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Autore: Adeia Di Elferas    23/01/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Scusatemi tanto, ma non credo che ci sia molto di cui discutere...” fece Simone Ridolfi, allargando le braccia e guardando tutti, in particolar modo la Contessa, con un'espressione quasi divertita: “Mi pare ovvio che Achille Tiberti sia un traditore.”

“In effetti avrebbe dovuto avvertire voi, prima di partire per Roma...” soppesò Dionigi Naldi, rivolgendosi alla Tigre.

“Prima di tutto – intervenne a quel punto la donna, appoggiandosi al tavolo delle mappe e incrociando le braccia sul petto – siamo davvero sicuri che sia partito proprio per Roma e non, magari, per andare da qualche parente a Cesena? Secondariamente, se anche fosse andato in Vaticano, siamo certi che là debba incontrare il papa?”

Mongardini sollevò le spalle, e, come lui, lo fecero anche altri tra i presenti, ma solo lui osò dire qualcosa in merito: “Ancora non mi capacito, però, mia signora, di come riusciate ancora a pensar bene di lui.”

Caterina non ribatté, mettendosi a controllare la mappa d'Italia, domandandosi dove altro potesse essere andato Tiberti o chi, se fosse davvero partito per Roma, avesse potuto incontrare oltre al papa.

“Comunque – prese a dire l'Oliva, visto che il silenzio nella Sala della Guerra cominciava a farsi un po' pesante – non appena ho saputo che Tiberti ha lasciato la città, l'ho fatto seguire per un tratto e in effetti ha seguito la strada che porta a Roma.”

“Forse dovremmo mandare qualcuno sulle sue tracce e scoprire chi sta andando a incontrare e perché...” provò a proporre Ridolfi, poco convinto.

“Aspetteremo il suo ritorno e basta.” concluse la Sforza, stanca di tutte quelle congetture che, lo sapeva benissimo, non avrebbero portato a nulla.

Se aveva sempre cercato di non urtarsi con Achille era stato solo perché era un uomo ancora molto influente a Cesena e, con tutti i problemi che aveva lei, degli screzi con Cesena erano proprio un inconveniente che non voleva rischiare.

“E se stesse dando informazioni ai Borja?” chiese il Capitano Rossetti, un braccio lungo il fianco e l'altro che indicava Roma sulla mappa: “Il figlio del papa è in Francia, questo lo sappiamo tutti, e il papa, con le sue bolle, ci ha praticamente dichiarato guerra. Chi ci dice che Tiberti non stia facendo il doppio gioco e ci stia vendendo ai Borja?”

“E che possiamo fare, se non aspettare e scoprirlo?” intervenne Luffo Numai, cercando di andare in soccorso alla Tigre, che, seppur evidentemente infastidita dal tono accusatorio del Capitano: “Forse dovremmo bandirlo alla cieca? Così, se poi fosse innocente, avremmo perso un ottimo condottiero e il favore di Cesena...”

“Proprio non capisco come facciate a perdere tanto tempo dietro a un uomo che vi ha già tradita così tante volte!” sbottò Rossetti, rivolgendosi direttamente alla Contessa: “Come mai lo fate? È uno dei vostri amanti?”

Nel sentirsi rivolgere quella stoccata – che sottintendeva molto di più di quel che sembrava – la donna si voltò di scatto verso il Capitano.

Nel farlo, intravide suo figlio Galeazzo, che se n'era rimasto per tutta la riunione tranquillo nel suo angolo, ma che in quel momento la stava osservando con il fiato sospeso, sia per vedere la sua reazione, sia per capire se vi fosse qualcosa di vero.

“Rossetti, prendetevi qualche ora di riposo. Cesare – soggiunse, rivolgendosi al castellano – il Capitano ha la notte libera e anche la mattinata di domani.”

Il Feo annuì e poi, come tutti gli altri presenti, si mise a osservare Rossetti, che, imporporandosi, si rese conto solo in quel momento di aver osato troppo. Non era il primo che cadeva in un simile errore. Anche altri, credendosi collaboratori stretti della Leonessa, avevano azzardato con lei troppa confidenza nel parlare, e lui adesso si era trovato a compiere il medesimo errore senza averne coscienza.

“Per il momento ritenetevi sospeso da questo Consiglio ristretto. Quando e se vorrò riavervi qui con noi, sarò io a farvelo sapere.” tagliò corto la Sforza, indicando la porta.

Appena Rossetti uscì, con passo un po' incerto, Caterina guardò il figlio di sguincio. Il sorriso compiaciuto che gli vide dipinto in volto le fece capire di aver reagito nel modo corretto. Era riuscita a trattenere le mani e anche la lingua, dimostrandosi autorevole, più che autoritaria, ed era così che voleva che diventasse anche Galeazzo.

“Per la questione di Tiberti – decretò la Tigre, una volta per tutte – aspetteremo e basta.”

I membri del Consiglio non ebbero più alcunché da ridire, così la donna poté passare oltre, andando a toccare la questione che le era stata portata all'orecchio da Tommaso.

Per farlo, però, preferiva rimanere con i suoi uomini più fidati in assoluto, lasciando da parte, almeno per il momento, l'esercito. Congedò così tutti i presenti, eccezion fatta per Numai, il castellano, l'Oliva e Ridolfi, che, in qualità di ex Governatore di Imola, poteva avere interessanti notizie.

Galeazzo, non essendosi visto chiamare dalla madre tra quelli che dovevano rimanere, si stava avviando all'uscio. In fondo era stato già contento di aver assistito a quella riunione e capiva che per lui alcuni affari di Stato erano ancora preclusi.

“Aspetta, resta a sentire anche tu...” disse la Contessa, quando si rese conto che il figlio stava andando via: “Credo sia bene che cominci a imparare anche questo tipo di guerra, non solo quella fatta con la spada.”

La donna se ne stava sempre appoggiata allo spesso tavolo delle mappe, il notaio era poco lontano da lei, le mani dietro la schiena, Ridolfi se ne stava appoggiato al muro, più desideroso di poter andare a coricarsi che non di parlare ancora di politica, Cesare Feo stava in piedi accanto alla finestra e Luffo Numai, stanco un po' per l'ora tarda e un po' per l'età, si era permesso di sedersi si uno sgabello.

“Cosa sapete di Sassatelli di Imola?” domandò Caterina, osservandoli uno a uno per capire se stessero solo fingendo sorpresa per quella domanda o se in fondo se l'aspettassero.

“Parlate di Pensiero Sassatelli?” chiese Simone, piegando un po' la testa di lato.

“Sto parlando di un Sassatelli che potrebbe dare problemi a Imola.” rispose la Leonessa, senza sbilanciarsi.

Si trattava, di per sé, di una famiglia con cui la Sforza aveva sempre usato i guanti di velluto, pur cercando di contenerli. Erano importanti già prima del suo arrivo e temeva sempre che potessero prestare il fianco a qualche sommossa popolare contro di lei. C'erano stati momenti in cui aveva pensato di ridimensionarli con la forza, ma non ne aveva mai trovato né il modo né i mezzi, e così aveva lasciato correre, cercando di tenerli a bada con la mera osservanza delle leggi.

“Allora è Pensiero.” annuì Ridolfi: “Stava alzando la testa già gli ultimi tempi che ero a Imola. Non è di per sé un rivoltoso, ma se gli si presentasse l'occasione, potrebbe anche fare da capopopolo. Se posso dire la mia, la soluzione migliore sarebbe mettergli vicino qualcuno che lo possa controllare.”

“Qualcuno che faccia la spia al momento giusto?” fece la Contessa, per essere certa di aver capito a fondo il consiglio del fiorentino.

“Sì.” rispose lui.

“Non è una cattiva idea – sospirò Numai – anche se credo potrebbe dimostrarsi insofferente, se lo facessimo seguire o se gli imponessimo un segretario a noi gradito.”

“Potrei mettergli alle coste qualche spia, ma potrebbe solo tenerlo sott'occhio. Mentre a noi, da quel che ho capito, servirebbe anche qualcuno che lo indirizzi, quando necessario...” disse l'Oliva, guardando interrogativo la sua signora, che, però, era talmente persa nei suoi pensieri da non vederlo nemmeno.

“Sbaglio o questo Pensiero è ancora abbastanza giovane?” indagò Caterina, colta da un'idea improvvisa.

Ridolfi ci pensò e convenne: “Abbastanza, sì.”

“Dunque potrebbe prendere moglie, no?” la voce della Contessa aveva una punta di freddezza che mise i brividi a Galeazzo.

Anche se di norma non lasciava intendere di essere interessato alle vicende sentimentali della madre, quando i suoi fratelli maggiori ne parlavano, il Riario tendeva sempre un orecchio, nella speranza di capire meglio quello che era successo in tutti quegli anni.

Così aveva saputo, ascoltando Bianca e Ottaviano, di come la Tigre, nel corso del suo primo matrimonio, avesse subito continuamente forzature e torti. Galeazzo aveva cercato in tutti i modi di non pensarci spesso, ma sapere di essere anche lui frutto di una violenza a volte lo faceva vergognare e lo metteva a disagio.

E per lo stesso motivo, quando sua madre si dimostrava particolarmente benevola o affettuosa con lui, per quanto capitasse di rado, si sentiva doppiamente felice, perché era un po' come se con quei piccoli gesti, la Contessa gli dimostrasse di essere capace di amarlo, nonostante il modo in cui l'aveva messo al mondo.

Perciò, calcolando anche che dopo il primo marito, quella donna si era risposata ben due volte e sempre per amore, al ragazzino sembrava assurdo pensare che potesse volere per qualcuno un matrimonio combinato, e perciò ad alto rischio di insuccesso.

“Potrebbe, sì.” convenne Ridolfi: “Una sposa che sappia indirizzarlo dove volete voi. Avete in mente qualcuno?”

La Sforza ci ragionò qualche istante. Ciò che le aveva rallentato un po' le idee non era stata la difficoltà tecnica di quel piano – perché in realtà un nome l'aveva già – ma lo sguardo di suo figlio.

Il suo quintogenito era immobile e la fissava un po' stranito, più sconvolto per quel discorso che non nel sentire di morti ammazzati e guerre imminenti.

Caterina non lo aveva mai considerato delicato, anzi, l'aveva sempre trattato come fosse già un uomo, per quanto possibile. In quel mentre, però, si rendeva conto che forse quel figlio era meno coriaceo di quel che riteneva e che negli anni tutte le cose che aveva dovuto patire – restare senza padre, vedere un fratello morire quasi davanti ai suoi occhi, sopportare la tensione e la paura che vivere a stretto contatto con quel mondo comportava – gli avesse solo insegnato a portare una maschera.

Cercando di accantonare un attimo quella preoccupazione, la Leonessa si schiarì un paio di volte la voce e disse: “Giovanni da Castrocaro ci deve dei favori. Lui ha sotto mano una donna che fa al caso nostro. Scrivete oggi stesso a Sassatelli e ditegli che ho deciso che deve prendere moglie. Non appena ci avrà risposto, farò partire la sua sposa, accompagnata da Giovanni.”

Discussero ancora qualche minuto, poi la Contessa decise di chiudere lì la riunione. Era ormai notte e tutti quanti erano stanchi. In più voleva scambiare due parole con suo figlio e quindi non vedeva l'ora di levarsi di torno tutti gli altri.

“Comunque, mia signora – fece Simone, appena prima di lasciare la sala – io lo so benissimo che Achille Tiberti non è mai stato un vostro amante.”

“Ah, sì? E come fate a dirlo? Mi fate spiare?” chiese la Tigre, tra il serio e il faceto.

Ridolfi ridacchiò e, il volto che si riempiva di ombre lanciate dalle candele, rispose, molto più serio di quanto non volesse apparire: “Lo so perché Achille Tiberti è brutto come la morte. Visto il tipo di uomini che di solito vi portate in camera, mio cugino Giovanni compreso, ritengo impossibile che vi siate concessa a un uomo tanto mostruoso. Siete una donna dall'appetito insaziabile, ma ponete anche voi dei limiti.”

La Leonessa non aveva voglia di riprenderlo, così incassò con classe quella critica finale, con cui il Governatore di Forlì le sottolineava di nuovo la sua insofferenza verso la sua condotta libera con gli uomini, e lo congedò.

Rimasta sola con Galeazzo, gli disse: “Aiutami, spegniamo un po' di candele...”

Il ragazzo fece come gli era stato chiesto e poi, quando a far loro luce rimasero solo due lumicini, la donna non tergiversò oltre.

Lo prese da parte e gli disse, a voce bassa, benché non ce ne fosse un reale bisogno: “Ho visto che faccia hai fatto, prima. Trovi che far sposare Sassatelli a una donna scelta da noi sia sbagliato?”

Il Riario abbassò in fretta gli occhi verdi e poi, mordendosi le labbra carnose, rispose, un po' titubante: “Non per Sassatelli, ma per la donna.”

Caterina capì il sentire del figlio e si trovò un po' in difficoltà nel dire: “I matrimoni servono anche a far politica.”

“Lo so, ma...” provò a ribattere il giovane, senza riuscire ad andare oltre.

“Ascoltami, Galeazzo – riprese la madre, con tono più fermo – se hai paura per il tuo futuro, sappi che per il momento io non ho intenzione di importi nulla. E, comunque, essendo un uomo, per te sarà più facile, perché potrai...”

“Ma se mia moglie non mi volesse, io come potrei riuscire a viverle accanto?” chiese lui, dando voce a un'angoscia profonda, che a tratti lo tormentava.

Bianca gli aveva assicurato che la loro madre era diversa dagli altri, che non voleva costringerli a fare nulla, che, per esempio, anche se l'aveva fatta sposare con Astorre, quando aveva avuto la certezza che lei non lo voleva, aveva fatto di tutto pur di impedire al faentino di portarla via.

Però il ragazzino sapeva che non sarebbe stato così per sempre. Se Ottaviano Manfredi non fosse morto, per esempio, Bianca l'avrebbe dovuto sposare, e questa volta non nella speranza di sciogliere in fretta le nozze.

Se il loro fratello maggiore Ottaviano ancora non aveva una moglie era solo perché quelle che erano state scelte o proposte alla madre alla fine non avevano accettato o non erano state ritenute adatte.

Lui avrebbe compiuto quattordici anni quell'anno e presto, lo sentiva, la Contessa avrebbe cominciato a guardarsi in giro per mettergli accanto una moglie. Per dargli stabilità, magari per portare in famiglia denaro o titoli, e per assicurargli una discendenza.

Però, per quanto poco ancora sapesse della vita coniugale, Galeazzo sentiva nel profondo di non essere capace di imporsi su qualcuno che lo avrebbe sicuramente visto come un obbligo.

Caterina, colpita dalle parole del figlio e, ancora di più, dal velo di disperazione che aveva tinto la sua voce, allungò una mano, accarezzandogli la guancia e promise: “Non ti imporrò nulla. Finché sarà in mio potere, farò in modo che nessuno ti obblighi a sposare chi non vuoi.”

Era una promessa pesante, lei lo sapeva molto meglio di suo figlio, ma ormai aveva dato la sua parola. Non aveva più pensato, in realtà, al destino di quel figlio, almeno sotto quel punto di vista.

Con la guerra e tutto il resto, combinare un futuro matrimonio per un tredicenne, era passato in secondo piano. Adesso, però, capiva che suo figlio si faceva domande a cui si dovevano dare risposte. E lo amava troppo, per lasciargli quell'ansia addosso.

Rinfrancato, con una cieca fiducia nella promessa della madre, il Riario le sorrise e sussurrò: “Vi ringrazio.”

“Va bene, adesso andiamo a riposare. Sarai stanco anche tu.” sospirò la Contessa, andando verso la porta.

La rocca a quell'ora era tranquilla. La maggior parte dei suoi abitanti o erano nei baraccamenti o nelle rispettive stanze e solo pochi erano impegnati con i turni di ronda. C'era silenzio e la luce della luna filtrava attraversa una spessa coltre di nuvole, gettando su Ravaldino e su Forlì una luce molto particolare e suggestiva.

Attraversarono il corridoio fianco a fianco, senza parlarsi e solo quando si trovarono quasi davanti alla porta della stanza del ragazzino, la madre trovò il modo di chiedergli: “C'è qualcuna che ti piace?”

Aveva paura di essere fraintesa, a fare quella richiesta, ma voleva comunque farsi un'idea. Sperò che Galeazzo non prendesse quella domanda per quello che non era. Non era la prima volta che glielo chiedeva, ma dopo quello che si erano detti, forse sarebbe risultata un'indagine un po' scomoda.

“Io... No, per il momento direi di no. Per il momento non mi piace nessuno.” rispose il figlio, arrossendo un po' e guardando verso la porta della sua camera.

Caterina stava per dire qualcosa, quando un soldato fece capolino dalle scale e li affiancò, salutando con un cenno del capo. Era alto, dalle spalle larghe e due occhi svegli che si presero subito la licenza di indugiare sulla Contessa, accendendosi in un sorriso che scese a incurvargli appena le labbra.

'A me, invece, piacciono tutti' si trovò a pensare con una punta di irrequietezza la Tigre, non riuscendo a staccare gli occhi di dosso al giovane uomo che li aveva appena sorpassati. Non era un volto nuovo ed era abbastanza sicura di averlo già avuto, in passato, ma da un po' non faceva più caso alle repliche. Se i primi tempi era stata attenta a scegliere sempre uomini diversi, allontanandoli dalla rocca o addirittura dalla città il prima possibile, ormai non si faceva più certi problemi.

“Ebbene...” sussurrò, tornando a fatica a guardare verso Galeazzo: “Sei ancora piccolo, forse è meglio così. Passa una santa notte.”

Il Riario annuì e ricambiò l'augurio. Tuttavia, dopo essere entrato in camera, invece di chiudere la porta la lasciò socchiusa, per vedere cosa avrebbe fatto sua madre.

Non si sorprese più di tanto nel vederla indugiare ancora un istante in corridoio e poi mettersi a camminare veloce, fin quasi a rincorrere il soldato che avevano visto poco prima. Lui lo conosceva abbastanza bene, perché era uno di quelli con cui si addestrava alle bocche da fuoco.

Chiudendo finalmente l'uscio, con addosso una strana agitazione, Galeazzo cercò di dirsi da solo che per sua madre era meglio uno così, che non qualche prepotente o qualche spia. Quel soldato era noto per essere amante delle belle donne e delle osterie, ma non era cattivo.

Il ragazzino cominciò a cambiarsi per la notte, accese qualche candela in più e poi si stese a letto, pensieroso. C'erano tante cose su cui voleva ragionare, quella notte, ma di fatto continuava a ripensare a sua madre che si metteva sulle tracce del soldato che avevano incrociato. Premendosi le dita sugli occhi, il Riario si augurò di non essere così, una volta cresciuto. Voleva diventare un uomo equilibrato e padrone di sé. Di tutte le caratteristiche che sperava di aver preso da sua madre, quella sua irrequietezza proprio non la voleva.

 

Pensiero Sassatelli lesse la missiva che arrivava da Forlì e già prima di arrivare all'ultima parola, cominciò a sudare freddo.

Non era ancora sorto il sole, eppure quella giornata era già cominciata, per lui, ed era cominciata nel peggiore dei modi possibili.

Le parole che la Leonessa di Romagna aveva affidato quasi per certo alla penna di uno dei suoi tirapiedi erano inequivocabili. Anche se Sassatelli aveva ancora gli occhi cisposi di sonno e la luce della candela gli faceva sbattere di continuo le palpebre, non poteva fraintendere quelle secche frasi.

Quella pareva una richiesta semplice, anzi, quasi un'offerta irrinunciabile. Gli veniva proposta una moglie rispettabile e che avrebbe portato un'ottima dote e, accettandola, si sarebbe anche assicurato il favore della Contessa Sforza.

Tuttavia... Tuttavia...

L'imolese si passò una mano sul volto, il respiro un po' insicuro, e riprese la lettura dal principio.

Sapeva benissimo che il Governatore Corradini sospettava di lui, ed era certo che Simone Ridolfi, una volta richiamato a Forlì, avesse parlato male di lui alla Tigre.

Quella moglie, poco, ma sicuro, altro non sarebbe stata se non un laccio attorno al suo collo, tirato e rilasciato a piacimento dalla Sforza.

Si diceva da tempo che i Sassatelli tutti le fossero un po' indigesti. L'unico che probabilmente avrebbe potuto suscitare in lei un concreto interesse era Giovanni, detto il Cagnaccio. Il soprannome se l'era guadagnato perché da ragazzo, durante una disfida internazionale sette contro sette a cui aveva partecipato, rimasto ultimo in vita tra i suoi, aveva ucciso tutti i nemici rimasti e poi aveva squarciato il petto dell'ultimo, strappandogli il cuore ancora caldo per morderlo.

Pensiero lo riteneva un pazzo sanguinario, ma invece per tanti quell'atto di follia era stato un atto di coraggio e amor patrio, tanto che, per esempio, Paolo Vitelli l'aveva voluto a tutti i costi nelle sue fila nella guerra contro Venezia.

Ecco, si diceva che la Tigre non avesse mai alzato concretamente un dito contro i Sassatelli proprio per non precludersi, al momento giusto, l'appoggio del Cagnaccio. Pensiero avrebbe volentieri citato quel suo parente, per addolcirla, ma sapeva che avrebbe subito capito il suo gioco e non voleva per nessun motivo urtarla.

Si diceva che solo qualche giorno addietro avesse fatto a pezzi un uomo, nella sua rocca, e Sassatelli non voleva certo essere il prossimo.

Così si fece portare il necessario per scrivere e poi, dopo aver fatto un paio di respiri molto profondi, cominciò a scrivere, imbastendo una lunga e accorata lettera in cui spiegava di dover declinare quella generosissima offerta, giacché aveva in animo di farsi prete e, prendendo i voti, non avrebbe certo potuto prendere moglie.

Deglutì, si asciugò una goccia di sudore dalla fronte e poi siglò il messaggio, sperando, a quel modo, se non altro di prendere tempo.

 
 
   
 
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