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Autore: maybeitsadream    22/01/2019    0 recensioni
1944, Barcellona.
Ognuno ricorda, ognuno sa cos'ha sepolto sotto la cenere. Liam ha seppellito suo fratello, Zayn la sua personalità.
Importante: i familiari dei protagonisti, a eccezione della mamma di Liam, avranno nomi diversi da quelli reali.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Liam Payne, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Trascorsero diversi giorni da quando mi era stata consegnata la lettera di Liam. Furono giorni di rinnovata solitudine, tra le cui braccia mi sentii accolto come mai prima di allora, di silenzi, di ritorno a una condizione che avevo già sperimentato anni prima. Avevo un letto in cui dormire, ma mi sentivo come quando don Federico mi aveva trovato per strada: completamente solo, abbandonato perfino dallo scorrere del tempo che andava avanti e aveva deciso di lasciarmi intrappolato tra i ricordi di due notti che quasi si confondevano fra loro.

Mi capitò di sognare la notte del 1938, esattamente uguale a tutti gli incubi già fatti, tranne per un particolare: alla fine, il corpo che ritrovavo era quello di Liam.

Tornai alla tomba di Andrés per tre volte: la prima non ebbi il coraggio di guardare il suo nome e andai via; la seconda piansi sapendo che mi stava guardando; la terza gli portai una rosa bianca e gli chiesi scusa. Aveva tanto da perdonarmi quel ragazzino, e sperai che da lassù mi ascoltasse e non mi voltasse le spalle: gli chiesi scusa perché non avevo fatto nulla per impedire la sua morte, perché avevo contribuito alla sofferenza della sua famiglia, perché non avevo protetto suo fratello, perché l'avevo lasciato andar via, da solo. 

Seppi con assoluta certezza davanti alla sua tomba che non avrei mai dato ascolto alle parole di Liam: non avrei mai potuto smettere di amarlo. Anche se mi avrebbe fatto del bene, capii che il mio corpo, comandato dal mio cuore, si sarebbe sempre opposto a qualsiasi tentativo di andare avanti. E ne fui contento, perché non volevo smettere di amarlo.

Succedeva che non riuscissi a dormire, come quella notte. La mezzanotte era passata da un bel po' ormai, e io me ne stavo seduto sul letto a gambe incrociate a rivedere gli appunti su qualsiasi idea avessi avuto di recente. 

Ero avvolto dal silenzio quando sentii dei colpi veloci alla porta. Diedi un'occhiata all'orologio accanto a me e constatai che fossero le tre del mattino. Mi preoccupai: nessuno viene a cercarti a notte fonda se non per avvertirti di qualcosa di spiacevole.

Corsi alla porta e trovai la signora Mercedes con un'espressione poco tranquilla. Sapeva quello che mi era successo, e all'inizio avevo anche timore che mi cacciasse dalla sua pensione, ma si era impegnata a tranquillizzarmi subito: per lei ero un ottimo ospite, non le davo alcun disturbo e non c'era, secondo lei, motivo per costringermi ancora una volta sulla strada.

«Mi dispiace piombare qui a quest'ora, ma hanno telefonato da casa di don Federico», mi disse.

«Cos'è successo?»

«Non me l'hanno detto. Mi hanno solo raccomandato di avvisare immediatamente, la donna che ha chiamato sembrava molto spaventata.»

Non replicai: mi limitai a prendere il cappotto e raggiungere l'abitazione di don Federico. Corsi per le strade terrorizzato immaginando qualsiasi cosa; non sentii freddo e ignorai il vento, troppo impegnato a preoccuparmi per pensare a qualunque altra cosa.

Quando arrivai, Gracia aprì la porta in lacrime. Le chiesi cosa stesse succedendo, perché fosse ridotta in quelle condizioni, e lei ripeté per un paio di volte che le dispiaceva.

«Cos'è successo?»

«Io gliel'avevo detto che dovevamo avvisarla prima.»

«Avvisarmi prima?»

Continuò a farfugliare qualcosa che non capii e a muoversi agitata. Soltanto dopo un po' riuscii a fermarla e a farle confessare il motivo di tutta quell'agitazione. Mi disse che don Federico era stato male, di nuovo.

«Che significa di nuovo?»

«È già capitato altre volte, ma stanotte era-»

«Dov'è adesso?»

«Di sopra, nella sua stanza. C'è anche il medico con lui.»

La lasciai lì, con le sue lacrime da calmare, e mi affrettai a salire le scale. La porta della stanza di don Federico era chiusa, ma non mi preoccupai di bussare: entrai piano, cercando di prepararmi mentalmente alla scena che presto mi sarebbe venuta davanti.

Don Federico era steso a letto, pallido e smunto. Sembrava invecchiato in un colpo solo. Il medico, in piedi accanto a lui, si voltò verso di me che lo guardavo e mi lasciò una pacca sulla spalla venendomi vicino. Disse che sarebbe andato a chiedere un bicchiere d'acqua alla domestica.

Sentivo, all'altezza dello sterno, un dolore fastidioso. Sapevo che di lì a poco avrei ricevuto una notizia che non mi sarebbe piaciuta affatto, e non mi impegnai nemmeno per un istante a dissimulare tutta l'ansia e tutta la preoccupazione che sentivo stringermi la gola, il cuore e lo stomaco. Mi avvicinai al letto camminando piano, come per allontanare il momento in cui avrei preso coscienza della verità.

Don Federico mi guardava con occhi tristi e stanchi, come se portasse sulle spalle il peso del mondo intero. Desiderai farmi carico dei suoi problemi, essere forte anche per lui, aiutarlo come anni prima lui aveva aiutato me, e piansi senza neanche capirne il perché. Forse perché l'idea che avevo sempre avuto di don Federico - l'uomo forte e indistruttibile che mi avrebbe salvato per tutta la vita - stava cominciando a sgretolarsi a una velocità troppo elevata perché agissi per cambiare la situazione.

Avevo un brutto presentimento, e il dolore allo sterno si intensificava a ogni passo.

«Che cosa è successo?», ebbi il coraggio di chiedere.

Lo vidi sorridere e allungare la mano verso di me. La presi subito tra le mie, bisognoso di sapere che era ancora lì, accanto a me, e ci sarebbe rimasto per ancora parecchio tempo. Mi inginocchiai al suo fianco e dimenticai Liam e la sua lettera e la mia sofferenza per lui. Soffrivo, sì, ma in quel momento tutto veniva dall'uomo che mi aveva fatto da padre.

«Quanto a lungo pensi di vivere, Zayn?», mi domandò a voce bassissima ma comunque udibile alla mia distanza. 

Lo guardai negli occhi e li vidi riempirsi di lacrime, una scena a cui non mi era mai capitato di assistere. Il dolore allo sterno si fece più acuto, manifestandosi attraverso una fitta particolarmente intensa che mi fece gemere impaurito. Strinsi la presa sulla sua mano e aprii la bocca richiudendola subito dopo, incapace di formulare una domanda, una riflessione o una risposta che soddisfacesse quella sua strana curiosità.

«Quando avevo la tua età», riprese dopo qualche minuto di silenzio, «credevo che non sarei arrivato ai quarant'anni: non mi piaceva l'idea di invecchiare.»

Annuii soltanto avvertendo la difficoltà che facevano i miei polmoni a ricevere aria. Li sentivo in fiamme, come la mia testa. 

Si portò la mano libera davanti al volto e prese a ispezionarla, storcendo il naso alla vista della nuova tonalità che la colorava. Poi tentò di dire altro, ma fu colpito da un violento attacco di tosse che mi fece capire che sarebbe stato meglio far tornare il medico: uscii di fretta e lo chiamai con voce tremante un paio di volte prima che mi raggiungesse e rientrasse nella stanza chiudendosi la porta alle spalle. 

Gracia era lì e stringeva un rosario tra le mani: pregava fra le lacrime e guardava verso l'alto, rivolgendosi direttamente al suo Dio affinché don Federico stesse meglio. Non ebbi il coraggio di interromperla e mi limitai a fissarla stralunato, chiedendomi se sperare nella benevolenza di una presenza superiore alleviasse le sue paure, le sue preoccupazioni.

Ascoltai la sua voce inciampare tra le Ave Maria per diversi minuti. Poi il medico aprì la porta e lei sparì nella sua stanza, forse per evitare di ascoltare qualcosa di spiacevole. Vidi la sua fragilità e seppi di essere fragile esattamente come lei: avrei voluto scappare anch'io, perché, anche se desideravo fare qualcosa per aiutare l'uomo che mi aveva salvato la vita, sapevo di non esserne capace.

«Continuo a insistere di portarlo in ospedale, ma si oppone.»

«O-ospedale?»

Annuì, con aria grave. «Mi è parso di capire che lei non sia a conoscenza della condizione salutare del paziente.»

«Io- no, non...»

«Tumore ai polmoni.»

Fu come sentire il mondo andare in pezzi, crollare parete dopo parete. E scaraventarsi su di me con la potenza di un uragano. Mi si mozzò il fiato e seppi, dallo sguardo del medico, di aver assunto un'espressione incredula, stravolta.

Ascoltai la mia voce chiedere quanto tempo gli restasse e la sua dirmi che non credeva che sarebbe sopravvissuto per più di tre mesi. Poi persi qualunque contatto col mondo esterno, concentrandomi solo su quelle informazioni per elaborarle e accettarle. Ma non potevo accettarle: uno degli uomini più importanti della mia vita stava per morire, e io assistevo assente allo sfascio di quell'unica parte buona di realtà che credevo esistesse ancora.

 

*

 

Per i tre mesi successivi vissi a casa di don Federico, cercando di convincerlo ad andare in ospedale e ricevendo i suoi no in risposta.

Trascorsi fra quelle mura uno dei Natali più tristi di sempre. Non toccai il cibo preparato da Gracia e mi sentii in colpa, perché lei si era sforzata in altro pur di non pensare alla situazione incresciosa che ci vedeva coinvolti e io mandavo all'aria in un attimo i suoi tentativi di distrarsi.

Lei mangiò poco e pianse tanto, accarezzando una vecchia riproduzione in scala del Bambin Gesù e chiedendogli aiuto.

Io dormii poco e fumai tutte le sigarette che don Federico richiedeva per sé. Diceva che soffrire gli faceva schifo e che, considerando che sarebbe comunque morto presto, voleva addirittura accelerare il processo. Ovviamente glielo vietai, realizzando il motivo per il quale, nell'ultimo periodo, avesse cominciato a fumare così tanto.

Quando arrivò l'anno nuovo, don Federico sembrava stare meglio e, almeno per quella notte, fummo tutti un po' più tranquilli; ma due giorni dopo stette talmente male che credetti che non lo avrei visto mai più. Il medico continuava a dire che doveva essere trasferito in ospedale, perché lì avrebbe potuto tenerlo maggiormente sotto controllo, ma ogni volta si schiantava contro la determinazione di un no che mi ricordava di quanto fosse caparbio.

Per tutto Gennaio e metà Febbraio volle continuare a lavorare. Sembrava infischiarsene di ciò che stava succedendo. O forse era fin troppo consapevole.

Io feci diverse visite in ospedale per chiedere l'opinione di diversi medici, a cui spiegavo ciò che mi era stato dettagliatamente riferito. La risposta era sempre la stessa: il male di don Federico era incurabile, e presto ci avrebbe abbandonati.

Mi rassegnai nella seconda metà del mese di Febbraio, quando smise di chiedere che gli venissero portati documenti della casa editrice da controllare. Realizzai che presto se ne sarebbe andato e che io non avrei avuto più nessuno dalla mia parte.

Da solo, contro un mondo che mi faceva venire la pelle d'oca e che mi mostrava, ormai sconfitto, come fosse stato infettato dallo schifo degli uomini.

   
 
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