue solite lamentele sul perché non giocassero mai insieme.

Già, perché?

La risposta era andata affievolendosi col passare degli anni, alcune volte nemmeno lei si ricordava a cosa fosse dovuto tutto il risentimento che provava nei suoi confronti. Non era sano, la faceva stare male e le tormentava le notti. Si chiedeva persino, in alcuni momenti di scarsa lucidità, cosa le impedisse di uscire dalla propria camera, di consumare a piedi scalzi il metro che la distanziava dalla camera della sorella, bussare alla sua porta e chiederle di perdonarla. Voleva farlo, veramente, solo che poi si ricordava il perché che l’avesse tanto con Hel, rammentava perché il solo vederla la faceva stare ancor più male che l’odiarla. Hel era la causa della sua solitudine.

Camilla aveva assistito con la madre al miracolo che le stava crescendo in grembo. Voleva tanto una sorellina, pregava ogni notte che accadesse il miracolo che l’avrebbe finalmente resa felice. Avrebbe smesso di giocare da sola e di assillare i genitori affinché stessero un po’ con lei. Loro non facevano storie, placidamente si piegavano alla sua volontà come se al posto di acri suppliche pronunciasse solenni e potenti incantesimi. Lo facevano con amore, si mettevano con lei e giocavano a qualsiasi cosa volesse, ma Camilla vedeva che i loro pensieri erano altrove e che dovevano concentrarsi per tornare bambini, per avere fantasia.

La madre era la più brava a immedesimarsi in una bambina; forse, a differenza del padre, non aveva smarrito la capacità di vedere il mondo con occhi diversi, o forse solo perché, nella famiglia, era lei ad avere nel sangue la magia. Forse sì, era questo ciò che le aveva permesso di giocare con Camilla con un po’ di convinzione in più. E, poi, con la madre c’era stato sempre qualcosa di nuovo con cui divertirsi.

Eracle vedeva la magi come qualcosa da evitare, come una malattia contagiosa che avrebbe portato la morte se fosse riuscita a toccare qualcuno.

Camilla lo aveva osservato con attenzione mentre la madre faceva danzare i fiori o trasformava bolle di sapone in animali rotondeggianti, per far felice la sua piccola bambina. La guardava con diffidenza e con terrore, che non avevano nulla a che vedere col tono dolce e affettuoso, con la luce negli occhi, che lo animavano quando, invece, di magia per casa non ce n’era nemmeno l’ombra.

Per Camilla la magia voleva dire tutto. Voleva dire non dover più dover sopportare la vista di Hel e la sua somiglianza con la madre, perché lei aveva ciò che aveva reso la loro mamma così speciale. Avrebbe voluto dire abbandonare la maledetta scuola in cui si sentiva soffocare ogni giorno per andare in un’Accademia di magia dove le avrebbero insegnato a danzare con gli elementi della natura e a manipolare le leggi della realtà. Finalmente si sarebbe sentita completa, e non a pezzi come lo era il suo cuore.

Dicevano che Eracle e Camila erano due gocce d’acqua, ma non era vera. Nella loro somiglianza vedevano la realtà da due punti di vista diversi. Eracle avrebbe voluto iscriverla in una scuola per soli umani, ma essendo per metà figlia di una maga, non poteva. Lei era contenta di essere finita in una scuola mista. Eracle non sopportava la vista degli amici ‘magici’ della figlia. Camilla odiava il modo freddo e distaccato con cui il padre si comportava quando invitava i suoi amici. Sottolineando. Eracle odiava la magia. Camilla la adorava, e non si era fermata un secondo per tentare di capire cosa spingesse il padre a rifiutare ciò che era stato di sua moglie.

Ogni giorni, dal suo sedicesimo compleanno, Camilla restava in silenzio, appena svegliatasi, a sentire cosa le diceva il corpo.

Non sapeva come capire quando la magia avrebbe cominciato a fare parte della sua vita. In giro se ne dicevano di tutti i colori. C’era chi raccontava di aver visto spuntare fiori dalle punte dei capelli di un ragazzo il giorno in cui la magia si risvegliò in lui. oppure di una ragazza che ebbe la sfortuna di abbracciare la magia insieme all’influenza, ogni starnuto si trasformava in una piccola tromba d’aria che metteva a soqquadro la casa. O addirittura c’era chi senza volerlo si era ritrovato a boccheggiare con le sembianze di un pesce rosso, e il poveretto dovette aspettare l’ingresso nell’Accademia per tornare alle sembianze di un ragazzo.

Camilla conosceva altre storie folli, anche troppo folli per poter essere vere. Ma, in fin dei conti, non le importava realmente il modo in cui i suoi poteri si sarebbero svegliati, se con una carezza o con un fremito. A essere importante era il quando.

Aveva compiuto sedici anni da due mesi e ancora nessun potere in vista, nemmeno uno sbuffo pieno di brillantini. E più passavano i giorni, più l’amarezza montava.

Possibile che dalla madre non avesse ereditato nulla?

Il pensiero che la distruggeva era quello in cui Hel avrebbe ottenuto la magia.

No. Non lo avrebbe sopportato. A dirla tutta, probabilmente sarebbe stata la sua morte.

Quando il silenzio della camera divenne troppo assordante, decise di uscire e di andare a fare colazione.

Eracle era uscito per andare al lavoro, lo aveva sentito andare via. Di solito si alzava anche lei quando Eracle faceva colazione, così da poter passare insieme a lui un po’ di tempo. Aveva sempre qualche storia del suo passato da raccontarle, e quei momenti per lei erano preziosi, quasi quanto quelli trascorsi assieme ai suoi amici.

Quella mattina però non se l’era sentita di stare con lui. Un po’ perché le piaceva di tanto in tanto stare da sola e poi perché in quel fine settimana c’era stato un momento che l’aveva scossa.

Forse era stato solo frutto della sua immaginazione, ma era inutile illudersi.

Quando Hel non era con loro, non le capitava mai di pensare a lei. E non lo avrebbe fatto nemmeno questa volta se suo padre non le avesse detto che, magari, una volta avrebbero potuto portare anche Hel con loro.

Si era trattato solo di un pensiero pronunciato con un fil di voce, ma era bastato a far contorcere le budella a Camilla.

Che il padre stesse avendo dei ripensamenti su Hel?

Il rapporto fra i due era sempre stato freddo e distante, possibile che ora volesse riavvicinarsi alla figlia che a stento guardava e di cui non sapeva niente?

Svogliatamente si preparò la colazione. Succo di arancia che le scese lenta e fredda lungo la gola. Fu come deglutire una manciata di aghi che le graffiarono la gola, nonostante la stucchevole dolcezza dei frutti che aveva spremuto.

Fu mentre mandava giù un boccone di pancarré con crema di nocciole che le venne in mente un’idea.

Folle.

Perché non era da lei.

Non le era mai capitato di pensare a qualcosa che coinvolgesse la sorella. Probabilmente era stata contagiata dal padre.

Era strano, troppo vicino al normale, ma la voglia di averla con sé era sospinta da sentimenti che avevano poco a che fare con la sorellanza, con l’amore. C’era una fetida cattiveria, un divertimento malsano che per lei avrebbe messo in chiaro la situazione con Hel.

Le avrebbe fatto capire che non doveva azzardarsi anche solo a pensare di ottenere ciò che era stato della madre, non doveva nemmeno sognare di poter possedere la magia.

Le avrebbe fatto capire quanto fosse inutile, incapace. Il nulla.

Prima, però, doveva fare una chiamata e poi avrebbe dovuto fare una cosa che le faceva venire la nausea solo al pensiero: parlare con Hel.

   
 
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