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Autore: _Alexis J Frost_    22/01/2019    1 recensioni
[Fate/Grand Order]
{1996 parole; Pairing: GilKidu; }
Komorebi: l’effetto particolare della luce del sole che filtra attraverso le foglie degli alberi.
Dal testo: «Ho qualcosa tra i capelli?» Gli chiese Enkidu, non comprendendo perché Gilgamesh fosse tanto assorto da essi.
«Il Sole.» Rispose Gilgamesh, portando una ciocca alla labbra e socchiudendo gli occhi. «I tuoi capelli profumano di natura, di fiori, erbe ed alberi; ne hanno anche un simil colore. Quindi immagino che il Sole non possa far a meno di donar anche a te le sue attenzioni.»
Genere: Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Komorebi
 l’effetto particolare della luce del sole che filtra attraverso le foglie degli alberi. 

Quando era bambino, il re possedeva ancora la genuina meraviglia che ogni uomo dovrebbe tenere con sé per tutta la vita. Si sorprendeva della qualsiasi, illuminandosi ogni qualvolta scopriva qualcosa di nuovo o rivedeva altro che gli piaceva davvero.
Adorava infatti il colore del cielo al tramonto e dall'alto del sua ziggurat lo osservava ogni giorno con la bocca dischiusa e gli occhi rossi che luccicavano come rapiti da una splendida magia.
Tra le varie meraviglie, una in particolare era ricollegata agli alberi e al sole alto, luminoso come mezzodì. Quando il piccolo re se ne accorse la prima volta impose alla servitù di fermarsi e lasciarlo distendere sulla terra, mentre si concentrava sul soffitto di foglie che si estendeva sopra di lui. Il cielo verde pareva brillare come se cosparso di pietre preziose e tale gioco di luci e colori lo inebriava e incantava.
Sapeva si trattasse semplicemente dei raggi del Sole che filtravano tra gli alberi, eppure per lui tutto era avvolto da mistero e magia. Era magico il tramonto, era magica l'acqua, era magico il tetto di foglie brillanti. Eppure quest'ultimo, tra tutti, era invero la sua magia prediletta.
Tuttavia, crescendo, il re dimenticò le piccole eppur infinite bellezze del mondo circostante. Si concentrò su ben altri piaceri della vita: sul luccichio dell'oro e delle lame intrise di sangue che brillavano al sole; si focalizzò sul piacere della carne e le morbide membra di fanciulli e giovinette con il quale dilettarsi senza freno alcuno. Scoprì il mondo illusorio dell'alcool, l'inebriante gusto dell'onnipotenza e del potere, smettendo di ammirare il tramonto e le foglie verdi illuminate dal sole.
Per loro non vi era più posto, avevano perduto l'infantile attrattiva, non possedevano più alcuna magia.
O perlomeno, questo era dato credere. Ma se bisogna lasciar parlare la sincerità, or bene, è lecito dire che tante erano le cose del quale tutti erano convinti sul re tiranno che governava Uruk, il quale ostentava narcisismo ed egoismo da qualsivoglia poro della sua persona. Niente sarebbe mai cambiato, avrebbero detto tutti, eppure non avrebbero potuto ricredersi di più: giacché alla fine accadde l'impensabile, con l'arrivo ad Uruk di Enkidu.
 
Re Gilgamesh trascorreva gran parte del suo tempo con la creatura divina, rimanendone -consapevolmente o meno- influenzato dalla traboccante umanità che questi emanava pur non essendo umano davvero. La presenza dell'uomo dai capelli verdi era come un siero di benessere per il re ottuso e arrogante, e di giorno in giorno leniva quei suoi tratti spigolosi, modellando come fosse argilla la personalità che si celava al di sotto dell'orrenda armatura. Adesso il re possedeva vizi e virtù, pregi e difetti come ogni umanoide, ed Uruk prosperava e lo amava, come amava Enkidu, il divino dall'animo puro.
Un dì di bella stagione, mentre erano sdraiati nell'immenso giardino del palazzo, Gilgamesh osservò i capelli di Enkidu. Erano lunghi e verdi; non il verde degli alberi, bensì di una tonalità più chiara ma pur sempre appartenente a quella gamma di colori legata alla sua infanzia andata. Su di essi si rifletteva il sole, conferendo loro dei giochi di luce che incantarono il re. Gilgamesh aveva allungato una mano, intrecciandola a quei sottili fili dall'odore di fiori e di erbe, ammirando la piccola magia che si riversava su di loro. Ricordò in un istante la meraviglia infantile, riprovandola su di sé con maggiore enfasi, giacché al semplice incanto si aggiungeva un sentimento diverso che rendeva tutto più colorato.
«Ho qualcosa tra i capelli?» Gli chiese Enkidu, non comprendendo perché Gilgamesh fosse tanto assorto da essi.
«Il Sole.» Rispose Gilgamesh, portando una ciocca alla labbra e socchiudendo gli occhi. «I tuoi capelli profumano di natura, di fiori, erbe ed alberi; ne hanno anche un simil colore. Quindi immagino che il Sole non possa far a meno di donar anche a te le sue attenzioni.»
Enkidu strabuzzò gli occhi, curvando poi le labbra in un tenero sorriso. «Ti piace?»
Gilgamesh distolse lo sguardo, quasi intenzionato a negare l'innocente pensiero che sembrava tradire la sua virile compostezza e la maschera di divino distacco. Poi rilassò le spalle.
Aveva compreso che con Enkidu non avrebbero dovuto esserci maschere; solo genuina sincerità.
«Mi ricorda una delle magie che adoravo da bambino. E' un effetto incantevole.»
«Deve esserlo davvero, se persino il re devoto al solo luccichio dei tesori lo pensa.»
«Tch. Ovviamente lo è.»
 
Vi è un segreto a riguardo che nessuno al di fuori di Enkidu sapeva.
Gilgamesh gli chiedeva spesso di sporgersi al sole e spesso contemplava i suoi capelli, accarezzandoli e decorandoli. Enkidu gli insegnò come intrecciare le ciocche, abbellendole con fiori e pietre. Fu Gilgamesh stesso a chiederglielo, in un borbottio mezzo soffocato dall'orgoglio, accompagnato dalla promessa di non dir mai nulla su quel suo passatempo. Se si fosse scoperto che il re si dilettava ad intrecciare i capelli del proprio amante, non avrebbe sicuramente fatto una bella figura. Tuttavia Enkidu non aveva motivo alcuno per spifferare la notizia ai venti ed anzi, sentiva il proprio cuore scaldarsi ogni volta che custodiva un segreto riguardante Gilgamesh. Vi erano tante piccole bellezze nel suo animo che il mondo non conosceva poiché riservava a lui soltanto, quando occhi e malelingue eran lontane,quando giudizi e pregiudizi non avevano potere alcuno; Gilgamesh possedeva due volti ed il secondo andava scovato a fondo, scoperto pian piano, con premura e pazienza. Enkidu era stato l'unico a mostrarsi tanto caparbio da non lasciarsi intimorire dal primo volto, pertanto sarebbe stato sempre lui l'uomo onorato dalle gentilezze e le affettuosità che anche il re poteva donare.
Ed era perfetto così.
Gilgamesh pensava che la meraviglia perduta adesso si riversava totalmente in Enkidu. Egli era divenuto la sua nuova magia prediletta: il più importante tra i suoi tesori.
 
Ma quel tesoro, sebbene il più importante tra tutti, gli fu strappato via troppo velocemente e senza pietà. Con la morte di Enkidu, persino l'oro perse il suo incanto, persino l'alcool o i piaceri della carne. Derubare un bambino della propria magia per donargliene altre era sì triste, eppure non così crudele; derubare un adulto della magia, dell'amore, della fiducia e di tutto quel che aveva di più caro...era abominevole, come oscurare il Sole stesso. E nel buio pesto della notte, l'oro è un metallo qualsiasi, anche i gioielli non sono altro che pietre comuni.
Così re Gilgamesh non conobbe più magie. Provò sofferenza, atroce agonia; provò la responsabilità di un regno sulle spalle, ora divenuto il suo unico scopo nella funesta vita, unica consolazione a cui aggrapparsi. E sebbene lasciò fiorire il proprio giardino e Uruk tutta laddove si poteva, Gilgamesh evitò per lungo tempo di posar lo sguardo sul sole che filtrava attraverso le foglie. Meno osservava quel miracolo, meno osservava la natura in sé e meno avrebbe sofferto nel figurare l'immagine amata baciata dai caldi raggi del Sole.
Una notte decise di camminare nell'immensità del suo giardino con la sola luce della luna. Da lì a breve Uruk sarebbe potuta cadere per sempre e solo un mago di un altro tempo avrebbe potuto, forse, salvarla. Non voleva pensarci. Voleva distaccarsi dal suo ruolo anche solo un momento, perdendosi nella splendida natura. Voleva non essere Gilgamesh, anche soltanto per un secondo, pur di ritornare in un tempo e in un luogo laddove il suo nome non era importante fintanto che dinnanzi sé sedeva la creatura dal dolce sorriso che gli cambiò l'esistenza intera. E si soffermò, tra gli alberi dalle ombre oscure e le chiome fitte, ad osservar le foglie. Non vi era luce. A stento distingueva la loro forma.
«Dovresti vederli al sole, non al buio.»
Sentì una voce femminile alle sue spalle e d'istinto, egli si voltò. Davanti a lui vi era una giovane donna dai capelli chiari e i capelli raccolti in due code gemelle: Ishtar? No, affatto.
Era Ereshkigal.
«Ho smesso di osservare le foglie al sole.»
Ereshkigal lo guardò in silenzio per una manciata di secondi. Il suo sguardo parve incupirsi e lo distolse verso il manto di infinite stelle.
«...perché ti ricordano lui non è vero?»
Gilgamesh sgranò gli occhi, voltando poi il capo per non incrociare lo sguardo di lei.
«Per quale motivo sei qui?» Tentò di sviare il discorso, il re d'oro, macchiando la voce con ton quasi sgarbato.
«Non so davvero, in verità. I passi mi hanno semplicemente condotta qui.»
«Allora tornatene indietro. Pretendo di restare da solo.»
«Lui non avrebbe voluto che stessi da solo. Quindi resterò.»
Gilgamesh serrò i pugni, evitando ancora lo sguardo della dea. La sua voce si inasprì ulteriormente.
«Smettila di nominarlo. Lui non c'è più da molto tempo.»
Ereshkigal sentì gli occhi pizzicare. Si chiese che sentimento fosse quello, giacché a lei era invero sconosciuto. Osò, dunque, allungare una mano e con le dita sfiorare la pelle del re, all'altezza del polso.
«Io...avrei voluto fare di più per salvarlo.»
«Non sei tu la dea da incolpare. Non ti do' colpa, non ti rimprovero di niente. So che Enkidu ti stimava, so che hai provato a salvarlo. Ma non potevi fare altro e così io od Enkidu stesso.»
Ereshkigal mosse dei passi verso Gilgamesh affinché potesse osservarne il volto. La sua mano adesso sfiorava la guancia del re, sebbene le sue, di guance, si fossero colorate di intenso rosso.
«N...Non farti strane idee. So...so che Enkidu amava accarezzarti in questo modo ed è per lui che lo sto facendo. Immagino che lo avrebbe fatto. E ti avrebbe dato dell'idiota quale sei. Immagina che sia lui a compiere questi gesti e ascolta cosa invece ho da dirti io.»
Gilgamesh aveva quasi schiaffeggiato via quella mano prima di sentir il nome di Enkidu. Ricordò tutte le volte che aveva sentito una calda mano accarezzargli il volto, le simpatiche prese in giro, una melodiosa voce a parlargli. Rimase così immobile, osservando con malinconia e sorpresa quella dea dalle guance rosse e gli occhi lucidi, che pareva stesse facendo un immane sforzo soltanto per parlare.
«Voi due vi rivedrete.» Sentenziò, fiduciosa, ostinata. «Non in questo tempo, forse in un altro; ma vi rincontrete. Accadrà. Sento che accadrà.»
«Eresh...»
«E poi!» Lo interruppe la dea. Sembrò esser diventata ancor più paonazza, sebbene la luce lunare rendesse confusa ogni tonalità. «Voglio ammirare anch'io la luce del sole sui suoi capelli e sul suo sorriso dolce. E ha una promessa da mantenere, nei miei riguardi e anche nei tuoi.»
...Perché era l'unico amico che abbia mai avuto, l'unica persona a non averla disdegnata perché dea dell'oltretomba.
Le lacrime scesero infine sul suo volto e persino gli occhi di Gilgamesh divennero lucidi.
«Stupida dea.» Mormorò, allontanando la mano dal suo volto. «Non osare continuare a piangere. Lui non vorrebbe.»
«Non sei nella posizione di rimproverarmi!» Rispose Ereshkigal.
«Lo sono. Perché è stato lui a dirmi che non avrei mai dovuto far piangere più una donna e sarei ancor peggiore dato che tu sei l'unica tra le donne che avrebbe potuto essere sua amica. Non posso lasciare che proprio tu pianga. Mi rimprovererebbe, mi direbbe che sono un incapace. Eppure...eppure qualunque cosa accada, il giorno dopo sarebbe sotto il sole, a brillare come il più bello dei fiori e sorridermi.»
Dopo quell'ultima frase, pronunciata con fil di voce come un pensiero espresso a parole, Ereshkigal asciugò le lacrime. Rimasero entrambi in silenzio, per un tempo indefinito; dopodiché ella fece per andarsene, fermata all'ultimo proprio dal re.
«Lo credi davvero...che lo rivedremo?»
«Lo credo. Forse è la prima volta che la dea dell'oltretomba crede in qualcosa di positivo.»

Il giorno dopo lo sguardo di Gilgamesh si posò sulle chiome degli alberi illuminate dal sole.
Riusciva nuovamente ad osservare quel miracolo, sebbene la malinconia permanesse.
«Sto credendo a quella stupida della tua amica, Enkidu.» Disse infine, con lo sguardo rivolto al cielo. «Dovunque tu sia ora, dovunque io andrò a finire dopo la morte, vedi di trovarci, a me e a lei.
A me soprattutto, anche se è egoistico dirlo. Ma, d'altronde, sono un egoista, un avaro. E come tale, pretendo il più importante tra i miei tesori con me.»

 

Angolo dell'autrice:
Ehilà! Non sono morta, non preoccupatevi, semplicemente l'università sta derubandomi di tutto il tempo e non riesco a scrivere quanto vorrei. Probabilmente anche le mie fanfiction ne risentono, tanto che ero titubante dal pubblicare o meno questa, nel timore che potesse risultare "debole" se messa in confronto con altri miei lavori. Tuttavia è una oneshot a cui tengo molto, pertanto ho deciso di pubblicarla in ogni caso: vi sono, come avrete letto, più di un headcanon; a comnciare dal piccolo Gil che adora i capelli di Enkidu, a lui che impara ad intrecciare i capelli, fino alla mia cara BROT3. La Gilkidu + Ereshkigal è quel tipo di brotp che fa male al cuore eppure te lo fa anche sciogliere di tenerezza. Spero di poter scrivere altro su di loro, magari qualcosa di migliore.
Detto ciò mi dileguo e spero che questa piccola oneshot sia stata comunque gradita.
A presto!

  
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